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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
8.
Mercoledì 14 aprile 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Galletti Gian Luca, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA FINANZA LOCALE

Audizione di esperti:

Galletti Gian Luca, Presidente ... 3 5 10 13 21
D'Alessio Lidia, Professore ordinario di economia aziendale presso l'Università degli studi Roma Tre ... 3 14 20
Duilio Lino (PD) ... 10 19
Pozzoli Stefano, Professore ordinario di ragioneria generale presso l'Università degli studi Napoli Parthenope ... 5 17 20
Vannucci Massimo (PD) ... 13

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal professor Stefano Pozzoli ... 22
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud/Lega Sud Ausonia: Misto-NS/LS Ausonia.

[Avanti]
COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta pomeridiana di mercoledì 14 aprile 2010


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIAN LUCA GALLETTI

La seduta comincia alle 14,45.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di esperti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla finanza locale, l'audizione di esperti in materia.
Sono presenti la professoressa Lidia D'Alessio, professore ordinario di economia aziendale presso l'Università di Roma Tre e il professor Stefano Pozzoli, professore ordinario di ragioneria generale presso l'Università di Napoli Parthenope. Li ringrazio di essere venuti.
Do la parola alla professoressa D'Alessio per lo svolgimento della relazione.

LIDIA D'ALESSIO, Professore ordinario di economia aziendale presso l'Università degli studi Roma Tre. Dovrei parlare in generale sulla finanza locale e sul sistema dei controlli. Ovviamente, esprimerò la mia opinione in riferimento alle mie conoscenze sullo stato dell'arte di tali temi.
Gli enti locali sono risultati essere, negli ultimi quindici o vent'anni, la parte delle amministrazioni pubbliche per alcuni versi più evoluta. Le norme che hanno disciplinato e indirizzato l'evoluzione degli enti locali sono state tali per cui il processo del cambiamento e dell'innovazione è stato anche significativo, partendo dalla governance, andando verso la cosiddetta autonomia decisionale e finanziaria e arrivando poi ai controlli.
Le norme, tuttavia, non hanno sempre dato i risultati attesi e, attualmente, c'è ancora un grande gap tra i loro contenuti, le effettive conduzioni degli enti locali e l'efficacia dei controlli. Prevalentemente, a livello della funzione dei controlli, sono cresciute tipologie, qualità e finalità anche molto interessanti, a partire dal decreto legislativo n. 29 del 1993 per proseguire con gli altri provvedimenti legislativi che hanno disciplinato la materia: abbiamo assistito ad un proliferare di organismi di controllo, a fronte dei quali, però, a mio avviso, non si sono verificate le contemporanee disponibilità di dati su cui elaborare una funzione dei controlli evoluta.
Per quanto i sistemi contabili degli enti locali siano stati oggetto di alcune revisioni nelle loro impostazioni - è prevista infatti una contabilità economica, dei costi e via elencando - nei fatti, tali sistemi contabili, input e dati gestionali non sono risultati essere, in primo luogo, diffusi e sviluppati come richiedevano le norme, in secondo luogo, utilizzati per i controlli.
Inoltre, occorre stabilire quali organi siano deputati al controllo e quali siano le finalità del controllo. Per esempio, gli indicatori di bilancio, imposti anche dal Ministero dell'interno, sono numerosi, ma chi li utilizza? Chi li analizza e quali sono le conseguenze, in particolare in termini di


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finanza locale e, quindi, di cambiamento dei comportamenti e della gestione? Questo è un punto estremamente delicato.
Un secondo punto, a mio avviso, estremamente delicato, con il quale dobbiamo fare i conti in particolare in questo periodo, è la cosiddetta «armonizzazione dei conti pubblici tra la periferia e il centro», anche in una logica di federalismo e del cambiamento imposto dalla legge di riforma della contabilità dello Stato, che parla un altro linguaggio. I linguaggi cominciano, dunque, a essere diversi. Lo erano già prima, ma adesso, a mio avviso, il gap si è accresciuto e non è diminuito.
In questo caso, poi, il problema della finanza locale è stridente, perché essa dovrebbe nascere e svilupparsi su un concetto di autonomia decisionale e finanziaria. Nella realtà, questi concetti e margini di autonomia si riducono e non crescono. Sono cresciuti sicuramente quelli delle regioni, ma non si sono avvalorati nello stesso modo quelli degli enti locali, che risultavano avere e hanno una qualità di maggiore capacità gestionale per quanto riguarda la finanza locale.
Il sistema informativo di base risulta, dunque, a mio avviso, carente e non particolarmente evoluto. Infatti, nelle leggi che hanno disciplinato la materia, i principi per favorire lo sviluppo dei sistemi contabili sono appena accennati. Ad esempio, già dal 1995, era consentita, qualora fosse necessaria, la facoltà di adottare la contabilità economica. D'altra parte, in precedenza, prima di quel periodo, non esisteva una norma che proibisse di introdurre un sistema contabile diverso da quello strettamente finanziario, se l'avessero voluto, come di fatto succedeva intorno agli anni '70 e anche prima, allorché molti enti locali del nostro Paese utilizzavano la contabilità economica, perché ciò non era proibito. Per fortuna tutto ciò che non è proibito può essere fatto.
Emergono, dunque, problemi di base dei sistemi informativi e dei sistemi informativi contabili. Tali sistemi contabili, secondo il dettato delle norme, devono essere orientati alla veridicità del bilancio, alla costanza dei criteri e, quindi, alla significatività delle voci. L'applicazione di tali principi, però, non è facilmente ritrovabile nei documenti di bilancio. Peraltro occorre fare attenzione perché alcuni principi appaiono un po' vaghi; ad esempio, con riferimento all'applicazione del principio contabile di bilancio al settore pubblico e agli enti locali, non appare chiaro se tale principio debba valere per il bilancio di previsione o per quello di rendicontazione. Ovviamente seguendo una logica rigorosa tale principio dovrebbe applicarsi ad entrambi. Tutto ciò, tuttavia, non è molto rigoroso, perché il bilancio di previsione persegue una propria finalità e ha una logica che segue una sua impostazione, mentre un po' diversa è l'impostazione del rendiconto.
Un altro problema estremamente rilevante, a mio avviso, consiste nel fatto che i rendiconti degli enti locali sono documenti quasi incomprensibili e, pertanto, in sede di effettuazione dei controlli, bisogna essere particolarmente esperti in materia per poter conoscerne i contenuti. La lettura e i controlli dei bilanci scontano, pertanto, una difficoltà di realizzazione e di applicazione riconducibile, in parte ai sistemi contabili in base ai quali sono costruiti, in parte anche alla particolarità di un sistema contabile per alcuni versi monco, soltanto di tipo finanziario e con alcuni approcci all'aspetto contabile economico-patrimoniale. Tali approcci, evidentemente, potrebbero rivelarsi, in prospettiva, interessantissimi per misure di efficienza e di efficacia, altrimenti rimaniamo solo nell'ambito di misure finanziarie e non possiamo riferirci ad altro.
Contemporaneamente, credo che ci sia una necessità di misurare e rilevare a chi e a quale scopo sono finalizzati i controlli. Spesso la classe politica non ritiene di dover fare un uso quotidiano dei controlli nella propria attività, il che crea la netta separazione, non voluta dalle norme introdotte a partire dagli anni '90, tra l'amministrazione e l'attività politica di governo.
Saprei, dunque, definire da un punto di vista teorico che cosa sia il cosiddetto nucleo di valutazione ovvero controllo


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strategico - si può chiamare anche sinteticamente in questo modo - nell'ente locale e quale sia la profonda differenza tra il nucleo di valutazione e il controllo di gestione in un ente locale, ma, nella pratica, disponendo di dati limitati e provenienti da una base contabile circoscritta, oserei affermare che è, purtroppo, difficile cogliere le differenze, ovvero, addirittura, che compiono le medesime operazioni.
Sui controlli, dunque, il discorso è molto complesso. Abbiamo ulteriori difficoltà di armonizzazione degli stessi, tra gli interni e gli esterni, tra gli interni e i dati, per un'elaborazione successiva dell'informazione, ovviamente per organi superiori, per una governance di tipo sempre più strategico. Questo è un punto essenziale.
Un altro punto fondamentale è la mancanza di una relazione stretta, per quanto le norme siano risultate più avanzate rispetto ad altre situazioni negli enti locali, tra programmazione e controllo. Non serve a nulla che il budget, denominato Piano esecutivo di gestione (PEG), sia definito dopo il bilancio autorizzatorio; non è assolutamente un vero budget.
Esistono, quindi, alcuni problemi di impostazione delle linee di condotta generale di una governance locale e c'è, a mio avviso, la necessità di una configurazione, di una razionalizzazione dei controlli.
Nell'ambito della finanza, il problema è ancor più complesso. Si parla di finanza derivata, nel senso che ogni ente locale deve essere in grado di procacciarsi le proprie entrate, ma poi si riducono gli spazi di autonomia per definire tali entrare proprie. Nello stesso tempo, esistono delle difficoltà connesse al rispetto dei vincoli posti dal Patto di stabilità interno, che incidono sui saldi di cassa, che, chiaramente, determinano a loro volta difficoltà nell'impostazione delle modalità di gestione.
Successivamente, si pone la difficoltà enorme, di gestire e controllare, da un lato, il debito e, dall'altro, i crediti, la parte riguardante le risorse da procacciarsi.
In tutto questo, poi, credo - potrei rispondere ad eventuali domande - che emerga un ulteriore problema consistente nella necessità o nella possibilità - in via straordinaria - di risolvere le situazioni critiche degli enti locali esternalizzando le loro attività funzionali, iniziativa che può essere anche stridente con la buona gestione e la buona amministrazione locale.
Ritengo che siano questi i problemi emergenti, tra loro collegati. Se necessario, possiamo discutere in modo più approfondito di alcuni di essi, ma, come introduzione, mi fermerei a questo punto.

