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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
2.
Mercoledì 12 gennaio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione del presidente dell'Associazione bancaria italiana (ABI):

Conte Gianfranco, Presidente ... 3 9 13 16 19 21 23 24
Barbato Francesco (IdV) ... 9 19
Comaroli Silvana Andreina (LNP) ... 12
Fluvi Alberto (PD) ... 9 20
Fogliardi Giampaolo (PD) ... 12
Fugatti Maurizio (LNP) ... 12 20
Mussari Giuseppe, Presidente dell'ABI ... 3 14 16 21 24

ALLEGATO:Documentazione consegnata dal presidente dell'ABI ... 25
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l’Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud Libertà e Autonomia, I Popolari di Italia Domani: Misto-Noi Sud-PID; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Repubblicani, Azionisti. Alleanza di Centro: Misto-RAAdC.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 12 gennaio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 14,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del presidente dell'Associazione bancaria italiana (ABI).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione del presidente dell'Associazione bancaria italiana (ABI).
Il presidente Mussari è accompagnato da Giovanni Sabatini, direttore generale, Carlo Capoccioni, responsabile delle relazioni istituzionali, Gianfranco Torriero, direttore centrale strategie e mercati finanziari, David Sabatini, responsabile della finanza, e dalla dottoressa Ilde Ferraro, responsabile dei rapporti con la stampa.
Presidente, innanzitutto, colgo l'occasione per porgerle i nostri auguri, anche in considerazione della gravosità del compito che le è stato affidato.
Come lei sa, gli enti creditizi svolgono un ruolo di primo piano sui mercati degli strumenti finanziari, i quali presentano notevoli problemi. È nostra convinzione che un funzionamento più adeguato di tali mercati darebbe una risposta anche alle aziende italiane, sia aiutandole a superare meglio le attuali difficoltà sia, eventualmente, ponendole in condizione di raggiungere in maniera più agevole i propri obiettivi di crescita. Da qui l'idea di avviare un'indagine conoscitiva.
Sui temi sinteticamente indicati vorremmo conoscere, oggi, la sua opinione, in qualità di presidente dell'Associazione bancaria italiana.
Le do quindi la parola, avvocato Mussari.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Signor presidente, onorevoli deputati, vi ringrazio innanzitutto per l'invito, da noi, come sempre, molto gradito.
Siamo qui, oggi, per dare il contributo dell'Associazione bancaria italiana sui temi che il presidente Conte ha poc'anzi tratteggiato.
Il mio ragionamento sarà strutturato sostanzialmente in tre parti: nella prima, forniremo qualche dato macro di inquadramento; nella seconda, concentreremo il ragionamento sui diversi aspetti del listing del mercato azionario; nella terza, trarremo alcune conclusioni.
Il dato di fatto da cui bisogna partire è che il peso dei finanziamenti bancari, nell'ambito della passività delle imprese italiane, è preponderante - in termini quantitativamente importanti, come vedremo - rispetto all'esperienza dei Paesi anglosassoni.
Da un lato, ciò rende le banche fiere del ruolo di sostegno che hanno svolto, svolgono e continueranno a svolgere a favore delle imprese.


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Da un altro, però, è del tutto evidente che siamo tenuti a compiere ulteriori passi nella direzione di uno sviluppo armonico del mercato finanziario, sia nel complesso sia con riferimento ad alcuni specifici segmenti.
La questione dimensionale non va impostata in termini ideologici. È evidente, infatti, che dare soluzione al problema dimensionale non significa, per ciò solo, risolvere anche i problemi di efficienza e di produttività. È del pari evidente, tuttavia, che una criticità dimensionale, al netto di nicchie produttive che fortunatamente continuiamo a mantenere, e che hanno generato, in parte, anche il successo dell'impresa italiana, crea una maggiore possibilità di investimenti e di innovazione.
Si tratta di un tema che va affrontato in termini generali, tenendo conto del fatto che a una realtà imprenditoriale come quella italiana non può essere applicata un'unica ricetta: le peculiarità del nostro tessuto imprenditoriale ci impongono di ricorrere a ricette plurime.
L'accesso delle nostre aziende al mercato dei capitali è una di quelle questioni generali che possono interessare una determinata categoria di aziende. A questo proposito, quali sono i numeri?
In Europa, la percentuale degli strumenti di finanziamento diretto sui mercati (obbligazioni e azioni quotate), sul complesso delle risorse finanziarie utilizzate dalle imprese, è inferiore alla metà di quella raggiunta dai prestiti. Le due fonti di finanziamento tendono invece ad equivalersi se si ha riguardo alla Gran Bretagna.
In ambito europeo, l'Italia presenta una situazione oggettivamente estrema: la somma di obbligazioni e azioni quotate supera di poco il 12 per cento delle passività totali, contro un valore dei prestiti prossimo al 50 per cento.
Ciò mostra in modo significativo come nella struttura finanziaria delle nostre imprese il rapporto tra le passività verso il mondo bancario e la disponibilità di capitale proprio sia nettamente sbilanciato a favore delle prime.
D'altra parte, se guardiamo alle dimensioni del mercato azionario italiano, sotto il profilo dell'incidenza della capitalizzazione di Borsa sul prodotto interno lordo, ci accorgiamo che esso si colloca, nel confronto europeo, nella fascia bassa della classifica: con un'incidenza di poco superiore al 27 per cento, la Borsa italiana rivela un divario di 40 punti percentuali rispetto alla media europea e di oltre 100 punti percentuali rispetto all'esperienza media di Gran Bretagna e Stati Uniti. Nel 2010, la capitalizzazione complessiva delle società quotate sui mercati gestiti da Borsa italiana Spa è, in valori assoluti, di 430 miliardi di euro, contro i 4.400 miliardi di euro delle società quotate sul London Stock Exchange.
Naturalmente, i dati appena esposti sono da valutare con estrema attenzione. È evidente, infatti, che la situazione delle imprese italiane è molto diversa da quella delle imprese inglesi, per diffusione, per dimensione e per densità. Inoltre, all'interno dei 4.400 miliardi di euro di cui ho detto hanno un peso notevole alcuni grandi agglomerati finanziari e petroliferi.
Tuttavia, anche tenendo conto di tali fattori, esiste un divario, un gap, che va in qualche misura colmato. Infatti, le imprese quotate sono 296 in Italia, 783 in Germania, 600 in Francia e quasi 3.000 in Gran Bretagna.
Quali sono, secondo noi, le principali criticità del listing nel mercato azionario italiano?
Una prima difficoltà è sicuramente di ordine culturale, e chiama in causa la mentalità dei nostri imprenditori.
Quando si decide di andare sul mercato, la signoria totale sull'azienda, caratteristica saliente del conglomerato proprietario delle imprese italiane, viene messa in discussione. Si acquisiscono nuovi soci, e poco importa che li si conosca o no: se si è quotati, si è tenuti al rispetto di precisi obblighi di comunicazione e di informazione, su base continuativa. Si tratta, infatti, di andare a intercettare il risparmio degli italiani.
La mentalità dei nostri imprenditori ha ostacolato, quindi, una forma di partecipazione


