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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
13.
Mercoledì 14 marzo 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011)815 DEFINITIVO)

Audizione del Presidente della Santander Consumer Bank, Ettore Gotti Tedeschi:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 13 14 19 23
Borghesi Antonio (IdV) ... 15
Cambursano Renato (Misto) ... 13
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 16
Commercio Roberto Mario Sergio (Misto-MpA-Sud) ... 16
Gotti Tedeschi Ettore, Presidente della Santander Consumer Bank ... 3 14 15 16 17 18 19 20 21 23
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 17
Polledri Massimo (LNP) ... 22 23
Simonetti Roberto (LNP) ... 21
Tabacci Bruno (Misto-ApI) ... 18
Vannucci Massimo (PD) ... 19
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta antimeridiana di mercoledì 14 marzo 2012


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 8,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del Presidente della Santander Consumer Bank, Ettore Gotti Tedeschi.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione - Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione del Presidente della Santander Consumer Bank, Ettore Gotti Tedeschi.
Ringrazio i colleghi che hanno rinunciato, nelle ventiquattro ore di pausa, a tornare al loro domicilio e hanno deciso di essere presenti alle 8,30 del mattino per seguire quest'audizione nell'ambito della nostra indagine conoscitiva sull'analisi annuale della crescita.
Oggi audiamo il professor Gotti Tedeschi nella sua qualità di presidente di Santander Consumer Bank, anche se voi sapete che egli ricopre anche altri incarichi. Credo, quindi, che la sua testimonianza possa allargarsi anche ad altri campi di interesse dei commissari.
Do subito la parola al dottor Gotti Tedeschi, che ringrazio per aver accettato questo nostro invito. Seguirà poi uno spazio per le domande dei commissari.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Ho letto le domande, o perlomeno la traccia che è stata esposta nel questionario che mi è stato trasmesso dalla Commissione, e a quasi tutte, se desiderate, posso fornire una risposta specifica.
Se mi permettete, vorrei svolgere, però, un'introduzione che potrebbe essere utile, se non altro per illustrarvi la mia visione. Si tratta di una visione che ho in quanto presidente di una delle maggiori banche in Italia e membro di un Comitato esecutivo importante di questa banca, il che mi permette di capire e di avere una presenza effettiva su ciò che succede. Dal primo giorno sono anche consigliere d'amministrazione della Cassa depositi e prestiti e presidente del Fondo infrastrutture, Inoltre, ricopro un'altra carica in un altro Stato, di cui è inutile parlare.
Sto seguendo evidentemente con grande attenzione ciò che sta succedendo, ragion per cui vorrei svolgere questa introduzione proprio per comunicarvi una visione che magari non risponde puntualmente alle vostre domande. Passo al primo punto che intendo sviluppare, perché spiega qual è la situazione italiana, dove si trova l'Italia in questo momento di grande cambiamento economico mondiale, quali sono i vantaggi su cui potrebbe operare, e quali sono le situazioni drammatiche che sono state superate e quali no.
Parlerò, quindi, della situazione delle banche e della competitività, ma per inquadrarle


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meglio vorrei prima descrivervi la mia visione d'insieme. Molto spesso, in queste discussioni, a porte aperte o chiuse - che avvengano in televisione o in salotti - non si tiene conto di una questione che io trovo sia fondamentale: noi siamo di fronte al più grande cambiamento epocale degli ultimi cent'anni, ossia a un nuovo ordine economico mondiale.
Forse ciò non è chiaro a molti, però, se se si prende in considerazione questo fatto, si capisce quanto sta succedendo negli Stati Uniti, in Europa e nel nostro Paese e ciò spiega, se non giustifica, anche la situazione politica nel nostro Paese. Mi riferisco a un cambiamento che ancora molti stentano a interpretare come dovrebbe essere interpretato e per il quale trovano motivazioni che devono essere discusse.
Noi siamo di fronte a un grande cambiamento che potremmo definire addirittura un nuovo ordine economico mondiale, che riassumo sinteticamente. Non voglio tenere una lezione e neanche una discussione troppo approfondita su questo punto, però, se volete, poi posso tornare anche su questo argomento.
Negli ultimi vent'anni noi siamo riusciti, nel mondo occidentale, a cambiare l'economia mondiale. Abbiamo creato un'area economica, il cosiddetto «occidente economico», che comprende Stati Uniti ed Europa, che è rimasta un'area di consumatori, ma che ha delocalizzato non tanto le produzioni, quanto l'industrializzazione. Infatti, in 20-25 anni, ha trasferito le sue capacità industriali in un'altra area del pianeta.
Tale altra area del pianeta è diventata industrializzata, ma non è ancora un'area economica di consumatori. Noi abbiamo, quindi, spaccato il mondo in due: un'area di consumatori non più produttori e un'area di produttori non ancora consumatori.
Tutto ciò ha un costo fondamentale. La crisi è stata dovuta al fatto che il sistema del debito non è stato pagato. Abbiamo attuato vent'anni di crescita economica nel mondo occidentale che per l'80-85 per cento era dovuta al debito delle famiglie nell'ambito del sistema economico.
Il debito, infatti, è composto da quattro debiti. Avrete sentito molto spesso, negli ultimi tempi, soprattutto quando c'era ancora il Governo precedente, il Ministro Tremonti cercare di spiegare anche ai suoi colleghi europei che il debito pubblico italiano non era del tutto fondamentale nelle considerazioni che si dovevano svolgere da un punto di vista politico, perché il debito va guardato nel sistema economico totale.
Si può, cioè, crescere a debito o finanziare un'espansione economica a debito utilizzando quattro tipi di debiti: quello dello Stato, se è lo Stato che interviene nell'economia; quello dei sistemi industriali; il debito del sistema finanziario; e quello delle famiglie.
Il debito, quindi, va visto nella sua totalità, perché tutto alla fine diventa debito dello Stato. Se le famiglie non pagano il debito, le banche saltano, si rivolgono allo Stato e lo Stato salva le banche, esattamente come è successo negli Stati Uniti. Lo stesso meccanismo si ripete per l'industria. L'industria salta, non riesce a sostenere il debito, si rifà al sistema bancario e, quindi, ancora una volta allo Stato. Tutto diventa debito dello Stato e, conseguentemente, noi dobbiamo guardare il debito totale di un sistema economico.
Vi porto un esempio: noi affermiamo oggi che l'Italia ha circa il 120 per cento del PIL di debito, senza considerare che cosa significano denominatore e numeratore. Ci dimentichiamo che dobbiamo interpretare questo rapporto in funzione di quanto vi ho spiegato. Se noi prendiamo i quattro debiti, l'Italia va al 321 per cento del PIL.
Voi direte: so what? Pensate soltanto che la Germania è al 300 per cento del PIL su questi quattro debiti, la Francia è al 380 per cento, la Spagna quasi al 400, l'Inghilterra al 540 per cento. Capite, quindi, che, se è vero che il prestatore di ultima istanza è lo Stato, il rapporto tra debito dello Stato e PIL può essere riferito al debito attuale e a quello potenziale.


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Ritornando al discorso principale, noi abbiamo attuato quasi 20-25 anni di crescita finanziata a debito e tale debito non è stato pagato. Che cosa significa tutto ciò concretamente in questo momento? Significa che il mondo economico occidentale, in realtà, non è cresciuto negli ultimi 20-25 anni come noi affermiamo, ma è cresciuto a debito e che questo debito non è stato pagato.
Paradossalmente, noi abbiamo bluffato per crescita economica e crescita di valore per il 30-35 per cento del valore reale complessivo e, quindi, è come se effettivamente avessimo generato il 30-35 per cento in meno di ricchezza. Le nostre case valgono il 30-35 per cento in meno, i nostri stipendi il 30-35 per cento in meno, perché non sono sostenibili. Poiché, però, non possiamo tagliarci gli stipendi, come è successo in Grecia, poiché non possiamo tagliarci i valori, stiamo cercando un'exit strategy.
La cerchiamo dal 2008, ogni Paese per conto suo. Negli Stati Uniti l'hanno cercata con una via e in Europa con altre vie, perché negli Stati Uniti fino a ieri la crescita è stata finanziata dalle famiglie. Pensate soltanto che dal 1998 al 2008, secondo dati ufficiali di cui ho tutti i backup, se fossero necessari, negli Stati Uniti la crescita è stata del 32 per cento circa in dieci anni, con una media del 3,2 per cento all'anno. Di questo 32 per cento in dieci anni, 28 punti percentuali sono tutti dovuti all'indebitamento delle famiglie. Quasi il 90 per cento della crescita negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti è dovuta, dunque, al debito delle famiglie, le quali sono andate in banca nel 2008, hanno riportato i contratti di mutuo e le carte di credito e hanno affermato che non potevano pagare. Di conseguenza, le banche sono saltate e lo Stato è intervenuto.
Prima del 2008 il rapporto debito-PIL degli Stati Uniti - vado a memoria - era di circa il 60-65 per cento, mentre oggi è del 110 per cento. Ciò avviene perché lo Stato ha nazionalizzato i debiti privati e per nazionalizzarli ha quasi raddoppiato il rapporto debito-PIL.
Dove è andato a collocare questo debito? Una parte è stata collocata alla FED, l'altra parte sui mercati che tradizionalmente comprano debito pubblico, ossia debito sovrano. Quali sono questi mercati? Sono, soprattutto, i mercati asiatici nonché le grandi istituzioni finanziarie.
Queste, però, non hanno capacità illimitata, soprattutto perché la crescita del debito pubblico americano e il rapporto rispetto al PIL è abbastanza semplice. Gli Stati Uniti hanno un PIL quasi dieci volte superiore a quello italiano e, quindi, se l'Italia ha 1.800 miliardi di dollari, sono circa quasi 16.000 miliardi, circa dieci volte il PIL italiano.
Se il rapporto debito-PIL raddoppia, ciò significa che gli Stati Uniti hanno dovuto collocare sui mercati più o meno la metà del PIL, il che significa cinque volte il PIL italiano. Per andarlo a collocare, che cos'hanno fatto? Hanno attuato una strategia di collocamento, il che comporta intrecciare accordi commerciali perché si comperasse questo debito, e ovviamente l'hanno reso più attraente di quello europeo.
Per renderlo più attraente del debito europeo non è difficile immaginare come agire, basta screditare un po' quello europeo. Non è difficile riuscirci. Avevano ragione le agenzie di rating a bocciare? Probabilmente sì, perché l'economia è cambiata. Che cosa è cambiato nell'economia tanto da far peggiorare il rating del debito europeo? È cambiata la competitività europea, a cui arrivo immediatamente.
Questi fatti spiegano l'exit strategy completamente diversa fra Stati Uniti ed Europa, perché negli Stati Uniti si è nazionalizzato il debito privato, mentre in Europa si è privatizzato il debito pubblico. Inoltre, dal momento che l'Europa è ricca di risparmio, mentre negli Stati Uniti è il privato che si è indebitato, in Europa si è indebitato più il pubblico che non il privato. Per risolvere il problema in Europa si è, quindi, privatizzato il debito pubblico.
Come si privatizza il debito pubblico? Lo si fa attraverso interessi zero e lo stimolo a sottoscrizioni domestiche, che


