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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(III e IV)
9.
Martedì 10 novembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Narducci Franco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, IN SEDE REFERENTE, DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1213 CIRIELLI, C. 1820 GAROFANI E C. 2605 DI STANISLAO, RECANTI «DISPOSIZIONI PER LA PARTECIPAZIONE ITALIANA A MISSIONI INTERNAZIONALI»

Audizione di rappresentanti di organizzazioni non governative:

Narducci Franco, Presidente ... 3 8 10 11 12
Battistelli Fabrizio, Presidente di Archivio Disarmo ... 3 11
Colombo Furio (PD) ... 10
Corsini Paolo (PD) ... 8
Garofani Francesco Saverio (PD) ... 10
Di Stanislao Augusto (IdV) ... 8
Sergi Nino, Rappresentante di Link 2007 ... 5 10
Scelzo Vittorio, Rappresentante della Comunità di Sant'Egidio ... 7 11
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 10 novembre 2009


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA III COMMISSIONE
FRANCO NARDUCCI

La seduta comincia alle 12,05.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di organizzazioni non governative.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame, in sede referente, delle proposte di legge C. 1213 Cirielli, C. 1820 Garofani e C. 2605 Di Stanislao, recanti «Disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali», l'audizione di rappresentanti di Link 2007, Archivio Disarmo e Comunità di Sant'Egidio.
Comunico che l'altra organizzazione invitata, Beati i costruttori di pace, non ha potuto intervenire e ha mandato un messaggio a nome della dottoressa Lisa Pelletti Clark, che è agli atti delle Commissioni.
Do la parola ai nostri ospiti, che saluto con grande calore, ringraziandoli per la loro partecipazione.

FABRIZIO BATTISTELLI, Presidente di Archivio Disarmo. Archivio Disarmo è un istituto di ricerche indipendente attivo in Italia dal 1982, che ha come propria missione quella di affrontare i temi della pace, del disarmo e del controllo degli armamenti, ma anche per alcuni versi della guerra.
La nostra non è un'organizzazione di intervento diretto in termini politici od operativi, per esempio di aiuti allo sviluppo, il nostro oggetto di studio è tutto quello che rientra nella politica di pace, di difesa e di sicurezza internazionale del nostro Paese.
La nostra prospettiva è quindi analitica, nel senso che ci proponiamo come obiettivo quello di delineare analisi fondate empiricamente su studi diretti o su elaborazioni di studi di altri, allo scopo di dare un contributo conoscitivo a chi nel nostro Paese si occupa di queste tematiche, primi fra tutti le istituzioni rappresentative, lo stesso Governo, gli enti locali, che sempre più spesso mostrano interesse per queste tematiche, gli altri istituti di ricerca pubblici e privati (primi fra tutti le università, le organizzazioni non governative e in genere la società civile, compresi i movimenti per la pace). In passato, più di una volta questi hanno interloquito con le istituzioni pubbliche su tematiche che vanno dal disarmo nucleare - la nostra istituzione risale al 1982, all'epoca degli euromissili - a quelle attuali e più pressanti riguardanti la collocazione internazionale del nostro Paese.
Sulla tematica peacekeeping, oggetto dei lavori delle Commissioni riunite, abbiamo condotto una serie di studi a partire dal 1993, in occasione di una delle prime missioni italiane, la missione «Pellicano» in Albania completamente disarmata e quindi con una prospettiva esclusivamente umanitaria, e una serie di altri interventi