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all'azienda che si realizza attraverso l'immissione di capitale di rischio da parte di soggetti terzi (naturalmente, la considerazione ora sviluppata perde la propria connotazione negativa ove si consideri, mutando prospettiva, che proprio la mentalità di cui stiamo discorrendo ha dato un contributo fondamentale al progresso del Paese).
Noi pensiamo che sul piano culturale si possa e si debba lavorare.
Prima della nascita del Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese non avevamo mai avuto, in Italia, un'iniziativa che, per dimensioni e caratteristiche, istituzionali e di sistema, fosse in grado di far muovere alle aziende il primo passo per andare in Borsa. Si può andare in Borsa in modo diretto, ma il passaggio attraverso un fondo di private equity, con le caratteristiche di quello messo in piedi dal Ministero dell'economia e delle finanze, dall'ABI, da Confindustria, dalla Cassa depositi e prestiti e da importanti banche italiane, rende più semplice l'affinamento culturale dell'imprenditore italiano. In questo modo, l'imprenditore apre pur sempre il capitale della sua impresa, ma a un soggetto ben individuato, senza avere la necessità, per assicurarsi un percorso di crescita, di ricorrere formalmente a una procedura di quotazione.
Per accedere ai mercati finanziari, è necessario che vi sia un fatturato minimo: non si può pensare di quotare aziende che valgono 6, 7 o 10 milioni di euro. Occorre considerare, infatti, che più piccole sono le aziende quotate, più è relativo il valore del flottante, con la conseguenza che i movimenti su quest'ultimo sono più pericolosi (e, spesso, non del tutto corretti).
A tale proposito, una complessiva crescita dimensionale del sistema imprenditoriale italiano potrebbe essere indotta dalla correzione di alcune distorsioni nelle scelte di finanziamento delle imprese.
Premesso che la normativa fiscale vigente favorisce le forme di indebitamento rispetto al capitale proprio, si potrebbero prevedere - naturalmente, in un'ottica di stabilità dei conti pubblici, presupposto fondamentale per formulare qualsivoglia ipotesi di crescita - forme di fiscalità neutra o ridotta in relazione a tutto ciò che l'imprenditore non distribuisce, ma conserva, per aumentare la dimensione patrimoniale della propria azienda. Si può, quindi, sfavorire il debito e, per contro, favorire l'accumulazione di patrimonio proprio.
In questo senso, l'ABI e Borsa italiana Spa hanno siglato un accordo nel cui ambito sono state avviate specifiche iniziative (tra cui la previsione di una linea di credito dedicata a imprese neoquotate per finanziare i programmi di crescita).
Quelle cui ho accennato sono iniziative positive, ma dobbiamo immaginare un programma di medio termine. Il Fondo è il primo step: a mano a mano che esso comincerà a svolgere il proprio lavoro, dovremo aggiungere altri elementi in grado di favorire l'incremento di capitale e l'accesso ai mercati.
Un altro tradizionale ostacolo è rappresentato dai costi, diretti e indiretti, che le imprese devono affrontare per ottenere la quotazione.
Oggi, quotare un'impresa al Mercato telematico azionario (MTA) costa circa 800.000-900.000 euro, ossia tra il 2 e il 5 per cento dell'ammontare raccolto in una ipotetica Initial public offer (IPO). Invece, si aggirano intorno ai 200.000 o 300.000 euro, cifra che rappresenta il 5-6 per cento dell'ammontare raccolto in sede di IPO, i costi per quotare un'impresa all'Alternative investment market (AIM).
Non è facile, per un imprenditore, superare il gap culturale, quello fiscale e, poi, scoprire che, in base ai costi oggettivi, il 5 o addirittura il 6 per cento di ciò che ha raccolto è stato speso soltanto per compiere l'operazione. Evidentemente, chi sceglie di quotare la propria azienda non si trova di fronte a una situazione friendly. Naturalmente, più le aziende sono medio-piccole, più i costi pesano.
Per provare a risolvere il problema, potremmo pensare - siamo anche noi a disposizione della Commissione - a un modo per semplificare le procedure. Spesso, le norme che devono garantire la trasparenza rendono le procedure particolarmente


