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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
15.
Giovedì 15 marzo 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011) 815 DEFINITIVO)

Audizione di rappresentanti della Banca d'Italia:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 10 12 16 19 22
Bitonci Massimo (LNP) ... 12
Cambursano Renato (Misto) ... 11
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 18
Gobbi Giorgio, Titolare della Divisione struttura e intermediari finanziari del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia ... 14 21
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 10
Magnani Marco, Capo del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia ... 3 12 19
Marchi Maino (PD) ... 18
Nannicini Rolando (PD) ... 17
Simonetti Roberto (LNP) ... 16
Vannucci Massimo (PD) ... 16
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

[Indietro]
COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 15 marzo 2012


Pag. 3


...
Audizione di rappresentanti della Banca d'Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione - Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione di rappresentanti della Banca d'Italia.
Sono presenti il dottor Marco Magnani, capo del Servizio studi di struttura economica e finanziaria, il dottor Giorgio Gobbi, titolare della Divisione struttura e intermediari finanziari del Servizio studi di struttura economica e finanziaria, e la dottoressa Paola Ansuini, titolare della Divisione comunicazione e stampa della segreteria particolare.
Do la parola al dottor Marco Magnani, ringraziandolo per aver accettato il nostro invito.

MARCO MAGNANI, Capo del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia. Grazie, presidente. L'Analisi annuale sulla crescita per il 2012 della Commissione europea individua i principali ambiti d'intervento di una politica per rafforzare le prospettive di crescita dell'Unione in un contesto di estrema difficoltà, segnato dagli effetti non ancora sopiti della crisi finanziaria internazionale e da quelli, ancora ben vivi, della crisi dei debiti sovrani in Europa. Il lento processo di riforma della governance europea innescato dalla crisi non si è ancora concluso.
Le cinque priorità che nel documento si indicano riprendono la Strategia Europa 2020 e gli obiettivi che si sono andati definendo nel corso dell'azione di riforma della governance, ossia - cito testualmente le righe relative del documento della Commissione - «portare avanti un risanamento di bilancio differenziato e favorevole alla crescita, ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia, promuovere la crescita e la competitività nell'immediato e per il futuro, lottare contro la disoccupazione e le conseguenze sociali della crisi, modernizzare la pubblica amministrazione». Queste priorità sono da noi sinteticamente esaminate in una prospettiva italiana, facendo riferimento agli interventi varati dal Governo dalla metà dello scorso anno e alle analisi svolte dalla Banca d'Italia su questi temi.
Iniziando dal quadro macroeconomico, l'analisi della Commissione sottolinea come la debolezza del quadro congiunturale rafforzi l'urgenza di agire. Le difficoltà di crescita delle economie europee sono oggetto da tempo di riflessione e la crisi del debito sovrano e il rallentamento del commercio mondiale le hanno accentuate.


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Nel quarto trimestre dell'anno scorso l'attività economica nell'area dell'euro si è contratta dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente. Nonostante la lieve flessione dell'esportazione, l'interscambio con l'estero ha continuato a sostenere la dinamica del PIL. La domanda interna si è ulteriormente indebolita, ma i segnali congiunturali sono divenuti meno sfavorevoli nei primi mesi di quest'anno. Questo è un dato che rivedremo anche con riferimento alla situazione italiana.
In assenza di shock negativi, si stima che l'attività economica dell'area tornerebbe ad accelerare gradualmente nel corso della seconda metà di quest'anno. Secondo le recenti proiezioni dello staff della Banca centrale europea, l'aumento si colloca tra lo 0 e il 2,2 per cento nella media del 2013. Come sapete, la Banca centrale europea fornisce previsioni solo con lo strumento di una forchetta previsiva.
Il lento recupero continuerebbe a risentire dei piani di consolidamento dei bilanci pubblici e privati e delle avverse condizioni di finanziamento in molti Paesi e la domanda mondiale rimarrebbe il fattore di espansione principale. Questo è il quadro che caratterizza, a grandi linee, l'area dell'euro.
Nel nostro Paese, la situazione congiunturale è, però, più debole. Nel quarto trimestre dello scorso anno, il PIL ha registrato una diminuzione dello 0,7 per cento rispetto al trimestre precedente - e in estate era già diminuito dello 0,2 per cento - comprimendo l'incremento medio annuo allo 0,4 per cento. La contrazione proseguirebbe anche nel primo trimestre di quest'anno, soprattutto per la perdurante debolezza della produzione manifatturiera, che rimane ancora di circa il 20 per cento al di sotto dei livelli precedenti la crisi.
In febbraio il clima di fiducia delle imprese italiane è ulteriormente peggiorato, ma anche da noi le attese a breve termine sono divenute meno sfavorevoli. In particolare, le valutazioni delle famiglie, pur restando pessimistiche, appaiono ora in miglioramento, anche se la domanda interna rimane estremamente debole. Le prospettive della domanda estera sono incerte.
Come è noto, le peggiori condizioni macroeconomiche dell'Italia rispetto a quelle degli altri maggiori Paesi dell'area dipendono, oltre che dai fattori strutturali che frenano la crescita della nostra economia ormai da un quindicennio, fattori su cui ci soffermeremo meglio in seguito, dai più forti effetti scaturiti dalla crisi del debito sovrano.
All'aumento del premio per il rischio sui nostri titoli di Stato il Governo ha risposto approvando, nella seconda metà dell'anno scorso, ingenti misure di correzione del bilancio pubblico, da ultimo in dicembre, con il decreto-legge n. 201 del 2011. Dai picchi raggiunti in novembre, con 575 punti base, lo spread sui titoli decennali tedeschi è sceso a circa 300 punti nei giorni scorsi.
Il Bollettino economico della Banca d'Italia lo scorso gennaio ha presentato due diversi scenari previsivi. Nel secondo scenario, più favorevole, si assumeva, come finora avvenuto, un parziale riassorbimento delle tensioni sui mercati, con uno spread rispetto ai titoli decennali tedeschi pari a 300 punti base e con una moderata attenuazione delle condizioni restrittive nell'offerta di credito.
Sotto questa ipotesi l'attività economica si ridurrebbe di circa l'1,5 per cento quest'anno, per poi tornare a crescere nel 2013 a un ritmo di poco inferiore all'1 per cento. Nel 2013 verrebbe conseguito il pareggio del bilancio pubblico e inizierebbe a flettere il rapporto debito-PIL.
Un fattore cruciale, come indicato nello stesso documento della Commissione, per scongiurare un'ulteriore flessione dei livelli di attività risiede nella capacità di evitare nuove restrizioni all'erogazione del credito. Dalla metà del 2011 le condizioni dei mercati del credito nell'area dell'euro e in Italia sono state condizionate in misura determinante dall'evoluzione della crisi dei debiti sovrani.
Dopo una prima parte dell'anno caratterizzata da un ampio ricorso da parte delle banche europee ai mercati della provvista


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all'ingrosso, la diffusione della crisi del debito sovrano alla Spagna e all'Italia si è riflessa in un brusco peggioramento delle condizioni di raccolta. Alcuni segmenti del mercato si sono completamente inariditi. Nei mercati ancora funzionanti sono significativamente aumentati i costi di finanziamento.
Anche per le banche italiane, dalla scorsa primavera, il mercato della provvista a breve termine in dollari e quello obbligazionario non garantito si sono contratti. Sebbene i depositi da residenti e il collocamento di obbligazioni presso la clientela siano rimasti stabili, escludendo le operazioni di rifinanziamento presso l'Eurosistema, la raccolta complessiva ha progressivamente decelerato, fino a registrare variazioni negative da novembre. Nell'intero 2011 si è ridotta del 2,8 per cento.
Le difficoltà di raccolta si sono trasferite rapidamente alle condizioni del credito. In dicembre e nuovamente alla fine dello scorso febbraio, a fronte dell'acuirsi delle tensioni finanziarie, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha varato nuove misure di sostegno alla liquidità delle banche e alla loro attività di prestito. Con le due operazioni di finanziamento di durata triennale, l'Eurosistema ha fornito alle banche dell'area liquidità per oltre mille miliardi di euro. Tenendo conto del minore volume di fondi erogati in altre operazioni, l'aumento netto dei finanziamenti ha superato i 500 miliardi di euro.
L'immissione di liquidità ha consentito di evitare che si materializzasse il rischio concreto in Italia, come in altri Paesi dell'area dell'euro, di una massiccia contrazione dei prestiti, aggravando la fase ciclica negativa. Nel nostro Paese, in particolare, gli interventi straordinari hanno consentito di ridurre significativamente lo stretto legame che si era creato tra il rischio sovrano e il costo e la disponibilità di provvista bancaria.
Le misure straordinarie di politica monetaria hanno rimosso un grave ostacolo al buon funzionamento del sistema del credito originato da cause esterne al sistema bancario italiano. Vi sono, tuttavia, altri fattori che incidono negativamente sulla capacità degli intermediari di erogare finanziamenti. La crisi dei debiti sovrani è, infatti, l'ultima tappa di un lungo periodo di instabilità che ha preso avvio nel 2007. In questi anni il sistema bancario italiano si è dimostrato solido e in grado di assorbire perturbazioni anche di forte intensità, grazie anche agli aumenti dei coefficienti patrimoniali realizzati in condizione di mercato assai difficili.
La capacità delle banche italiane di alimentare il capitale attraverso l'autofinanziamento trova, però, un limite in modesti margini reddituali, a cui contribuiscono in misura significativa le perdite sui crediti.
Tra il 2008 e il 2011 i prestiti in condizione di anomalia, che includono, oltre a quelli in sofferenza e in situazione di incaglio, anche quelli ristrutturati, scaduti o sconfinanti, sono aumentati da 85 a 192 miliardi e costituiscono oggi l'1,8 per cento del totale. Per i finanziamenti alle imprese la quota è pari al 14,9 per cento, per quelli alle aziende con meno di venti addetti è del 15,8 per cento.
Nel biennio 2009-2010 le perdite e gli accantonamenti determinati dal deterioramento della qualità del credito sono stati pari a più di 26 miliardi, la metà del reddito operativo, e i tassi di insolvenza permangono elevati.
Il ritorno, seppur graduale, a livelli di rischiosità dei prestiti in linea con quelli registrati prima dell'inizio della crisi economica e finanziaria è un presupposto necessario per migliorare le condizioni di accesso al credito per le imprese, soprattutto per quelle di minore dimensione.
Vengo a una delle aree indicate nel documento della Commissione, quella concernente il consolidamento dei conti pubblici.
La capacità dei Paesi europei di riprendere un sentiero di crescita soddisfacente dipende in misura cruciale dalle riforme avviate a livello sia europeo, sia nazionale. La crisi dei debiti sovrani ha reso manifesti i limiti della governance dell'area dell'euro. Si è posta in passato insufficiente