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molto differenziati fra di loro, dalla Somalia alla Bosnia, fino ad oggi al Libano. Queste sono le realtà in cui siamo stati presenti con forme di ricerca condotta secondo la prospettiva delle scienze sociali.
Io insegno sociologia alla Sapienza. La nostra organizzazione è costituita prevalentemente da ricercatori e professori di scienze sociali tendenti ad avere come oggetto di analisi, accanto ai contesti strategici e politici, che sono l'ovvia base su cui si inserisce l'azione del nostro Paese, gli aspetti sociali della presenza italiana nei teatri di crisi.
È una prospettiva abbastanza originale e relativamente poco coltivata in Italia rispetto a quanto avviene in altri Paesi occidentali, che consideriamo molto importante. Infatti, ferma restando la priorità politica e giuridica degli interventi di pace - che possono esistere in quanto la comunità internazionale li ha fatti propri e ci sono Paesi contributori che accettano di realizzarli -, assumono grande rilievo le modalità con cui le missioni sono implementate.
Il segno politico della missione colora di sé tutte le azioni che in essa vengono realizzate, ma, a parità di legittimazione politica e istituzionale di una missione, la modalità con cui essa viene realizzata fa la differenza. Abbiamo quindi distribuito dei questionari sia ai contingenti militari di alcune missioni presenti sul campo, tipicamente dell'Esercito, ma anche delle altre Forze armate, sia a organizzazioni non governative. Fermo restando un giusto approfondimento delle distinzioni tra il contributo alla pace e alla ricostruzione post-conflitto fornito dai contingenti militari o anche di polizia e quello delle organizzazioni non governative, si tratta comunque di modalità di intervento che il Paese adotta per essere vicino a situazioni di crisi.
Vorrei non entrare nella dimensione propriamente politica, sulla quale come cittadini abbiamo le nostre personali opinioni, che non rientra nel nostro mandato. Mi sia permessa soltanto una valutazione molto generale: il termine peacekeeping si sta radicalmente modificando negli ultimi anni. Reso particolarmente significativo per frequenza e importanza di interventi nel corso degli anni Novanta, con il nuovo consenso raggiunto all'interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nello stesso decennio ha subìto un'evoluzione o per altri versi un'involuzione, che ha portato a modificarne in modo rilevante il significato originario.
Oggi, quindi, anche nella letteratura internazionale si usano altri termini, quali «operazioni di supporto alla pace» o altre definizioni, che più realisticamente sottolineano come gli interventi pensati come essenzialmente di pace si stiano gravando di una serie di altri contenuti che talvolta di pace hanno assai poco.
Senza entrare nell'attualità politica, rilevo che non tutte le missioni sono uguali. Abbiamo missioni pienamente nel mandato dell'ONU, nella filosofia delle Nazioni Unite, promosse e realizzate con il consenso delle parti. Il mio recente viaggio in Libano presso il contingente italiano mi ha confermato questo quadro di assoluta accettazione da parte di tutti gli attori presenti in quell'area, a cominciare da Israele per finire al Governo libanese, alle forze armate libanesi e addirittura alle forze politiche locali, come Hezbollah nel sud del Libano. In altre aree quali l'Afghanistan si evidenzia una situazione completamente diversa.
La nostra attenzione si è incentrata più sulla sfera dei mezzi che su quella degli scopi. Poiché Governo e Parlamento hanno deciso una presenza in un determinato teatro di crisi, abbiamo cercato di valutare l'esito di queste scelte politiche sul campo sia da parte delle popolazioni locali, dei loro rappresentanti e dei loro leader di opinione nei confronti del contingente italiano, che talvolta abbiamo anche comparato con altri contingenti presenti sul campo, sia all'interno del nostro contingente.
Si può infatti essere presenti in una missione di pace in molti modi diversi. Non vorrei stilare graduatorie tra contingenti nazionali e quindi tra Paesi, ma abbiamo rilevato differenze di natura antropologico-culturale nella modalità con


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cui la missione viene interpretata in modalità anche molto differenti. Ho visto portare viveri a popolazioni affamate con i camion, gettando alla folla sacchi di riso o di altre derrate e ho visto altri contingenti scendere dai camion, prendere in mano i pacchi di cibo e porgerli, forse addirittura con entrambe le mani, alla popolazione che li sta aspettando. Sono dettagli, ma significativi.
Dal 1993 conduco ricerche in questo ambito e ho potuto rilevare una forte differenza di atteggiamento delle popolazioni locali nei confronti dei diversi contingenti. Sono consapevole di come alcune differenze derivino da fattori di carattere macro, di carattere politico. L'esposizione di una superpotenza come gli Stati Uniti è ben diversa da quella di un Paese come l'Italia, che i politologi definiscono una media potenza.
A cominciare dalle missioni Libano 1 e 2 del 1982-1983, abbiamo avuto una situazione di totale gradimento da parte della popolazione locale, di cui troviamo traccia ancora oggi, 27 anni dopo, testimoniata dalla perdita di un unico militare, vittima di una mina, mentre altri contingenti hanno registrato una forte ostilità.
I due piani, quello macropolitico e quello micro dei comportamenti, interagiscono fra di loro. Non tutti i contingenti hanno probabilmente la possibilità di rapportarsi alla popolazione come tendono a fare i militari italiani. Personalmente, posso dare atto di una presenza italiana sui teatri di crisi di grande generosità, di grande capacità di comprensione e soprattutto di rispetto, che è l'aspetto più importante per le popolazioni civili. L'ho notato nelle organizzazioni a base volontaria italiane e in organizzazioni internazionali nelle quali operano italiani, e nei contingenti militari. Si tratta di atteggiamento di rispetto verso la realtà locale, che non è mai da conquistatori, ma da persone consapevoli di essere ospiti del Paese in cui stanno operando e dando un contributo, e anche di grande equità.
Ricordo che nel 1996 a Sarajevo, una città ancora ferita da tre anni di assedio, quando la situazione era particolarmente delicata, come nel quartiere di Grbavica dove le formazioni paramilitari serbe abbandonando il quartiere serbo davano fuoco a tutti gli edifici, musulmani e serbi ortodossi chiedevano l'intervento degli italiani per la loro capacità di rimanere non equidistanti, ma equivicini, quindi in grado di dialogare con le parti.
Mi sembrano caratteristiche significative di carattere micro, che quindi non possono modificare il senso di una missione. Se una missione è sbagliata resta tale, nonostante l'impegno di coloro che la realizzano. Se è giusta - ho visto varie missioni giuste - è realmente un valore aggiunto importante, che credo rappresenti qualcosa da valorizzare per il nostro Paese.