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complesse. Noi, da parte nostra, siamo convinti che sia possibile, con un po' di capacità e di attenzione, coniugare la trasparenza con una maggiore semplicità delle procedure, ovviamente senza determinare quelle situazioni di opacità che esporrebbero alle scorrerie di chiunque in un mercato già delicato.
Da questo punto di vista, si potrebbe mutuare, ad esempio, l'iniziativa promossa dal Governo francese, e da esperti della materia, finalizzata a individuare alcune ipotesi di semplificazione della disciplina concernente le piccole e medie imprese a vari livelli.
Una volta ottenuta la quotazione, l'azienda deve sopportare ulteriori oneri collegati alla permanenza nel listino (in altre parole, essa deve imputare un costo a servizio della quotazione). Lo status di emittente quotato nei mercati regolamentati comporta, infatti, l'applicazione di un plesso di norme particolarmente onerose. Spesso, si tratta di disposizioni di derivazione comunitaria - sulle quali il Parlamento italiano non può direttamente incidere -, che impongono obblighi di segnalazione e di informazione senza tenere conto della natura e delle dimensioni delle imprese che dovranno adempiere (è un po' come pretendere di eliminare un insetto fastidioso servendosi di un cannone).
Probabilmente, le peculiarità del nostro sistema imprenditoriale dovrebbero indurre a differenziare la disciplina in relazione alla tipologia delle aziende.
Un'altra delle criticità del listing è rappresentata dal ruolo marginale degli investitori istituzionali. La quota di capitalizzazione di Borsa detenuta da investitori istituzionali (banche incluse), rispetto alla capitalizzazione totale del mercato, è pari al 28 per cento. Negli Stati Uniti e nell'Unione europea tale rapporto è pari al 65 per cento e nel Regno Unito raggiunge l'81 per cento. Peraltro, avendo riguardo alle altre piazze finanziarie e all'Unione europea nel suo complesso, la capitalizzazione detenuta dagli investitori istituzionali è più bassa, in Italia, anche rispetto al PIL.
Da cosa deriva tutto ciò?
Intanto, soffriamo la concorrenza di piazze che nell'industria del risparmio gestito hanno investito più di noi e prima di noi.
Alcuni Paesi hanno attratto gli investimenti con sistemi fiscali che si sono rivelati particolarmente pericolosi per la stabilità dei conti pubblici.
Se non è questo, quindi, l'esempio da seguire, non sembra certamente una mossa indovinata quella di prevedere, come si fa paradossalmente in Italia, un regime fiscale particolarmente penalizzante per i fondi di diritto italiano. Infatti, mentre i nostri fondi sono tassati per maturazione, i fondi di diritto estero sono tassati per cassa.
Si tratta di una disarmonia di cui dobbiamo interessarci se vogliamo immaginare un intervento degli investitori istituzionali più robusto, e quantitativamente più rilevante, nelle società a ridotta capitalizzazione (small cap), quali le piccole e medie imprese italiane.
È molto difficile pensare che il fondo di private equity che si trova a Londra o a Hong Kong abbia la voglia, la capacità e il tempo di studiare e di apprezzare una piccola o media impresa italiana. È più probabile che ciò sia più semplice, più comodo, più facile e più immediato per un fondo che gestisce capitali in Italia.
Insomma, l'assenza di armonizzazione fiscale ha il suo peso.
La nostra opinione è che potrebbe essere utile, da questo punto di vista, il ricorso a incentivi, i quali non possono che essere di natura fiscale, perché non ve ne sono altri.
Una strada potrebbe essere quella di introdurre agevolazioni fiscali per le persone fisiche e per le imprese che sottoscrivono quote di veicoli specializzati negli investimenti in società small cap quotate sui mercati diversi da quelli regolamentati.
Si potrebbe immaginare, altresì, che il soggetto fisico il quale investe i propri soldi in una società di gestione del risparmio, specializzata nel detenere quote delle aziende di cui stiamo discorrendo, abbia un minimo vantaggio fiscale rispetto a chi,


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invece, decide di investire in un fondo che guarda alle grandi compagnie, in Italia o fuori dall'Italia.
D'altra parte, o immaginiamo una fase propulsiva, culturale ed economico-finanziaria, oppure è difficile pensare di colmare in tempi ragionevoli l'evidenziato divario.
L'approvazione del Testo unico della finanza, nel 1998, e l'applicazione della direttiva sui mercati di strumenti finanziari (MIFID) hanno rappresentato due tappe fondamentali del processo di modernizzazione dei mercati italiani.
Per quanto riguarda l'offerta di mercati per le PMI, occorre ricordare, oltre all'avvio del mercato AIM Italia, sulla base dell'esperienza inglese della AIM UK, la recente acquisizione, da parte di Borsa italiana, della società di promozione del Mercato alternativo del capitale (ProMAC).
Quanto a Borsa italiana Spa, che, dobbiamo ricordarlo, è controllata dal London Stock Exchange Group di Londra, non si può non riconoscere che essa ha svolto, negli ultimi dieci anni, un compito importante e positivo, gestendo il delicato passaggio da un modello basato su mercati di natura pubblica a un modello, più moderno e in linea con le principali esperienze estere, di mercati gestiti da soggetti imprenditoriali.
Passando a un altro tema, occorre rilevare come sia piuttosto ristretto, in Italia, il numero degli operatori specializzati nel listing azionario: al momento, si tratta di circa venti intermediari finanziari, inclusi quelli esteri, cui vanno aggiunte alcune società di consulenza e revisione che offrono servizi di corporate finance.
A quali fattori è da attribuire tale carenza?
Innanzitutto, a una relativa limitatezza del mercato: se sono pochi i soggetti che si quotano, sono pochi, di conseguenza, anche i soggetti che promuovono e accompagnano il processo di quotazione.
Probabilmente, vengono in considerazione anche alcune questioni di carattere normativo, che, almeno in questo caso, potremmo risolvere in casa nostra.
In proposito, bisogna premettere che, nell'ambito della procedura di quotazione di un'impresa, gli intermediari possono ricoprire molteplici ruoli: sponsor, specialist, responsabile del collocamento e via dicendo. Lo sponsor e il responsabile del collocamento sono soggetti a una specifica disciplina normativa, che attribuisce loro determinati compiti e responsabilità.
Lo sponsor collabora con l'emittente, in particolare rilasciando a Borsa italiana Spa una serie di attestazioni e dichiarazioni, relative, tra l'altro, alla presenza di un adeguato sistema di controllo di gestione.
Si tratta di un incarico che richiede competenze diverse da quelle degli intermediari che effettuano i collocamenti (responsabili del collocamento, o collocatori), la cui attività si focalizza sulla valutazione del business plan e su analisi economico-finanziarie e patrimoniali dell'emittente. In particolare, il responsabile del collocamento risponde della veridicità dei dati forniti dall'imprenditore nel prospetto e, di conseguenza, deve accertarsi che essi siano corretti. Ciò determina maggiori costi di due diligence legale, che si ripercuotono sugli emittenti.
Questo è uno degli snodi in cui la tutela della trasparenza e l'esigenza di semplicità rischiano di entrare in collisione tra loro. Abbiamo scelto un sistema in cui dello stesso ipotetico falso rispondono due soggetti: il titolare dell'azienda e il responsabile del collocamento. Dobbiamo chiederci se tale sovrapposizione debba continuare a esistere così com'è, ovvero se si possano trovare forme e modi diversi per garantire gli investitori. Certo, due garanzie sono meglio di una - e tre sono ancora meglio di due -, ma bisogna capire quanto un sistema impostato su simili basi possa effettivamente risultare efficiente.
Sarebbe auspicabile, inoltre, un intervento sulla regolamentazione dell'attività dello sponsor, nell'ottica di circoscriverne le funzioni e le responsabilità alle attività in ordine alle quali tale soggetto vanta una competenza specifica.
Per quanto riguarda la ripartizione delle competenze tra Consob e Borsa italiana