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hanno un impatto su diversi fatti. Innanzitutto, hanno un impatto sul sistema bancario, su cui merita di essere svolta una considerazione.
Oggi dappertutto, in qualsiasi contesto, si sostiene che la BCE sta finanziando le banche italiane e che le banche italiane non passano il danaro alle imprese. Vorrei spiegarvi che cosa sta succedendo, in modo che almeno lo sappiate. È un punto fondamentale da conoscere per chi svolge il vostro mestiere. Ciò che vi comunicherò non è molto diverso, ma almeno vi spiegherò il contesto in cui il fenomeno sta succedendo.
Come secondo punto, qual è il problema di competitività dell'Europa, soprattutto nel nostro Paese? Che cosa significa in questo momento attuare una manovra per lo sviluppo o perlomeno per il risanamento dei conti? Tratterei questi due punti, se siete d'accordo. Ho saltato alcuni punti fondamentali, che vorrei richiamare in un minuto.
L'Italia, differentemente da altri Paesi europei, non è entrata nel sistema dell'euro con tanta facilità. Vi è entrata con determinate caratteristiche, di cui noi ogni tanto vogliamo dimenticarci. Chi ha memoria storica lo ricorda. È presente l'onorevole La Malfa, ragion per cui arrossisco nello svolgere queste considerazioni, perché lui non è stato soltanto uno spettatore, ma un protagonista di questi avvenimenti. Tutti noi abbiamo addirittura letto e studiato le sue osservazioni, ragion per cui mi rifaccio a chi sa quante considerazioni che ho letto, elaborate dal professor La Malfa.
Voi ricordate che fino al 1994, meno di vent'anni fa, il 65 per cento del PIL in Italia era dello Stato, con IRI, ENI e EFIM. Il 65 per cento del PIL era generato dallo Stato, da un sistema inefficiente, un sistema, se vogliamo, protetto. Non è facile pensare che in diciotto anni si riesca a passare da un sistema protetto, inefficiente e costoso a un sistema efficiente sul mercato. Voi pensate che nel 1993 la percentuale di banche private in Italia era lo 0,2 per cento. Le banche erano pubbliche. Ricordo che, quando comprai il primo 2 per cento del San Paolo di Torino, il ROE delle prime dieci banche italiane era del 2 per cento.
Noi passiamo, quindi, in diciotto anni da un sistema di fortissima socialità del sistema economico a un sistema che deve essere, invece, molto più competitivo, molto più privato. Non è stato facile, anche perché sono stati anni molto complessi. Non dimentichiamo che il nostro sistema di partenza è quello in cui affermiamo che dobbiamo privatizzare, liberalizzare e compiere una manovra di riduzione del deficit per entrare nell'euro. Si tratta, dunque, di tre manovre.
Tali tre manovre avrebbero potuto essere compiute bene o male. Io ovviamente non ero presente, ma, studiando la situazione ex post, posso affermare che le privatizzazioni non sono state compiute molto bene. Sono state un po' affrettate e l'ingresso nell'euro è stato un po' - mi viene da dire - quasi artificialmente costruito, perché, per passare dal 7 per cento di deficit all'anno al 3 per cento in due mesi, bisogna costruire un algoritmo piuttosto complesso.
L'Italia aveva un 7 per cento di deficit annuo ed è passata in due mesi al 3 per cento, con un calo di quattro punti percentuali. Di questi quattro punti 2 sono di tasse, 1,5 il minor costo del debito pubblico, perché i tassi sono passati dal 10 al 2,5 per cento, mentre il resto è taglio ai costi: ricerca, università e investimenti.
Voi capite che tagliare la ricerca, l'università e gli investimenti, ha un impatto; aumentare le tasse di due punti ne ha un altro, ma portare la remunerazione del debito pubblico dal 10 per cento al 2,5 per cento è un trauma per il mercato, perché in Italia, le famiglie medie e i pensionati vivevano di integrazione della redditività dei risparmi per i loro consumi. C'erano pensionati che avevano 10 milioni di lire al mese e 10 milioni di lire che provenivano loro dai titoli di Stato, perché magari avevano investito un miliardo in titoli di Stato. In sei mesi i consumi sono crollati del 30 per cento perché quella classe sociale ha smesso di consumare.


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Quanto alle privatizzazioni - abbiamo parlato di tre manovre: privatizzazioni, liberalizzazioni e algoritmo di ingresso - il 65 per cento dell'economia era in mano allo Stato, e lo era in termini più sociali.
Le perdite di Italsider in quegli anni rappresentavano circa il 40 per cento del fatturato. Io ho lavorato molti anni in McKinsey e ho attuato tutta la strategia dell'Italsider, ragion per cui me ne ricordo piuttosto bene. L'Italsider era una società che attuava social economy. Doveva fornire l'acciaio a grandi industrie del Nord perché fossero competitive e creare job employment nel Sud. C'erano over costi e minus ricavi.
Torniamo a noi. Se devo privatizzare un sistema dove lo Stato ha una presenza così importante, mi devo domandare chi lo compra. L'impresa privata, in un sistema così fortemente statalizzato, non nasce e non ha le risorse per comprare. Devo allora elaborare un sistema per rendere attraente la vendita delle mie imprese.
Se non le comprano gli stranieri, chi le compra? Noi abbiamo dovuto inventare gli imprenditori, prendere le banche e obbligarle a finanziare le acquisizioni delle privatizzazioni, riuscendo a compiere due o tre operazioni che io, se tornassi indietro, forse rifarei in un modo diverso.
Non si inventano gli imprenditori, non si finanzia al 100 per cento l'acquisto di una privatizzazione, perché l'imprenditore che compra al 100 per cento in debito una grande impresa pubblica, non investe per i successivi dieci anni, perché tutto il cash flow che arriva, se arriva, serve a estinguere il debito contratto. In questo modo abbiamo distrutto molte grandi imprese italiane che oggi vengono rinazionalizzate privatisticamente.
Pensate al ruolo che sta assumendo la Cassa depositi e prestiti per difendere le imprese italiane e cercare di tenerle strette in Italia, prima che ce le portino via ai valori di borsa attuali. Noi non siamo in una posizione molto vantaggiosa e ciò spiega perché l'Italia, per uscire da questa situazione di crisi, debba affrontare i prossimi tempi con un modello molto italiano.
Non voglio compilare la lista, ma, a memoria, tratterò alcuni punti. Gli scarti di competitività italiani nel mercato globale sono molto forti. Se è vero che ci troviamo di fronte a un cambiamento epocale, ossia a un nuovo ordine economico mondiale, laddove la produzione dei beni di largo volume è spostata in un'altra area economica e l'Occidente ha soltanto capacità di consumo e scarsa capacità produttiva, noi dobbiamo svolgere una riflessione: poiché siamo semifalliti, come facciamo a riprendere una posizione economica nel mondo? Lo possiamo fare soltanto riprendendo competitività.
Che cosa significa riprendere competitività? Significa produrre una serie di prodotti, ma non quelli su cui è impossibile essere competitivi. Entreremo in questo dettaglio in seguito, perché è una questione molto significativa, su cui ci sono molti equivoci. Le produzioni di beni non sono, infatti, tutte uguali: ci sono attività produttive e prodotti di grande volume, per i quali il costo diventa fondamentale. Altri sono beni specializzati, per cui non è fondamentale il costo, ma la qualità tecnologica.
Non voglio semplificare. Ci sono alcuni prodotti che verranno realizzati sempre e soltanto dove il costo della manodopera, fino a quando lo sarà, sarà limitato, laddove si sono realizzati grandi volumi di investimenti che permettono grandi volumi produttivi. Ci sono, però, alcuni prodotti che possono essere realizzati in un contesto diverso, che ha investito in tecnologia e in capacità di ricerca.
Il problema è il seguente: noi dobbiamo reindustrializzare l'Occidente e per farlo dobbiamo decidere quale strategia specifica adottare in ogni Paese. In poche parole, dobbiamo porci un problema che fino a ieri non ci siamo posti. Dobbiamo essere competitivi sui mercati.
Oggi i mercati non sono più mercati chiusi, difesi, e protetti, né possiamo tornare a proteggerli, perché, se noi proteggiamo un mercato, proteggiamo i produttori o alcuni produttori, continuando a viziarli, ma svantaggiamo i consumatori e,