NINO SERGI, Rappresentante di Link 2007. A nome del coordinamento Link 2007, che rappresento qui oggi, rivolgo un grazie di cuore alle Commissioni riunite Difesa e Affari esteri della Camera per questa audizione.
Desidero fare un breve cenno alle tre proposte di legge, due delle quali si riferiscono alle missioni internazionali come sono state intese in questi anni, perciò costituite dalla componente militare e dalla componente civile, anche se poi nell'articolato in realtà non si parla più di componente civile. Una delle proposte di legge è invece finalizzata esplicitamente alle missioni all'estero svolte dal personale appartenente alle Forze armate e alle Forze di polizia.
Considero necessario eliminare ogni ambiguità sul tipo di legge perseguito. Se una legge è infatti finalizzata solo alla componente militare degli interventi internazionali, occorre esplicitarlo come fa il presidente Cirielli.
Noi invece riteniamo - giacché l'esperienza insegna che la componente civile, di ricostruzione, e di risposta ai bisogni della gente, soprattutto in situazioni come quella in Afghanistan, è importantissima anche per il successo della componente militare - che sia necessario parlare di missioni internazionali sapendo che le due componenti vanno prese entrambe in considerazione


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e con lo stesso valore, nella consapevolezza di come la componente civile induca la popolazione a dare pieno consenso alla presenza internazionale. Senza il rafforzamento della componente civile, non avremo mai la popolazione dalla nostra parte e il suo pieno consenso.
Fatta questa premessa, desidero esprimere alcune osservazioni sul rapporto tra queste due componenti civile e militare. La tematica è già stata trattata dai professori Ronzitti, De Vergottini, Politi, Colombo nelle precedenti e molto interessanti audizioni, però solo marginalmente. Poiché come organizzazioni non governative che interveniamo in questi Paesi la viviamo sulla nostra pelle, vorrei rendervi edotti di come la vediamo.
Tutti coloro che operano sul terreno non hanno alcun pregiudizio ideologico rispetto alle missioni militari. Nella missione in Libano, che abbiamo ritenuto pienamente legittima e pienamente voluta da tutte le parti in conflitto, abbiamo cercato di portare avanti linee guida per il coordinamento civile e militare relativo agli interventi di cooperazione allo sviluppo e alle attività di assistenza alla popolazione civile in Libano. C'è stata un'iniziativa nostra, insieme alla Direzione generale cooperazione allo sviluppo - perciò la componente civile, non militare - per evitare che, se si lavora tutti e due, componenti civile e militare in una regione, si effettuino interventi in contraddizione o in sovrapposizione, con conseguenti sprechi. Queste linee guida occupano una ventina di pagine con aspetti ampiamente riflettuti. Non siamo ancora arrivati a firmarle definitivamente, ma siamo ormai al traguardo. Desidero quindi sottolineare la mancanza di pregiudizi ideologici, ma anche la presenza di problemi, che devono essere affrontati.
Da anni, abbiamo chiesto un confronto tra Stato maggiore della Difesa, organizzazioni non governative e Ministero degli esteri, le componenti che agiscono in questi ambiti, senza mai riuscire ad ottenerlo. Il professor Politi ha dichiarato di rilevare maggiore sensibilità al dialogo e al confronto da parte dei militari piuttosto che da parte delle organizzazioni non governative, ma non è vero, perché da tre o quattro anni abbiamo chiesto di aprire questo confronto coi militari e di fatto finora non siamo riusciti.
Se qualche gruppo parlamentare può prendere l'iniziativa invitando lo Stato maggiore della Difesa e le ONG, saremo felici di poter fare un confronto di questo tipo, perché i problemi ci sono. Si trovano in missioni come quella in Iraq, che non abbiamo considerato una missione legittima, e dunque ci ha creato grosse difficoltà, laddove un'organizzazione non governativa e umanitaria difficilmente intrattiene un dialogo, una collaborazione con un contingente militare che non ha caratteristiche di piena legittimità.
Il problema attuale è la missione in Afghanistan, che è la partecipazione a una missione senza alcuna chiarezza - non legittimità - negli obiettivi, nei campi di azione, laddove ci chiediamo se sia una missione di stabilizzazione, di lotta ai terroristi, di sicurezza per il Governo locale e le autorità locali, di lotta al traffico della droga, se si tratti di interventi umanitari, militari, politici. Non c'è alcuna chiarezza e questo in Afghanistan si sente, al di là delle intenzioni della politica, che probabilmente sono chiare, mentre sul terreno questa chiarezza manca. Questo riguarda non solo il contingente italiano, ma complessivamente la presenza militare internazionale in Afghanistan, giacché non c'è chiarezza in quanto è partita male.
Se consideriamo importante la componente civile anche per il successo della missione militare, questa dovrebbe essere maggiormente valutata, appoggiata, considerata e ascoltata. Ieri, un alto funzionario dell'Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), l'organizzazione per il coordinamento umanitario delle Nazioni Unite che si trova a Kandahar, evidenziava come la CIDA, l'agenzia di cooperazione canadese, programmi gli interventi, mentre il Provincial Reconstruction Team (PRT) appoggi senza effettuare interventi diretti, come invece fa il nostro contingente a Herat. La CIDA, non il