PRESIDENTE. La ringrazio, professoressa. Prima di dare la parola ai commissari, farei tenere la relazione anche del professor Stefano Pozzoli. Poi svolgiamo un'unica discussione e rivolgiamo a entrambi le domande.
Do la parola al professor Pozzoli.

STEFANO POZZOLI, Professore ordinario di ragioneria generale presso l'Università degli studi Napoli Parthenope. Grazie, presidente. Ho presentato una relazione, che chiedo di essere autorizzato di depositare agli atti della Commissione, in modo da potermi concentrare sulle questioni principali.
Pensavo, se siete d'accordo, di articolare il mio intervento su tre punti. Il primo è spiegare perché, dal mio punto di vista, la misurazione dei risultati degli enti in confronto tra loro, il cosiddetto benchmarking, è un elemento fondamentale per il buon funzionamento del sistema; il secondo è descrivere brevemente il modello anglosassone, che si fonda appunto su un confronto delle perfomance fra enti; il terzo è svolgere alcuni accenni in merito all'evoluzione della normativa, quindi effettuare un'analisi critica, in primo luogo, della Carta delle autonomie locali.
Per spiegare perché, dal mio punto di vista, è fondamentale misurare le performance, partirei da una constatazione empirica. Oggi il sistema dei controlli, visti come controlli collaborativi e non come azioni ispettive, sostanzialmente non funziona. Se guardiamo al panorama nazionale, pur riconoscendo l'esistenza di alcune eccezioni costituite da enti più o


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meno attenti, ritengo però, da un punto di vista generale, che il sistema dei controlli, così come è architettato, non funzioni e non ha mai funzionato a partire dagli inizi degli anni '90, nonostante i molteplici tentativi e interventi normativi in materia, che hanno seguito tutti uno stesso percorso.
Credo che questa scarsa attenzione - non è vero che mancano le capacità negli enti locali - ai controlli sia dovuta al fatto che nessuno ha attribuito loro una priorità politica, in quanto non sono considerati fondamentali per il consenso, per la conferma dei risultati elettorali e via elencando.
Vi porto un esempio, che ricavo dalla seconda indagine censuaria sugli interventi e i servizi sociali dei comuni condotta dall'ISTAT in collaborazione con la Ragioneria generale dello Stato. Il dato che viene presentato qui è molto pudico, perché viene aggregato su base regionale, ed è anche vecchio, perché l'indagine è stata svolta nel 2007, però i dati risalgono al 2004. Serve, comunque, per capire come funziona il meccanismo.
Consideriamo alcune regioni, per esempio, come l'Emilia Romagna, in onore del presidente, e analizziamo alcuni dati. Verifichiamo quali sono i costi per ospitare un bambino in un asilo nido gestito dagli enti locali. La risposta è mediamente 4.293 euro per la Lombardia, 5.812 euro per l'Emilia Romagna, 10.562 euro per il Lazio. I relativi costi possono dipendere dall'intensità del servizio offerto e da tanti fattori, però spiegare la differenza tra i 4 mila euro della Lombardia, i 5 mila euro dell'Emilia Romagna e i quasi 11 mila euro del Lazio riesce un po' difficile, in termini di contenuto del servizio offerto, perché il bambino all'asilo è lo stesso ovunque.
Il cittadino è al corrente di queste differenze? No, perché il cittadino, al limite, sa quanto paga lui. Se andiamo ad analizzare quanto paga, quindi qual è la tariffazione media, vediamo che corrisponde a 1.368 euro in Lombardia, 1.540 euro in Emilia Romagna e 1.035 euro nel Lazio. Il cittadino che legge i dati ritiene che sia più conveniente il Lazio e che costi meno rispetto all'Emilia Romagna e alla Lombardia.
Ci dobbiamo chiedere, in primo luogo, se questo modo di gestire le risorse pubbliche sia senza conseguenze e la risposta è sicuramente no, perché in Emilia Romagna ci sono il doppio di posti all'asilo rispetto al Lazio, che è molto più grande. Vi fornisco il numero: in Emilia Romagna sono 24.000, nel Lazio 12.551, in Lombardia, che però è più grande, quasi 36.000.
Esprimendo un'ovvietà, la cattiva gestione delle risorse non è a costo zero per la popolazione. Il punto è che, se io fossi un sindaco del Lazio, non affermerei mai che non ci sono abbastanza posti all'asilo perché sono incapace di gestire le risorse pubbliche, ma direi che il Governo è insensibile perché non mi dà risorse sufficienti per crearli e lo direi anche in buona fede. Vedo che molti di voi hanno avuto delle esperienze come amministratori pubblici locali; molto probabilmente non c'è neanche la chiara percezione di quanto costa davvero un servizio, quantomeno in termini comparativi. Posso sapere quanto costa nel mio comune, ma non ho idea se è abbastanza, troppo, troppo poco e via elencando.
In termini oggettivi, dunque, il cittadino elettore non sa, non è in grado di capire se le risorse pubbliche sono spese correttamente oppure no, il che chiaramente determina situazioni problematiche, perché la condotta degli amministratori pubblici locali seguirà inevitabilmente le istanze di determinati cittadini elettori nelle modalità che a questi interessano e percepiscono.
L'assenza di queste informazioni impedisce che ci sia, su temi concreti, una misura di controllo sociale effettiva e questo è un grandissimo limite del nostro sistema. Se non riusciamo a creare stimoli perché il controllo da parte dei cittadini elettori diventi un controllo concreto, perdiamo una grandissima opportunità. Possiamo continuare a emanare norme che obblighino, in teoria, a effettuarli, ma i controlli, soprattutto quelli interni, non ci saranno.


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Passiamo, ora, a un sistema dove questo meccanismo di controlli è vigente, ossia quello anglosassone. Ho annotato alcune date, che trovate riportate nella documentazione depositata. Il sistema delle autonomie locali, in Inghilterra, ha iniziato a cambiare nel periodo «Thatcheriano», in particolare nel 1982, quando Margaret Thatcher svolse alcune considerazioni, che poi vennero tradotte in misure legislative.
La prima fu quella che allora era soltanto uno slogan, il value for money. Gli inglesi sono bravissimi in queste iniziative. Erogò un quarto delle risorse finanziarie del Regno Unito agli enti locali, che dovevano dimostrare di utilizzarle correttamente e di produrre valore e cominciò a cercare di misurare tale valore.
L'altro intervento riguardò il sistema dei controlli e interruppe un meccanismo che da noi esiste tuttora. I revisori degli enti locali non dovevano più essere nominati dal Consiglio comunale, ma quella tipologia di controllo doveva essere svolta da un soggetto terzo e, quindi, indipendente. La Thatcher istituì, dunque, la Audit commission, paragonabile alla Corte dei conti nell'esercizio dei controlli collaborativi e svolge una funzione di audit, cioè di controllo dei bilanci.
Il Governo successivo, guidato da John Major, non ha modificato la situazione. A differenza di quello che accade spesso da noi, per cui è consuetudine che un nuovo Governo modifichi completamente le regole preesistenti, Major accettò il sistema, però ritenne che il concetto del value for money fosse ancora troppo evanescente. Era uno slogan, ma occorreva perfezionare il modo di misurare i risultati. Sviluppò, quindi, ulteriormente il sistema di indicatori di dati che riguardavano gli enti locali.
Quando Tony Blair divenne Primo ministro, nel 1999, apportò due modifiche molto importanti. In primo luogo riconobbe che la Audit commission stava svolgendo un buon lavoro di controllo, ma che mancava qualcosa. Non bastava, infatti, che le risorse fossero spese in maniera efficiente; si voleva anche sapere se le cose funzionavano, almeno nei settori fondamentali.
In quello dei rifiuti istituì, dunque, alcuni controlli ispettivi. L'Audit commission, che è ovviamente molto più flessibile della nostra Corte dei conti, assunse ingegneri e tecnici con il compito di controllare le società dei rifiuti per vedere se tutto era effettivamente a norma e di dare anche consigli per implementare il sistema.
L'altro aspetto, che secondo me è molto interessante, è arrivare a perfezionare un sistema di scoring abbinato a un confronto. Gli inglesi hanno istituito un documento obbligatorio di bilancio, che si chiama best value performance plan, dove vengono messi a confronto i dati dell'ente locale con quelli di enti di dimensione analoga.
A che cosa serve tale documento? Prendiamo il caso degli asili nido e immaginiamo che il costo di 4.293 euro che la Lombardia sostiene corrisponda a quello del comune di Milano, il costo di 5.812 euro sostenuto dalla Emilia-Romagna corrisponda a quello del comune di Bologna e via elencando. Il comune di Bologna, che sostiene un costo di 5.812 euro, deve considerare che il comune analogo sostiene per lo stesso servizio un costo variabile fra i 4.700 e i 4.500 euro e chiarirne il motivo, nonché spiegare, in termini di programma - vale a dire di best value performance plan - dove vuole arrivare. Potrà stabilire che va bene spendere 5.812 euro invece di 4.600 euro perché si vuole offrire un servizio più ricco, sviluppato secondo certe caratteristiche, per esempio offrire il servizio serale, che, invece, non è previsto dall'ente analogo. Deve, quindi, spiegare che cosa vuole fare.
Quando la professoressa D'Alessio afferma che il bilancio del comune non è comprensibile, sostiene una grande verità. Anche se il bilancio del comune inglese, qualitativamente, come capacità informativa, è migliore di quello relativo a un comune italiano, non dobbiamo pensare che la casalinga di Manchester ragioni in maniera diversa da quella di Voghera. Quando vengono a conoscenza di certi dati e si spiega loro che il costo del bambino