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Spa, si tratta di un argomento sul quale non è necessario dilungarsi, dal momento che la Commissione lo conosce bene. Al riguardo, posso limitarmi ad affermare, quindi, che la suddivisione dei ruoli tra Consob e Borsa italiana Spa - quest'ultima costituisce un asset essenziale per il nostro Paese - non ha mostrato, in questi anni, particolari criticità.
Ho cercato di tracciare un quadro molto sintetico delle caratteristiche del mercato azionario italiano. È a disposizione della Commissione un documento molto più ricco di informazioni, di tabelle e di grafici, ai quali ho ritenuto di non fare espressi richiami per non appesantire eccessivamente la parte introduttiva della nostra conversazione odierna.
In conclusione, come industria bancaria, la quale ha sostenuto, sostiene e sosterrà in maniera significativa lo sviluppo delle imprese italiane, riteniamo che dovrebbero essere incrementate le possibilità di accesso delle stesse al mercato dei capitali.
Avere un simile obiettivo significa, in primo luogo, superare le difficoltà strutturali e culturali che le imprese hanno a quotarsi sui mercati. Come ricordavo, le difficoltà culturali si risolvono, da un lato, creando gli incentivi giusti e, dall'altro, eliminando i fattori che potrebbero disincentivare il ricorso diretto al mercato.
Inoltre, occorre ridurre, per quanto possibile, i costi per la quotazione, favorire la presenza di investitori istituzionali domestici dedicati alle imprese di minori dimensioni, modificare la disciplina relativa alla responsabilità degli intermediari e, infine, cercare di ridurre i tempi di approvazione dei prospetti di offerta e di ammissione alla negoziazione.
A quest'ultimo proposito, la direttiva europea 2003/71/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, prevede che, qualora l'emittente non abbia strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati e non abbia offerto, in precedenza, strumenti finanziari al pubblico, le Autorità di vigilanza approvino i prospetti entro venti giorni lavorativi.
Ciò nonostante, i tempi di approvazione sono, nel nostro Paese, molto più ampi, anche di tre o quattro volte. Non c'è una lunga fila, con conseguente affollamento di operazioni: l'allungamento dei tempi non dipende dall'elevato numero di domande o da carenze delle strutture deputate a provvedere, ma dalla ponderosità della documentazione richiesta e dal tipo di verifiche svolte, più pervasive, in Italia, rispetto a quelle contemplate dalla normativa comunitaria.
La questione non è di secondaria importanza, poiché il tempo non è un elemento neutro, ma può determinare il successo o l'insuccesso di un'operazione.
Come appare evidente, le considerazioni fin qui sviluppate si inseriscono in un ragionamento che punta alla crescita. Per conseguire tale risultato, le aziende devono orientarsi verso nuovi strumenti di finanziamento, riequilibrando una situazione che è oggettivamente sbilanciata e che, come abbiamo constatato nelle fasi economiche più difficili, rappresenta un pericolo per la loro stessa vita. Fortunatamente, nel momento peggiore dell'attuale fase economica, abbiamo trovato risposte che hanno consentito di non considerare cogente il peso della leva finanziaria, elaborando soluzioni innovative nel panorama europeo. Ci abbiamo pensato prima, e siamo stati bravi; tuttavia, dobbiamo anche considerare che gli altri, dal punto di vista della struttura del passivo delle imprese, avevano problemi meno gravi dei nostri.
Dobbiamo riuscire a stimolare la crescita di alcuni «medi campioni italiani», i quali devono mirare ad assumere dimensioni non galattiche, ma tali da assicurare agli stessi imprenditori e a chi lavora per loro, anche sotto il profilo dell'innovazione, le condizioni indispensabili per competere. Il nostro gap produttivo, che si trascina ormai dal 1989 (a voler essere clementi), oltre ad essere pericoloso in termini di autonomia del Paese, ha generato un gap di produzione di ricchezza, che rende il nostro sistema meno equo, meno capace di sostituire chi esce da un determinato ciclo di lavoro con chi vi


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entra, attraverso meccanismi virtuosi di mobilità sociale. Il problema si può risolvere soltanto se si condivide una linea d'azione secondo la quale produttività e crescita di ricchezza sono elementi essenziali per lo sviluppo dell'intera collettività.
Il fattore lavoro è, a sua volta, un elemento essenziale per determinare una crescita di produttività: unitamente ad altri fattori, quali il tasso di innovazione, l'attitudine ad investire, nonché l'abilità a produrre meglio e a minor costo, esso è determinante per migliorare la capacità di competere delle nostre imprese in un contesto globale.
In questo senso, potrebbe risultare ben riposto ogni sforzo volto ad avvicinare le nostre imprese al mercato autonomo e libero dei capitali.

PRESIDENTE. Ringraziamo il presidente Mussari.
Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCESCO BARBATO. A nome del gruppo parlamentare Italia dei Valori, desidero ringraziare il presidente Mussari e il suo team per la partecipazione all'audizione odierna. Rivolgo uno specifico ringraziamento al presidente anche per l'incombenza che ha assunto (se si può definire «incombenza» l'incarico al quale è stato chiamato).
Nell'augurarle buon lavoro, presidente, spero che possa dare una dimostrazione immediata di cosa significhi lavorare bene, fornendo qualche risposta in merito a un tema molto rilevante, oggetto di un'interrogazione a risposta immediata in Commissione da me presentata.

PRESIDENTE. Onorevole Barbato, mi scusi se la interrompo, ma oggi dobbiamo affrontare lo specifico argomento dei mercati degli strumenti finanziari.
Più tardi, se avremo il tempo, e se il presidente Mussari vorrà usarci la cortesia di rispondere a domande concernenti temi che esulano dalla materia oggetto dell'indagine conoscitiva, lei avrà la possibilità di porre anche la questione del rincaro dei costi dei conti correnti bancari.
Prima, però, esaurirei le questioni che attengono al tema dell'odierna audizione. Se, quindi, ha domande riguardanti la materia di cui ci stiamo occupando, può senz'altro porle.