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conseguentemente, i consumi rispetto alla difesa di capacità produttiva. Dobbiamo equilibrare bene tutto ciò.
Questo spiega per quale ragione la cosiddetta esigenza di varare le riforme nel nostro Paese è stata considerata come una priorità. Le famose riforme che da vent'anni si sarebbero dovute affrontare e che il mondo sostiene che l'Italia non ha affrontato, sono state imposte in maniera accelerata. L'Italia deve tornare a essere competitiva. È un'esigenza di cui tutti noi sentiamo manifestamente l'importanza, ma che anche qualcuno dall'esterno sente, perché è il mondo occidentale che deve tornare a riprendere capacità competitiva.
La sensazione è che gli Stati Uniti, nel lungo termine, stiano capendo che è necessario integrare l'area economica Stati Uniti-Europa per fronteggiare l'area economica asiatica. In gioco non ci sono soltanto capacità produttiva e competitività, ma anche potere economico e politico. Conseguentemente, ciò spiega perché gli Stati Uniti sono tanto attenti all'Italia negli ultimi dodici mesi, come ognuno di voi sicuramente ha notato.
L'attenzione va anche ai Governi e allo sviluppo di determinate decisioni. Molti hanno l'impressione che gli Stati Uniti stiano cercando di integrare un'area di un miliardo di persone: Stati Uniti, Canada ed Europa, per creare un'area con una data omogeneità. Per poterlo fare, quest'area deve avere strutture economiche e produttive - quella che noi chiamiamo dinamica competitiva - omogenee, dal punto di vista di flessibilità e produttività. Ovviamente la produttività statunitense non è la produttività italiana, né quella europea e, quindi, chi deve accelerare la ricerca e l'ottenimento di tale produttività è soprattutto il nostro Paese o l'intera Europa. Ciò spiega l'accelerazione delle riforme e probabilmente anche altri cambiamenti che hanno traumatizzato un po' il Paese e che ancora lasciano sorpresi.
A tale proposito, vi porto una comparazione tra la produttività italiana e quella nordamericana. Nel lavoro delle imprese manifatturiere l'Italia ha uno scarto negativo di produttività del 25 per cento, nei trasporti del 36 per cento, e nei servizi del 42 per cento. Il PIL pro capite italiano è il 50 per cento inferiore a quello americano e gli investimenti in ricerca e sviluppo del sistema Italia rispetto al sistema americano sono inferiori del 50 per cento.
Lo stesso vale in Europa. Tra la media europea e quella italiana la produttività del lavoro italiano rispetto a quella europea è inferiore del 12 per cento, la produttività dei trasporti del 17 per cento e quella dei servizi locali del 27 per cento.
Voi capite che, se domani mattina noi accettiamo che ci sia un nuovo ordine mondiale in cui per sopravvivere non ci si può proteggere, non si possono chiudere in maniera autarchica le barriere e si deve saper competere, prima si devono risolvere questi problemi e, per risolverli, si deve assistere a quello che sta succedendo adesso.
Noi abbiamo due vantaggi in Italia su cui lavorare: il risparmio degli italiani e le piccole e medie imprese. È curioso come, dopo tanto tempo da quando si sarebbe dovuta attuare una politica economica industriale, si scopra che la struttura portante del Paese - quella che crea occupazione e sviluppo - è composta dalle piccole e medie imprese. È curioso che abbiamo scoperto quanto vale il risparmio degli italiani soltanto quando abbiamo dovuto difendere il debito pubblico.
Abbiamo scoperto che il risparmio degli italiani è pari a cinque volte il debito pubblico. È curioso il modo in cui tutti noi ormai ci siamo riempiti la bocca e il cervello di questo rapporto di cinque volte, ma nessuno ha capito che cos'è questo rapporto. In questo rapporto di cinque volte, i quattro quinti sono rappresentati da immobili, sono gli immobili della famiglia italiana, il cui valore è cresciuto per tante ragioni, che non sono soltanto di puro investimento o di capacità di risparmio. C'è una ragione molto semplice: queste valutazioni vanno accompagnate dalla curva del risparmio.
Venticinque anni fa il risparmio degli italiani era il 27 per cento del reddito prodotto, mentre oggi è sotto il 5 per cento. Anche la risorsa risparmio, dunque,


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si è fermata. Cresce perché crescono i valori di mercato, ma non cresce il processo di accumulazione del risparmio e questo è un fenomeno di cui dobbiamo tener conto.
Il problema delle piccole e medie imprese è quello che spiega quale deve essere la nostra politica di sviluppo. Quando sento parlare di politica di sviluppo, mi ricordo della cosiddetta politica dell'immigrazione. Vi ricordate quando negli anni passati si affermava che l'immigrazione andava sostenuta e facilitata perché avrebbe compensato il crollo della crescita della popolazione in Italia e, conseguentemente, la mancanza di contributi previdenziali che permettevano di pagare le pensioni?
In realtà, tutti parlavamo del numero di immigrati, ma nessuno eseguiva i conti, tanto che, quando un'università del Nord si è messa a farli, ha dimostrato che questo non sarebbe mai successo e che, per poter compensare il crollo della natalità e l'esigenza di contributi previdenziali, bisognava quasi quintuplicare il numero di immigrati in Italia, da 4 a 20 milioni. Bisogna saper fare i conti, credo, ma non sempre si è capaci.
La stessa questione, secondo me, sta succedendo adesso, quando si parla di sviluppo. Per migliorare il rapporto debito-PIL bisogna creare sviluppo. Quali sono le uniche iniziative di sviluppo delle quali ho sentito parlare negli ultimi tempi? Sono le liberalizzazioni e alcune privatizzazioni.
Ma le liberalizzazioni, ve lo riferisco per esperienza, si attuano con successo soltanto quando l'economia va bene. Quando l'economia va male, le liberalizzazioni non stanno in piedi. Le privatizzazioni si attuano quando ci sono i soldi per comperare. In Italia quello che manca non è il credito, ma l'equity, ossia il capitale di rischio. Se oggi attuate le privatizzazioni, nessuno comprerà. Possono comprare solo gli stranieri e l'abbiamo visto - negli ultimi giorni, negli ultimi tempi - con l'esigenza di ricapitalizzazione del sistema bancario italiano.
Vorrei allora accennare al problema delle banche italiane. In questi giorni l'impressione che si ha stando sui mercati è che si senta finalmente un vento di ottimismo. Sembrerebbe che il peggio sia alle spalle, guardando ciò che sta succedendo negli Stati Uniti. C'è un minimo di ripresa, o di ripresa di occupazione, con 2 milioni di posti di lavoro creati e reimportati.
Gli Stati Uniti, però, hanno un contesto che permette questo miglioramento attraverso forti investimenti in tecnologia e alta produttività. Ciò che ha permesso agli Stati Uniti in questo momento di immaginare di poter affermare che il peggio è alle spalle e che comincia un'epoca più attraente e più interessante, che ci può rendere più ottimisti, è quanto ha fatto la FED. La politica espansionistica che ha attuato la FED, immettendo liquidità nel sistema e permettendo, quindi, alle banche già ricapitalizzate di trasferire danaro alle imprese e alle famiglie, sta realizzando la ripresa negli Stati Uniti.
Mario Draghi sta compiendo esattamente la stessa operazione. La BCE sta «copiando» la FED. Lasciatemi compiere un passaggio. Draghi ha messo a disposizione del sistema bancario europeo un trilione di euro, ossia mille miliardi di euro. La considerazione che le persone svolgono è la seguente: dove vanno questi soldi?
Questi soldi sono bloccati, per adesso, alla BCE, per circa il 70 per cento. Circa 700 miliardi di euro sono bloccati perché l'obiettivo di questo trilione di euro di supporto al sistema bancario europeo è quello di salvare il sistema bancario stesso.
Da che cosa intende salvarlo? Dalle scadenze delle obbligazioni del sistema bancario europeo, che più o meno dovrebbero avvenire nei prossimi dodici mesi. Entro i prossimi dodici mesi scadono obbligazioni emesse dal sistema bancario per circa 700 miliardi di euro. Questo trillion è atto a supportare e a sostenere il sistema bancario europeo nell'ottica di risanarlo, di permettergli di effettuare una ricapitalizzazione necessaria e di trovare una nuova strategia di funding, cioè di reperimento


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delle risorse, e risanarsi, tornando soltanto in quel momento a svolgere le proprie funzioni di banche.
In sintesi, gli analisti finanziari oggi sostengono che gli Stati Uniti usciranno dalla recessione nel 2012 e l'Europa nel 2013 proprio per questa ragione, ossia perché senza un sistema bancario che funziona non si esce dalla crisi. Questo è lo statement.
Non ragioniamo sostenendo che le banche ne hanno combinate di tutti i colori. Dimentichiamoci per un momento gli errori commessi e pensiamo alla realtà. Senza un sistema bancario non si esce dalla crisi. L'Italia, differentemente da molti altri Paesi europei, è ancora più bancocentrica.
Che cosa significa bancocentrica? L'Italia ha una struttura economica composta da piccole e medie imprese. Le piccole e medie imprese non entrano in Borsa e, quindi, non si possono finanziare con l'equity. Non emettono bond, non si possono finanziare sui mercati, sono sottocapitalizzate, sono imprese familiari, molto spesso realizzano molto nero, non hanno i bilanci certificati.
Da ciò deriva il ruolo delle banche. Le grandi banche italiane fino a ieri si sono occupate delle grandi imprese. Adesso devono occuparsi delle piccole e medie, che sono ricapitalizzate. Non le conoscono, però, e non sanno analizzare la loro dinamica di business.
Non dimenticate, inoltre, un dettaglio molto importante. In pochissimi anni - circa tre -, il sistema bancario italiano si è concentrato. Dal 2005 al 2007 noi siamo passati da una dispersione di quote di mercato a una fortissima concentrazione. Ciò significa che tre banche in Italia, ed è così da prima della crisi, costituiscono il 63 per cento degli asset finanziari. Mi riferisco a Unicredit, Intesa e Monte dei Paschi. Queste tre banche, in tre anni, sono passate da una dispersione di una data quota, che ora non ricordo, ma era intorno al 10-12 per cento delle maggiori banche, a più del 60 per cento di quota di mercato.
In una provincia, come Mantova o Piacenza, tre banche attuano la politica creditizia e c'è spazio, sì e no, per la banca popolare locale, se ha una quota alta, altrimenti non c'è.
Se le piccole e medie banche sono state messe in una posizione di svantaggio ciò è stato un male, perché le piccole e medie banche sono quelle che conoscevano le piccole e medie imprese, che oggi sono diventate meno competitive grazie a questo sistema di concentrazione, il quale non è stato deciso dal mercato, ma da Palazzo Chigi e da Via Nazionale.
È un bene o un male? È evidente che è un bene. Per forza, se una banca sta male, si fonde, fino ad arrivare a quote talmente grandi e a modificare il sistema. Oggi le banche devono ridurre del 50 per cento gli sportelli, devono ridurre i costi, devono espellere non so quale percentuale - non è oggettiva, ma soggettiva - di persone.
Noi dobbiamo dar tempo, ahimè, al nostro sistema bancario di adattarsi a questi nuovi tempi. Essendo l'Italia bancocentrica, non possiamo fare a meno del sistema bancario, perché le nostre imprese che devono essere sostenute hanno solo le banche come riferimento. Per questo motivo dobbiamo tener conto di questi fatti e capirli, perché un progetto di legge, un progetto per lo sviluppo e per il risanamento, impatta alla fine con questi fatti e bisogna saperne tener conto.
Un'importante differenza tra il sistema bancario europeo e quello degli Stati Uniti, è che, negli ultimi anni, anche con alcuni piccoli trucchi, con alcune furbizie, non separando, come molti chiedevano, il ruolo di banca commerciale da quello di banca d'affari, alle banche americane è stato permesso di realizzare un'infinità di utili, speculando, il che ha permesso loro di ricapitalizzarsi, mentre in Europa ciò non è successo. In Europa sono state «munte» le fondazioni e gli investitori istituzionali per ricapitalizzare le maggiori banche, soprattutto in Italia.
Credo che in un arco brevissimo di tempo le banche debbano compiere una ristrutturazione dei costi, una ristrutturazione,