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all'asilo è 5.000 anziché 4.000 euro per determinate ragioni, sono in grado di giudicare.
Questo crea un meccanismo di competizione, l'unico esistente tra enti, sul piano informativo. I giornali, che a loro volta, se vogliamo fare una battuta in merito - sono in difficoltà a interpretare i dati dei bilanci - lo sono io stesso - possono molto meglio parlare del costo degli asili, piuttosto che del fatto che l'entità dei residui sia aumentata o diminuita e via elencando, il che, comunque, mantiene sempre un contenuto esoterico per quanto ci riguarda.
Negli enti locali, in Inghilterra, viene compiuta anche un'altra operazione. I revisori, in quel caso, sono o dipendenti o comunque nominati dalla Audit commission, peraltro con un meccanismo diverso dal nostro, perché da noi vige il meccanismo del secondo mandato, con il risultato che, tendenzialmente, durante il primo mandato l'attività dei revisori può risentire dalla aspirazione degli stessi ad essere riconfermati. In Inghilterra la riconferma non c'è: si ricopre tale ruolo per più anni - sono cinque, se non ricordo male - però non si può essere riconfermati e, quindi, il vincolo di rispondere alla Audit commission o all'ente locale non si pone, perché si sa che non si può essere riconfermati e non si hanno di queste preoccupazioni, quantomeno psicologiche. Non si è stati scelti da loro e non si potrà svolgere nuovamente tale funzione.
Gli inglesi hanno, inoltre, un sistema di scoring, di punteggio, per cui danno una pagella all'ente locale, che viene sintetizzata in uno schema di tipo alberghiero: sono previste quattro stelle e se ne possono ricevere, quindi, da una a quattro. A seconda del numero di stelle che si ha, ciò significa che si ha una tenuta dei conti migliore o peggiore. Si attribuiscono, dunque, queste stelle e una freccia segnala l'andamento, indicando se si è in miglioramento, in peggioramento o stabili.
Chiaramente questo diventa un meccanismo di controllo. Nella relazione che ho consegnato, ho illustrato anche come funzionano i meccanismi di governance che loro si scelgono. L'ente locale, che sceglie il meccanismo di governo, ne ha a disposizione tre di base: uno che corrisponde a quello prima in vigore nel nostro Paese, in cui si nomina il consiglio comunale e questo sceglie il sindaco; un altro, analogo al sistema vigente in Italia, in cui si vota il sindaco, il consiglio comunale e poi viene scelta la giunta; un terzo, che però non usa nessuno, dove non è prevista la giunta ma solo un direttore generale, il city manager, che si sente nominare di tanto in tanto. La conclusione è che, incrociando i dati, non è il sistema elettorale che modifica il buon funzionamento degli enti locali e, quindi, non è l'architettura giuridica di governance che rende un sistema più efficiente rispetto all'altro. Non si notano tutte queste correlazioni.
Gli inglesi hanno, dunque, allestito una base di dati condivisa, su cui poi voglio tornare; i dati vengono usati per i confronti fra gli enti, obbligatoriamente, in un documento che noi definiremmo di bilancio; vi è un punteggio attribuito da un'autorità indipendente, la Audit commission, attraverso i revisori, che mostra ai cittadini come è posizionato il loro comune. Se analizziamo le statistiche, almeno quelle a mia disposizione, notiamo che non tutti i comuni sono a quattro stelle, anzi, quelli a quattro stelle rappresentano il 6 ovvero il 7 per cento e, quindi, il controllo sembrerebbe piuttosto serio.
Un altro potere che hanno i revisori in Inghilterra e che da noi non esiste consiste nella possibilità di presentare una relazione di interesse pubblico. I revisori svolgono le loro considerazioni all'ente e, in casi particolarmente gravi, possono presentare una relazione di interesse pubblico, alla quale l'amministrazione deve rispondere pubblicamente, cioè sui giornali.
Esistono, quindi, alcuni casi, in cui i revisori intervengono, come, per esempio, nella gestione dei rifiuti. Quando sono preoccupati sul tipo di funzionamento dell'azienda dei rifiuti, i revisori talora intervengono, chiedendo all'amministrazione di attivarsi per porre rimedio alle disfunzioni e avvertendola dei potenziali pericoli.


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L'amministrazione si trova a doversi giustificare, non in consiglio comunale, ma addirittura pubblicamente.
Credo che il modello anglosassone sia indubbiamente il più efficiente in Europa. Anche al suo interno ci sono polemiche, si discute sui costi e sugli indicatori. Un tema che stanno affrontando adesso è, poiché alcuni servizi hanno una dimensione sovracomunale, come imputarli a un ente piuttosto che a un altro. Non è tutto rose e fiori. È un processo durato vent'anni, che non si è risolto in cinque minuti, ma ha subito notevoli cambiamenti, però ha fatto leva su elementi di mercato molto forti.
Sul sistema dei controlli, avvicinandoci alla realtà italiana, svolgo alcune considerazioni. Entriamo nel tema della Carta delle autonomie locali. Voi avete visto che gli articoli che riguardavano i controlli di merito sono stati trasferiti sul disegno di legge anticorruzione. Al di là del fatto che venga approvato l'uno o l'altro dei citati provvedimenti legislativi, mi sembra che ciò testimoni l'interesse ad applicare queste norme, su cui vorrei svolgere alcune considerazioni, un paio più tecniche e un'altra di carattere più generale.
Per quanto riguarda l'aspetto tecnico, il cuore dei controlli, cioè la «fabbrica dei numeri», è il responsabile dei servizi finanziari. Se consideriamo il regime di tutela riconosciuto a chi è responsabile dei servizi finanziari, ci accorgiamo che ci sono molti punti deboli. La persona a cui la normativa, a partire dal decreto legislativo n. 77 del 1995 a oggi, ha affidato il ruolo di custode dei conti dell'ente locale gode, infatti, di pochissime tutele. Il segretario comunale, quando aveva un compito pieno di tutela della legittimità, apparteneva al Ministero dell'interno, aveva alcune garanzie, ha tuttora un albo che ne qualifica la professionalità.
Il responsabile dei servizi finanziari è una figura che ha responsabilità altissime e tutele deboli. Dovremo pensare di prendere un'iniziativa; l'ideale sarebbe renderlo più simile al Ragioniere generale dello Stato e meno a un collaboratore stretto, fiduciario del sindaco. Ciò si può fare, in primo luogo, garantendogli una determinata posizione organizzativa. A oggi può essere, ad interim, un altro responsabile, può essere subordinato a un altro dirigente, con tutto quello che ciò comporta; si trova, quindi, in una posizione non tutelata nell'ambito delle amministrazioni. Nei grandi comuni spesso non è così, però è una figura sostanzialmente debole.
L'altro tema è quello della qualificazione professionale. Vi pare possibile che possa essere responsabile dei servizi finanziari un laureato in odontoiatria? Non sono previsti requisiti di tipo professionale per questa figura, che, invece, per essere qualificata, dovrebbe essere anche tutelata sul piano della sua professionalità.
Un ulteriore tema, come vi ho accennato, è quello dei revisori. Non è possibile che chi gioca la partita si scelga l'arbitro. Dobbiamo pensare a un elemento di qualificazione dei revisori che, anche in questo caso, ne tuteli l'autonomia. È un altro tema, a mio avviso, importante.
Che cosa fa la Carta delle autonomie locali? Attribuisce al segretario comunale, che ha competenze prevalentemente, se non esclusivamente, giuridiche, il compito di compiere il terzo controllo, dunque di presiedere un'attività di controllo solo consuntivo e non collaborativo - il compito del segretario dovrebbe essere, invece, quello di intervenire prima rispetto alle situazioni - seguendo princìpi di audit e tecniche di campionamento statistico, cioè concetti assolutamente estranei a quelli del segretario comunale.
Il risultato è che, invece di due controlli, se ne hanno tre, si appesantisce il sistema e, molto probabilmente, non si avrà valore aggiunto, perché il segretario comunale è comunque scelto dal sindaco e non ha competenze tecniche.
Mi sembra che, da questo punto di vista, la Carta delle autonomie locali stia seguendo una strada tradizionale e, perciò, inefficace, la stessa che è stata seguita in tutti questi anni e che non ha prodotto risultati.
Svolgo un'ultima considerazione riguardo ai temi contabili e poi concludo,