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comandante del PRT, discute i problemi dell'area con il Governatore. C'è una chiara distinzione tra le due componenti, che invece nel contingente italiano manca, creando problemi, indipendentemente dall'umanità talora straordinaria dei singoli militari, che abbiamo rilevato ovunque sin dalla Somalia, diciassette anni fa.
Riteniamo però che alla componente militare debba essere affidato un ruolo definito, con limiti ben precisi. La componente civile ha un ruolo ben preciso, che è già definito anche da accordi internazionali, che l'Italia ha firmato ma che poi non applica. Sugli interventi cosiddetti umanitari, l'Italia ha firmato il consensus europeo, che definisce anche cosa devono fare i militari, ha firmato il Good Humanitarian Donorship e tutti i princìpi di questo regolamento per gli interventi umanitari, che prevedono cosa debbano fare i militari, ma che di fatto non vengono osservate. Esistono regole frutto di esperienza di anni, che permettono di trovare, nella specificità di ciascuno, momenti di accordo per fare meglio assieme per il bene della popolazione. Nella confusione non si può lavorare.
Partiamo da un punto per noi fondamentale: i princìpi umanitari, che sono i princìpi di umanità, di indipendenza, di neutralità e di imparzialità. Ci chiediamo se sia possibile affermare che il contingente militare è lì e riceve fondi per azioni umanitarie di urgenza, posto che il contingente militare non può essere per definizione indipendente e neutrale, giacché risponde a scelte politiche. Una parte che cerca di contenere, per definizione non può essere imparziale, opera alcune scelte. Noi abbiamo il dovere di assistere anche un talebano, se viene in ospedale, un militare ha il dovere di arrestarlo.
Consideriamo errato definire umanitarie alcune azioni da parte dei militari, creando anche una confusione che alla lunga farà sparire la dimensione umanitaria delle azioni che le varie società del mondo realizzano nel mondo. Stiamo infatti svilendo il concetto di umanitario, perdendo un valore enorme, che invece la società civile è sempre riuscita a esprimere. Questo è definito a livello internazionale, occorrerebbe solo seguire ciò che l'Italia ha firmato.
Non siamo quindi pregiudizialmente contrari agli eserciti, agli interventi militari. Come abbiamo sempre chiesto invano, chiediamo un confronto, un dialogo. In Libano, abbiamo spinto perché si delineassero linee guida di accordo, collaborazione, interlocuzione con i militari, perciò c'è tutta la volontà. È però necessario partire dal principio secondo cui ognuno deve fare il proprio lavoro, con tutte le sinergie possibili, senza invadere, senza pensare di fare il lavoro dell'altro. Creare questa confusione è perdente per tutti.