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attenzione agli squilibri macroeconomici di alcuni Paesi e soprattutto non si sono sapute assicurare politiche di bilancio prudenti. È ora essenziale accelerare ulteriormente le iniziative di riforma della governance. Soprattutto per i Paesi più coinvolti dalla crisi non sono possibili durature prospettive di crescita senza Piani credibili di consolidamento delle finanze pubbliche.
Il documento della Commissione riconosce l'importanza delle azioni intraprese da diversi Paesi finalizzate a ridurre gli squilibri nei conti pubblici. Esso sottolinea parimenti la necessità di attuare strategie differenziate che tengano conto della diversità dei rischi di bilancio e macrofinanziari cui sono esposti i diversi Paesi. Vengono, al contempo, indicate alcune linee guida nella definizione delle misure di risanamento volte ad attenuare il loro impatto, inevitabilmente recessivo nel breve termine, e a favorirne il ritorno a livelli di crescita più sostenuti nel medio periodo.
Larga parte dell'aggiustamento dovrà avvenire attraverso il contenimento della spesa, la cui dinamica è stata assoggettata a nuovi vincoli nell'ambito delle regole europee contenute nel six pack.
Per quanto riguarda le entrate, la Commissione raccomanda un più stretto coordinamento delle politiche fiscali per gli Stati membri. I sistemi impositivi dovrebbero essere rivisti in modo da aumentarne l'efficienza, l'efficacia e l'equità. Le basi imponibili dovrebbero essere ampliate e, ove possibile, ridotte le aliquote fiscali. L'attività di riscossione dovrebbe essere potenziata e la lotta all'evasione e all'elusione fiscale dovrebbe essere rafforzata anche grazie a una maggiore cooperazione tra gli Stati membri.
Su queste linee si è mosso il Governo italiano. L'azione di risanamento dei conti pubblici è stata decisamente rafforzata nell'estate del 2011, a seguito delle forti tensioni sul mercato dei titoli di Stato, con due manovre correttive ed è poi culminata nel decreto n. 201 del 2011.
L'indebitamento netto nel 2011 è ulteriormente diminuito al 3,9 per cento del PIL, dal 4,6 del 2010. Il risultato riflette principalmente il forte calo dell'incidenza della spesa primaria sul PIL per circa un punto percentuale, dal 46,6 per cento nel 2010, che ha più che compensato l'aumento della spesa per interessi, mentre le entrate in rapporto al prodotto sono rimaste stabili.
Per il secondo anno consecutivo la spesa primaria si è lievemente ridotta anche in termini nominali, di mezzo punto percentuale in ciascun anno, arrestando l'aumento continuo dei precedenti cinquant'anni. Il rapporto tra il debito e il PIL è aumentato nel 2011 dal 118,7 al 120,1 per cento, un incremento inferiore a quello stimabile in media per gli altri Paesi dell'area dell'euro.
Nel complesso le tre manovre approvate nella seconda metà del 2011 determinano una correzione pari al 3 per cento del prodotto nel 2012 e al 4,7 per cento in media l'anno nel 2013 e nel 2014. L'aggiustamento è prevalentemente realizzato attraverso aumenti di entrate che porteranno la pressione fiscale ai livelli più elevati dal secondo dopoguerra. I risparmi di spesa, che aumenteranno gradualmente nei prossimi anni, si aggiungono a quelli disposti con la manovra triennale dell'estate del 2010 e assicurano, nelle valutazioni del Governo, la stabilità delle erogazioni primarie nel biennio 2012-2013.
Come sottolineato dalla Commissione, per imprimere forza alla crescita e assicurare una maggiore equità è necessario, compatibilmente con l'equilibrio dei conti pubblici, ridurre il carico sui redditi da lavoro e di impresa. Il cuneo fiscale supera in Italia la media degli altri Paesi dell'area dell'euro di circa 5,5 punti percentuali. L'aliquota legale della tassazione del reddito d'impresa, pur escludendo l'IRAP, supera di circa 4 punti quella media dei medesimi Paesi.
Le misure approvate a partire dall'estate scorsa muovono nella direzione di ridurre il carico della tassazione sui fattori produttivi, modificando la composizione delle entrate in senso più favorevole alla crescita. Nel medio periodo, il livello attuale dei rendimenti dei titoli di Stato e un


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avanzo primario dell'ordine di 5 punti percentuali del PIL, qual è oggi nelle previsioni del Governo, consentirebbero di ridurre il rapporto tra il debito e il prodotto in linea con quanto richiesto dalle nuove regole di governance europea, anche in presenza di una modesta crescita reale del prodotto, una crescita pari all'1 per cento. Anche in questa ipotesi il rapporto verrebbe ridotto in linea con le regole.
Per assicurare piena attuazione alle misure già approvate per il contenimento delle erogazioni occorre procedere rapidamente con l'opera avviata di sistematica revisione della spesa pubblica, la cosiddetta spending review, al fine di individuare le aree nelle quali è possibile conseguire risparmi e realizzare un diffuso miglioramento dell'efficienza dell'amministrazione pubblica.
Veniamo ora alle politiche strutturali per la crescita descritte e sintetizzate nel documento della Commissione.
Come menzionato in apertura, il documento dalla Commissione europea indica fra gli ambiti prioritari per le politiche strutturali gli interventi diretti a elevare l'efficienza e la competitività del sistema economico e a modernizzare l'amministrazione pubblica. Sebbene gli effetti delle linee di riforma possano essere in molti casi lenti a maturare, un loro credibile avvio può aiutare anche nell'immediato. Un mutato quadro di aspettative favorirebbe, infatti, fin da subito, l'attività di investimento e la spesa privata anche delle famiglie.
È stato più volte sottolineato come la scarsa concorrenza deprima i livelli produttivi e occupazionali di molti settori e riduca la competitività e la capacità innovativa dell'intero sistema produttivo. In questo quadro la liberalizzazione dei settori, soprattutto dei servizi, in cui gli ostacoli alla concorrenza sono più forti, è obiettivo essenziale da perseguire. La definizione di un più favorevole contesto istituzionale per le attività delle imprese dipende in misura essenziale dal funzionamento del sistema di regolamentazione e dalla qualità di taluni servizi garantiti dell'amministrazione pubblica.
Gli obiettivi da cogliere sono maggiore stabilità e certezza del quadro normativo, semplificazione della regolamentazione amministrativa, correzione del malfunzionamento della giustizia civile.
Veniamo a tre comparti di analisi che riguardano le politiche strutturali che ho descritto in maniera generale.
Il primo riguarda la concorrenza nel comparto dei servizi. Per le loro caratteristiche tecnologiche, ma anche in conseguenza di scelte istituzionali del passato, diversi comparti dei servizi dell'industria a rete beneficiano di ampi margini di protezione dalla concorrenza, con effetti negativi sulla performance economica. Su questo vi è un'ampia evidenza disponibile nel documento che abbiamo depositato, su cui non mi soffermo.
Con la manovra fiscale dell'agosto dello scorso anno è stato avviato un programma di liberalizzazioni culminato con il decreto-legge n. 1 del 2012. Sono state, inoltre, introdotte norme di carattere generale per ridurre le restrizioni ingiustificate all'accesso e allo svolgimento di attività economiche presenti nella regolamentazione statale, regionale e degli enti locali minori. Per assicurare l'effettiva attuazione di tali princìpi a livello locale sono stati rafforzati i poteri dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Tali misure dovrebbero, tra l'altro, assicurare una maggiore adesione delle normative regionali alle previsioni della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, la cosiddetta direttiva Bolkestein, menzionata esplicitamente nella nota della Commissione. Nel recepire la direttiva, le regioni hanno, infatti, mantenuto numerosi regimi autorizzativi, giustificandoli con la presenza di motivi imperativi di interesse generale.
Nel complesso le misure introdotte costituiscono un importante passo nella direzione di aumentare il grado di concorrenza nei settori protetti. Occorre proseguire sulla strada tracciata, assicurando innanzitutto l'efficacia e la tempestiva