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presidente. Ho scritto anche su Il Sole 24 Ore un paio di giorni fa che stiamo andando ormai verso una prospettiva federalista. La legge n. 42 del 2009 ha un'idea di federalismo molto equa, perché tiene conto delle entrate, delle spese necessarie per soddisfare le funzioni fondamentali degli enti locali, prevede il calcolo dei costi standard e ne individua la misura adeguata con riferimento agli enti locali affinché questi possano soddisfare la richiesta di servizi da parte dei cittadini.
Guardiamo il panorama delle informazioni che abbiamo sugli enti locali. Mi sembra che l'ultima indagine de Il Sole 24 Ore riferisse che vengono richiesti agli enti locali quarantaquattro tipi di adempimenti informativi. È una montagna di carta e di burocrazia che raccoglie informazioni non organizzate. Nel Regno Unito è l'Audit commission a compiere questa operazione ed è una sola.
Se andiamo a guardare anche solo quello che riguarda le società partecipate dagli enti locali, vediamo che sono richieste dal Dipartimento della funzione pubblica, dal Ministero dell'interno, devono essere aggiornate almeno una volta ogni sei mesi sul sito dell'ente locale, vanno mandate alla Corte dei conti, non una, ma, quest'anno, tre volte.
Si tratta di richieste di informazioni che, per il novanta per cento, sono disponibili alla Camera di commercio. Sono numerosissime informazioni, che non siamo in grado di verificare, e, quindi, si creano tantissimi adempimenti che non producono informazioni attendibili.
Se non disporremo di informazioni attendibili, ciò non ci impedirà di muovere in una direzione federalista, però essa dovrà necessariamente spostarsi sul lato delle entrate: si raccolgono le risorse che non saranno utilizzate, perché il meccanismo della ridistribuzione delle risorse sulla base delle necessità non sarà mai attendibile.
Da questo punto di vista, sono preoccupato, perché, fintanto che si tratta di effettuare simulazioni, non ci sono problemi, ma quando - io sono fiorentino e il presidente è di Bologna - al comune di Bologna verrà chiesto di dare risorse al comune di Firenze per via di alcuni calcoli sulla base dei dati certificati di bilancio, il comune di Bologna risponderà di non credere a tali dati.
Se non lavoreremo seriamente sui dati, non arriveremo a un federalismo di questo tipo. Arriveremo, probabilmente, a un altro federalismo, ma non a quello disegnato dalla legge n. 42. Per arrivare a un federalismo di quel tipo occorre ripensare seriamente il sistema di bilancio dell'ente locale e anche a costruire un sistema di princìpi contabili molto stringenti, che non riguardi solo il bilancio dell'ente locale, ma anche la contabilità analitica dell'ente locale e delle sue partecipate.
Quando svolgeremo questi ragionamenti con riferimento alla fornitura dell'acqua, allo smaltimento dei rifiuti e via elencando dovremo essere in grado di avere dati dalle società partecipate, strutturati nel modo in cui servono a livello nazionale per effettuare tali ripartizioni, altrimenti, nel momento in cui andremo a discutere dei numeri, chiunque potrà affermare di non crederci perché i calcoli sono mal eseguiti.

PRESIDENTE. Ringrazio molto il professore, anche per la chiarezza. Penso che entrambe le relazioni ci abbiano fornito spunti molto interessanti.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

LINO DUILIO. Ringrazio intanto per questo contributo, che si inserisce all'interno di alcune questioni di cui siamo piuttosto consapevoli e che ci avete ricordato per incrementare la nostra consapevolezza.
Oggi, il quadro della finanza locale è piuttosto oscuro, nel senso che i bilanci non sono facilmente leggibili e, soprattutto, comparabili. Sono, inoltre, poco indicativi della situazione finanziaria degli enti, perché sono, per così dire, usciti dalla stalla molti buoi, nel senso che si sono create società tramite cui, con il cosiddetto outsourcing, si sono spostati fuori dall'amministrazione, per le ragioni più diverse,


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alcuni servizi e i relativi presìdi per erogarli.
Adesso si afferma che bisognerà necessariamente compiere, perché andiamo verso l'attuazione della legge n. 42 sul federalismo fiscale, un lavoro che, a mio modesto parere, andava compiuto anche prima. In termini di analisi, anche qui, in una sede anche più politica, come potete ben comprendere, secondo me si rovesciano i termini del discorso, ragion per cui sembra che il federalismo sia diventato la panacea di tutti i mali, in quanto comporterà la chiarezza, la trasparenza, il risparmio, la diminuzione della spesa, quando, in effetti, tali esigenze erano ben presenti in una realtà di finanza pubblica che, da numerosi anni, sconta, come sappiamo, la presenza di situazioni particolarmente critiche non risolte. Basti pensare al discorso del debito pubblico e a quello della spesa storica. Lo ricordo solo per intelligenza, nel senso di intelligere, delle tematiche che stiamo esaminando.
Venendo al merito della questione, siamo tutti d'accordo, anzi speriamo che questa «ecologia» della finanza pubblica ci serva a risparmiare e a ottenere l'inverso di ciò che, malauguratamente sta capitando: da noi aumentano le spese e diminuiscono le entrate, mentre avremo bisogno di fare esattamente il contrario, ovvero di aumentare le entrate e diminuire le spese.
In questo quadro, che ci vede tutti consenzienti, maggioranza e opposizione, almeno a parole, sarebbe interessante, visto che voi siete in ambito universitario, che si affidassero ai ragazzi anche alcune tesi di laurea che andassero a rivisitare le relazioni di maggioranza e di minoranza degli ultimi 10 o 15 anni presentate in Parlamento per vedere quali idee si sono sostenute e quali linee di coerenza hanno attraversato le posizioni di chi, a turno, figura come il principe ovvero il demone della salvaguardia dei conti pubblici.
Chiudo subito la parentesi e vengo a due o tre domande molto più precise. Lei ha svolto un'esposizione dei dati in una sequenza lineare e progressiva, che mi aveva fatto incuriosire al punto che stavo per chiederle se tale progressione matematica, non geometrica, della spesa, via via che si scende dalla Lombardia, al Lazio, andando a finire in Sicilia, portasse a una linea che evidenziava, tra ascisse e ordinate, una tendenza di crescita inversamente proporzionale al discorso geografico, nel senso che, mentre si scende come geografia, si sale come spesa. Poi ho visto i dati della tabella indicata nella relazione che ha depositato e ho notato che la situazione è molto più «vischiosa» - uso questo termine - perché dai dati che lei ci ha esposto emerge che la Basilicata spende meno, come spesa media per utente, di Bolzano.
Un dato che, peraltro, mi colpisce molto è che la Calabria ha una spesa media di 3.559 euro. Sono dati che, rispetto alla vulgata che si legge e che, soprattutto, si recita in sede politica, mi incuriosiscono tanto da chiederle di presentarci un commento un po' più analitico di questa tabella. Lo chiedo per pura curiosità, per intelligere, come sostenevo prima. Mi piacerebbe capire meglio come sia possibile che in Piemonte ci sia una spesa media di quasi 7.000 euro per utente, mentre in Lombardia siamo a 4.293 euro e via elencando. I dati sono forniti da lei.
Sinceramente, non sono molto interessato all'aggregazione, a livello di perimetro geografico, di nord-ovest, nord-est e centro, perché credo che le esigenze che abbiamo sono di conoscere meglio le singole realtà. Si tratta di un dato che possiamo anche assumere per un'esigenza plastica, ma non matematica, né finanziaria.
Desidererei ricevere alcune informazioni in più su questa disaggregazione di dati, che vede elementi non corrispondenti alla vulgata che viene pubblicizzata sul fatto che il federalismo, sostanzialmente, vede una realtà virtuosissima - vivo in Lombardia da quarant'anni e, quindi, sono «un meticcio» - e una che sarebbe, invece, dispendiosissima e quasi «sbracata» per quanto riguarda l'attenzione ai conti pubblici. Mi pare che, dalla tabella che stiamo analizzando, la situazione sia