VITTORIO SCELZO, Rappresentante della Comunità di Sant'Egidio. Ringrazio per questa opportunità di confronto. Desidero sottolineare innanzitutto quanto appena detto. Come Comunità di Sant'Egidio, infatti, vediamo con favore l'intervento del nostro Paese su alcuni fronti con contingenti militari. Nel 1992, quando è stata firmata presso la Comunità di Sant'Egidio la pace che ha posto fine alla guerra in Mozambico, abbiamo spinto per un intervento a cui l'Italia ha dato un rilevante contributo dal punto di vista militare per la stabilizzazione del Paese, la fusione dei due eserciti, che nel Trattato veniva stipulata, e l'accompagnamento del Paese verso le prime elezioni libere del 1994. In quel caso, ci siamo trovati addirittura a spingere per una missione che il Governo dell'epoca ha accettato dopo numerose nostre insistenze.
Evidentemente, dunque, c'è una totale apertura nei confronti di questo tipo di missioni. In questo momento, la missione il Libano è un chiaro esempio di come anche la guida italiana della missione possa avere una sua utilità e una sua specificità, e in questo senso il Libano testimonia l'utilità delle missioni.
Anche a noi sembra necessario chiarire ciò che è compito dei militari e ciò che è compito delle ONG o di comunità come la nostra. In questo momento, l'intervento della nostra comunità non si interseca con nessuna delle missioni all'estero, giacché i


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Paesi nei quali siamo maggiormente presenti non corrispondono a quelli dove ci sono le missioni militari italiane all'estero. Dal punto di vista umanitario, il nostro impegno è rivolto soprattutto alla cura dell'AIDS nei Paesi dell'Africa subsahariana e dal punto di vista politico e diplomatico in situazioni quali quella del Darfur, della Repubblica democratica del Congo, nelle quali il nostro impegno non coincide con quello delle missioni all'estero italiane.
Per quanto ci riguarda, teniamo a sottolineare la totale apertura, disponibilità al confronto su questi temi, e la necessità di una chiarezza nella definizione dei ruoli, come sottolineato anche da altri, per una maggiore e più facile collaborazione. Non ho altro da aggiungere e mi limiterei a questo.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

PAOLO CORSINI. Devo manifestare innanzitutto un sentimento di gratitudine nei confronti dei nostri ospiti, per aver richiamato la nostra attenzione su un arco di problemi e di temi rispetto ai quali altre audizioni hanno sorvolato.
Rilevo una larga coincidenza e condivisione di valutazioni e di vedute. Considero soprattutto significativo il fatto che tutte e tre le esposizioni ruotino attorno a una convinzione condivisa, che sintetizzerei nella consapevolezza che nell'ambito delle missioni internazionali non sia possibile sottovalutare o denegare il ruolo della componente civile, giacché la missione internazionale non può in alcun modo essere disgiunta da finalità di cooperazione e di pace. Il professor Battistelli teorizza una sorta di dovere di «inculturazione» della missione, ovvero modalità di approccio alle popolazioni locali, che sgombrino il campo da un'interpretazione colonialistica, neoimperialistica, aggressiva o paternalistica, perché questo predispone un humus che favorisce anche la valenza militare dell'intervento e in qualche misura lo qualifica e lo umanizza.
Anche in occasione di interventi che riguardano i finanziamenti e nelle scelte della grande politica finanziaria del Governo e dello Stato, il gruppo del Partito Democratico che ho l'onore di rappresentare ha sempre sottolineato l'importanza della coniugazione tra il fattore civile della cooperazione e del coordinamento rispetto alla dimensione esclusivamente militare, che è un'interpretazione assolutamente riduttiva del ruolo che il nostro Paese deve svolgere.
A questo proposito, dopo aver ribadito questa sostanziale condivisione di valutazioni, mi permetterei di sollevare un interrogativo. Forse sono suggestionato dalla recente lettura di un libro dell'onorevole Colombo, che si intitola La paga, il destino del lavoro e altri destini. Il volume, contrariamente a quel che il titolo potrebbe suggerire, si occupa della crisi internazionale e di un aspetto specifico delle missioni internazionali, cioè di un processo oggi in corso - che riguarda anche la componente italiana di missioni internazionali cui partecipiamo in collaborazione con altri Stati - di progressiva privatizzazione di alcune funzioni e di alcuni compiti, che comporta equivoci, suscita situazioni di particolare pericolo per l'incolumità di quanti partecipano a missioni civili o militari e determina una progressiva espropriazione di funzioni, che tutta la cultura occidentale, dall'Illuminismo in poi, assegna allo Stato. L'unico fondamento di legittimazione di ricorso all'uso della forza risiede nel fatto che detentore di questa leva sia lo Stato, che nella nostra cultura costituzionale è democratico.
Credo che il progressivo sviluppo di questo processo, che determina un allargamento a soggetti, entità e istituti di natura privata, comporti seri rischi, fino a provocare un fraintendimento di fondo o addirittura uno snaturamento della missione quanto al soggetto che è detentore della legittimità della sua promozione.