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una digestione e una rimodellazione del rischio, e ricapitalizzarsi. Poi si possono trovare nuove forme di funding, però la strada è questa.
La BCE sta permettendo al sistema bancario europeo di ricomporre questo equilibrio. Soltanto un 30 per cento di questo trillion può essere intermediato. Voi chiederete perché almeno tale 30 per cento non sia intermediato già da adesso. La mia opinione è che le grandi banche, quelle che detengono il 63-64 per cento di quota di mercato, non conoscono le piccole e medie imprese, mentre le conoscono le banche popolari.
Le grandi banche conoscono le grandi imprese e hanno finanziato per tanto tempo le privatizzazioni e i grandi gruppi, ragion per cui conoscono relativamente meno le piccole e medie imprese e hanno paura, perché la recessione impatta sulla piccola e media impresa in maniera più dura rispetto alla grande. La grande elabora i Piani strategici e manda il managing director che parla 18 lingue. Il modello McKinsey mostra lo scenario, i vantaggi competitivi, l'organizzazione che si deve attuare e via elencando. Nella piccola e media impresa arriva il ragioniere o il capo famiglia, che può solo riferire a chi vende, senza sapere se pagherà. Di queste spiegazioni la banca non si accontenta e, quindi, ha paura.
Oggi - per fare una battuta - la risorsa più preziosa per il sistema bancario è avere un manager che sappia che cos'è il rischio. Tutti hanno imparato a diventare i manager modello McKinsey, ma nessuno conosce più il rischio. Devono andare a prendere i banchieri con i capelli bianchi, quelli che magari avevano messo da parte, come Saviotti, per citare un nome che mi viene in mente. Devono andare a riprenderli e rimetterli a gestire la banca, perché oggi il problema chiave è il rischio e pochi sanno che cosa significhi farlo valutare.
Per questo motivo bisogna avere pazienza. Negli Stati Uniti, infatti, il nuovo modello di ritorno del sistema bancario nel finanziamento della famiglia e, quindi, dei consumi delle imprese è già partito, mentre in Europa no. Perciò si parla di uscita dalla recessione per gli Stati Uniti entro il 2012 e per l'Europa entro il 2013, perché c'è un gap di circa dodici mesi per mettere in condizione le banche europee di ritornare a poter effettuare intermediazione, risolvendo, in questo frattempo, tutti i problemi che hanno di ricapitalizzazione, di funding e di efficienza. Non è uno scherzo.
Di chi è la colpa? Dimentichiamocelo, perché è inutile adesso trovare di chi sono le responsabilità. Sono storie. Per me - e per queste considerazioni qualcuno mi prende in giro - tutto ciò nasce dal fatto che, smettendo di generare figli, abbiamo inceppato lo sviluppo economico del mondo occidentale.
Non guardatemi male, sostenendo che adesso tirerò fuori una predica morale. Ditemi un po' come può crescere un'economia matura in un periodo lungo, se non cresce la popolazione? Ditemi come può crescere? Può farlo soltanto se aumentano i consumi, se si compie più export. Ma come si fa a promuovere export, se abbiamo trasferito tutte le grandi produzioni in Asia? Che cosa esportiamo? Lo fa la Germania, per un periodo breve, con l'export tecnologico che vende in Asia. Attenzione, però, perché aumentare la produttività significa compiere investimenti.
Se la popolazione non cresce in un sistema economico maturo, dove i costi fissi sono alti - mi riferisco ai costi della previdenza e della sanità, che sono costi dello Stato - il sistema fallisce, perché può crescere soltanto se crescono i consumi individuali e i consumi individuali crescono perché o si guadagna di più, oppure ci si indebita. Noi siamo cresciuti per venticinque anni attraverso il debito. È molto semplice. L'algoritmo è questo.
Se si sbagliano le diagnosi, si sbaglierà anche la prognosi. Vogliamo rilanciare il sistema economico occidentale? Bisogna tener conto di questo aspetto. Sinceramente non mi importa che per qualcuno questo sia un problema di carattere morale. Ormai i maggiori economisti laici - anche il nostro Presidente della Repubblica - hanno affermato che bisogna tornare


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a incoraggiare la formazione di famiglie e la nascita dei figli, oppure accettiamo di restare poveri, in una forma di povertà totale, perché noi siamo poveri.
In Asia non stanno molto meglio. Ormai il mondo è talmente integrato e si è integrato talmente in fretta che è impossibile affermare che in un luogo c'è la ricchezza e in un altro la povertà. Se in uno c'è povertà, c'è povertà anche nell'altro, perché l'Asia, per restituire potere d'acquisto a un sistema che deve consumare, oggi deve reimportare export per circa il 40 per cento di quello di tre anni fa e, quindi, deve creare potere d'acquisto interno. Per creare potere d'acquisto deve aumentare i salari e aumentare i salari significa effettuare un aumento di costi. Aumentare i costi significa, a sua volta, che sono meno competitive le loro esportazioni.
È un ciclo economico mondiale, la nostra è una piccola famiglia. Per questo motivo è inutile tenere i G20 o i G30. Bisogna prendere i veri padroni, farli sedere intorno al tavolo e, con qualcuno che li consiglia seriamente, far loro capire quali sono i problemi effettivi.
Concludo il mio intervento soffermandomi su una questione che trovo importante. Prima parlavo del problema dell'immigrazione. Abbiamo sentito affermare che dobbiamo stimolare l'immigrazione per compensare il gap di nascite e, quindi, pagare le pensioni e sostenere i contributi.
Ma bisogna fare seriamente i conti. Tutti riconosciamo in questo momento il problema del rapporto debito pubblico-PIL, che è passato in tre anni dal 103 al 120 per cento, nonostante l'Italia abbia ridotto il deficit più della Germania.
L'Italia ha ridotto il deficit annuo più della Germania, del 4,4 per cento contro il 3,2 della Germania, mentre gli altri Paesi, tra cui la Francia e la Spagna, l'hanno tutti aumentato. L'Italia l'ha diminuito, ma il rapporto debito pubblico-PIL è aumentato. È passato dal 2008 a oggi dal 103 al 120 per cento.
Perché ciò è avvenuto? Perché il PIL è diminuito. Come si fa a sostenere il PIL in Italia? Ognuno inventa le liberalizzazioni e tante altre iniziative. Ma c'è una sola cosa da fare, su cui bisogna elaborare un'idea forte. Ragioniamo in termini di vantaggi competitivi. Noi abbiamo ancora due elementi: molto risparmio e le piccole e medie imprese. Dobbiamo cercare di convogliare il nostro risparmio alle nostre piccole e medie imprese.
Se con riferimento alle nostre piccole e medie imprese, quelle trainanti, quelle che esportano, noi mettessimo in condizione il 50 per cento o anche il 30 per cento delle nostre piccole e medie imprese di essere ricapitalizzate, di poter elaborare piani economici più aggressivi, essere sarebbero straordinariamente geniali. Chi, come me, vive in Emilia, e conosce il mondo delle piccole e medie imprese, sa di che cosa sto parlando. L'onorevole Tabacci sicuramente sa di che cosa stiamo parlando, perché le conosce, le ha vissute.
Il nostro è l'humus delle piccole e medie imprese, che sono geniali, hanno prodotti straordinari. In Emilia ci sono imprese che sono leader mondiali in nicchie di produzione, che sono copiate da tutti, che guadagnano un sacco di soldi, ma non investono, hanno paura, non hanno capito che cosa succede intorno a loro. Forniamo loro risorse, consentiamo loro di elaborare piani aggressivi di crescita, facciamo trasformare i loro bilanci in bilanci certificabili, facciamo attuare loro un piano di crescita dell'occupazione.
Sei mesi fa ho realizzato uno studio empirico, per il quale, se il 20 per cento del risparmio italiano fosse fatto confluire sulle piccole e medie imprese, in tre anni ridurremmo il debito pubblico del 40 per cento, con le maggiori tasse pagate e il maggiore sviluppo economico generato. La nostra via di uscita si chiama sviluppo attraverso le piccole e medie imprese.
Prestate attenzione a un fatto. Noi abbiamo un gap di produttività nella produzione e nel lavoro. Prestate attenzione a questo passaggio. In Italia abbiamo due tipi di imprese, quelle che competono sui mercati e quelle che sono protette perché lavorano soltanto sul mercato domestico. Le prime sono già efficienti e non hanno bisogno di tanti stimoli, perché competono


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già, esportano, vanno in giro per il mondo, investono, ci mettono l'anima. Sono già competitive.
I nostri problemi sono le imprese protette. Quali sono le imprese protette? Sono le imprese tipicamente domestiche, quali i servizi, l'acqua, il gas, la distribuzione, e le imprese locali. È su questa area di inefficienza che dobbiamo intervenire.
Badate, io ragiono in questi termini, quando penso in termini di consigliere della Cassa depositi e prestiti o di presidente del Fondo infrastrutture. Noi oggi stiamo rendendo efficienti esattamente queste imprese nella distribuzione del gas, dell'acqua, nei trasporti e nella logistica, perché sono queste le imprese su cui agire.
Voi sapete che il 50 per cento del PIL italiano è pubblico? Il 50 per cento del PIL è pubblico, non è privato. Sul privato si può intervenire, mentre sul pubblico è più difficile. Abbiamo un dualismo economico da cui non possiamo prescindere.
Dobbiamo affrontare questo tema prima o poi. Dobbiamo far affrontare anche quello dai Governi tecnici o tecnocratici? Probabilmente sì. Sappiamo comunque che cosa va fatto nel Mezzogiorno, ma nessuno ha il coraggio di occuparsene. Dal momento che sono bravi a farlo, lasciamoglielo fare. Non è difficile. Basta compiere tre operazioni e sapete qual è la prima?