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un po' diversa. Poiché sento campane che suonano sempre in modo diverso, mi piacerebbe sapere se, attraverso quest'analisi, si può arrivare almeno a un filo conduttore dei dati esposti.
Passo a una seconda domanda, più breve, relativa all'Audit commission. Esisteva nel nostro Paese una sorta di Audit commission, ossia i CORECO, che hanno fatto una brutta fine, perché, in presenza di situazioni totalmente identiche, arrivavano a esprimere pareri esattamente opposti. Addirittura comuni a volte confinanti presentavano il bilancio al CORECO e la «sentenza» - uso il termine un po' ironicamente - che ricevevano era opposta, perché vi interferivano, evidentemente, valutazioni di diversa natura, motivo per cui, alla fine, per tagliare la testa al toro, come si suol dire, sono stati soppressi i CORECO, concludendo che non servivano a niente. Siamo, quindi, precipitati in una situazione, ormai, di totale ricreazione, in cui, fondamentalmente, non ci sono controlli.
Sono interessato a capire un po' meglio quest'Audit commission e, in particolare, al di là di alcuni elementi cui lei ha già fatto cenno, per quanto riguarda la sua composizione, il suo funzionamento e via elencando, se essa sia, per quanto possibile, assumibile come riferimento per il lavoro che dovremmo svolgere in materia del sistema dei controlli da introdurre nel nostro Paese.
In particolare, mi interesserebbe sapere, anche con l'ausilio di dati, che cosa è successo sui parametri finanziari degli enti controllati dall'Audit commission da quando essa ha cominciato a funzionare, cioè se è intervenuto un risultato apprezzabile sul piano quantitativo che consenta di affermare che l'introduzione di alcuni organismi determina i risultati auspicati, se non attesi.
Avrei anche gradito che fossero stati offerti alla nostra analisi anche altri Paesi, per una comparazione più ricca. Per esempio, mi sarebbe interessato capire che cosa succede in Francia, dove vige un sistema totalmente diverso da quello inglese, per comprendere se i dati di spesa e di finanza locale ci permettono di scegliere tra soluzioni diverse e alternative, tutte possibilmente virtuose, oppure se, invece, tali soluzioni sono molto rare o uniche e, quindi, ci rivolgiamo solo a quella inglese, visto che dovremo studiare, con la Carta delle autonomie locali, un sistema in cui il controllo non sia una categoria dello spirito.
Passo a una terza domanda, magari balzana: qualcuno ha provato a domandarsi in che misura e in che rapporto il sistema di controlli convive con lo spoil system? Uno dei problemi che abbiamo e che sicuramente avevamo quando esisteva il sistema dei CORECO, la cui fine è dipesa, ahimè, dal fatto che le valutazioni erano molto spesso di ordine politico, è quello di aver introdotto nel nostro Paese - non mi pare di aver letto considerazioni significative e interessanti, anzi quasi nulla - un sistema di spoil system spurio.
Abbiamo infarcito la pubblica amministrazione di persone che, attraverso la mitica adesione al principio della flessibilità, ha inserito nel settore pubblico, con contratti di natura privata, fior di dirigenza, che sta massacrando il poco che era rimasto della dirigenza che aveva l'etica del pubblico. Fondamentalmente, si rischia di avere una pubblica amministrazione che obbedisce a criteri di altra natura, clientelare, tanto per essere brutalmente chiaro.
Volevo capire se un sistema di controlli, in particolare negli enti locali, può funzionare meglio allorquando vi sia una pubblica amministrazione terza neutra, per chi aderisce a questa filosofia, oppure se, invece, ciò è del tutto indifferente, perché l'unica soluzione è creare audit commission terze, che non c'entrano assolutamente nulla con la pubblica amministrazione da controllare, in questo caso quella degli enti locali.
Mi sono dilungato perché la questione mi interessava. In precedenti audizioni ci è stato suggerito che bisognerebbe adottare - non so, però, quanto sia possibile - una contabilità economica per risolvere tutti i problemi di cui stiamo trattando. Si


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tratta di un'altra questione che a me sembrerebbe il caso di approfondire e l'occasione sarebbe ghiotta.
Intanto, vi ringrazio in ogni caso per le considerazioni che avete svolto e per quelle che svolgerete rispetto a tali argomenti.

MASSIMO VANNUCCI. Più che una domanda, formulo una considerazione. Siamo in pochi e, se non si è già scusato lei con i nostri auditi per la scarsa partecipazione, credo di doverlo fare io dai banchi della minoranza.
La considerazione è la seguente. Non so se avete valutato la legge di riforma del bilancio n. 196 del 2009 che abbiamo emanato e gli effetti che può produrre rispetto a quello che la professoressa D'Alessio ricordava sulla lettura dei bilanci e del rendiconto.
Le valutazioni che svolgete possono essere per noi interessanti, in quanto il processo di riforma, chiamiamolo così, non si è ancora concluso. Mi riferisco in particolare ai princìpi della legge n. 42 del 2009 in materia di federalismo, richiamati soprattutto dal professor Pozzoli, e alla, Carta delle autonomie locali, che abbiamo in cantiere e con la quale si potrebbero, alla fine, sistemare alcune questioni che oggi abbiamo discusso.
I quesiti dell'onorevole Duilio rispetto alle considerazioni del professor Pozzoli sui differenti livelli di spesa per lo stesso servizio possono trovare risposta laddove, nella legge n. 42 del 2009, sono fissati i livelli essenziali delle prestazioni e i costi standard. Il tentativo di questo Paese di cercare sempre di adeguarsi alle migliori pratiche, o alle best practice, come dicono gli inglesi, dovrebbe imboccare questa strada.
Dobbiamo, però, anche sapere che ci portiamo dietro sistemi antichi e credo che una causa dei problemi possa essere quella. La professoressa D'Alessio ha fatto riferimento alle esternalizzazioni. A tale proposito, penso agli asili nido del Lazio o di Roma, che se fossero gestiti da dipendenti del comune secondo determinati parametri darebbero determinati risultati, e se, invece, fossero affidati a cooperative o esternalizzati, probabilmente darebbero migliori risultati, come quelli ottenuti in Lombardia o in altre regioni. Tutto ciò per non dimenticare che ci portiamo dietro anche un pregresso piuttosto pesante.
Per quanto attiene, invece, al sistema del controllo, l'esperienza inglese mi sembra fondamentale in un punto, ossia quello che i revisori dei conti siano nominati da terzi e non dall'ente stesso, nonostante quanto imporrebbero l'etica o la deontologia. Stiamo parlando di ordini professionali tenuti dal Ministero della giustizia.
Penso, però, che la questione dei controlli non sia diversa anche rispetto agli enti in cui, per esempio, è prevista la presenza, nel collegio, dei rappresentanti della Ragioneria dello Stato. Forse esiste qualcosa di più complesso e diverso nei meccanismi, nelle documentazioni da produrre, perché abbiamo esperienze di diversi tipi.
Nelle aziende sanitarie locali, per esempio, è prevista la presenza, nel collegio dei revisori dei conti, della Ragioneria dello Stato e, quindi, di un ente terzo. Se estendiamo il discorso all'intero settore sanitario, però, potremmo trovarci davanti ad una situazione forse più preoccupante in merito alle spese di una regione rispetto all'altra e alla difficoltà di avvicinarsi alle migliori pratiche.

PRESIDENTE. Prendo brevemente la parola per svolgere alcune considerazioni. Non so se siano domande, ma forse meritano una riflessione.
Mi pare che i problemi esposti, come ricorderanno i commissari che erano presenti questa mattina, siano molto simili a quelli che abbiamo sentito nell'audizione del professor Antonini, che è venuto a relazionarci come presidente della Commissione tecnica paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale, nominata ai sensi della legge n. 42 del 2009.
In particolare, ritengo che un sistema di controlli presuppone regole certe e un'omogeneità di informazioni. Forse conviene che il nostro lavoro prenda le mosse


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da questo punto, perché, da quello che abbiamo sentito questa mattina e oggi, a mancare sono proprio regole certe di applicazione della redazione dei bilanci degli enti locali e la simmetria informativa, senza la quale si finisce per rendere non equiparabili i dati che abbiamo a disposizione.
Ho la massima stima e rispetto per gli amici calabresi, ma vorrei andare a vedere perché un posto all'asilo nido in Calabria costa 3.500 euro, in Lombardia 4.700 e in Emilia Romagna 5.200. Prima di sostenere che va tutto bene, voglio capire come è stato formato quel costo e che cosa lo stesso comprenda.
Mi viene da affermare che la base di partenza sia proprio la redazione di alcune regole, che possono trovare espressione solo in un prodotto, ossia in alcuni princìpi contabili validi per tutti. È questo il punto di partenza: principi contabili di applicazione alla redazione dei bilanci validi per tutti.
Continuo a sostenere - l'ho detto questa mattina, ma lo ribadisco - che tutto ciò deve passare attraverso una contabilità di tipo economico e non finanziario, perché, fino a quando si ha una contabilità finanziaria, non si avrà mai fino in fondo un'analisi dei costi, soprattutto quando si dovrà affrontare il vero tema della legge n. 42 del 2009, ossia quello della determinazione del costo standard. Infatti è difficile avere un costo standard senza una contabilità economica.
È vero quello che sostiene l'onorevole Causi e, in particolare, che è possibile fare riferimento a valori statistici, ma si avrà sempre un costo standard impreciso, che non riflette il costo reale del servizio. Occorrono, dunque, princìpi contabili applicati a una contabilità di tipo economico, che può continuare a convivere con una contabilità di tipo finanziario, che, giustamente, per raccordo con la contabilità nazionale e con i princìpi SEC, gli enti locali devono continuare ad adoperare.
Il terzo punto riguarda il consolidato. Oggi gli enti locali hanno esternalizzato molte delle loro attività e io spero che continuino a farlo. Esternalizzazione vuole dire sussidiarietà e penso che sia vero quello che affermava l'onorevole Vannucci: più si esternalizza e più, in teoria, se tutto funziona, il che è tutto da verificare, il costo dovrebbe scendere e la qualità dovrebbe salire. Tuttavia, esternalizzando, rischiamo di perdere il controllo della situazione, cioè di non conoscere più quello che l'ente locale sta davvero facendo.
Ritengo che, prima ancora di parlare di un sistema di controllo, dobbiamo pensare ad avere qualcosa da controllare. Almeno a mio parere, ciò si può ottenere solo attraverso questi tre passaggi, perché, diversamente, possiamo mettere in piedi il miglior sistema di controllo possibile, ma non abbiamo la base su cui andare a svolgere un controllo effettivo.