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emanazione delle norme attuative richieste dalla gran parte dei provvedimenti adottati e garantendo continuità al processo di liberalizzazione, utilizzando lo strumento della legge annuale sulla concorrenza.
Quanto alla modernizzazione dell'amministrazione pubblica, gli indicatori disponibili di confronto internazionale forniscono una valutazione alquanto negativa del funzionamento dell'amministrazione pubblica nel nostro Paese. Vi contribuiscono, pur con rilevanti differenze tra amministrazioni centrali e tra enti locali, numerosi fattori: la complessità, l'elevata mutevolezza e la scarsa attenzione ai profili di efficienza della normativa, sia di quella che regola l'attività di impresa, sia di quella che regola il funzionamento delle amministrazioni, la ridondanza di strutture organizzative, l'ancora insufficiente impiego delle tecnologie dell'informazione.
I più recenti interventi di riforma del settore pubblico sono stati tesi prevalentemente all'innalzamento dei livelli di efficienza dell'azione amministrativa attraverso il contrasto all'assenteismo e l'introduzione di meccanismi di misurazione, valutazione e trasparenza delle amministrazioni pubbliche, la cosiddetta «riforma Brunetta».
Le misure di riduzione dell'assenteismo hanno consentito di raggiungere gli obiettivi perseguiti. Posso aggiungere che, secondo recenti analisi che stiamo svolgendo in Banca d'Italia, questo effetto benefico sul tasso di assenteismo, in una coppia in cui una persona lavora nel settore pubblico e l'altra nel settore privato, si estenderebbero anche al partner che lavora nel settore privato, non nella stessa misura, ma in misura significativa.
Nel corso degli ultimi anni sono stati realizzati numerosi interventi volti a semplificare le procedure amministrative e a ridurre gli oneri a carico delle imprese. Tra gli interventi di maggior rilievo si segnalano il progetto di misurazione e riduzione degli oneri amministrativi, recentemente esteso agli enti locali, la riforma dello sportello unico per le attività produttive, gli interventi di semplificazione finalizzati a facilitare l'avvio delle attività imprenditoriali.
Il decreto-legge in materia di semplificazioni recentemente varato si inserisce nel solco di queste riforme, prevedendo disposizioni di carattere generale finalizzate alla riduzione della durata dei procedimenti amministrativi e al miglioramento della qualità della regolazione delle attività di impresa, nonché un'ampia serie di misure specifiche di riduzione degli oneri amministrativi stessi.
Arriviamo a un punto specifico, particolarmente rilevante per il nostro Paese. Le carenze della giustizia civile costituiscono uno degli elementi di maggiore criticità del quadro istituzionale dell'economia, incidendo negativamente su numerosi aspetti del funzionamento del sistema economico: riducono la disponibilità e aumentano il costo del credito, deprimono gli investimenti, soprattutto nei settori innovativi, ostacolano l'ampliamento dei mercati e la crescita delle imprese. La giustizia civile italiana, inoltre, si caratterizza per una durata dei procedimenti molto superiore a quella delle economie avanzate e di molti Paesi in via di sviluppo.
Da anni è in corso un intenso processo di riforma. In una prima fase esso ha riguardato in misura prevalente gli aspetti procedurali e successivamente si è opportunamente concentrato su elementi di natura organizzativa e su misure finalizzate a ridurre la domanda di giustizia.
Nella scorsa estate, con l'obiettivo di accrescere l'efficienza dei tribunali, sono stati adottati provvedimenti di grande rilievo, che prevedono, da un lato, l'introduzione di un sistema di incentivi per i dirigenti e per gli uffici giudiziari e, dall'altro, la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari per raggiungere economie di scala e specializzazione.
Ulteriori misure, volte a favorire la specializzazione dei giudici in materie economiche, sono contenute nel decreto-legge n. 1 del 2012, con la creazione dei cosiddetti tribunali per le imprese, ai quali è


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attribuita la competenza su alcune tipologie di controversie rilevanti per l'attività d'impresa.
Con l'obiettivo di ridurre la domanda di giustizia, favorendo la composizione stragiudiziale delle controversie, è stata introdotta la cosiddetta media-conciliazione. Per alcune tipologie di controversie civili e commerciali è previsto che le parti, prima di poter ricorrere in giudizio, debbano esperire obbligatoriamente il tentativo di conciliazione.
I dati relativi ai primi mesi di funzionamento della media-conciliazione non sono, tuttavia, pienamente soddisfacenti e segnalano come l'introduzione di questo strumento, pure importante, non possa essere di per sé risolutivo. Per ridurre strutturalmente la domanda di giustizia appaiono necessari interventi che attenuino gli incentivi per gli avvocati derivanti dalla regolamentazione e dalle condizioni del mercato dei servizi legali a intentare nuove cause e a protrarre la durata dei giudizi. Sotto questo aspetto, la recente abolizione delle tariffe prevista dal decreto sulle liberalizzazioni dovrebbe favorire una semplificazione della struttura dei compensi e ridurre gli incentivi distorti del sistema di remunerazione in precedenza previsto.
Il processo di riforma della giustizia civile è stato finora condizionato dalle carenze di informazioni adeguate sulla distribuzione delle risorse, sul loro utilizzo e sui risultati conseguiti. Ciò rende difficile la definizione, l'attuazione e la valutazione successiva degli interventi di riforma. La costruzione di un sistema informativo certo e affidabile deve, quindi, rappresentare una priorità assoluta.
Veniamo ora alle politiche per l'occupazione e l'inclusione sociale, che sono una parte importante del documento della Commissione.
La Strategia Europa 2020 fissa due obiettivi specifici per il 2020: un tasso di occupazione delle persone tra i 20 e i 64 anni nell'Unione pari al 75 per cento e una riduzione di almeno 20 milioni del numero di persone a rischio di povertà o esclusione sociale.
Nell'ambito del Programma nazionale di riforma dello scorso anno, l'Italia ha fissato i corrispondenti traguardi nazionali in un tasso di occupazione del 67-69 per cento, dal 61,7 del 2009, e in una riduzione di 2,2 milioni del numero di persone a rischio di povertà, stimato in 14,8 milioni nel 2009.
L'evoluzione recente, segnata dalla difficile situazione congiunturale europea, non ha registrato progressi verso il raggiungimento di questi obiettivi. Nella media dei primi nove mesi del 2011, il tasso di occupazione della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni è sceso in Italia al 61,2 per cento, mezzo punto percentuale sotto il livello del 2009.
Come nell'insieme dell'Unione europea, ma in maniera più pronunciata in Italia, la caduta del tasso di occupazione non ha riguardato le classi di età più anziana ed è stata maggiore tra i più giovani.
L'andamento calante dei tassi di occupazione si è riflesso, nel 2010, in un aumento della quota di persone con meno di 60 anni che vivono in una famiglia a bassa intensità di lavoro. Analogamente a quanto registrato nell'Unione nel suo complesso, si è così invertita una tendenza al miglioramento che proseguiva dal 2004. L'indicatore di grave deprivazione materiale non ha, tuttavia, registrato mutamenti di rilievo e, nel 2010, la quota di persone a rischio di povertà economica è leggermente scesa, al 18,2 per cento. La quota di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale, che sintetizza i tre precedenti indicatori che ho menzionato, è anch'essa diminuita nel 2010 al 24,5 per cento. In valore assoluto, la misura che più rileva ai fini della strategia europea, la diminuzione è stata pari a quasi 100.000 persone. Questa diminuzione è, peraltro, troppo contenuta, se proiettata sull'intero decennio, per conseguire l'obiettivo prefissato.
Nonostante la forte caduta delle attività produttive dal 2007 e un valore del reddito disponibile reale delle famiglie ancora inferiore di quasi il 6 per cento rispetto al massimo raggiunto prima della crisi, non si è avuto un peggioramento degli indici di


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povertà. L'Italia rimane, tuttavia, tra i Paesi in cui è più alta l'incidenza dell'esclusione sociale e, quindi, è importante conseguire più elevati tassi di crescita dei redditi familiari congiuntamente a una loro più equa ripartizione.
Un significativo incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro può dare un importante contributo in questa direzione. Nel 2010, il tasso di occupazione femminile era in Italia pari al 46 per cento, contro una media del 58 per cento nell'Unione, con amplissimi divari tra il Nord e il Sud del Paese.
Tra gli interventi possibili rientrano sia quelli per la conciliazione tra lavoro e responsabilità familiari attraverso la fornitura di servizi di cura o l'introduzione di voucher già positivamente sperimentata in altri Paesi europei, sia azioni volte a migliorare il disegno delle imposte e dei trasferimenti in relazione ai carichi familiari, eliminando i disincentivi all'occupazione delle donne sposate, impliciti anche in un sistema di imposizione individuale apparentemente neutrale come quello vigente in Italia.
Mi avvio rapidamente alle conclusioni, sintetizzando quanto affermato dalla Commissione europea sulla base dell'analisi svolta e sull'operato del Governo italiano in quest'ultimo anno.
Il documento della Commissione europea illustra gli ambiti principali su cui si devono concentrare le politiche economiche dell'Unione europea e degli Stati nazionali per consolidare i bilanci pubblici e rafforzare le prospettive di crescita, elevando l'efficienza e la competitività del sistema economico. La crisi dei debiti sovrani e il rallentamento del commercio internazionale rendono gli interventi ancora più urgenti, a livello sia europeo, sia nazionale. L'avvio delle riforme del sistema di governance europea si iscrive in questo contesto.
Le misure varate dal Governo italiano dall'estate scorsa si muovono nel solco indicato dalla Commissione europea. La correzione dei conti pubblici, da ultimo con il decreto Salva Italia, si fonda in larga parte su interventi strutturali. Sono state varate riforme volte ad accrescere la concorrenza nei settori, in particolare in quello dei servizi, in cui esistono ampi margini di protezione della concorrenza con effetti negativi sulla performance economica. Sono stati realizzati interventi per migliorare il funzionamento della pubblica amministrazione e ridurre gli oneri a carico delle imprese e si è avviato un processo di riforma per accrescere l'efficienza della giustizia civile.
Occorre ora dare piena attuazione alle riforme varate. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie per la relazione.
Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIORGIO LA MALFA. Posso affermare, molto francamente, che questa relazione della Banca d'Italia, per quanto, come sempre, puntuale, è particolarmente deludente, se si considera che il problema italiano è un problema, per dichiarazioni a suo tempo rilasciate dall'allora Governatore della Banca d'Italia Draghi, che assume connotati di particolare gravità.
Draghi sostenne fin dall'inizio del suo mandato che l'Italia dall'inizio degli anni Novanta non cresceva più. La fine della crescita italiana può essere collocata, dunque, nel 1992-1993 o nel 1998-1999, a seconda dei punti di vista. Comunque, sono ormai dieci anni che il Paese va male.
Emerge anche da questi dati che l'Italia ha subìto una caduta del reddito quest'anno più forte di qualunque altro Paese dell'area dell'euro, nell'ordine dell'1,5 per cento. L'anno prossimo ci sarà una ripresa che si collocherà, proprio secondo quanto ci comunica la Banca d'Italia, sotto i livelli di crescita degli altri Paesi dell'area dell'euro.
In queste condizioni il problema italiano va trattato come un problema di gravità assoluta. Rispetto a queste risposte non può bastare la ripetizione, che abbiamo già sentito dall'OCSE ieri, ma anche dall'Unione europea, dell'importanza delle riforme.
Per esprimersi con grande brutalità, voi vi ricordate, durante il miracolo economico,