PRESIDENTE. Sentiremo, poi, quali sono le tre operazioni. Passiamo, però, alle domande, altrimenti, conoscendo il professor Gotti Tedeschi, so che potrebbe andare avanti per due o tre ore senza fermarsi. Do, quindi, la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

RENATO CAMBURSANO. Mi pare di poter affermare che, ma ovviamente è una valutazione del tutto personale - e senza nulla togliere alle audizioni precedenti - dobbiamo ringraziare davvero il dottor Gotti Tedeschi per lo scenario che ci ha descritto. La fotografia mi pare molto nitida. Ne avevamo scattata un'altra un anno fa, il 16 marzo, e oggi è il 14. La precedente ci ha illuminato rispetto alla questione del debito pubblico e a che cosa fare in merito. Quella di oggi, invece, ci ha indicato che cosa fare per far ripartire la crescita.
Credo che dovrebbe fornirci un lume aggiuntivo, almeno per quanto mi riguarda, rispetto a una sua precedente affermazione secca. Lei - per alcuni versi, in senso bonario e anche provocatorio - ha sostenuto che le liberalizzazioni si attuano nei tempi in cui le cose vanno bene, ma, allo stesso tempo, ha anche sostenuto che c'è ancora un 50 per cento dell'economia, del PIL in mano al pubblico, che lo gestisce male e ha citato soprattutto il settore dei servizi, elettricità, gas, rifiuti e via elencando. Le due considerazioni parrebbero in contraddizione. In ogni caso, occorrerebbe una mano sul fronte delle liberalizzazioni, in particolare di questi servizi.
Passo alla seconda domanda. È stato affermato in altre audizioni, con la solita, classica frase, che non si fanno le nozze con i fichi secchi, ma occorre avere risorse finanziarie. Lei le ha individuate nel risparmio privato da destinare, in particolare, alle piccole e medie imprese. Ci sono, però, anche risorse pubbliche che possono essere destinate a questo scopo.
Mi è stato riferito, prima dell'audizione, che lei a suo tempo, rappresentando quasi un'eccezione, fu tra coloro che si opposero all'imposta patrimoniale vera e propria, soprattutto sui grandi patrimoni. Questa mattina, però, ci ha comunicato che il risparmio italiano privato è cinque volte superiore rispetto al debito, di cui quattro punti su cinque, ossia i quattro quinti, sono rappresentati da immobili.
È vero che è stata introdotta l'imposta IMU sugli immobili, ma essa va a gravare molto anche sulle famiglie, in particolare su quelle che oggi, al di là delle deducibilità, faticano, non consumano e, se non consumano, non fanno produrre.
Arrivo alla terza e ultima domanda, anche se ce ne sarebbero davvero tante, perché ha spaziato molto e di ciò la ringrazio ancora davvero. Lei conosce molto bene, e io condivido quasi per intero


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l'analisi che ha svolto in merito, il sistema bancario italiano. Vengo anch'io da quella esperienza, anche se non con le sue responsabilità. Sono stato anche consigliere di Cassa depositi e prestiti.
Le chiedo allora un giudizio in merito alle fondazioni bancarie, ogni tanto, infatti, queste tornano nel mirino, mentre mi pare di poter affermare che, per fortuna, in questo periodo sono esistite. Ci terrei a conoscere il suo parere.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Posso rispondere rapidamente, altrimenti mi perdo?

PRESIDENTE. Prego.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Risponderò molto rapidamente, in modo da lasciar spazio alle altre domande.
Quanto alla prima domanda sulle liberalizzazioni, lei sostiene che c'è una contraddizione. Io affermavo che le liberalizzazioni hanno più successo quando le cose vanno bene che quando vanno male e ciò per definizione. La liberalizzazione provoca un risparmio di manodopera, dal momento che la prima operazione che si compie è licenziare. In questo momento licenziare e creare nuove sacche di disoccupazione è pericolosissimo.
Esiste un rapporto, che in questo momento non ho in testa in modo preciso: ogni volta che la spesa pubblica diminuisce dell'1 per cento la disoccupazione aumenta del 10 per cento rispetto al tasso precedente. Attenzione, quindi: le liberalizzazioni in un contesto di crisi come questo, dove non c'è un riassorbimento dell'inefficienza, provocano disoccupazione. Il problema è, quindi, di carattere sociale.
Venendo alla seconda domanda, la storia della patrimoniale, insisto e continuerò a insistere. Non ho capito la proposta Capaldo e ancora adesso non la capisco. Faccio fatica io a capirla. Se sono in una situazione di crisi economica, di recessione, e utilizzo un vantaggio, che sono i patrimoni, ma, invece di investirli nella crescita e nello sviluppo, li investo nella riduzione del debito pubblico, io permetto la crescita del debito pubblico, perché solo lo Stato può intervenire ad avviare lo sviluppo. Questo è il principio.
Il debito pubblico diminuisce soltanto ed esclusivamente in maniera logica, sistematica e sostenibile aumentando il PIL.
Quanto alle fondazioni bancarie, meno male che c'erano e meno male che ci sono state, però la polemica su di esse non nasce in quanto fondazioni bancarie. Le fondazioni hanno due anime ed è questo aspetto che ha sempre creato un po' di disagio.
L'anima della fondazione resta, infatti, ancora l'azionista di riferimento della banca, che compie la politica della banca, nomina l'amministratore delegato, gli indica chi deve finanziare e che dividendo gli deve attribuire. Questo avveniva fino a ieri.
C'è poi l'altra anima della fondazione, che è quella che compete con l'amministrazione locale, perché investe i suoi dividendi e i suoi redditi a livello locale, nella sanità, nello sviluppo, nel volontariato, in ciò che volete, ma comunque fa politica.
Che cosa non si perdona a molte fondazioni? Non si perdona loro di aver creato una situazione politica, non tanto di aver indicato alle banche che dividendo dovessero avere e, quindi, di scegliere l'amministratore delegato in funzione di tale dividendo.
È come per i fondi di investimento. L'imprenditore mette l'anima, i soldi, la sua vita a lungo termine nell'impresa. La fine dell'imprenditore, con l'accelerazione della globalizzazione, che ha spinto le fusioni, e con la crescita esasperata delle imprese, è questa: l'imprenditore è sostituito dal fondo di investimento. Il fondo di investimento non vedrà mai l'impresa come la vede l'imprenditore. La vede opportunisticamente, in funzione del dividendo che dà a fine anno, perché, a sua volta, il fondo di investimento deve avere un dividendo che darà ai suoi azionisti.


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Che cosa fa il fondo? Chiama a gestire l'impresa il manager, a cui da la stock option, purché consegua il dividendo che gli indica. Questa è la famosa perversione della stock option, quando l'imprenditore esce di scena e viene il fondo a imporre il risultato. Il fondo ti compra, ma indica anche qual è il risultato che il manager deve realizzare. Se non lo realizza, lo manda via. Chi si prende per realizzare quel risultato? Qualcuno che capisce di che cosa si sta parlando.

ANTONIO BORGHESI. Lei ha svolto molte considerazioni interessanti; le chiederei, però una sua precisazione.
Quando lei ha sostenuto che di fatto il mercato del credito è controllato per il 60 per cento da tre aziende, accettiamo anche il principio che non esiste un mercato del credito in Italia. Credo che questo sia molto grave, anche perché non è mai esistita una vera privatizzazione del sistema bancario.
Torno sulle fondazioni bancarie. La legge Amato non ha privatizzato assolutamente nulla, ma ha semplicemente spostato il controllo sul sistema - non mi interessa l'aspetto giuridico dal momento che sto parlando di sostanza - dallo Stato ai poteri locali, spezzettandolo, il che è il peggio che potesse capitare.
Esiste un modo per rendere davvero competitivo il mercato del credito in Italia? Anche le scelte di rischio nel concedere credito alle piccole e medie imprese derivano dal fatto che ci sia più o meno concorrenza dentro il sistema, concorrenza che oggi non c'è.
Io pensavo, dunque, ma è un'idea che propongo e su cui vorrei sentire la sua opinione, che, in realtà, il vero problema è che non esiste un mercato del credito all'interno dell'Unione europea, perché non esiste di fatto la possibilità per una piccola e media impresa di andare a rifornirsi da questo punto di vista in qualunque parte dell'Unione europea. Essa è costretta, necessariamente, soprattutto la piccola e media impresa, a restare dentro il Paese, il che impedisce l'esistenza di un vero mercato.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Condivido totalmente le sue osservazioni.
Mi fa piacere che le abbia svolte lei. Confermo che il passaggio tra il pubblico e il privato nel nostro Paese non c'è stato. C'è stato un tentativo, in alcuni campi c'è stato sicuramente, ma nei settori chiave, quelli che rappresentano i pilastri dell'economia, non c'è stato.
In più, però, ciò è spiegato forse da una forte simbiosi tra classe politica ed economica. Fino al 1995 lo Stato controllava l'economia e lo faceva attraverso una classe politica che ha faticato a perdere un'economia che si doveva privatizzare. Si sono inventati tanti modelli di controllo indiretto, che sono quelli che lei ha citato.
Non sono in grado di rispondere alla domanda su come il sistema può essere reso più competitivo. Ci si sta pensando. Non è un tema su cui non si sta pensando. È una grande preoccupazione, perché le banche per i prossimi cinque anni non realizzeranno più profitti. Non li realizzeranno più e, quindi, non daranno più dividendi e non varranno più quello che sognavano di valere o che valevano prima.
Conseguentemente, i nuovi managing director saranno riduttori di costi, ricercatori di efficienza, come peraltro avviene dappertutto, anche nel pubblico. Non c'è più «ciccia», come si suol dire, intorno all'osso. Non possiamo più, per usare un'espressione sgradevole, abusare, mangiare intorno senza produrre. Non è più possibile. Non c'è spazio.
Ciò spiega perché sono i tecnici o i grandi sacerdoti dell'economia a intervenire e non i politici, se abbiamo capito bene, perché ognuno di noi poi elabora le sue congetture in funzione delle capacità che ha di avere informazioni e di elaborarle. Molto spesso tiriamo le conclusioni in funzione di quella che noi vorremmo fosse la verità. In realtà, non è sempre così.
Il problema è che non c'è più «ciccia» intorno all'osso. Le banche devono trovare l'efficienza. Per una banca trovare l'efficienza significa ridurre i costi e ridurre i costi significa ridurre le filiali e il numero


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di persone che ci lavorano. Chi sa che cosa sono le banche capisce quanto tutto ciò sia difficile.