AUGUSTO DI STANISLAO. Ritengo che con questa audizione abbiamo chiuso il cerchio, giacché oggi abbiamo contezza di una parte di questo mondo che non ci


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veniva rappresentata nella giusta dimensione. Abbiamo oggi di fronte alcuni aspetti che ritenevamo quasi scontati, giacché sono modificati gli scenari all'interno dei quali stiamo operando.
Gli aspetti sociali caratterizzano fortemente e legittimano la nostra presenza sia in Afghanistan sia in altri contesti, ma per noi rimane uguale la denominazione dell'azione di peacekeeping in Libano, in Afghanistan o altrove: noi facciamo sempre e solo quella. Si modificano gli orientamenti intorno ai territori e ad alcune situazioni che dal punto di vista del localismo affrettano alcuni processi di autolegittimazione, cercando di portare fuori tutti coloro che vengono visti come persone che vanno a conculcare libertà.
Abbiamo realizzato un'azione esemplare come capacità di missioni internazionali. Nella fase «degenerativa», però, le due missioni Enduring Freedom e Isaf si sono confuse in un'unica posizione soprattutto con l'avvento del generale McCrystal che ha avocato a sé ogni capacità decisionale facendoci diventare all'interno dell'Afghanistan una forza tout court uguale a quella americana, senza chiarire come noi italiani svolgessimo l'azione di peacekeeping.
È necessario quindi eliminare l'ambiguità anche da parte di chi definisce cosa sia un'azione di peacekeeping. Lo chiedo anche a voi, perché sono il presentatore di una delle proposte di legge e ritengo che la mia proposta sia nettamente differente nelle premesse, che per me sono forma e sostanza di quel provvedimento. Sono poi andato a concentrarlo in alcune azioni di carattere prettamente militare o che riguardano l'organizzazione, la logistica e la rappresentazione dei nostri militari.
Oggi, è necessario trovare un'intesa su chi fa cosa e perché, e valutare se, come rilevato dal professor Battistelli, queste siano diventate operazioni di supporto alla pace, diverse da quelle originarie. Questo ci aiuta a comporre un'azione di legge quadro condivisa da tutti, giacché chi ha presentato queste proposte di legge intende trovare la quadratura affinché lo Stato finalmente si proponga con una propria idea di presenza a livello internazionale con missioni che raccolgano il consenso e finalizzino alcune azioni per diffondere la nostra cifra di civiltà e di umanità, eliminando ogni ambiguità.

ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Ringrazio le organizzazioni non governative non solo per la loro presenza oggi, ma soprattutto per quello che in tutti questi anni ognuna di loro - compresa la Comunità di Sant'Egidio, che ha sottolineato di non interfacciarsi attualmente con missioni militari - per quanto hanno fatto, stanno facendo e spero continuino a fare in futuro in maniera anche più efficiente e più efficace.
Mi ricollego alle considerazioni del dottor Nino Sergi in relazione a un punto estremamente rilevante. Le audizioni hanno infatti per noi il fine di mettere all'interno delle proposte di legge un punto di chiarezza. Condivido le sue considerazioni relativamente alla non confusione tra cooperazione militare e cooperazione civile. Soprattutto in alcune aree, infatti, la confusione ha creato difficoltà non solo agli operatori umanitari e civili, ma anche agli stessi militari.
Vorrei però arrivare a definire in maniera chiara come si possano coordinare, ma nello stesso tempo dividere, le due azioni. Se sono emersi problemi all'interno delle missioni - per esempio l'Afghanistan in questo momento è una delle missioni più problematiche e sotto questo punto di vista mi sembra che da parte dell'attuale Governo ci sia una latente tendenza ad amplificare la cooperazione militare forse riducendo quella civile - l'audizione di oggi può aiutarci a capire meglio come definire all'interno della stessa legge una ben chiara differenziazione.
Non ho potuto ascoltare l'intervento del professor Battistelli, ma avendo letto alcuni suoi scritti credo di poter affermare che quando si fa una legge quadro è necessario anche tener conto della sua opinione. Effettivamente le missioni internazionali militari non sono tutte uguali. Facendo storicamente una piccola analisi, ne siamo pienamente consapevoli. La presenza