FRANCESCO BARBATO. Signor presidente, interverrò successivamente, poiché preferisco discutere di questioni spicciole anziché di macrosistemi.

ALBERTO FLUVI. Prima di tutto, ringrazio il presidente Mussari per l'ampia esposizione e per la documentazione che ci ha fornito. Anche se con un po' di ritardo, alle congratulazioni per il prestigioso incarico che ha assunto, presidente, desidero unire un augurio di buon lavoro. I colleghi mi permetteranno di esprimere anche un po' di soddisfazione personale: in Toscana, come si sa, il campanile non muore mai...
Da molto avevamo in mente di svolgere un ciclo di audizioni sui mercati finanziari, sulla Borsa e sui temi correlati. Abbiamo deciso di accelerare i tempi dopo il «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» del 28 giugno scorso. Ne leggo un brano: «Dal 15 settembre 2008, data del fallimento di Lehman Brothers, a oggi l'indice Ftse Mib ha perso circa il 30 per cento, così come l'indice Ftse All-Share. Nello stesso periodo i principali mercati hanno avuto perdite più contenute: dal 4 per cento di Francoforte, al 7 per cento di Londra, al 10 per cento di New York, al 19 per cento di Parigi».
Si tratta di numeri significativi. Com'è stato sottolineato, il listino contiene molti titoli bancari e assicurativi e, dopo il tracollo di Lehman Brothers, la sproporzione tra i titoli industriali e quelli finanziari ha pesato in maniera diversa.
Vorrei proseguire, però, nella lettura di alcuni dati. Facendo riferimento agli ultimi dieci anni, siamo passati da una capitalizzazione di 818 miliardi, pari a circa il 70 per cento del PIL, ad una di 430 miliardi, pari al 27 per cento del PIL, al 31 dicembre del 2010. Siamo più o meno al 50 per cento, come capitalizzazione, e a una quota leggermente superiore in rapporto


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al PIL. Le società quotate - non faccio riferimento al 2000 perché, a partire da tale anno, il dato è ascendente, fino al massimo del 2007, con 344 quotate - sono 272. È vero, la fila non c'è, poiché nel 2010 sono state quotate solo due società, e cinque se ne sono andate.
Il tema dei mercati finanziari è sicuramente molto rilevante, se consideriamo la Borsa un'infrastruttura fondamentale per lo sviluppo del Paese.
Nel frattempo, è intervenuta la vicenda relativa ai rapporti con il London Stock Exchange Group.
Non voglio riproporre la questione se fosse meglio associarsi con Parigi e Francoforte, perché il tema non è più attuale, e non siamo qui per commentare ciò che ormai appartiene al passato. Al riguardo, posso dire, comunque, che concordo pienamente con il direttore generale dell'ABI, Giovanni Sabatini, il quale ha evidenziato alcuni mesi fa, su Il Sole 24 Ore, come l'iniziativa «Progetto Rinascimento» di Borsa italiana, volta alla creazione di un'unica Borsa europea, attraverso l'alleanza delle piazze di Parigi, Francoforte e Milano, avrebbe rappresentato un naturale complemento al processo di unificazione monetaria e di integrazione del mercato finanziario. Non affermo che il rapporto con Londra sia stato una sorta di ultima scelta, ma rammento che l'iniziativa di Borsa italiana fu supportata dall'impegno del Ministro dell'economia e delle finanze dell'epoca, Padoa-Schioppa, e che l'obiettivo del Governo Prodi era quello di costruire una piattaforma europea.
Un primo aspetto fondamentale sul quale riflettere è che le banche italiane hanno continuato a mantenere una partecipazione rilevante nel London Stock Exchange Group, che si aggira, per quanto ricordo, intorno al 20 per cento (o poco meno). Ebbene, qual è il ruolo del capitale italiano - non so, peraltro, se sia possibile considerarlo tutto insieme, sommando le quote delle diverse banche - all'interno del gruppo londinese? E quale ruolo possono giocare gli azionisti italiani per rilanciare la Borsa italiana (se ha un senso farlo)? Non è una novità che importanti imprese italiane stiano lavorando per quotarsi non a Milano, ma in altre piazze. Si tratta di società di primaria importanza del made in Italy, da Prada a Ferrari, le quali sembrerebbero intenzionate ad andare a quotarsi a Hong Kong, a Shanghai o in altre piazze finanziarie.
Vorrei sapere, quindi, quale ruolo abbia il capitale italiano (se posso riferirmi ad esso in maniera onnicomprensiva) all'interno del London Stock Exchange Group e se gli azionisti italiani abbiano la possibilità di valorizzare la Borsa di Milano.
La seconda domanda riguarda la direttiva MIFID, che, facendo venire meno il principio della concentrazione degli scambi, ha esposto le borse alla concorrenza di piattaforme alternative di negoziazione. Lei, presidente, sa meglio di me che è in corso un processo di revisione della direttiva, che si concluderà, forse, entro l'anno in corso. La creazione di piattaforme alternative, con minori regole e quindi anche con minori costi, come ha influito, se ha influito, sulla diminuzione - mi sia consentito utilizzare tale termine - del peso di Borsa italiana?
Presidente Mussari, lei ha fatto riferimento alla carenza di investitori istituzionali, alla disciplina della tassazione dei fondi comuni e, quindi, alle società di gestione del risparmio.
Condivido la sua analisi, ma faccio rilevare che, quando vengono in rilievo le società di gestione del risparmio, l'ABI dovrebbe guardare - mi scusi per la franchezza - in casa propria. In questi anni, infatti, mentre la raccolta dei fondi comuni di investimento è letteralmente crollata, è aumentata quella realizzata mediante emissioni di obbligazioni bancarie.
Il fenomeno è stato oggetto di uno studio promosso dalla Banca d'Italia - cui collaborarono il Ministero dell'economia e delle finanze, la Consob e gli operatori interessati -, al fine di esaminare le innovazioni normative e regolamentari necessarie per il rilancio dell'industria dei fondi comuni.