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come funzionava bene la giustizia italiana in quegli anni, quanto era veloce e che pubblica amministrazione formidabile esisteva negli anni Cinquanta e Sessanta? Siamo proprio certi che questa giaculatoria sulla velocità dei processi sia la risposta al problema della crisi italiana, che, invece, sembrerebbe riconducibile alla caduta del tasso di investimento, che probabilmente è dovuta all'eccesso di pressione fiscale? Il fattore che incide più duramente sulla capacità di investire, nonché su quella di consumare è il prelievo fiscale.
Si è fatto ricorso a una misura che noi abbiamo dovuto varare per mettere a posto i conti, perché i conti vanno messi a posto, ma che dà luogo a una flessione, come indica il vostro rapporto. In queste condizioni è possibile che non si abbia una politica economica per affrontare questi problemi e che l'unica speranza sia quella di mettere a posto la giustizia?
Come sostiene giustamente la Banca d'Italia, si tratta di linee di riforma in molti casi lente a maturare. Se sono lente a maturare, i guai in cui stiamo entrando sono guai da cui non usciamo.
Certo, si aggiunge con molto garbo, «un loro credibile avvio può anche aiutare nell'immediato, perché un mutato quadro di aspettative favorirebbe fin da subito l'attività di investimento della spesa privata».
Ci accontentiamo di questo, però? Noi siamo a questo punto, ossia che il Paese sta entrando in una crisi drammatica, con il PIL a meno 1,4-1,5 per cento, senza prospettive credibili per l'anno prossimo, e ci sentiamo comunicare che, se abbiamo fiducia, la riforma della giustizia potrebbe avere effetti immediati. Il presidente Giorgetti ed io effettueremo investimenti e consumeremo di più perché pensiamo che finalmente la giustizia tra alcuni anni funzionerà?
Parlo con molta franchezza. Ho sempre avuto grande stima della Banca d'Italia e certamente non posso essere accusato del contrario, ma siamo veramente sicuri che l'impostazione che l'Europa sta imponendo come una sorta di vincolo per tutti debba essere considerata la sola strada? Veramente non possiamo attuare una politica fiscale di sostegno dell'economia, una politica fiscale migliore?
Non si tratta di pagare le pensioni con il debito, ma siamo davvero convinti che non ci sia nulla da fare, cioè che si possa avere un risanamento - di cui ci è stato dato atto dalla Merkel e da altri - strutturale, un miglioramento formidabile dei conti economici italiani, con la riforma delle pensioni e via elencando, e, tuttavia, si debba accettare una caduta del reddito e della domanda dovuta alla pressione fiscale?
Non può la Banca d'Italia esortare il Governo a varare misure una tantum di sostegno, come quelle adottate dal Ministro Tremonti, quali uno sgravio fiscale a favore degli investimenti? Tale intervento potrebbe aiutare gli investimenti più che l'annuncio della riforma della pubblica amministrazione.
La domanda è la seguente: la Banca d'Italia ritiene che qualunque rallentamento del processo teso al raggiungimento del pareggio di bilancio che prevedesse uno spostamento non strutturale, ma momentaneo dal pareggio, per un importo di 10 miliardi di euro per l'anno prossimo, attuato con una misura una tantum di sussidio o di sgravio agli investimenti, sarebbe impossibile perché darebbe luogo a una tale reazione dei mercati finanziari, a un tale aumento dello spread, da risultare insostenibile?
Siamo così fragili sul terreno dei mercati finanziari da non poter fare nulla sul terreno della politica fiscale? In tal caso, ne prendiamo atto, ma, se ciò non fosse, ci sarebbe spazio per chiedere al Governo una politica un po' più coraggiosa sul terreno congiunturale per evitare che l'aggravamento strutturale delle condizioni del Paese continui, come sta continuando da quindici anni a questa parte.

RENATO CAMBURSANO. Grazie, presidente. Condivido per intero le considerazioni del collega La Malfa, che non ripeto, ed entro nel merito.


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Nel corso delle audizioni che abbiamo svolto ieri ci è stato comunicato che sarebbe bene che il Governo e il Parlamento concentrassero le loro attenzioni, vista la diffusa presenza delle piccole e medie industrie nel nostro Paese, su una politica di sviluppo della crescita costituita da ricapitalizzazioni che ricadrebbero immediatamente su tutto l'indotto collegato alle PMI e che farebbe ripartire l'occupazione e, di fatto, la crescita.
Questo è stato affermato e io lo condivido per intero, ma mi chiedo, ovviamente, con quali risorse. Il collega La Malfa ha indicato l'esigenza di un piano straordinario, un'iniziativa straordinaria per trovare queste risorse, ma c'è anche un'altra considerazione che ci veniva presentata ieri.
Il 63 per cento degli asset bancari italiani, lo rilevo poiché il nostro interlocutore di oggi è la Banca d'Italia, è rappresentato dalle prime tre banche italiane, le quali non «conoscono» le PMI. Troppo spesso e troppo a lungo sono state abituate a dialogare con i loro azionisti, cioè con le grandi imprese.
Come uscirne, allora, se è vero, come è vero, che le banche italiane hanno attinto alla grande da quanto ha messo a loro disposizione la Banca centrale europea? Ci si aspetta che aprano i cordoni della borsa, ma la domanda è la seguente: sono in grado oggi, rispettando i parametri di Basilea 3 e dell'EBA, di mettere davvero delle risorse a disposizione delle piccole e medie industrie?
La seconda domanda riguarda, invece, una valutazione che la Banca d'Italia può eventualmente svolgere rispetto al risparmio privato, che è stato riferito essere pari a cinque volte il debito pubblico italiano. Questo risparmio privato è rappresentato per i quattro quinti da immobili, perché l'altro, quello finanziario, è andato diminuendo e va diminuendo vistosamente.
Non sarebbe stato meglio, anziché toccare i consumi con l'aumento dell'IVA, intervenire in modo più determinato con un'imposta straordinaria o comunque con un'imposta patrimoniale sui grandi patrimoni e destinare il ricavato, se non nella totalità, almeno per una quota consistente, a ridurre il cuneo fiscale e il costo del lavoro?

MASSIMO BITONCI. Anche se calano i tassi di interesse sui mutui per le imprese e aumentano leggermente quelli sulla prima casa, in base a un'analisi effettuata in Veneto dall'associazione artigiani e piccole imprese Mestre (CGIA di Mestre), risulta che i mutui casa hanno subìto una forte contrazione, superiore anche al 30 per cento, ossia molto importante. Non solo le banche non erogano più i finanziamenti, ma le stesse famiglie e le imprese rinunciano a richiederli.
Come si concilia questo dato con quelli emersi nelle scorse settimane dai documenti della Banca d'Italia, la quale ha parlato di un aumento percentuale del 2,5-3 per cento degli impieghi bancari, con il noto credit crunch e con il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione, che, in base a un dato aggiornato alle ultime settimane, sarebbe debitoria nei confronti delle imprese di ben 100 miliardi? Ciò ingessa anche il sistema bancario, con un effetto sostituzione. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica a questa prima serie di domande.