ROBERTO MARIO SERGIO COMMERCIO. Mi ha molto interessato tutto il ragionamento che riguardava le piccole e medie imprese, soprattutto la parte sul ruolo strategico che possono avere per lo sviluppo e il rilancio del sistema Paese.
Peraltro, esse vivono oggi un momento di grande difficoltà per due ordini di motivi: difficoltà di accesso al credito e difficoltà di compensare crediti e debiti con la pubblica amministrazione. Nel Mezzogiorno questo problema è particolarmente sentito, dal momento che non ci sono grandi gruppi industriali, ma tutta l'economia passa attraverso le piccolissime, piccole e medie imprese.
Mi incuriosiva il ragionamento che lei svolgeva a cascata sulle tre famose operazioni da compiere sul Mezzogiorno. Mi incuriosisce, senza alcun intento polemico.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Le rispondo subito. Attenzione, però, questo tema soltanto meriterebbe un'audizione specifica con tanti altri esperti.
Sono tre le operazioni da realizzare o, meglio, sono due, con una premessa. Bisogna risolvere il problema della criminalità, altrimenti gli stranieri non vengono. Io ho visto, nel settore delle energie alternative, grandi gruppi che pensavano di entrare in alcune aree geografiche, ma hanno chiuso immediatamente e sono andati via. Conosco due persone, una italiana e una non italiana, che hanno ricevuto una busta con dentro due pallottole, perché avevano concorso a un'asta in una regione del Sud Italia e sono andate via.
Ciò premesso, passo alle due operazioni. In primo luogo, bisogna creare un'area di interesse. Un'area di interesse economico si crea attraverso due modelli. Il primo è un sistema di incentivi veri e concreti, siano essi incentivi fiscali o agevolazioni. Bisogna rendere competitivo l'investimento in una situazione cruciale. Il secondo è creare vantaggi industriali di settore. Bisogna creare, quindi, vantaggi di carattere logistico e di carattere industriale.
Secondo me, per il Mezzogiorno, nonostante un lungo periodo di cose dette, non dette e non fatte, sono queste due le principali operazioni su cui si potrebbero svolgere innumerevoli ore di riflessione. Si può intervenire sul turismo, sull'agroindustria. Sono tante le aree in cui si può intervenire, comprese le forme di artigianato.
Da una parte, quindi, occorre creare un sistema di agevolazioni fiscali, che siano contributive, e, dall'altra, creare vantaggi industriali in stretto senso, soprattutto per settori specifici. Bisogna identificare, quindi, i veri settori in grado di generare una capacità vera e propria di miglioramento della competitività industriale.

ROBERTO MARIO SERGIO COMMERCIO. Quando lei parla di aree di interesse economico e di vantaggi, si riferisce anche alla fiscalità di vantaggio?

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Sì.

AMEDEO CICCANTI. Pongo una domanda rapida. Grazie per lo scenario molto interessante. Bisognerebbe proseguire questo incontro.
Il Bollettino della Banca d'Italia del dicembre 2010 riportava un dato sulla distribuzione della ricchezza, con il 45 per cento della ricchezza nazionale in mano al 10 per cento delle famiglie, mentre il 50 per cento delle famiglie che deteneva solo il 10 per cento.
Lei ha ribadito, con un ragionamento che magari non ha sviluppato, ma di cui si intuiva il significato, la sua contrarietà alla tassazione delle rendite finanziarie. Si tratta di un ragionamento che ha un suo valore, ma che può essere anche valutato diversamente.
Dentro questo 45 per cento della ricchezza ci sono posizioni dominanti, posizioni di cartello e anche speculazioni finanziarie che danneggiano il sistema. Le liberalizzazioni incidono relativamente su


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questo sistema, mentre in realtà bisognerebbe prelevare in modo forzoso - quindi attraverso il fisco - per poter poi ridestinare tali somme, nel senso che lei indicava, magari per finanziare le piccole imprese, soprattutto quelle più internazionalizzate, e, attraverso il sistema della fiscalità di vantaggio, indirizzarle verso la ricerca e l'internazionalizzazione e potenziare quello zoccolo del 20 per cento di finanziamento di ricchezza nazionale da destinare alle piccole imprese che poi porterebbe, come lei ricordava, ad un 40 per cento di riduzione del debito pubblico.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Onorevole, è come quando si afferma che si devono far pagare le tasse. Alla fine paga le tasse il dipendente e chi è facilmente accertabile. Sappiamo che ci sono stati abusi nella creazione di ricchezza. Quando c'è un abuso, si colpisca l'abuso e non si cambi il principio, altrimenti va a finire che chi sarà destinato a pagare la famosa percentuale che lei auspica, anzi che tutti noi auspicheremmo, sarà colui che ha creato legalmente ricchezza e che è trasparente, perché gli altri l'hanno camuffata in mille modi.
Chi crea ricchezza illecitamente la camuffa prima di crearla e sa perfettamente che è impossibile andarla a scovare, perché è distribuita in mille rivoli. Questa valutazione statistica si rifà soprattutto ai valori immobiliari e ai valori delle aziende quotate.
Se si considera 100 il risparmio degli italiani - quello che la Banca d'Italia ha accertato, circa 10.000 miliardi di euro tre mesi fa, pari a cinque volte il debito pubblico - il 65 per cento dello stesso è di natura immobiliare. Vent'anni fa la percentuale immobiliare sul totale era il 40 per cento, il che fa pensare che tale 40 per cento sia diventato oltre il 60 per una crescita fittizia di valore e non perché sono stati comprati altri immobili. Attenzione, dunque: vent'anni fa questo 65 per cento era un 40 per cento.
Torniamo alla situazione odierna. Il 65 per cento è rappresentato da valori immobiliari e il 25 per cento dal valore della ricchezza investita in attività economico-finanziaria, quali quote azionarie, imprese e via elencando. Soltanto il 10 per cento che resta è investito in liquidità, in asset liquidi. Attenzione, quindi, perché la parte liquida non è poi così tanta, se ci pensiamo.
Tale parte liquida va protetta, perché è quella che probabilmente risulterà più preziosa per noi e che deve essere garantita attraverso il sistema. Lo Stato garantisce attraverso un fondo preso la Cassa depositi e prestiti la protezione di questo risparmio e lo convoglia alle piccole e medie imprese.

GIORGIO LA MALFA. Presidente sarò brevissimo. Quella del professor Gotti Tedeschi è stata una relazione di grande interesse, che offrirà molta materia di riflessione.
Porrei una domanda. Dalla relazione emerge un senso di urgenza drammatica per la condizione italiana. Mi pare che il professore sostenga che noi abbiamo, rispetto ad altri Paesi europei, un punto di forza costituito da uno stock di medie e piccole imprese straordinarie, che abbiamo solo noi, in una fase in cui la produzione industriale sta migrando verso l'Asia. O ce le teniamo, oppure finiamo in una condizione di assoluta povertà.
La mia conclusione è che al centro della politica economica deve porsi il problema del rilancio dell'attività produttiva italiana come una priorità assoluta nei tempi. Non ci possiamo permettere - da molto tempo, ma anche in questo momento - di assistere senza far nulla a una previsione di caduta del reddito dell'1,5 per cento quest'anno, seguita l'anno successivo da una riduzione di qualche decimale di punto. Senza mettere in discussione la necessità di porre in ordine i conti, la domanda è cosa dobbiamo e possiamo fare in merito?
Dato che, come afferma il professor Gotti Tedeschi, le liberalizzazioni serviranno, se serviranno, nel medio termine, che cosa possiamo e dobbiamo fare intanto nel frattempo? C'è un ruolo che può


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essere assegnato alla finanza pubblica anche in queste condizioni disperate, in cui bisogna che il Governo dei tecnici convinca l'Europa che abbiamo bisogno di agire? Questa è, più o meno, la domanda.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Senza dubbio le riforme vanno varate. Se si riconosce che la competizione è ormai globale e che non ci si può chiudere, altrimenti si penalizzerebbero i consumatori e che si deve, quindi, rendere efficiente il sistema, si devono varare le riforme, in particolare la riforma sul lavoro e, soprattutto, quella sui costi del pubblico e dell'evasione fiscale.
In secondo luogo, elaborerei nell'immediato - vale a dire nei prossimi tre mesi - un piano di sostegno allo sviluppo delle piccole e medie imprese. Prenderei gli organi di Confindustria e tutte le banche e li farei sedere intorno ad un tavolo, chiedendo loro di indicare entro un mese quali sono le 10.000 imprese piccole e medie trainanti l'economia, quali bisogni di ricapitalizzazione e di finanziamento hanno, che indotto creano, quanta occupazione generano e di quanto cresce il loro sviluppo. Lo farei domani mattina, creerei un ministro per questo tipo di sviluppo, a cui affiderei una delega specifica ad operare in questo senso.

BRUNO TABACCI. Ho trovato molto interessanti le considerazioni del professor Gotti Tedeschi e soprattutto la consapevolezza che la dimensione della crisi per il mondo occidentale è strutturale e ha una profondità scandita dalla vicenda demografica.
Nell'arco di quarant'anni abbiamo visto più di un raddoppio della popolazione mondiale. Siamo passati dai 3 miliardi dello studio del 1970 di Aurelio Peccei del Club di Roma ai 7 miliardi di oggi.
È avvenuta anche la scomposizione dei grandi ruoli della geoeconomia, perché mi pare del tutto evidente che l'Occidente, in particolare nell'arco di questi ultimi vent'anni, abbia vissuto al di sopra delle sue possibilità e che la finanza sia stata lo strumento per manipolare la realtà e per convincerci che potevamo continuare a comportarci in questo modo. L'asino è caduto e non c'è nulla da fare.
Stamattina ho sentito che il leader cinese ha posto il problema dell'introduzione di riforme politiche, il che lascia intendere che dentro lo schema della globalizzazione un punto di caduta ci sarà, punto che ovviamente metterà in discussione la nostra ricchezza presunta, ma aprirà anche una falla all'interno del mondo cinese, che di questo sviluppo demografico è stato il principale artefice. Si aggiunge poi anche l'India.
Questa consapevolezza è, dunque, necessaria. Io credo che l'Europa faccia bene a immaginare un suo protagonismo robusto e, quindi, considero l'azione del Governo su questo terreno assolutamente pertinente. L'Italia ha accumulato una serie di guai che si sono andati stratificando sempre più nel corso di questi ultimi vent'anni e deve togliere tutti questi impedimenti, affrontandoli e prendendoli per il collo.
Non c'è dubbio che tutto, dal tema fiscale alla questione della ricchezza nazionale, così disegualmente distribuita, al socialismo municipale che resta ancora in piedi all'interno delle nostre esperienze, all'evasione congenita, richiederebbe un processo di riforme condivise. In ciò sta il punto.
Questo Governo, secondo la mia opinione, ha indicato alcune strade praticabili, però, quando viene in Parlamento, è costretto a porre sistematicamente la questione di fiducia, perché i partiti ritengono che questa sia una parentesi e che, poi, svolto il lavoro sporco, torneranno loro.
Io non penso che la situazione sia questa. Questo è il divario che noi riscontriamo tra una simpatica conversazione con un professore intelligente e la difficoltà di operare, traducendo le questioni sul terreno della praticità. Tale divario non è colmabile certamente con l'audizione di oggi. È dentro il nostro stato d'animo.