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In proposito, è indubbio che i fondi comuni italiani, tassati anno per anno sul rendimento maturato, sono assoggettati a un regime fiscale penalizzante rispetto ai fondi comuni esteri, i quali sono tassati soltanto sui proventi distribuiti e sulla plusvalenza realizzata al momento del disinvestimento. Tuttavia, non credo che tale disparità di trattamento sia stata la causa principale dello spiazzamento subito dai fondi comuni rispetto ad altre forme di investimento. Ritengo, piuttosto, che abbia avuto e abbia una grande rilevanza, da questo punto di vista, il tema della separazione tra chi costruisce i prodotti finanziari e chi li vende.
Sempre a proposito degli investitori istituzionali, mi piacerebbe capire meglio la questione dei fondi pensione della previdenza complementare. Quest'ultima era stata immaginata per affiancare al pilastro pubblico, a causa della crisi della finanza pubblica, un pilastro integrativo, che avrebbe dovuto garantire al lavoratore, alla fine della carriera, una pensione dignitosa. Nel contempo, lo strumento appariva idoneo anche per incrementare i mercati finanziari, considerata l'assenza di ostacoli di natura fiscale a un simile utilizzo.
Proseguendo, un tema tutto italiano è quello dell'opacità dei nostri mercati finanziari. Sarebbe interessante, ad esempio, capire a quanto ammonti il flottante nella Borsa di Milano, o meglio quale sia il rapporto tra il flottante e quanto, invece, è bloccato per effetto di patti di sindacato o di strutture piramidali. Si tratta, com'è evidente, di un problema di trasparenza effettiva del mercato.
Chiudo con una considerazione che mi ha ispirato, alcuni giorni fa, la lettura di un'intervista rilasciata dall'amministratore delegato di Borsa italiana Spa. Questi ha affermato che, a seguito delle modifiche alla direttiva sui requisiti di capitale delle banche, per tenere conto del nuovo pacchetto regolamentare proposto dal Comitato di Basilea (Basilea 3), le banche saranno meno propense a erogare credito e, quindi, le imprese dovranno giocoforza cercare finanziamenti anche sui mercati finanziari.
Personalmente, considero i nuovi requisiti insufficienti: essi, infatti, affrontano soltanto l'aspetto del rafforzamento patrimoniale delle banche e non incidono, quindi, su quello che dovrebbe essere considerato, a mio avviso, il cuore del problema. Se si va a verificare la situazione patrimoniale delle banche che sono fallite il 15 settembre 2008, ci si accorge che il vero tema è quello dell'uso eccessivo della leva finanziaria (si tratta di un fattore che, se non è il più importante, ha comunque la stessa importanza delle componenti patrimoniali).
Non so se siano esatte le stime diffuse dalla Banca d'Italia, secondo la quale, dal 2013 al 2018, saranno necessari 40 miliardi di euro per portare il capitale di più elevata qualità (common equity) al livello del 7 per cento. Se così è, presidente, si pone un problema: chi è in grado, oggi, di sostenere uno sforzo di simili dimensioni?
Lei sa meglio di noi, presidente Mussari, che le fondazioni di origine bancaria, in quanto investitori istituzionali non ossessionati dalla ricerca dell'utile immediato, hanno svolto un ruolo molto importante, poiché hanno rappresentato un fattore di stabilizzazione del sistema finanziario italiano.
Ebbene, dal momento che le predette fondazioni sembrano interessate a impiegare i propri capitali per contare di più nelle banche di dimensioni più piccole, come potranno affrontare uno sforzo di tale portata? Pur senza entrare nel merito di scelte comunque legittime, mi domando se gli investitori istituzionali di cui stiamo discorrendo potranno continuare ad accompagnare la crescita del sistema bancario e, nel contempo, a svolgere l'evidenziato ruolo di fattore stabilizzatore.
Inoltre, mi domando quale altra strada sia possibile intraprendere. Certo, esistono gli investitori internazionali, ma guardare a questi significherebbe accettare l'idea di un completo mutamento degli assetti del nostro sistema finanziario.


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MAURIZIO FUGATTI. Anche a nome del gruppo della Lega, esprimo un ringraziamento, per la partecipazione all'audizione odierna, al presidente Mussari e al suo staff, e rivolgo a tutti loro un augurio di buon lavoro.
Dalla relazione emerge una situazione estremamente sbilanciata sotto il profilo dei canali di finanziamento delle imprese italiane, le quali denunciano un certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei.
Non so se si tratti di una considerazione sbagliata, ma la scarsa caratterizzazione finanziaria potrebbe avere evitato alle nostre imprese di essere colpite dalla crisi in maniera ancora più grave.
Ciò vale anche per le banche italiane: nessuna è fallita, al contrario di quanto avvenuto altrove, proprio perché, come si è ricordato, il nostro sistema bancario è rimasto con i piedi per terra, evitando di farsi abbagliare dagli eccessi della finanziarizzazione.
Dallo spaccato che ci è stato presentato si evince che le imprese italiane hanno attuato una politica di finanziamento più conservativa. Mi domando, tuttavia, se nella situazione attuale, tenendo conto delle esperienze che abbiamo vissuto negli ultimi anni, tale politica non possa essere valutata positivamente. Capisco che una considerazione siffatta non possa essere condivisa da chi opera sui mercati e si occupa di strumenti finanziari, ma per chi è un po' conservatore, come noi talvolta ci riteniamo, è utile capire se un'analisi come quella che ho proposto abbia qualche fondamento ovvero sia da ritenere completamente errata.

GIAMPAOLO FOGLIARDI. Nell'associarmi agli auguri di buon lavoro formulati al presidente Mussari e al suo team, ritengo opportuno prendere spunto dalla riflessione proposta dal collega Fluvi, alla fine del suo intervento, per aggiungere un'ulteriore valutazione.
In questi giorni, la stampa ha dato notizia di una proposta emendativa al decreto-legge cosiddetto milleproroghe, all'esame del Senato, volta a elevare il tetto massimo della partecipazione delle fondazioni nelle banche popolari dall'attuale 0,5 al 5 per cento.
Al di là delle grosse perplessità e riserve personali, la questione - che si è posta a Verona - diventa ancora più interessante, presidente, alla luce delle conclusioni cui lei è pervenuto nella relazione. Sulla necessità di rafforzare non è lecito nutrire dubbi. Tuttavia, nello specifico caso riguardante la città di Verona, per aumentare la propria partecipazione al capitale del Banco popolare, la fondazione Cariverona ridimensionerebbe la quota posseduta in Unicredit. Insomma, si attuerebbe un mero travaso da Unicredit a Banco popolare. Come valuta l'ABI operazioni simili?