MARCO MAGNANI, Capo del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia. Onorevole La Malfa, il problema principale è la crescita e noi di Banca d'Italia, ma non solo noi, l'abbiamo affermato molte volte. Lei ha ricordato l'ex Governatore Draghi, che recentemente si è più volte espresso, come anche l'attuale Governatore.
Il punto di sostanza è la convinzione che questo problema di crescita non possa che risolversi con una politica rivolta all'offerta. Gran parte delle nostre analisi ci inducono a ciò, ma non solo quelle. Non crediamo che questa stagnazione, che ormai si protrae in termini numerici perlomeno dalla metà degli anni Novanta, se non da prima, possa essere risolta con politiche volte a stimolare - semplificando - la domanda, ma riteniamo che occorrano


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politiche in grado di modificare la struttura dell'apparato produttivo dal lato dell'offerta. Questo è il primo punto.
Poiché sappiamo che le potenzialità di offerta di un'economia non dipendono solo da ciò che fanno le imprese e, quindi, anche dai loro problemi, e in Italia non ve ne sono pochi, ma anche dal contesto in cui le imprese si trovano a operare in una misura molto significativa, noi pensiamo che le riforme, come la Commissione del resto afferma, posizione cui noi aderiamo, volte a migliorare il contesto in cui operano le imprese siano essenziali per accrescere le potenzialità di crescita dell'economia italiana.
Fra queste si collocano, non tra le ultime posizioni, ma fra le posizioni primarie, le questioni che riguardano l'efficienza della pubblica amministrazione e la liberalizzazione di alcuni settori, fra cui soprattutto quelli dei servizi.
Non sono le uniche questioni. Non ho menzionato, per motivi di brevità, un altro capitolo estremamente importante, almeno quanto questo, ossia la questione che riguarda il grado di efficienza e di qualità del nostro capitale umano, che è andato molto deteriorandosi negli ultimi anni, soprattutto in termini qualitativi, se lo paragoniamo alla performance degli altri Paesi. Penso agli indici PISA o INVALSI sulle competenze degli studenti italiani.
Questo è il quadro generale e analitico a cui noi facciamo riferimento. Ciò premesso, si pone una questione, che è la stessa posta dall'onorevole La Malfa: è possibile che in questa situazione, riconoscendo, se ho ben capito, la giustezza di questa impalcatura concettuale, considerato che è in atto una crisi che ha colpito noi molto più degli altri - il che è motivo dei fattori strutturali di impedimento che abbiamo appena citato - oltre a raccomandare di varare provvedimenti che incidano sull'offerta, ma necessariamente in termini rallentati, non si possano trovare misure una tantum, come incentivi agli investimenti (è stato citato l'esempio della cosiddetta Tremonti-bis), che possano imprimere un impulso all'economia?
Non credo che la risposta categorica sia no, ma che i vincoli di bilancio siano molto stretti. Lei prima chiedeva se sia possibile annunciare e varare una misura una tantum che renda più flessibile il pareggio di bilancio, che, se intendo bene le sue parole, rischia di diventare una sorta di totem a cui sacrificare l'economia italiana?
Io credo che questo sia un esercizio molto pericoloso. Se noi abbiamo saputo, nel giro di pochi mesi, migliorare radicalmente la nostra credibilità sui mercati esteri, e se abbiamo ridotto lo spread di poco meno di 200 punti, è stato proprio grazie al fatto che abbiamo considerato le finanze pubbliche e abbiamo reso - lo si spera, ma io ne sono convinto - credibile un processo di correzione stabile e strutturale dei nostri conti pubblici, a cominciare dalla riforma sulle pensioni, che è l'architrave cruciale di questo processo.
Se noi dovessimo dare l'impressione, anche fuggevole, che questo processo di consolidamento può essere messo in discussione da misure una tantum e da slittamenti degli obiettivi che si sono stabiliti, penso che la reazione dei mercati sarebbe molto negativa.
Ciò non significa che non si possa fare nulla anche nel breve periodo per imprimere un impulso alla crescita. Del resto, anche il Governo ha fornito alcune indicazioni. Penso all'utilizzo, anche se prevalentemente ai fini di coesione, dei fondi strutturali dell'Unione europea, che sono oggetto oggi di un'ampia riprogrammazione da parte, in particolare, del Ministro per la coesione territoriale. Penso a quella manovra, che pure è stata varata, di cosiddetta deregulation fiscale, riducendo l'imposizione e i contributi sui fattori produttivi e spostandoli sui patrimoni essenzialmente immobiliari, ma anche sulle imposte patrimoniali sulle attività finanziarie. Penso a misure di sostegno allo sviluppo della tecnologia digitale, che a loro volta hanno un impatto doppio, sia nel breve periodo, perché due terzi degli investimenti sono privati e si attivano subito, sia per il miglioramento della struttura


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dell'offerta. Penso anche al debito residuo delle amministrazioni pubbliche, che citava l'onorevole Bitonci.
Esistono sicuramente possibilità di agire anche nel breve periodo, ma, lo ripeto, nel rispetto assoluto dei vincoli di bilancio e della credibilità del processo di consolidamento della finanza pubblica. Questa è la condizione assolutamente indispensabile per rendere la crescita stabile, altrimenti la crescita che potremmo attivare sarebbe effimera e potrebbe rovesciarsi nel giro di poco tempo.
Sulle questioni bancarie e sulle piccole e medie imprese in particolare lascerò la parola al mio collega Giorgio Gobbi. Volevo passare, invece, alla questione del risparmio privato, che mi sembra fosse oggetto di un'osservazione precedente.
È stata effettuata, in realtà. Lei può questionare l'entità della manovra, ma si è provveduto proprio ad aumentare le imposte patrimoniali, sui beni immobili in particolare, e in maniera anche piuttosto significativa. Ce ne accorgeremo. È stata introdotta anche un'imposta patrimoniale ordinaria sulle attività finanziarie, la cosiddetta imposta di bollo. Non è di entità enorme, ma esiste. La direzione di marcia è quella.
Che cosa osta all'introduzione su base sistematica di un'imposta patrimoniale sulle attività finanziarie? Osta la difficoltà di implementarla. Non è un'operazione semplice. È una possibilità, una linea su cui il Governo, anche se in piccole dosi, si è mosso. Resta da vedere quello che c'è ancora da fare. Io credo, però, che il segno della direzione di marcia sia quello che lei stesso invocava.
Sui debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese mi sembra che la cifra che lei cita, di 100 miliardi di euro, sia sovrastimata, ma non è questo il punto. Il punto è che si tratta di un problema essenziale, che rientra fra i possibili provvedimenti che si possono prendere per rilanciare l'economia nel breve termine, subito e senza costi eccessivi.
Nel decreto-legge in materia di liberalizzazioni ci sono elementi per quanto riguarda i debiti delle amministrazioni centrali. Resta da vedere se esistano margini, e probabilmente esistono, per estendere il processo di riduzione, cioè per estendere l'incentivazione al processo di riduzione dei debiti delle amministrazioni pubbliche anche agli enti locali, che ne rappresentano una parte maggioritaria. È una via che immagino sia oggetto di riflessione.
Per quanto riguarda i problemi relativi al rapporto tra banche e piccole imprese, lascio la parola a Giorgio Gobbi.

GIORGIO GOBBI, Titolare della Divisione struttura e intermediari finanziari del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia. Mi pare che l'onorevole Cambursano avesse menzionato il problema della ricapitalizzazione delle piccole e medie imprese, se ho inteso correttamente.
Ci sono due aspetti. Prendo al valore facciale la sua osservazione sulla ricapitalizzazione delle piccole e medie imprese. È sicuramente vero, e in merito ha perfettamente ragione, che uno dei problemi che ostacolano un più rapido assorbimento degli shock e una più rapida crescita è la fragilità finanziaria delle nostre piccole e medie imprese, che deriva principalmente da una struttura finanziaria tale per cui esse sono troppo indebitate. Le PMI hanno poco capitale, pochi mezzi propri e tanto capitale esterno, il che le rende particolarmente fragili alle perturbazioni che arrivano dai mercati creditizi. Gli esempi sia del 2009, sia dei mesi più recenti lo provano.
Le politiche di rafforzamento del patrimonio e di riequilibrio della struttura finanziaria delle piccole e medie imprese sono un prerequisito per la loro crescita e per rendere la nostra economia più robusta. A proposito, mi pare che nel corso degli anni siano state intraprese diverse misure e che anche nelle ultimi provvedimenti varati nello scorso autunno ci siano alcuni incentivi alla ricapitalizzazione delle imprese. Ci sono anche misure di


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altra natura, quale il Fondo italiano di investimento, che è mirato a rafforzare il patrimonio delle imprese.
Per quanto riguarda i rapporti con le banche, i dati possono essere sempre interpretati in modo diverso, ma le prime tre banche italiane, se noi guardiamo al credito concesso alle imprese italiane - oltre al total asset probabilmente è stata controllata anche la parte che alcune di queste banche rivestono in altri Paesi, diversi dall'Italia -, superano di poco il 30 per cento di quota di credito alle imprese.
Se è vero che le banche più piccole sono maggiormente specializzate nel credito alle piccole imprese, è anche vero che un'ampia parte del credito alle piccole e medie imprese deriva comunque da questi gruppi, che sono stati quelli maggiormente esposti. Tali gruppi erano quelli che maggiormente facevano provvista sui mercati internazionali e che in parte prestavano in Italia e in parte ridistribuivano attraverso i mercati interbancari anche agli intermediari più piccoli.
Da un lato, hanno una minore conoscenza delle piccole e medie imprese, ma, dall'altro, la loro attività si articola, per esempio, attraverso l'utilizzo dei Confidi e delle reti di imprese. Il problema non è se la banca è grande o piccola, ma che ci sia un sistema bancario concorrenziale efficiente, che offra finanziamenti alle imprese.
Ciò mi porta al punto della dinamica del credito. I numeri sono controversi. Chiedo scusa, ma non conosco i numeri dell'ente di ricerca che veniva citato. Complessivamente, se noi guardiamo all'intero 2011, rispetto al 2010, i tassi di credito sono stati positivi. È vero che hanno rallentato nel corso dell'anno e che, se guardiamo le variazioni mensili degli ultimi due mesi, soprattutto del mese di dicembre, e le correggiamo per la stagionalità, sono stati negativi. Hanno interessato tanto le imprese più grandi, quanto le imprese piccole e sono il riflesso di problemi che ci sono stati legati alla provvista delle banche, come riferiva il dottor Magnani, sui mercati internazionali, e all'aumento del costo della provvista.
Questa è una gamba, mentre l'altra è il deterioramento dell'economia, ossia il fatto che abbiamo subìto una seconda recessione, quando il nostro sistema produttivo non aveva ancora assorbito completamente la prima recessione del 2009. Il livello dell'indice della produzione industriale è ancora, mi pare, per il 20 per cento inferiore a quello precedente la crisi, con un sistema di imprese particolarmente fragile e rischioso.
Il fatto che secondo Basilea 3 in condizioni di elevato rischio sia interno, sia internazionale, le banche debbano operare con livelli di capitale più elevati è una necessità che non deriva dal capriccio di un regolatore, ma dalla necessità di salvaguardare il sistema bancario. Abbassando i livelli di capitale, esporremmo il sistema finanziario a rischi molto elevati di instabilità.
A essere colpite maggiormente con il credito sovrano sono le forme di provvista a medio e lungo termine. Non a caso, la BCE, che prima operava su orizzonti temporali molto ristretti, ha introdotto l'operazione a tre anni, ma, come sappiamo, i mutui hanno orizzonti temporali molto più lunghi e molto più elevati.
Quanto al comparto dei mutui, credo che la differenza tra i dati che pubblica la Banca d'Italia e quelli che rileva la CGIA di Mestre stia nel fatto che noi guardiamo alle consistenze dei mutui in essere, rappresentato dal livello dei mutui a cui si sommano mese per mese i nuovi mutui che vengono erogati e si sottraggono quelli che vengono rimborsati, mentre i dati degli artigiani di Mestre confrontano solo le erogazioni di mutui da un periodo all'altro.
Va anche precisato che la capacità del mercato immobiliare negli anni prima della crisi ha avuto una grande vivacità. Nel giro di pochi anni, sulla base dei dati dell'Agenzia del territorio, credo sia cambiato di mano più di un 20 per cento - cito a memoria, non è detto che il numero sia corretto - delle abitazioni. Con tassi di interesse più alti e con redditi diminuiti per via della recessione e che crescono poco, anche la propensione delle famiglie a comprare nuove case, visto che in passato