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delle military company in Iraq e la privatizzazione dello strumento militare è ben diverso da quanto è avvenuto in Afghanistan, in altri Paesi o in Libano.
Credo che anche questo debba essere un luogo e un momento di riflessione, perché parlare di missioni internazionali di pace è sempre stato un problema che non aiuta neanche quando si tratta di discutere dei famosi codici militari di guerra o di pace. Le ipocrisie non hanno mai aiutato né la politica né coloro che operano nei territori.
Vorrei anche su questo avere dal professor Battistelli una maggiore specifica su come distinguere bene e su cosa significhi «supporto alla pace» anche in relazione alle eventuali implicazioni in ordine a decisioni che avvengono a livello politico, ma anche a livello ordinamentale nel momento in cui definiremo una legge quadro.

FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Intervengo solo per una breve integrazione, perché l'onorevole Calipari ha già espresso molte delle cose che volevo dire. Vorrei chiedere al dottor Sergi se ritenga che questa sottomissione della dimensione civile alla dimensione militare in termini di cooperazione risponda a una precisa scelta politica o se sia dettata piuttosto da situazioni contingenti, come quelle possiamo registrare in Afghanistan. Ha fatto riferimento alla situazione del Libano, che mi sembra nettamente diversa. Vorrei sapere se questa «tentazione» si iscriva in una più generale tendenza internazionale.

FURIO COLOMBO. Quanto abbiamo ascoltato questa mattina è per noi prezioso. La proposta che dal versante molto confuso della politica in merito a tale questione possiamo rivolgere a voi che avete l'esperienza sul campo è di domandarci insieme se non sia opportuno stabilire una specie di codice invalicabile del comportamento civile e del comportamento degli aiuti umanitari, data la situazione, che è destinata a permanere, di confusione, ambiguità e contraddizione tipica della cultura del mondo e dei grandi Governi in materia di peacekeeping.
Siamo di fronte a una situazione in cui manca radicalmente la cultura del significato di peacekeeping. Sappiamo che cos'è la cultura della guerra, ma misuriamo la cultura del peacekeeping con provvisori allontanamenti occasionali dalla cultura della guerra. I comandanti più sensibili fanno meglio degli altri, ma la cultura della guerra resta intatta, forte e secolare a confronto con la cultura della pace, che purtroppo voi sporadicamente rappresentate come tanti puntini nell'oscuro mare delle vicende internazionali.
Per avere una vera missione di peacekeeping ci vorrebbero Governi autorevoli, Governi forti nel senso morale della parola - si dice sempre «forte» per dire «politico» o «militare» - e con un preciso orizzonte dei risultati da raggiungere. In questo momento, siamo di fronte a una confusione enorme, che può essere diminuita, se renderete anche noi politici consapevoli di confini che non possono essere superati, di situazioni che non possono essere tollerate e del limite estremo di testimonianza di pace che voi sentite di poter dare in queste condizioni.

PRESIDENTE. Abbiamo solo nove minuti, per cui proporrei di dedicare tre minuti per ciascun intervento. Do quindi la parola ai nostri ospiti per la replica.

NINO SERGI, Rappresentante di Link 2007. Signor presidente, intervengo sulle tematiche più legate a quanto detto.
La legge quadro deve valere per tutte le missioni e dunque contenere elementi a dimostrazione di come la missione non debba essere solo la componente militare; sarebbe un grave errore, se il Parlamento approvasse una legge solo su questo aspetto, rimandando il resto a una successiva legge. La missione è una presenza italiana in un Paese, che è composta da alcune componenti che devono essere considerate insieme.
La confusione tra cooperazione civile e cooperazione militare crea difficoltà agli operatori civili e militari. Ho la netta sensazione che i militari si sentano talvolta strumentalizzati dalla politica, che chiede