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ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Non mi sogno nemmeno di fornire un'indicazione a voi su come colmare questo divario, però colgo l'occasione per fornire una risposta sul primo punto, che credo sia interessante.
L'altro giorno leggevo sul Wall Street Journal un articolo di Rick Santorum che esponeva il suo programma. L'ho sintetizzato in quattro punti. I primi tre sono: rendere competitiva l'economia americana per riportare lavoro all'interno; diminuire le tasse corporate e incentivare la creazione di posti di lavoro; ridurre la spesa pubblica e gli stipendi del settore pubblico. Sono punti che avrebbe potuto elaborare chiunque, magari Obama o altri.
Il quarto, invece, è molto caratteristico di Santorum: dobbiamo sostenere la crescita di famiglie e la generazione di figli. Dobbiamo triplicare le deduzioni perché le famiglie ritornino a generare figli.
Nel contesto di questo articolo, che, se ricordo bene, è stato scritto da lui personalmente, Santorum svolge un'osservazione che mi sono ritrovato felicissimo finalmente di poter leggere scritta da qualcuno. Se non nascono figli, chi paga i costi fissi dell'invecchiamento di un sistema economico? Do io la risposta. Prendiamo dall'anno 1975, come evocato prima, per arrivare a oggi. Sono 35-40 anni. In 35-40 anni il mondo è passato da circa 4 a 7 miliardi di persone.
Il mondo occidentale, ossia Stati Uniti ed Europa, contava 2 miliardi di persone nel 1975 e 2 miliardi oggi. Vado a memoria, ma con la quasi certezza di sbagliare di pochi punti percentuali e soprattutto sul fatto se sia il 1975 o il 1980 l'anno di riferimento. Parliamo del 1980 per semplificare. Voi ricordate, però, che il tutto nasce dalle due famose università americane, prima Stanford e poi il MIT, che escono la prima con il boom demografico e la seconda con I limiti dello sviluppo, sostenendo che prima del 2000 centinaia di milioni di persone sarebbero morte di fame.
Guai agli economisti, quando compiono tali previsioni! È successo il contrario. I Paesi asiatici, che avrebbero dovuto morire di fame, sono ormai più ricchi di noi. Sono i nuovi ricchi, però nessuno è morto di fame.
Che cosa è successo? È successo che chi non sapeva leggere ha continuato a generare figli e chi sapeva leggere, era stupido e stava diventando sempre più nichilista e si è messo a non generarne più. Negli anni Ottanta la composizione della popolazione era di circa il 25 per cento per la fascia da 0 a 25 anni, del 40 per cento da 25 a 50, e non ricordo la percentuale per la fascia 50-60 anni; ma ricordo bene che le persone in pensione con più di 65 anni di età erano il 10 per cento.
Oggi la fascia 0-25 è il 12 per cento e le persone in pensione quasi il 30 per cento. Che cosa implica ciò? È vero che la popolazione è sempre di 2 miliardi, ma è cambiata la composizione e questo ha un impatto sui ricavi e sui costi: ci sono meno persone che entrano nel mercato e producono, meno persone che si sposano, più persone che costano in termini di sanità e vecchiaia. In altri termini, aumentano i costi fissi. Come si compensano i costi fissi, se non cresce il PIL? Aumentando le tasse.
Nel 1975 le tasse in Italia sul PIL erano il 25 per cento, mentre oggi sono il 50 per cento. Questi sono i fatti. Lasciate stare il fatto che Giovanni Sartori continui a sostenere che bisogna cacciarmi via perché io invito a generare figli. Non sostengo di fare figli. Non li volete fare? Tirate la cinghia! Non pagate i vecchi. Niente figli, niente bambini: niente vecchi. Non possiamo mantenere i vecchi, se non generiamo bambini!

PRESIDENTE. Tutto ciò è molto chiaro.

MASSIMO VANNUCCI. Si può affermare che l'Europa pesava prima al 20 per cento e che oggi pesa al 7 per cento, non solo in termini demografici, ma anche in altri termini.
La ringrazio, professor Gotti Tedeschi, per il contributo. Voglio ora tornare diversa


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alle differenze tra l'exit strategy degli USA e dell'Europa. Prima della crisi c'era un basso debito pubblico americano e un forte debito privato delle famiglie americane. La caratteristica dell'Europa era diversa, come quella dell'Italia: forte debito pubblico e alto risparmio privato delle famiglie. Oggi il forte debito pubblico americano è equiparato ai nostri livelli, mentre il risparmio delle famiglie americane rimane molto basso rispetto al nostro.
Non so quanto si sia intaccato in questo periodo il risparmio privato italiano, però la domanda è la seguente: possiamo affermare che il modello economico e sociale di mercato porti lo Stato a indebitarsi al posto delle famiglie? Storicamente è stato così, in sostanza se si confrontano i due modelli.
Però, dopo la crisi, in fondo eravamo al 105-110 per cento del debito. Ora siamo al 120 per cento. Giusto? Gli americani erano al 40-50, sono al 100 per cento. La situazione delle famiglie non è mutata. Non capisco perché l'America abbia più facilità a uscire dalla crisi rispetto a noi.
Se lei mi riferisce che la ragione è la forte immissione di liquidità, allora le chiedo: a quando la seconda bolla? Questa crisi, nella sua declinazione, parte dall'apertura dei mercati, dalla globalizzazione. Pensavamo di essere più bravi in ricerca e innovazione e che, quindi, ce l'avremmo fatta. Poi ci siamo accorti che non era così e abbiamo usato la finanza per sopperire a questo problema.
Una lettura della crisi ci mostra che, in realtà, la bolla americana deriva anche da una forte riduzione del potere d'acquisto della classe media, a cui si è sopperito con un credito facile. Se prima si riusciva a farsi la casa col proprio lavoro, oggi non ce la si fa più, perché la ricchezza è distribuita diversamente. Se prima il rapporto fra un operaio e il suo direttore era di uno a dieci, oggi è di uno a cento.
Ieri la Corte dei conti ci ha comunicato che in Italia si pagano 50 miliardi di euro in più di redditi da lavoro e da profitti di impresa rispetto alla media europea. Lei non ritiene che una diversa distribuzione della ricchezza, attraverso la leva fiscale, dalle persone alle cose, e, quindi, un equilibrio del prelievo su redditi, consumi, patrimoni e rendite possa aiutare la crescita? Non ritiene che stia forse in ciò la chiave per tornare a crescere?
Più in generale, vengo, invece, alla nostra forza di esportazione. È vero che la piccola e media impresa è quella che ci salva: va nel mondo, gira, agisce anche da sola. Le abbiamo tolto l'ICI e poi le abbiamo rimesso un'imposta. Su questo mercato europeo, ancor prima di quello mondiale e globale, di circa 500 milioni di abitanti, però, la capacità dell'Italia, è assai limitata. Vedo centri commerciali da tutti i Paesi, come Auchan, Carrefour, Lidl e sigle di tutto il mondo e la nostra grande distribuzione che si accapiglia per un'area tra Coop ed Esselunga. C'è chi ha scritto un libro, Falce e carrello.
Se lei va in giro nel mondo trova un supermercato italiano che porti anche i prodotti italiani, come fanno i francesi? Sfruttiamo appieno la possibilità di questo grande mercato? Nella grande distribuzione, assolutamente no. Se lei passa i confini - io sono stato in Irlanda -, è tutto un Despar e catene francesi che distribuiscono prodotti. Gli italiani non si trovano. Forse trovare questi filoni e accompagnarli col sistema bancario nel mercato europeo, che secondo me non è sufficientemente presidiato, sarebbe importante. Grazie.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Rispondo alla sua ultima domanda e poi eventualmente anche alla prima.
Secondo me, è significativo un esempio, che le racconto. Io sono di Piacenza, come l'onorevole Polledri. Noi piacentini siamo molto orgogliosi della nostra terra. Piacenza è una città di commercianti e di bottegai. Ha avuto alcuni cicli di capacità produttiva in determinati settori, ma Milano ha svolto il ruolo di polo di attrazione molto forte.
Le regioni portarono tutti gli imprenditori di là dal Po, come diciamo noi a Piacenza, nella regione Lombardia, che