LIDIA D'ALESSIO, Professore ordinario di economia aziendale presso l'Università degli studi Roma Tre. Cercherò di rispondere complessivamente alle domande poste e partendo dalla fine, in modo da compiere un lavoro senza incorrere in troppe ripetizioni e in maniera coerente rispetto agli interrogativi. Parto, quindi, dagli ultimi quesiti, e, in particolare, dalle regole certe, dall'omogeneità dell'informazione e dal costo standard. Dopodiché, dal costo standard, passerò, attraverso la contabilità economica, al tentativo di dare una visione d'insieme.
Sembriamo tutti d'accordo nel ritenere che la funzione e, quindi, il sistema dei controlli negli enti locali non sia sicuramente razionalizzata nella sua modalità, sia di configurazione, sia di risultati e, quindi, di lavoro. Abbiamo anche chiaro che tali funzioni richiedono professionalità alte e autonomia di giudizio.
Il concetto dei revisori, che possono essere appartenenti all'Audit commission oppure possono essere nominati da un consiglio, ma hanno la visione di doversi garantire un ulteriore mandato e un'ulteriore modalità di permanenza di determinate funzioni, crea chiaramente un gap iniziale che ne influenza la valutazione, il giudizio e, quindi, le professionalità.


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A mio avviso, bisogna, quindi, operare in modo differente. In particolare, non bisogna aggiungere controlli, come può fare la Carta delle autonomie locali, che aggiunge un controllo giuridico, ogniqualvolta si evidenziano situazioni che non funzionano. Questa sommatoria all'infinito non migliora la qualità delle informazioni o delle funzioni a cui stiamo facendo riferimento, ma aggiunge documentazione, dati su dati, elaborazioni su elaborazioni, probabilmente anche accrescendo la confusione e diluendo e riducendo l'efficacia della valutazione e del giudizio stesso.
Questi sono due elementi. È giusto ed essenziale pensare che la funzione dei controlli si debba esaminare, razionalizzare e configurare negli enti locali, ma partendo da quali dati? Qual è il sistema informativo? Questi dati sono attendibili, come si domandava Pozzoli prima e come è stato ripetuto continuamente?
In merito all'attendibilità del dato, ricordo che già attualmente, nelle norme che disciplinano gli enti locali, si parla di un bilancio veritiero e significativo. Ne siamo, però, certi? Possiamo affermare che quei dati di bilancio siano veritieri, al di là della leggibilità del documento stesso?
La veridicità di tali documenti e di tali dati è già il primo elemento di debolezza e non più di forza, come asserito nelle norme. Occorrono norme certe. È questo il punto. Le norme certe sono un problema messo in evidenza sia dalla legge n. 42 del 2009, che dalla legge n. 196 del 2009. Infatti, non possiamo svolgere due riflessioni distinte su due tavoli diversi e poi tentare di omogeneizzare le stesse. Forse è opportuno, visto che si tratta di una finalità comune delle due norme, creare un unico punto di riflessione e un'unica definizione delle norme certe su cui andare a costruire qualcosa. Questo è un primo punto.
Passo al secondo punto. Vogliamo tendere all'autonomia dirigenziale e manageriale degli enti; la logica del federalismo porta ad affermare, prima di tutto, che si è responsabili di ciò che si fa per la propria comunità. La seconda riflessione fondamentale è la seguente: l'organo di controllo, qualsiasi esso sia, risponde alla comunità e deve tutelarla.
In più, dobbiamo sicuramente distinguere ancora due elementi, ovvero che cosa sia il controllo interno ed esterno. Il controllo interno serve agli organi che devono governare la struttura, il dato ente, mentre il controllo esterno serve per gli stakeholder, per la comunità, per altri, per le sovrastrutture, per la governance esterna dell'ente locale nei confronti della regione e della regione nei confronti dello Stato. Sono entità e finalità diverse, che debbono usare tutti i dati di base, ma si tratta di dati diversi.
Sicuramente per la governance esterna di un ente locale non è necessario andare a vedere il costo dell'asilo nido, perché questo va a impattare direttamente sulla capacità di un dato dirigente di offrire un servizio di migliore o peggiore qualità o di giustificare perché si spendono tanti soldi. All'esterno, invece, non interessano i dati aggregati, ma i criteri sulla base dei quali gli stessi vengono aggregati.
Le regole rappresentano, dunque, la parte essenziale. Mi piacerebbe che, dopo vent'anni trascorsi nella pubblica amministrazione, ci fosse un cambiamento vero e che non ci fosse più solo la tendenza ad aggiungere altre norme, anche contraddittorie con quelle precedenti, ma che non procedono a cancellarle totalmente. È importante, quindi, che il cambiamento non si concepisca solo attraverso una sommatoria all'infinito di norme.
Passo al tema della contabilità e del costo standard. Mi ha fatto molto piacere sentire il presidente parlare di costo standard in una logica per cui occorre conoscere il costo per poter individuare un costo standard, ovvero occorre conoscere un costo effettivo, attendibile, riferito a un dato output, a un dato servizio e che si possa prendere come significativo e veritiero. Non si parla di vero in senso assoluto, ma di veritiero nel senso che lo si può andare a determinare attraverso i suoi elementi analitici in modo da conoscere con certezza che è un dato vero.


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Il costo standard è la nuova sfida da affrontare, sfida fondamentale e difficilissima. Oserei dire che, se volessimo guardare il costo standard, dovremmo procedere con un'analisi dei costi che abbia almeno una significatività di alcuni anni di reale applicazione, altrimenti rimarrebbe una fantasia.
Oggi, infatti, non si usa tanto parlare di costo standard, ma di fabbisogno standard, che è un'altra cosa. È una realtà a cui tendere velocemente, perché quello del fabbisogno standard o delle performance standard, cioè delle prestazioni da garantire a qualsiasi cittadino, è un discorso che si può fare, con riferimento ai livelli essenziali, alle prestazioni essenziali, come sono stati chiamati in sanità.
Il costo standard, di per sé, è necessario anche all'interno di un controllo di un ente locale singolo. A maggior ragione, poi, è interessantissimo quando si sviluppa il benchmarking, che si può fare a livelli di territorialità.
Che cos'è, a questo punto, la contabilità economica? Non è la panacea di tutti i mali, ma impone una modificazione culturale. Vent'anni fa, nel 1990, cominciavamo a parlare delle tre «e», poi diventate quattro: efficienza, efficacia, economicità, cui si è aggiunta l'etica. Poi si è aggiunta anche un'altra «e», quella dell'equità, che è ancor più importante dell'etica, e che negli enti locali è un punto fondamentale.
A prescindere dal numero delle «e», una contabilità economica oggi è necessaria perché, altrimenti, non possiamo misurare la responsabilità, la qualità del management, di coloro che portano avanti i risultati e che si devono preoccupare della gestione.
Il vero problema che scaturisce da questi concetti è che: mentre in precedenza, ovviamente, si rispondeva delle risorse finanziarie movimentate, oggi si chiede, invece, al di là delle risorse finanziarie utilizzate, che cosa si è compiuto e quali risultati si sono conseguiti, quale soddisfazione si è data, quale responsabilità è stata assunta e in che modo. In sintesi, questi sono i problemi: in che modo si lavora, che cosa si fa e per chi?
A ciò si risponde, purtroppo, soltanto attraverso una contabilità economica, il che non significa semplicemente quali risorse sono state movimentate, ma come le stesse sono state consumate e per quale ragione.
Passo ora ai temi del bilancio consolidato e all'esternalizzazione. Il bilancio consolidato è un tema molto interessante, su cui, però, bisogna svolgere una riflessione: da dove nascono le risorse in entrata? E, in particolare, se vi è il trasferimento delle entrate trasferite all'ente, che compiono mille passaggi in mille aziende del consolidamento, o ci sono altre entrate o non è possibile mantenere il gruppo in quel modo. Le entrate debbono, quindi, essere completamente riviste, altrimenti il sistema non funziona. Se si effettua un trasferimento dal centro o dalla regione a un ente locale e l'ente esternalizza, ovvero incarica cinquanta aziende di svolgere gli stessi servizi e altro, se le entrate sono sempre quelle, come fanno a moltiplicarsi le spese? Ci debbono essere altre entrate, non c'è dubbio, altrimenti non c'è l'equilibrio. Questo è un problema straordinariamente interessante.
Passo a un altro tema che vorrei affrontare, avviandomi verso la conclusione. Tra i revisori ci sono i rappresentanti della Ragioneria generale dello Stato. Per fortuna, perché forse ci possono dare una mano, ma è anche vero che non è così facile farlo, perché, come abbiamo detto e come ricordava il presidente poco fa, occorrono regole chiare mediante le quali si identifichino i dati e si elaborino le informazioni.
Se si hanno sempre tre dati di contabilità solo finanziaria e si vedono nel controllo di gestione, nei revisori, nel nucleo di valutazione, se li vede la Corte dei conti, l'audit e via elencando, ma sono sempre quelli, è difficile portare avanti gli input informativi per i diversi organi interessati.
Vengo al tema di controllo e spoil system. È un argomento non molto affrontato, non molto considerato, ma non sarebbe male introdurre persone con maggiore capacità professionale per il governo