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loro di fare cose che esulano dalle loro competenze, perché ha bisogno di presentare una missione con il termine umanitario e con altri che non sono veri. I militari lo sanno e si sentono strumentalizzati. Non è corretto per rispetto dei militari.
La componente civile deve essere inserita con chiarezza nella legge quadro. Ci chiediamo quali siano i limiti invalicabili, ma esiste già tutto e l'Italia ha già firmato: Civil-Military Guidelines and Reference. Per quanto riguarda quello che stiamo facendo in Libano o in Afghanistan con le Nazioni Unite e le ONG, tutti gli Stati hanno stabilito linee guida. È tutto definito. È una questione di cultura. Appare quindi fondamentale il confronto tra organizzazioni civili, compresa la Direzione generale cooperazione allo sviluppo, e i militari, per individuare gli obiettivi e i limiti di ciascuno. Auspichiamo che il Parlamento possa favorire questi incontri e questa crescita di cultura.
Per quanto riguarda la sottomissione della dimensione civile a quella militare dipende certamente da una decisione politica; nelle normative internazionali non troverete mai una riga che preveda la sottomissione della componente civile umanitaria, che assolutamente non deve essere assoggettata a scelte politiche o essere strumentale. Vi chiedo quindi di favorire questo confronto con la dimensione militare, in modo da creare una cultura nuova, e di non chiudere qui la vostra indagine conoscitiva ma di sentire anche la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, importante componente civile. Considero importante che voi la sentiate prima di chiudere tutte le audizioni.

PRESIDENTE. È già previsto.

VITTORIO SCELZO, Rappresentante della Comunità di Sant'Egidio. Mi sembra che il punto riguardante la cultura sia fondamentale. La cultura del peacekeeping è immensamente più giovane rispetto a quella della guerra. Non abbiamo il tempo di preparare la cultura e poi metterci a lavorare, perché c'è da lavorare sul terreno.
Credo che occasioni come quella di oggi testimonino l'importanza di un dialogo costante tra le diverse parti delle missioni internazionali. La chiarezza fa parte di una necessità di confronto che consideriamo assolutamente necessaria. In questo senso, considero auspicabile un approfondimento anche culturale e di dialogo sui ruoli.

FABRIZIO BATTISTELLI, Presidente di Archivio Disarmo. A partire dal 1948, le Nazioni Unite hanno iniziato a fare delle missioni all'estero attraverso una modalità che è stata definita peacekeeping di prima generazione. Era una modalità forse troppo restrittiva, per cui il contingente internazionale interveniva solo sulla base di una tregua stabilita e aveva pochissime prerogative.
A partire dal 1992, dopo la fine della guerra fredda, abbiamo un peacekeeping di seconda generazione. L'esperienza di alcune crisi, a cominciare dall'invasione del Kuwait e dalle guerre che hanno insanguinato l'ex-Jugoslavia, ha indotto a ritenere indispensabile che i contingenti, sotto l'egida dell'ONU e a maggior ragione di eventuali organizzazioni regionali come la NATO, in certi casi usassero dosi oculate di forza per dirimere determinate situazioni. Il caso di Srebrenica, dove il battaglione olandese non è riuscito a difendere seimila civili passati per le armi dalle milizie serbe, ha causato uno shock che fa pensare.
Oggi, tuttavia, questa progressiva capacità anche militare che è stata attribuita dalla comunità internazionale alle missioni di peacekeeping sta evolvendo, o involvendo, a seconda dei punti di vista, verso un uso della forza ormai molto vicino a quello usato in un normale conflitto a bassa intensità.
Le missioni sono fra loro diverse, anche se la filosofia del contingente militare e la volontà dell'opinione pubblica che le sostengono possono essere le stesse. Le condizioni reali sul campo portano di fatto a dover realizzare escalation di forza, come


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sfortunatamente è accaduto in Afghanistan. Credo che la discriminante di una missione di peacekeeping derivi direttamente da questo tema della quantità e qualità dell'uso della forza. Quando la forza non è più per autodifesa o per intervento estremo in condizioni in cui non c'è altra possibilità di agire e quando qualitativamente ricorre alle più avanzate tecnologie, ad esempio della guerra aerea, efficacissima sul piano della neutralizzazione di obiettivi militari, ma fortemente indiscriminata nei suoi effetti, quindi nei costi pagati dalle popolazioni civili, diventa difficile qualificarla come missione di pace. Pace è un termine molto adeguato e ben voluto dall'opinione pubblica, ma non è possibile modificare i termini reali della questione soltanto per esigenze di comunicazione istituzionale. Se alcune situazioni presuppongono che un Paese e le alleanze cui appartiene debbano intervenire militarmente, temo che diventi necessario dirlo.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per la disponibilità dimostrata e per il contributo dato alle nostre Commissioni. Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,05.

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