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una parte di mobilità a volte è stata molto elevata nel mercato del credito, è diminuita.
Spero di aver risposto alle domande.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre ulteriori quesiti o formulare ulteriori osservazioni.

ROBERTO SIMONETTI. Grazie, presidente. Ringrazio la Banca d'Italia per quest'audizione. I fascicoli sono sempre interessanti, ma la relazione mi sembra molto filogovernativa. Può anche essere un dato positivo, ma, secondo me, è esageratamente filogovernativa.
Sulla partita legata alle liberalizzazioni bisognerebbe anche tenere conto che, in un periodo come questo, di difficoltà economiche, si potrebbe verificare la problematica di rischio di capitali stranieri che intervengono nell'economia nazionale, con tutte le preoccupazioni che ciò può arrecare.
Volevo chiedere se, secondo voi, le pagelle degli Stati membri e del sistema economico europeo che le agenzie di rating hanno elaborato in questi periodi fossero supportate da fatti concreti o se si è trattato di una politica costruita ad arte per spostare investimenti in America, negli Stati Uniti, in modo tale da aiutare più quell'economia piuttosto che quella europea.
Mi riferisco poi alla parte legata all'utilizzo dei mille miliardi di euro che la BCE eroga in dote al sistema economico europeo. Se la FED ha dato liquidità per le imprese e la BCE ha spostato questi soldi verso le banche, nella relazione manca, secondo me, la parte in cui si indica che il 70 per cento di questi mille miliardi viene utilizzato come garanzia da parte delle banche per poter sopportare le obbligazioni che andranno a scadenza e che solo una parte di questi mille miliardi, mi pare il 30 per cento, viene immessa nel mercato degli impieghi, sempre con le problematiche che abbiamo già evidenziato. Penso che tali dati avrebbero potuto essere inseriti nella relazione.

MASSIMO VANNUCCI. Grazie alla Banca d'Italia per quest'audizione. Anch'io ho apprezzato la provocazione del collega La Malfa, perché mi sembra che ci sia un po' di conformismo in questo Paese, in cui affrontiamo temi a periodi. Adesso è il periodo in cui si risolve tutto con la liberalizzazione e con la semplificazione, ma un po' di tempo fa chi non avesse introdotto nel suo intervento il tema dell'innovazione e della ricerca sarebbe stato colpevole. Mi sembra che dobbiamo rompere questo conformismo.
Parlando di fattori di crescita, francamente, se andassi all'estero e mi ponessero una domanda specifica su che politica industriale adotta il mio Paese, non saprei rispondere. O si deve teorizzare che non ci debba essere e che tutto debba essere effettuato spontaneamente dal sistema - può anche essere una teoria, però pensare che la politica industriale non sia un fattore di crescita mi pare fuori luogo - oppure occorre domandarsi se in questo Paese si sia svolta fino in fondo un'analisi sulle opportunità che offre il grande mercato europeo.
Tale mercato si compone di 500 milioni di persone. Ne parlavamo ieri. Siamo occupati dalla grande distribuzione che viene dall'estero, mentre il nostro Paese non crea una catena di grande distribuzione verso l'Europa. È un fattore di crescita o no?
La capacità di attrarre investimenti in questo Paese è importante. Certo, è impedita dalla situazione della giustizia civile e dalla criminalità. È un fattore di crescita o no distribuire meglio la ricchezza. Oppure è sufficientemente distribuita e si pone solo il tema del cuneo fiscale? Oppure ancora c'è stata una concentrazione che non determina domanda interna? È una domanda generica anche la mia, forse è un po' conformista a sua volta, però nello specifico è questa.
Un fattore di crescita importante è il credito all'economia, che lei ha messo fra le priorità e al quale ha dedicato un capitolo della sua relazione. Noi vogliamo porgli grande attenzione nella risoluzione che approveremo sull'analisi annuale della crescita. Abbiamo audito l'Associazione bancaria italiana e poi Hervé Guider, il


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direttore generale dell'Associazione europea delle banche cooperative. È stato lanciato un grido d'allarme, che noi ieri non siamo riusciti a chiarire. Anzi, io sono rimasto sconcertato dall'audizione del direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea, il dottor Marco Buti.
Guider ci ha riferito che gli Stati Uniti d'America applicheranno Basilea 3 per sette banche e che non si sognano nemmeno di applicarla alle altre banche. In Europa l'EBA, un'Autorità che ha assunto maggiore autorità di quella che le è stata assegnata, ha eseguito stress-test e ha emanato linee di indirizzo, blindando assolutamente la questione di Basilea 3 in maniera indifferenziata fra banche che usano la raccolta per finanziare l'economia e banche che utilizzano poche risorse per finanziare l'economia.
Non sembra che questa flessibilità ci sia. Ieri il dottor Buti ci ha comunicato che, in fondo, la ricapitalizzazione è stata di 15 miliardi di euro da parte delle banche italiane, con un dato successo, però non c'è solo questo tema, credo.
Per altro verso, l'ABI ci indica che, in relazione alle norme che venivano richieste per fare fronte al problema delle obbligazioni bancarie, noi abbiamo previsto alcune iniziative nel decreto «Salva Italia», che però sono ritenute insufficienti, tanto che si vocifera che dei mille miliardi che la Banca centrale europea ha messo a disposizione circa il 70 per cento venga tenuto fermo, in attesa delle scadenze delle obbligazioni delle banche.
Ci hanno riferito che questa situazione non va bene e che c'è una particolarità italiana. Se la raccolta delle banche italiane al 70 per cento viene destinata al credito alle piccole e medie imprese e alle famiglie mentre la media europea è del 40 per cento, esse non possono avere gli stessi parametri. Se hanno gli stessi parametri e le stesse regole, non aiutano in modo uguale la crescita.
Ieri la questione è stata elusa dal dottor Buti, però credo che la Banca d'Italia, che fa parte dell'Autorità bancaria europea, ci debba chiarire gli effetti. Tempo fa il Sole 24 Ore pubblicò in prima pagina la notizia che dopo le norme di Basilea 3 sarebbero mancati al credito alle imprese 476 miliardi di euro. Ieri ci è stato comunicato della ricapitalizzazione di 15 miliardi di euro. Vorrei capire meglio anche i meccanismi, se fosse possibile.

ROLANDO NANNICINI. Ringrazio la Banca d'Italia della sua relazione e svolgo una riflessione sul tema della crescita. Anche con i vostri dati ci rinviate sempre a tempi migliori. Il tema di fondo è questo: noi abbiamo avuto, dal 1994 al 2008, prima della crisi, una crescita cumulata dei Paesi europei in cui l'Italia ha registrato il 19 per cento, ed era il fanalino di coda, ma anche la Germania era al 21 per cento, secondo un dato OCSE. Insieme al Giappone aveva un dato più basso, mentre le altre economie erano al di sopra del 40 per cento, esclusa la Francia, che si attestava intorno al 28 per cento, sempre in tale periodo.
Come sosteneva il collega Vannucci, Giappone, Germania e Italia sono tra i Paesi sviluppati maggiormente presenti nel settore manifatturiero anche in termini di PIL.
Noi sappiamo per certo che la crescita in questi Paesi e in Europa potrà avvenire, come è avvenuto in Germania, con alcuni surplus, attraverso un'attenzione particolare al mercato europeo, in cui abbiamo alcune concorrenze, e al mercato internazionale. Dobbiamo valutare sempre di più i fattori di produttività del nostro sistema produttivo, incluso il sistema pubblico. Non mi voglio sganciare dal sistema pubblico.
Nelle vostre proposte, però, non notiamo mai un certo coraggio, in relazione alla contemporaneità. Se noi abbiamo un Fiscal Compact che sottrarrà giustamente dagli Stati risorse e dovrà portarli, nell'arco temporale di vent'anni, ad avere un rapporto debito-PIL al 60 per cento - è chiaro che l'indebitamento degli Stati sovrani è un dato strutturale negativo per la crescita e noi condividiamo questo fatto - le risorse che vanno via da questo mercato di 500 milioni di cittadini europei, nel dato complessivo europeo e non solo nazionale, dal momento che io ritengo che questo


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tipo di riflessione debba avere ad oggetto l'ambito europeo, nonostante le diversità, come possiamo essere certi che queste risorse andranno all'economia reale? Come si possono attuare politiche non una tantum, ma tali da ridurre il costo del lavoro attraverso la detassazione, oltre a elementi più certi sulla tassazione delle imprese? Quando liberiamo risorse che, giustamente, sottraiamo alla spesa dello Stato, come possiamo stanziarle a favore del mercato reale, delle imprese e per fare fronte ai bisogni delle famiglie in generale?
Questa politica, io credo, in base a tante relazioni che leggiamo in questa fase - un po' di sfiducia sul keynesismo ci vuole, perché allo sviluppo sono seguiti anche fallimenti - mi sembra eccessiva rispetto alle modalità di leva dell'intervento dello Stato e della politica in questo settore.
Vi richiamo a un po' di ottimismo rispetto a politiche che possano riportarci a influenzare il ciclo. Se decresciamo dell'1,3 per cento, con tendenze negative anche per il 2013, possiamo raggiungere il pareggio di bilancio, ma, al di là dei grandi contrasti sociali che si determineranno in Italia, di cui abbiamo già alcune avvisaglie, potremmo vanificare il tema del risanamento che è già stato operato in questa fase.