SILVANA ANDREINA COMAROLI. Nel ringraziare il presidente per la relazione, desidererei approfondire l'aspetto dei costi, diretti e indiretti, connessi alla quotazione e alla permanenza nel listino.
In particolare, l'ABI sostiene che sono particolarmente onerosi, e quindi possono limitare l'accesso di nuove imprese ai mercati regolamentati, i costi connessi a taluni adempimenti, tra i quali gli obblighi di comunicazione, gli obblighi di trasparenza e segnalazione al mercato, gli obblighi di segnalazione alla Consob, nonché la predisposizione dell'informativa finanziaria periodica.
Non è possibile, invece, che proprio la presenza di tali obblighi tuteli meglio i piccoli investitori, i quali credono nei titoli scambiati nel mercato primario e in quello secondario? Le previste comunicazioni non rappresentano una forma più efficace di tutela del piccolo investitore? Sebbene comportino un costo, ritengo che i predetti adempimenti, proprio per la funzione di tutela da essi svolta, non debbano subire limitazioni.
Un'altra domanda che desidero rivolgerle, presidente, potrà sembrarle un po' provocatoria (in tal caso, voglia perdonarmi).
Se ho inteso bene, l'ABI ritiene che debbano essere introdotte agevolazioni fiscali a favore dei grandi investitori istituzionali.


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Essendo a conoscenza dei problemi di tante piccole aziende, che rappresentano la parte preponderante del nostro tessuto produttivo - del resto, anche lei, presidente, ha rilevato come il 90 per cento delle aziende abbia ridotte dimensioni e meno di 50 dipendenti -, mi domando cosa penserebbero tali aziende se lo Stato, al quale chiedono sostegno per poter continuare a lavorare, decidesse di agevolare gli investimenti finanziari dei grandi investitori istituzionali e, quindi, l'economia finanziaria anziché l'economia reale.
Com'è possibile? Cercate di comprendere anche la posizione in cui ci troviamo noi parlamentari, che saremo chiamati a spiegare a tante piccole aziende le motivazioni delle nostre scelte.

PRESIDENTE. Presidente Mussari, anche alla luce delle considerazioni da lei svolte, avrei alcune domande da porle.
Facendo riferimento alle opportunità offerte dal private equity, lei ha citato, in particolare, il Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese, costituito dal Ministero dell'economia e delle finanze, dall'ABI, da Confindustria, dalla Cassa depositi e prestiti e da importanti banche.
Io vorrei porre un problema di tipo diverso. Nel nostro Paese, a mio avviso, si finanziano poco i soggetti che hanno idee e molto, invece, quelli che hanno garanzie da offrire (è una costante dell'economia italiana). Per fare un esempio specifico, se un soggetto come Polegato, quando ha avuto l'idea di introdurre nelle suole delle scarpe le famose membrane microporose, si fosse trovato in un contesto diverso, avrebbe ottenuto un finanziamento al momento del lancio dell'idea e dell'ingresso nel mercato. Trovandosi, invece, nel contesto che conosciamo, egli è stato costretto a ricorrere, nella prima fase, al finanziamento bancario.
Poiché lei, presidente, ha svolto una considerazione sostanzialmente condivisibile, laddove ha affermato che è difficile ipotizzare la partecipazione di un fondo di private equity in società che fatturino meno di un determinato importo, mi domando se sia possibile valutare l'idea di finanziare le buone idee.
Come si fa a garantire che una buona idea possa avere un supporto finanziario se il sistema bancario, quando gli si prospetta lo sviluppo di un progetto industriale, ragiona unicamente in termini di garanzie? Mi piacerebbe capirlo, perché è chiaro che, nel nostro Paese, il venture capital non esiste. A mio avviso, dovremmo trovare un meccanismo idoneo a garantire agli imprenditori che hanno buone idee l'aiuto finanziario necessario per passare alla fase della loro realizzazione.
Vengo alla questione degli elevati costi da affrontare per ottenere e per mantenere la quotazione. Dopo avere affrontato il tema delle agenzie di rating, domani avvieremo un ciclo di audizioni nell'ambito dell'esame del Libro verde «La politica in materia di revisione contabile: gli insegnamenti della crisi», adottato dalla Commissione europea il 13 ottobre 2010, in funzione dell'adozione, dopo la conclusione della consultazione, di eventuali misure future.
È evidente che, anche da questo punto di vista, uno dei temi fondamentali è quello dimensionale. Infatti, nel Libro verde sono numerosi i riferimenti alle PMI. Occorre evitare che, una volta individuata l'intelaiatura di base, il framework di riferimento, le imprese di dimensioni più piccole siano assoggettate alla disciplina applicabile alle imprese più grandi, con i conseguenti oneri finanziari. Poiché sembra che l'orientamento sia proprio quello di introdurre un nuovo tipo di servizio legale adeguato alle esigenze delle piccole e medie imprese, la questione degli elevati costi di quotazione diviene meno rilevante, proprio in considerazione dei futuri sviluppi in materia di revisione contabile.
In fondo, il settore creditizio preferisce - questa è la mia sensazione - che le imprese mantengano un consistente indebitamento nei confronti delle banche, naturalmente assistito dalle opportune garanzie. In tal modo, tuttavia, il sistema si avvita su se stesso: gli imprenditori realizzano guadagni interessanti, molto spesso