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coccola di più l'imprenditore. La regione Emilia, in periferia, verso Piacenza, lo coccola molto meno. In più, Piacenza veniva attratta dal polo pubblico di Parma, come storicamente dal Ducato di Parma e Piacenza. Maria Luigia andò a Parma e lasciò a Piacenza i soldati. Parma ha, quindi, sempre attratto da una parte e Milano dall'altra.
Piacenza è una città in cui 25.000 persone si recano ogni giorno a lavorare a Milano, tornano indietro e spendono. La ricchezza si crea sul pendolarismo. Non ci sono più imprese. L'unica impresa importante di Piacenza è la Cementi Rossi, perché produrre cemento ha una protezione chilometrica, come lei sa. Oltre questo non c'è quasi più nulla.
I bottegai eleggono il sindaco. È la lobby del commercio. A Piacenza non hanno mai fatto in modo che prendesse piede la grande distribuzione. Comunque, a Piacenza, tutte le volte in cui voleva venire la grande distribuzione, come l'Esselunga, o un centro commerciale, i commercianti scendevano in piazza. Cosa ha fatto, quindi, la grande distribuzione? Tenuto conto che Piacenza è sul confine con il Po, l'Auchan ha aperto un proprio centro al di là del Po. Tutti i giorni, le massaie, con i pullman e le macchine, vanno al di là del Po, fanno i loro acquisti e tornano. Questo è stato il problema italiano.
Sappiamo che la grande distribuzione nasce in Francia. Pensi che in Francia il 65 per cento dei prodotti cosiddetti alimentari è venduto dalla grande distribuzione. Da noi è il contrario: il 65 per cento viene venduto dalle botteghe. La grande distribuzione è tedesca e francese e nasce su due fattori di successo molto diversi fra di loro: la centrale d'acquisto e il numero di punti di distribuzione. L'aspetto che conta, però, è la centrale d'acquisto. Ormai superare la centrale d'acquisto di Carrefour o di Metro è impossibile. Comprano più di tutto il consumo italiano e, quindi, è impensabile superarli in questo momento. Non ce la faremo mai.
Noi abbiamo avuto un'impresa di grande distribuzione, che addirittura apparteneva allo Stato, la SME. Ve la ricordate? Poi abbiamo compiuto alcuni «pasticci». Adesso la grande distribuzione in Italia sta diventando sempre più straniera. La stanno comprando gli stranieri. La distribuzione italiana diventerà grande, ma perché si connetterà con i grandi gruppi stranieri. Non c'è nulla da fare. Ci sono attività che non sappiamo svolgere o perlomeno che potevamo saper svolgere nella storia economica italiana.
L'onorevole Tabacci se ne ricorderà. Per esempio, in Italia l'elettrodomestico, che per un periodo lunghissimo di tempo stava diventando il settore emergente, soprattutto nel settore dell'elettronica, è stato bloccato e messo da parte, in quanto bisognava sostenere un altro settore che veniva considerato trainante per l'economia e invece non lo era più: quello dell'automobile.
La politica è entrata nel gioco, ha bloccato lo sviluppo del settore dell'elettrodomestico, facendo fallire la Zanussi, e ha promosso la FIAT, facendola fallire dopo un po' di tempo. Quando la politica decide di attuare una politica industriale, fa saltare il sistema. La politica faccia la politica. Lasci che gli industriali facciano gli industriali. Lasci che il mercato operi. Lo regolamenti, lo controlli, ma non si metta a fare il managing director delle banche, né delle imprese.

ROBERTO SIMONETTI. La ringrazio per questa audizione. Ho una domanda molto semplice, non avendo le sue capacità. Chiedo se, nel fattore di sviluppo delle piccole e medie imprese, vede una suddivisione macroregionale d'intervento in funzione della presenza o meno di un'economia duale all'interno dell'unità nazionale.
Cogliendo un riferimento nel suo discorso sull'euro le chiedo se sia stata positiva o negativa l'entrata nella moneta unica da parte del sistema italiano ed europeo.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Credo che ci siano alcune regioni particolari. Il Veneto,


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per esempio, è ormai una regione integrata con la Germania. È quasi come se fosse una stessa regione. Ci sono regioni che per natura hanno vocazioni produttive e capacità competitiva. Sicuramente tali differenze esistono già in maniera naturale.
L'Emilia è una regione composta da piccole e medie imprese straordinarie ed eccellenti. In Emilia si trovano leader mondiali in settori molto di nicchia, che nessuno riesce a superare. C'è un genio italico dell'imprenditore, secondo me, che non abbiamo mai voluto riconoscere e cercare. L'abbiamo sempre disprezzato e non so per quale ragione.
Comunque, la risposta è sì. Sicuramente a livello regionale ci sono alcuni casi. Le porto alcuni esempi di come ogni regione ha una logica storica della sua nascita. Per esempio, il Piemonte è sempre stato molto legato all'automobile. Una grandissima parte dell'indotto piemontese era relativa all'automobile. Le grandi famiglie imprenditoriali del Piemonte erano settori di supporto o di indotto dell'automobile, ovviamente.
La Lombardia è sempre stata votata all'industria meccanica avanzata e all'acciaio. La Lombardia è Nord Europa. Centocinquant'anni fa, facendo l'Italia, abbiamo definito che l'Italia era già spaccata, che lo si voglia riconoscere o meno.
I francesi, che hanno aiutato il Risorgimento, hanno chiesto la concessione per costruire strade ferrate solo nel Nord Italia. Non sono mai andati sotto l'Emilia, perché non gliene importava nulla. Allora si pensava di integrare il Nord Italia con l'Europa e costituire una grande area. Ciò non è avvenuto, ovviamente, grazie a Dio, però il tentativo c'è stato. Il tentativo francese di acquisire il Nord Italia c'è sempre stato. Non dimentichiamocelo. Le grandi banche francesi nascono per finanziare il Risorgimento italiano. Questa considerazione non è anti-Risorgimento. È scritto nei libri di economia, non di storia. È economia.
Indubbiamente da noi esiste un problema di dualismo tra le regioni, senza alcun dubbio, che necessita di un intervento adeguato.
Vengo all'euro. Nell'ultimo incontro del G20 si è deciso di sostenere l'euro implicitamente, e lo si vede. Il salvataggio della Grecia è il salvataggio dell'euro, alla fine. È in ritardo, è stolto, è compiuto malissimo, è costosissimo. Avremmo potuto attuarlo mille volte meglio tanto tempo fa, però non sappiamo quali sono le trattative che si sono svolte a porte chiuse. Per lo meno non le conosco io. Le posso immaginare, però non le conosco.
Il presidente Giorgetti ne è consapevole, io no. Immagino che prendere alcune decisioni, come salvare la Grecia o meno, tentennando per tanto tempo, sia una materia di discussione, in cui si trattano tantissime questioni, ma questo è un fatto noto.
Per entrare nell'euro abbiamo trattato tutto. Per essere accettati nell'euro abbiamo venduto tutto. Ci mancava solo che vendessimo l'anima. Non mi sembra straordinario pensare che ci siano trattative sulla costituzione di un'Europa che lascia immaginare che ci saranno alcune primogeniture.
Si sta creando un azionariato in cui qualcuno avrà più o meno peso. È normale. Come facciamo a illuderci che non sia così? L'euro, secondo me, si mantiene e sta in piedi.

MASSIMO POLLEDRI. La «bolla» degli Stati Uniti nasce dall'allontanare il rischio dall'investimento: più si allontana il rischio, più si guadagna. Lei aveva accennato alla banca d'affari e alla banca di investimenti che sono rimaste. Non ci sono regole oggi. Ci sarà qualcuno a cui conviene introdurre una regola? Questa è la prima domanda.
La seconda domanda riguarda la governance. Si sta riequilibrando l'Europa. Ormai con il Fiscal Compact lo Stato conterà poco anche dal punto di vista del bilancio. Oggi lo Stato può contare come potere politico, come Parlamento, per circa un 20 per cento. C'è un 30 per cento di potere che passa alle regioni e il resto viene dall'Europa. Come vede questo nuovo tipo di governance?


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La terza questione è legata all'ultima manovra. Secondo i dati che sono stati diffusi, l'Italia era il Paese che aveva i conti messi meglio, nel rapporto tra PIL e debito. È stato affermato che, se non avessimo varato questa manovra, lo spread non si sarebbe ridotto. In realtà, lo spread era alto perché c'era una massa di debito più alta. L'ultima manovra ha impattato per almeno lo 0,5 per cento sul PIL, tassando anche la casa. Era veramente necessaria questa manovra o si poteva evitare?

PRESIDENTE. Per rispettare il termine delle 10,30, con riferimento alle domande di Polledri, credo possa soffermarsi sulla seconda, che mi sembra interessante.

MASSIMO POLLEDRI. La seconda è sulla governance europea. Ormai col Fiscal Compact Act il Parlamento incide poco. Dal Parlamento passa un 20-30 per cento di decisioni sullo Stato, mentre il 30 passa dalle regioni, che sono messe peggio del Parlamento, secondo me, e il resto dall'Europa. Questo è il nuovo assetto.

ETTORE GOTTI TEDESCHI, Presidente della Santander Consumer Bank. Credo che non sia una novità. Quando abbiamo fatto l'euro, abbiamo rinunciato alla gestione dell'economia del Paese. Mi ricordo le domande che si ponevano a Tremonti, quando gli si chiedeva che cosa potesse fare un ministro del tesoro, che spazio di manovra avesse? Può ridurre i costi, le tasse, ma non può più compiere alcun tipo di intervento sulla valuta e sui tassi. Non può fare nulla.
Sapete che ho una grandissima stima per Tremonti. Prescindendo dal suo carattere, considero Tremonti una persona che ha dato un valore enorme al Paese con il suo operato. Tremonti ha concepito che in Italia soprattutto, con un sistema bancocentrico molto indebitato, e con le piccole e medie imprese, per fare politica economica bisognasse creare un'alleanza tra la politica economica gestita dal Ministero dell'economia e delle finanze e quella della Banca d'Italia. Se non si può attuare politica creditizia, diventa impossibile attuare la politica economica.
Ricordate il famoso barattolo della Cirio sul tavolo di Tremonti. Se la politica creditizia non può accompagnare la politica economica, ormai un Paese non può più far nulla. Non ha più gli strumenti a sua disposizione. Questi sono tutti in Europa e, in più, adesso lo è anche la politica creditizia, perché è la BCE che decide a chi si eroga credito, come, quanto e in che tempi. Noi abbiamo consegnato ad altri la gestione economica del Paese, che non vuole essere soltanto una gestione economica, perché è anche una gestione di legittimità, di leggi.
Ricordate il Trattato di Nizza, quando si parlava delle leggi sulla morale? Se in un Paese non si interpretano le cosiddette leggi morali come vuole l'Europa, gli vengono sottratti gli strumenti di carattere economico, lo prendono per la gola o per fame.
Noi ci siamo consegnati a un'Europa che legifererà persino sul fatto che possiamo andare a messa o no la mattina o la domenica. L'Europa ha lo strumento dell'economia e con esso governerà anche la morale e la coscienza.
Non ci credo, ovviamente. Non praevalebunt, però il tentativo è in atto.

PRESIDENTE. Grazie per questa testimonianza di estremo interesse. Credo che siano momenti veramente qualificanti nella nostra attività parlamentare.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10,30.

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