MAINO MARCHI. Volevo porre una questione. Mi sembra che, almeno al pari delle questioni che sono state evidenziate e proposte come politiche strutturali per la crescita, ci dovrebbe essere un capitolo altrettanto rilevante per le politiche industriali, intendendo per queste, in primo luogo, le politiche energetiche, perché sull'energia si gioca una partita fondamentale per il futuro, ma anche nel breve termine.
È già in atto un processo di cambiamento e noi abbiamo problemi sia dal punto di vista del consumo energetico, sia da quello di una presenza industriale per la produzione, in riferimento all'evoluzione che è in corso rispetto a una parte fondamentale della green economy. In più, occorrono anche incentivi a politiche che favoriscano una collocazione e una presenza del nostro sistema industriale all'interno della green economy stessa.
Oltre a ciò, credo che siano fondamentali incentivi come il credito di imposta per la ricerca, perché l'innovazione si gioca sulla base dell'investimento che si è compiuto nella cultura e nella ricerca e anche, considerando l'assetto del nostro Paese, in cui il divario tra Nord e Sud è ancora presente, sulla base di politiche per lo sviluppo specifico nel Mezzogiorno, che, da una parte, devono affrontare il problema della legalità, il che riguarda ormai tutta Italia, e, dall'altra, favorire gli investimenti.
Quali possono essere gli strumenti, il credito d'imposta per gli investimenti o altre forme? È chiaro che queste sono politiche che hanno anche un costo, ma credo che, se ragioniamo sulla necessità della riconversione della spesa, della spending review, ciò debba significare tagliare quanto non serve e concentrare le risorse su ciò che è fondamentale. Penso che questo sia un elemento essenziale.
In merito alle politiche fiscali, io condivido che occorra spostare il carico, riducendo quello sul reddito da lavoro e d'impresa, ponendolo sulle rendite finanziarie e sui patrimoni, ma dentro questo spostamento dovrebbero esserci anche politiche a favore dei redditi più bassi perché questi possano aiutare meglio la crescita della domanda, con una maggiore propensione marginale al consumo. Credo che in un Paese che ha un problema anche per quanto riguarda la domanda interna, che è ferma da tempo, questo tema si ponga non solo come questione ideale, ma anche in termini di impatto sull'economia e sulla crescita.

AMEDEO CICCANTI. Grazie, signor presidente. Grazie alla Banca d'Italia per la relazione. Cito due dati: meno 1,5 per cento nel 2012 e forse più 1 per cento nel 2013. Con questi due numeri noi dovremo fare i conti nei prossimi anni.
Passando a un'altra questione, lei ci ha parlato di modernizzazione della pubblica amministrazione, di giustizia civile, di semplificazione, tutte questioni che appartengono


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alla sfera politica e che conosciamo bene. Se ci sono, è per difficoltà della politica, indubbiamente.
Si pongono, però, due questioni che riguardano la crescita e le audizioni che stiamo tenendo ci servono per capire come alcuni organismi, Banca d'Italia in testa a tutti, possano aiutarci a orientare le nostre politiche.
La sfera politica è ancora arida e deve assumere alcuni orientamenti. Almeno a livello parlamentare ognuno ha le sue tesi, come avrà capito dalle domande. Quali sono i due pilastri per la crescita su cui possiamo agire? Pressione fiscale e produttività? Sono le due scommesse sulle quali stiamo lavorando.
Dalla Banca d'Italia forse mi sarei aspettato altro nella relazione rispetto ai quesiti che erano stati posti. Certamente occorre agire sull'evasione e sull'elusione per recuperare quote di pressione fiscale; certamente occorre agire sulla spending review per poter abbassare le entrate; certamente occorre compiere una riforma fiscale equa, ma ciò appartiene alla sfera della politica.
Quello che la politica chiede, per esempio, alla Banca d'Italia, è quale incidenza abbia sul sistema trasferire il peso fiscale dalle persone alle cose. Che incidenza ha ridurre l'IRES o l'IRAP, anziché l'imposta sulle persone fisiche? Che tipo di relazione c'è, se si attua una politica o l'altra sul sistema economico?
Andiamo oltre. In merito alla produttività, sono d'accordo sulle liberalizzazioni, sui mercati aperti dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Ci si sta lavorando, va bene, però la riforma del mercato del lavoro si vedrà tra poche settimane. La riduzione del cuneo fiscale, che rientra nel discorso della pressione fiscale, è anche una questione che attiene alla produttività. Il problema del cuneo fiscale, che è un parametro importante, si risolve in parte con la riforma del mercato del lavoro, oppure, anche in questo caso, si pone un problema di defiscalizzazione? Come pesano l'una e l'altra soluzione? Come incidono?
Sull'innovazione, la ricerca e l'export il ruolo delle banche e del credito è importante, soprattutto per la selettività degli interventi. Io non credo che il problema dell'erogazione del credito sia soltanto quantitativo. Ritengo, invece, che, se c'è una politica, che voi ci potete aiutare a definire meglio, noi potremmo indirizzare il credito anche sul piano qualitativo.
Abbiamo visto l'insuccesso che si è verificato, per esempio, nel credito sulle fonti rinnovabili. Noi siamo andati a finanziare un sistema di fonti rinnovabili che penalizza il sistema economico italiano e questo è, per una parte, dovuto alla legislazione in materia che non ha avuto il coraggio di saper meglio orientare la questione. Se ci fosse stata, però, anche da parte delle banche e del sistema creditizio una riflessione, probabilmente avremmo evitato alcuni danni.
Le banche vendono e comprano soldi soltanto oppure possono anche orientare il sistema, insieme ad alcune politiche? Quando si eroga credito, il problema della dimensione delle imprese è un problema soltanto fiscale o anche di credito? Sono problemi che possono raccordarsi?
Il tema delle infrastrutture e del project financing, quando si valuta la bancabilità, riguarda soltanto la pubblica amministrazione, o c'è anche un ruolo del sistema del credito?
Erano queste le risposte alle domande o comunque i suggerimenti che ci sarebbero stati utili per capire meglio come mirare le nostre politiche.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la seconda e definitiva replica.

MARCO MAGNANI, Capo del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia. Sarò brevissimo, ubbidendo all'esortazione del presidente.
L'onorevole Simonetti ha sollevato una questione che riguarda le società di rating. Esse sono nell'occhio del ciclone ormai da svariati mesi. Si afferma spesso che lavorano con lo specchietto retrovisore e non reagiscono tempestivamente ai cambiamenti che sono in corso. Probabilmente il