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della pubblica amministrazione, anche provenienti dal mondo esterno, anche privato: potrebbe rappresentare una leva di accelerazione per l'innovazione. Se, però, tutto ciò avvenisse nella logica precedente, burocratica e antica, in cui i controlli non funzionano, probabilmente non darebbe alcuna risposta o risultato.
Concludo con la legge n. 196 del 2009 e l'attuale situazione degli enti locali. Gli articoli 1 e 2 della suddetta legge n. 196 parlano di armonizzazione, di consolidamento dei conti, e di monitoraggio e pongono la Ragioneria generale dello Stato al centro di tali operazioni.
Il problema, tuttavia, è che ci troviamo davanti a due mondi separati, perché gli enti locali hanno, attualmente, regole diverse, e per quelle previste dalla legge n. 196 del 2009, dobbiamo attendere i decreti attuativi. L'armonizzazione e il consolidamento, però, erano anche previste nella legge precedente, la n. 468 del 1978. Dobbiamo sicuramente lavorare nella logica dell'armonizzazione, però non possiamo dimenticarci i princìpi internazionali, in cui l'aspetto della contabilità economico-patrimoniale è ribadito fortemente.
Anche gli enti locali, in un certo senso, l'hanno introdotto, almeno in parte. Manca la contabilità analitica, ma cominciano a esserci alcune contabilità dei servizi e dei costi dei servizi, il che non è male. Prendiamo allora esempio dagli enti locali nei confronti della legge n. 196 del 2009 e per l'armonizzazione.
Concludo, affermando che, in questa logica, anche a livello europeo, dove il concetto di economico si avvicina al concetto statistico, ben venga la misurazione statistica, ma non è un dato certo, almeno non ancora. Inoltre, non ci consente di omogeneizzarci a livello internazionale con gli altri Paesi, dove la contabilità economico-patrimoniale risulta essere, ormai, un dato di fatto.
Evidentemente, dobbiamo tenere presenti tutte queste barriere o le norme che possono aiutarci ad andare avanti.

STEFANO POZZOLI, Professore ordinario di ragioneria generale presso l'Università degli studi Napoli Parthenope. In primo luogo, condivido il fatto che l'elemento dei princìpi contabili sia fondamentale, ma con una puntualizzazione. Bisogna delineare i princìpi non soltanto di contabilità generale, come nelle imprese, ma anche di contabilità analitica, che dovranno riguardare i servizi.
Penso di essere forse il più forte sostenitore, come dimostrato nelle mie pubblicazioni, del bilancio consolidato negli enti locali. Tuttavia, il punto è che esso riguarda temi di forte accountability per l'ente locale, ma sul tema del federalismo serve al confronto l'analisi. Sono elementi da vedere abbinati in un determinato modo. Abbiamo bisogno di accountability per i cittadini, ma anche di informazione di carattere generale.
Quanto alla tabella contenuta nel documento che ho depositato, vi fornisco soltanto un dato. Quando la Commissione di cui si parlava prima ha guardato i certificati di bilancio, si è accorta che oltre il 40 per cento delle risorse erano tutte nella funzione 1, ossia nelle varie ed eventuali, sostanzialmente. È chiaro, dunque, che ho preso a esempio questi dati perché volevamo capire le tematiche principali, ma è evidente che la loro attendibilità è molto scarsa. È proprio questo il problema su cui ci dobbiamo misurare.
Quando si distribuiranno le risorse su tabelle, bisognerà essere tutti ragionevolmente certi che i dati siano veri. Quando sono stati diffusi in maniera analitica i dati del conto del personale, è risultato che il comune con meno assenteismo era Siracusa e quello con più assenteismo Bolzano. Ci si può credere oppure no, ma è legittimo che sorgano dubbi.
Quanto ai sistemi di controllo nei diversi Paesi, innanzitutto teniamo conto che gli enti locali sono animali diversi a seconda della nazione, perché il significato di ente locale spesso cambia.
Il comune di New York gestisce la polizia, la sanità, ma non il trasporto pubblico locale. Se andiamo a vedere i dati di tale comune, che conta 8,2 milioni di


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abitanti, vediamo che ha più di 300 mila dipendenti, che svolgono numerosi servizi di cui in Italia i comuni non si occupano.
Inoltre, i comuni in Canada non sono costituzionalmente garantiti. Il comune di Montreal esiste in quanto esiste un editto del Québec, che ne afferma l'istituzione; peraltro, non si tratta di un ente locale, ma è una città metropolitana, per intenderci.
Per quanto riguarda i comuni in Inghilterra, se guardiamo proprio a Londra, altra città da 8,2 milioni di abitanti, vediamo che è divisa in 32 o 33 borough, ossia comuni, e che la Greater London Authority è un'altra realtà, una città metropolitana che gestisce l'acqua, i trasporti e via elencando. Molto spesso, quindi, dobbiamo prestare attenzione, quando compiamo questi confronti.
Per rispondere all'onorevole Duilio, ricordo che in Francia hanno la contabilità economica. Le hanno tutte, in realtà: la cassa, il bilancio di esercizio, quello finale, il rendiconto economico redatto secondo i principi privatistici. Il responsabile dei servizi finanziari dipende dal Tesoro e non è un dipendente dell'ente locale, un po' come era da noi, un tempo, il segretario.
Per quanto riguarda il tema dei revisori, a mio parere devono essere indipendenti. La Ragioneria generale dello Stato, il Ministero dell'economia e delle finanze, ha tantissimi poteri ispettivi, che deve esercitare attraverso gli strumenti idonei, ossia le ispezioni. Tuttavia, che senso ha che entri anche nel collegio dei revisori? Il collegio dei revisori deve essere scelto da un ente terzo, dal mio punto di vista la Corte dei conti, e non composto da dipendenti della Corte dei conti o del Ministero dell'economia e delle finanze.
Il meccanismo dello spoiling system, secondo me, è un tema molto vero. Infatti, se parlate con chi ne ha esperienza o se avete avuto esperienze personali di amministrazione locale, vedrete che molto spesso sorge il seguente dubbio: se si chiede al dirigente di compiere una determinata azione e lui risponde di no, ciò avviene perché davvero non si può o perché non ha voglia, non gli interessa e via elencando?
È chiaro, quindi, che deve esistere un rapporto fiduciario stretto, a seconda dei ruoli ovviamente, fra amministratori e dirigenza. Il problema è che spesso ciò, almeno in Italia, non si sposa con la professionalità.
Vi rubo due minuti per raccontarvi un aneddoto relativo a quando sono stato in un comune inglese. Mi sono recato in tale ente a parlare con il budget manager, cioè con il responsabile dei servizi finanziari.
Gli inglesi hanno una contabilità economica piena e un meccanismo che, a mio parere, è molto civile. All'inizio dell'anno, predispongono un budget in cui devono dimostrare l'entità della local tax. Stilano l'elenco di operazioni da realizzare, dopodiché si rivolgono ai cittadini e al consiglio e indicano la quantità di entrate, di risorse necessarie. Si crea, quindi, un'unica imposta, la cui natura è chiara, giustificata dalle prestazioni di servizio che devono essere date, e che pesa per il 7 per cento delle entrate.
Dopo la Thatcher, è stata scelta una politica di accentrare le entrate a livello nazionale e non di dare autonomia fiscale, ma c'è autonomia nella prestazione di servizi. Per esempio, il servizio dell'edilizia abitativa popolare è in pareggio ovunque. Si è creato un meccanismo tale per cui si mantiene in equilibrio.
L'unico vincolo è redigere il succitato budget, curare il prelievo dell'entrata e poi, entro fine anno, non essere in perdita, a meno che non ci fosse un utile negli esercizi precedenti.
Si scelgono, all'interno dell'ente - questa si chiama autonomia - quali meccanismi di verifica attuare, per esempio un controllo del budget mensile o trimestrale, e il tipo di regole da seguire. È un meccanismo autonomo.
Ho domandato al responsabile dei servizi finanziari che cosa sarebbe accaduto se fosse andato in perdita. Lui mi ha guardato e mi ha risposto che non era mai accaduto. Ho chiesto che cosa succederebbe nell'eventualità in cui ciò capitasse.