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caso dell'Italia è stato uno di questi. È anche in corso un dibattito su come fissare norme di comportamento per le società di rating. Sapete che si discute da tempo di una società di rating europea. Il problema è sul tappeto da molto tempo.
Rispetto alla domanda specifica che poneva l'onorevole Simonetti, col senno di poi, ma alcuni l'avevano previsto anche prima, probabilmente le società di rating hanno espresso giudizi non propriamente tempestivi sull'evoluzione delle nostre politiche economiche.
Vengo all'onorevole Vannucci. Ci accusa di conformismo perché parliamo solo di liberalizzazioni? Era questo il senso della sua domanda? Chiarisco il mio pensiero, se sono stato forse poco chiaro nella mia esposizione.
Noi non crediamo che le liberalizzazioni siano l'arma miracolosa. Sono parte di una politica economica che deve essere ampia e articolata e di cui la promozione della concorrenza è un elemento essenziale. Per venire subito al nocciolo della sua questione, la concorrenza va regolata secondo princìpi e regole che sono noti e in parte praticati o che comunque si tenta di praticare al meglio e che ci sono suggeriti dal pensiero economico, ma non solo.
Sicuramente le liberalizzazioni e la concorrenza da sole non sono un fattore sufficiente alla crescita economica, anche se sono un fattore necessario. Per usare uno slogan sintetico, che credo capirete, la coesione è un fattore altrettanto importante. È stata una questione sollevata anche in un altro contesto. Se, oltre a promuovere la crescita tramite la concorrenza, non riusciamo a eliminare o a ridurre perlomeno alcune distorsioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo in senso contabile, non ne usciremo. L'Italia, in particolare, è caratterizzata da una serie di «mal distribuzioni». Le chiamo così con un termine brutto. Sono iniquità e l'evasione fiscale è forse una delle questioni più rilevanti.
Non è solo la finanza pubblica che ci permette di ridurre la pressione fiscale, una volta che saremo riusciti a ridurre l'evasione, è anche una questione di equità tra i cittadini. È un punto che - lo ribadisco e forse sarò conformista - è stato sottolineato recentemente dall'Esecutivo.
Un altro esempio di queste asimmetrie distributive e diseguaglianze è il rapporto tra Nord e Sud, un'altra questione secolare che conosciamo tutti, ma che è ritornata al centro del dibattito. Cito queste macro-macro-diseguaglianze.
Un terzo tema, cui si cerca in questi giorni di porre rimedio, è il dualismo del mercato del lavoro, che ha una fascia protetta e una fascia non protetta. Li ho citati come elenco.
Sulla questione dell'EBA tornerà successivamente Giorgio Gobbi.
Non ho ben capito la questione che sollevava l'onorevole Nannicini sulle risorse che col Fiscal Compact vengono sottratte al bilancio pubblico. Domanda come le recuperiamo ai fini della crescita, se con le manovre di consolidamento delle finanze pubbliche in genere? Tali manovre sono un presupposto. Contenere la spesa corrente è un intervento che stimola la crescita, non la deprime.
Che vi sia un impatto nel breve termine delle misure di consolidamento pubblico è stato riferito più volte e da più parti. È un impatto, purtroppo, recessivo. La diminuzione che prevediamo, anche nelle ipotesi favorevoli, per l'anno prossimo, cioè l'ulteriore flessione del tasso di crescita del prodotto, è in parte il risultato anche di questo.
Ciò premesso, non possiamo buttare il bambino con l'acqua sporca. È evidente che le misure di consolidamento della finanza pubblica creano le condizioni per crescere bene, se non domani, almeno dopodomani. Questo è il senso che non solo noi attribuiamo alla manovra e alle politiche economiche che sarebbero, a nostro avviso, opportune in questo momento.
Sulla questione delle politiche energetiche e industriali, ancora una volta mi scuso. Non si può parlare di tutto, altrimenti avrei dovuto parlare per un'ora e mezza, perché il documento della Commissione


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affronta molti aspetti, fra cui anche quello delle politiche energetiche e, in particolare, della green economy.
Sono convintissimo che sia un tema di cruciale importanza. Si sono sviluppate tante riflessioni in merito, in particolare con riferimento allo strumento migliore per incentivare le politiche energetiche rispettose dell'ambiente. Penso alla carbon tax e allo strumento dell'imposta, che noi tendiamo a preferire a forme di sussidi e di incentivazioni all'energia pulita per diversi motivi. Concordo con lei sull'assoluta importanza, in questo momento, di interventi in questo campo.
Sul Mezzogiorno svolgo una battuta sola, perché bisognerebbe discuterne troppo. L'anno scorso abbiamo condotto alcune analisi e studi riferiti, in particolare, alla questione del Sud, la cui conclusione principale era la seguente: le politiche del Sud hanno bisogno di politiche regionali, di politiche dedicate specificatamente al superamento degli squilibri nelle regioni in ritardo di sviluppo. Questo è quanto si sta attuando, in maniera, secondo me, piuttosto innovativa.
Tuttavia, oltre a politiche regionali, c'è bisogno anche di politiche nazionali che sappiano farsi carico dei problemi del Mezzogiorno. Le politiche nazionali esercitano, anche se sono chiamate nazionali, effetti sulle regioni meridionali e su tutto il territorio. Date le caratteristiche del Mezzogiorno e della sua economia, vi sono molte politiche nazionali - quella riguardante l'istruzione è la prima che mi viene in mente, ma ve ne sono altre - che hanno effetti differenziati al Sud rispetto al Nord. Ciò significa che le politiche nazionali vanno coordinate con quelle regionali ai fini di una riduzione del divario tra Nord e Sud.
L'onorevole Ciccanti chiedeva di sapere di più sugli strumenti per ridurre la pressione fiscale e per incentivare la produttività, se capisco bene. Le rispondo in due parole, non perché la questione non ne meriti di più, ma perché siamo arrivati in fondo.
Il motivo principale per cui noi riteniamo che una ricomposizione fiscale dalle imposte sui fattori produttivi e sui redditi da capitale e lavoro alle imposte sui patrimoni e alle imposte indirette sia la strada da perseguire è che le prime hanno effetti distorsivi, ossia distorcono l'allocazione efficiente delle risorse, mentre le imposizioni dirette non lo fanno.
Credo che questo sia un elemento importante e, come sostenevo anche in sede introduttiva, che sia la direzione giusta, anche se ovviamente è l'avvio di un processo in cui si sta muovendo il Governo.
Sulla questione del ruolo qualitativo e dell'importanza delle banche, lei afferma che il credito non è solo un problema quantitativo, ma anche qualitativo. Il problema di una buona banca è proprio questo: saper selezionare le imprese. Deve esercitare il suo ruolo di selezionatore delle imprese che valgono e di quelle che non valgono, di quelle che hanno una prospettiva e di quelle che non ce l'hanno. In ciò nessuno può supplire al ruolo del banchiere. Non lo può fare alcuna norma di carattere dirigista. È un punto che è a fondamento della politica della Banca d'Italia ormai da tanti anni.
Spero di non aver dimenticato nulla. Vorrei, però, sulla questione dell'EBA in particolare lasciare la parola a Giorgio Gobbi.

GIORGIO GOBBI, Titolare della Divisione struttura e intermediari finanziari del Servizio studi di struttura economica e finanziaria della Banca d'Italia. Spendo due minuti per fornire alcuni elementi di chiarezza sull'EBA e su Basilea 3, che sono due questioni piuttosto diverse.
L'EBA è l'Autorità europea sulla vigilanza bancaria. Gli stress-test e gli esercizi che su proposta dell'EBA sono stati adottati dal Consiglio europeo - l'EBA in sé non ha poteri impositivi - hanno riguardato in Italia cinque banche, i cinque maggiori gruppi bancari. Carenze di capitale sono state riscontrate per quattro, i famosi 15 miliardi di cui parlava l'onorevole Vannucci. Una grande banca ha già effettuato un aumento di capitale più o meno per la metà di questo importo, mentre gli altri sono in corso di completamento.
Per quanto riguarda, invece, Basilea 3, si tratta di un processo che riguarda tutte


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le banche ed è una delle misure che sono state a lungo invocate, quando eravamo nel pieno della crisi del 2008-2009 per rendere i sistemi bancari e finanziari non solo europei, ma di tutto il mondo, più sicuri e più stabili per evitare che si ripetesse quello che è successo.
Una delle risposte fornite è stata che, per fare banca in futuro, se non vogliamo subire i costi delle crisi che abbiamo avuto, che sono enormi, non solo in termini di capitali bancari, ma anche di posti di lavoro persi, di produzione persa e di redditi - stiamo ancora attraversando una crisi innescata nel 2007 da un problema finanziario - le banche devono operare con più capitale. Se operano con più capitale, sono meno fragili e possono resistere meglio a perdite che si possono generare dal ruolo dell'attivo.
Non possiamo volere banche poco capitalizzate e sistemi finanziari stabili. È una contraddizione. Il fatto poi che ci possano essere categorie di banche che si sentono più penalizzate da questo tipo di situazione è un processo aperto. Basilea 3 è ancora un processo aperto.
Mi pare che il direttore generale dell'Associazione europea delle banche cooperative citato prima abbia ricordato che negli Stati Uniti essa sarà applicata a cinque banche. Negli Stati Uniti ci sono altri tipi di regolamentazione pesanti, però avrei avuto piacere che lei ricordasse, ma forse l'ha fatto, che la proposta della Commissione indipendente presieduta da John Vickers per la riforma del sistema bancario del Regno Unito presuppone anche per le attività al dettaglio tipiche delle banche di credito cooperativo in Europa coefficienti patrimoniali, ossia quantità di patrimonio per esercitare la loro attività, di molto superiori a quanto verrà richiesto da Basilea 3.
Il motivo è che il contribuente inglese ha pagato un conto salatissimo dalla crisi finanziaria, mentre il contribuente americano ha probabilmente una percezione diversa. Dipende tutto dalla diversa percezione.
Su queste differenze di composizione mi pare che sia in corso un'attività di consultazione, che non è ancora arrivata al termine. Basilea 3 sarà implementata nel 2019 e, quindi, probabilmente ci sarà tempo per rivederla ancora.
Per quanti siano gli effetti di Basilea 3 sul credito o sul prodotto, ci sono studi e stime, che ovviamente hanno molti margini di incertezza e di differenza, ma che alla fine non sono devastanti. Il motivo è che col debito non cresce solo lo stato patrimoniale delle banche, il passivo, ma può crescere anche il capitale. Possiamo avere volumi di finanziamenti all'economia non necessariamente drammaticamente minori, ma con una composizione diversa del passivo delle banche. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie. È chiaro che il principio è accettabile: non è giusto che, se fallisce una banca, ci metta i soldi lo Stato. Devono essere gli azionisti a tirare fuori i soldi per salvare le banche, perché in futuro non è il caso che lo faccia lo Stato, come è avvenuto, per esempio, nel Regno Unito.
Il nostro timore, però, è che queste regole, in particolare quelle di Basilea 3, siano ispirate ad alcuni modelli bancari ed economici un po' diversi rispetto al nostro e che, calati nella nostra realtà, facciano un po' di giustizia sommaria. Questo è il timore che nel corso delle audizioni è maturato. Sappiamo che anche a livello europeo è in corso una discussione in merito. Credo che sia questa la preoccupazione che emergeva.
Ringrazio i nostri ospiti per il loro contributo e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,35.

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