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Mi ha guardato come se avesse a che fare con un imbecille e mi ha risposto di avere in mano tutte le leve per non andare in perdita, per esempio interrompendo i servizi non essenziali, bloccando le assunzioni o licenziando.
A quel punto, ho chiesto che cos'avrebbe fatto nel caso in cui il consiglio comunale, che in quel Paese è molto più importante dell'organo amministrativo, gli avesse indicato di andare in perdita. Mi ha guardato sempre più stupito e mi ha risposto che ciò sarebbe un fatto grave, perché, se fosse andato in perdita, sarebbero venuti i rappresentanti dell'Audit commission e del ministero e gli avrebbero chiesto, innanzitutto, le ragioni e poi avrebbero potuto chiedere al consiglio comunale di licenziarlo.
A quel punto, ho chiesto che cosa sarebbe successo se non fosse stato licenziato. Mi ha risposto che, in primo luogo, ciò non era mai successo e, in secondo luogo, che non avrebbe trovato più lavoro. Esiste, dunque, un meccanismo di controllo e di etica professionale tale per cui - sono storie che a noi fanno sorridere, se si pensa al comune di Napoli - situazioni simili non accadono. Ciò significa anche che il sindaco di un comune ha un mercato della dirigenza pubblica e conosce di persona come funzionano le cose, non per sentito dire.
Esiste, inoltre, un meccanismo tale per cui, se si vuole prendere il migliore, o qualcuno fra i migliori, lo si può trovare. Questo è il limite del nostro spoiling system. Perché il direttore generale è una figura che non ha avuto successo? Da una parte, perché i privati non si sfidavano, dall'altra, perché non c'era oggettivamente la possibilità, anche per gli amministratori che volevano un direttore generale bravo, di trovarlo sul mercato. Si resta nel meccanismo delle conoscenze, che può funzionare o meno.
Svolgo un'ultima considerazione sulla legge n. 196 del 2009 e concludo. Trovo alcuni passaggi molto interessanti, come la Commissione per i princìpi contabili, che è un elemento importante. Ritengo, però, che la scelta di passare alla contabilità di cassa nello Stato sia un grave limite, anche perché saremo l'unico Paese a economia avanzata che avrà una contabilità di sola cassa a livello statale. Nel panorama internazionale non ci sono precedenti.
Sono stato membro dell'International Public Sector Accounting Standards Board, l'organismo che redige i princìpi contabili a livello internazionale. I princìpi di cassa sono stati approvati, peraltro sempre con il mio voto contrario, ma sono pensati per il terzo mondo, cioè per le economie sottosviluppate. Si ritiene cioè che, tali Paesi non siano in grado di tenere la contabilità vera, quella accrual, e, quindi, gli si fa fare questa perché è meglio di nulla.
Ciò non significa che non serva un budget di cassa. È fondamentale, soprattutto in periodi di crisi. Tuttavia, affidarsi alla sola cassa comporterà serie difficoltà anche ai fini statistici, come peraltro mi sembra che abbia riferito proprio in audizione a questa Commissione il presidente dell'ISTAT.
Il SEC 95 prevede, infatti, la contabilità economica o, in subordine, dove essa non ci sia, il meccanismo ibrido che tutti conosciamo. Tuttavia, rinunciare alla contabilità economica come elemento conoscitivo e, in certa misura, anche di programmazione è una scelta quanto meno in controtendenza con l'orientamento di tutti i Paesi della Unione europea.

LINO DUILIO. La questione del bilancio di cassa ha costituito oggetto di riflessioni diverse e di opinioni di un tipo e dell'altro.
Una delle osservazioni che si svolgeva rispetto al sistema ibrido attuale è che, fondamentalmente, ci troviamo di fronte a montagne oramai ingovernabili di residui. Si lavora sulla base di stime molto larghe per voci di bilancio che vengono costruite per aggiunte successive, a prescindere, tanto per mettersi la coscienza a posto, e, per non sbagliare, si procede con una logica incrementale. Ciò ha determinato un fenomeno che adesso non si riesce più


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a governare: ci si sarà anche tranquillizzati con questo meccanismo, ma, nei fatti, i residui sono diventati ingestibili.
Peraltro, abbiamo esaminato anche molti altri aspetti, ma ho riscontrato che autorevoli personaggi che si intendono di contabilità e conoscono anche le situazioni di altri Paesi sono - se posso dire così - «cassisti». Fornivano anche motivazioni che ci hanno portato a riflettere. Tutti sono molto preoccupati e ci hanno riferito che ci vorranno dieci o quindici anni.
Volevo capire se lei prende in considerazione queste osservazioni, in particolare in merito al sistema ibrido che abbiamo adesso e che ci porta ad avere bilanci un poco vischiosi, per usare un eufemismo, soprattutto con riferimento al fenomeno dei residui.

STEFANO POZZOLI, Professore ordinario di ragioneria generale presso l'Università degli studi Napoli Parthenope. Sarò telegrafico. In primo luogo, se il presidente lo ritiene, invierei le proposte del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili per quanto riguarda gli enti locali, perché, proprio sul fatto delle difficoltà degli enti locali in termini di squilibrio, come Consiglio nazionale stavamo pensando di presentare alcune proposte per individuare una terza via fra la normalità e il dissesto.
Per gli enti che hanno gli indicatori di deficitarietà oltre il 50 per cento pensiamo a un sistema di salvataggio graduale o facciamo finta che vanno bene fino a quando non si arriva a un dissesto? Esso, peraltro, non conviene all'ente e, quindi, non viene mai dichiarato, e non conviene al territorio, che si trova un soggetto insolvibile molto importante.
Quanto al meccanismo della cassa, innanzitutto teniamo conto che, se parliamo di Stato, in merito all'attendibilità, la previsione è comunque una previsione, che sia di cassa, che sia finanziaria, che sia economica, e presenta elementi di alea.
Il problema è che il sistema contabile dovrebbe favorire la lungimiranza. Non dovremmo avere un sistema che guarda solo al breve termine. Numerosi Paesi, come gli Stati Uniti, hanno la cassa perché riconoscono che non esistono il medio e il lungo termine senza il breve termine, però hanno un sistema accrual, che abbinano a questo per contemperare tali esigenze.
Vi porto un esempio rapidissimo. La Commissione europea, che è passata a un sistema IPSAS, si è accorta che, adottando i princìpi contabili di tipo economico, ha un deficit mostruoso. Ciò è dovuto al fatto che si compiono oggi scelte che hanno effetti economico-finanziari in futuro. Almeno sul piano conoscitivo, questo meccanismo ci deve essere. Si deve sapere che, se si decide di assumere oggi dieci persone, magari a novembre, per trent'anni rimarranno e che cosa ciò peserà e significherà nel futuro.
Avere un sistema quanto meno abbinato permette di monitorare l'emergenza, che è la cassa. Moltissimi Paesi che avevano solo l'accrual, come l'Australia, stanno tornando anche alla cassa come abbinamento, però non si limitano a essa. Si deve pensare a un sistema abbinato, che serva proprio in fase di programmazione.
A livello di rendiconto, è chiaro che il sistema a contabilità economica è più attendibile, perché con la cassa, se non si paga o se si paga prima, può cambiare la situazione.

LIDIA D'ALESSIO, Professore ordinario di economia aziendale presso l'Università degli studi Roma Tre. Vorrei svolgere una piccola considerazione. Sarò brevissima.
Non c'è dubbio che il problema delle infinite montagne di residui crei difficoltà nella lettura del bilancio. Tuttavia, prima di tutto, nella legge n. 196 del 2009 si parla di bilancio di cassa nella previsione e non nella rendicontazione, un altro problema non da poco. Occorre, infatti, capire che nel mondo pubblico esiste il sistema dei bilanci: si parte col bilancio di previsione, che dovrebbe evolversi verso un budget, e si arriva al bilancio di consuntivazione o di rendicontazione.
In secondo luogo, il problema dei residui, già nel 1995 e poi con il testo unico del 2000 per gli enti locali, secondo la norma - i bravi amministratori l'hanno


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applicato - era stato risolto attraverso la prenotazione di impegno.
Se avessimo guardato i dati attendibili nell'andamento storico dal 2000 a oggi, avremmo dovuto trovare una riduzione continua dei residui. La prenotazione di impegno, infatti, toglieva dagli impegni le fantasiose ipotesi di spesa che poi non trovavano realizzazione. Invece di gonfiarli, si pulivano gli impegni e i residui cadevano.
Il problema, allora, ha due risvolti. In primo luogo, perché questa legge non è stata applicata? In secondo luogo, perché i revisori non puliscono i bilanci dai residui, il che è un loro preciso compito, dovendo presentare una specifica relazione finale di accompagnamento al bilancio? In terzo luogo, siamo sicuri che mettendo poi il bilancio di cassa nella previsione e non nella rendicontazione, ragion per cui avremo comunque i residui, questa volta sottraendo il bilancio di competenza e aggiungendo un bilancio di cassa di previsione, il problema sia risolto? A mio avviso, non lo siamo assolutamente.
Se in dieci anni nessuno si è preoccupato di dire ai revisori che il loro compito è pulire i residui dal rendiconto e far fare le prenotazioni di impegno - è su questo punto che si attuano le vere politiche di innovazione - probabilmente andremo a un bilancio di cassa che non funzionerà.

PRESIDENTE. Ringrazio molto i nostri ospiti per l'interessante contributo offerto nel corso dell'audizione. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal professor Pozzoli (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,20.

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