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in nero (non mi riferisco, ovviamente, alla generalità delle imprese), con i quali fanno fronte alle proprie esposizioni. Gli scenari evolutivi potrebbero cambiare se, anziché tenere in piedi un meccanismo artificioso, i comportamenti dei soggetti interessati fossero improntati a trasparenza e disponibilità maggiori.
Concordo con lei, presidente, circa la rilevanza dell'aspetto fiscale. Da più parti si continua a porre in risalto la notevole incidenza del fisco sulle imprese. Mi sembra, tuttavia, che, ove si consideri la sola imposizione fiscale netta, senza tenere conto, cioè, del costo del lavoro e dei connessi oneri contributivi, sulle imprese non gravi un carico tributario eccessivo, anche se dobbiamo riconoscere l'esistenza di un regime di tassazione un po' più severo per le banche rispetto alle altre società. D'altra parte, ci ricordiamo di Robin Hood e andiamo in quella direzione.
Il collega Fluvi ha affrontato il tema della carenza di investitori istituzionali, prospettando anche qualche soluzione alle questioni che essa pone. Al riguardo, ritengo che anche le banche dovrebbero avere un atteggiamento diverso. Continuiamo a ripetere che occorre introdurre una più netta separazione tra la conduzione delle società di gestione del risparmio di matrice bancaria e quella del gruppo di appartenenza, ma poi ci rendiamo conto che, qualora si favorisse un sistema spostato sulle SGR, il credito erogato dal settore bancario diminuirebbe. Non so se sia più conveniente l'una o l'altra strada, ma poiché il tema riguarda i bilanci degli istituti di credito, credo che anche questi ultimi dovrebbero essere interessati al ragionamento.
In merito alla responsabilità degli intermediari, ricorderà, presidente, che la questione fu affrontata, a seguito dei crac Cirio e Parmalat, dalla legge n. 262 del 2005, recante disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, mediante la quale fu definito un quadro più rigoroso di controlli, di responsabilità e di sanzioni. La responsabilità del crac era, sì, di Cirio e di Parmalat, ma anche delle banche e degli intermediari che avevano collocato i titoli senza effettuare gli opportuni controlli. Credo, quindi, che il problema sia ancora quello di correggere un sistema che pone tutte le responsabilità in capo alle aziende, liberando gli intermediari dall'obbligo di verificare se i prodotti finanziari collocati siano affidabili.
Per il momento, presidente, desidererei avere alcuni chiarimenti su questi punti. Le do quindi la parola per una prima replica.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Prima di rispondere ai quesiti formulati, desidero innanzitutto ringraziare tutti i componenti la Commissione per l'attenzione prestata alla mia relazione, per gli auguri che mi sono stati espressi e per le stimolanti considerazioni svolte dai deputati intervenuti.
Venendo alle risposte, le banche italiane detengono complessivamente il 14 per cento del capitale del London Stock Exchange Group, esprimono cinque membri del consiglio di amministrazione e, quindi, sono rappresentate più che proporzionalmente rispetto alla quota di capitale detenuta. La vicenda ormai è chiusa e, come ha affermato giustamente lei, onorevole Fluvi, non siamo qui per ripercorrere il passato.
Personalmente, ritengo che alcune infrastrutture siano essenziali per la vita di un Paese e che la Borsa rientri tra esse, anche in un Paese in cui il mercato borsistico è poco sviluppato. Poiché la situazione, oggi, è quella che conosciamo, dobbiamo cercare di ottimizzare la nostra presenza.
Peraltro, mi corre l'obbligo di considerare che sto facendo riferimento, in qualità di presidente pro tempore dell'ABI, a partecipazioni non dell'ABI medesima, ma di singoli istituti bancari. Ciò mi impone di trattare dell'argomento con grande cautela e con grande rispetto, dal momento che non possiamo agire a nostro piacimento quando viene in considerazione il patrimonio altrui.


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Credo, quindi, che abbiamo mantenuto, finora, una rappresentanza ragionevole e una presenza importante anche in Borsa italiana Spa.
Accennando alla ripartizione delle competenze tra Consob e Borsa italiana Spa, abbiamo già rilevato come non siano da segnalare, al riguardo, particolari criticità, sia pure evidenziando le questioni delle modalità di verifica e dei tempi di approvazione dei prospetti, e indicando, a tale proposito, alcune ipotesi di soluzione che vanno, immagino, nella direzione auspicata anche dal presidente.
Oggi giochiamo una partita da affrontare con dinamismo, che potremo vincere soltanto se riusciremo ad avere buone idee e buoni affari da proporre. La fase da lei descritta, onorevole Fluvi, non è stata certo straordinaria per il mercato borsistico italiano, non tanto e non solo in termini di rendimenti, ma proprio avendo riguardo alle dimensioni e alla diversificazione del listino, nel quale i titoli finanziari hanno un ruolo molto significativo. Oltre alle imprese finanziarie, vi sono le due grandi aziende energetiche, fortunatamente controllate dallo Stato, che pure hanno un peso importante, e la grande impresa telefonica. Sostanzialmente, con questa breve elencazione si fornisce una descrizione completa del listino.
Per quanto riguarda le piattaforme alternative, non credo che, finora, abbiano influito più di tanto.
Per quanto riguarda le società di gestione del risparmio, vogliamo trattare in termini astratti della necessità di separare la proprietà dalla distribuzione? Personalmente, sono un fautore della separazione (ma esprimo un'opinione strettamente personale). Se, invece, guardiamo alla dinamica della raccolta, come fa il mio amico ed ex presidente di Assogestioni, Marcello Messori, e affermiamo che le banche hanno favorito le obbligazioni rispetto ai fondi comuni, sviluppiamo un ragionamento che non mi sembra corretto.
Le banche hanno bisogno di raccolta a medio-lungo termine: il match tra impieghi e raccolta è determinante, altrimenti il sistema non sta in piedi. Senza le obbligazioni bancarie, che sono essenziali per mantenere l'equilibrio, smetteremmo di erogare credito alla gente, quanto meno a medio e a lungo termine.
Quando si svolgerà l'audizione di Assogestioni, il professor Siniscalco, il quale è molto più capace ed esperto di me, vi illustrerà meglio i problemi dell'industria del risparmio gestito. Per ora, posso dire che il settore ha problemi di tipo qualitativo e dimensionale, e che bisogna compiere uno sforzo per riportare in Italia le imprese che sono andate all'estero.
A tale proposito, una normativa approvata di recente agevola il rimpatrio delle imprese. Come ho già affermato pubblicamente, si tratta di disposizioni che sono state ideate da qualcuno capace di guardare molto lontano. Esse possono rivelarsi particolarmente utili per il comparto del risparmio gestito, il quale ha definito la propria collocazione nel mondo anche in relazione a vantaggi di natura fiscale (si pensi, ad esempio, all'Irlanda). Poiché il settore è essenziale per lo sviluppo, è necessario non soltanto riconsiderarne la qualità e le dimensioni, ma anche consentire il rientro in patria di chi ha pensato di andare a svolgere altrove la propria attività economica.
Apportando una maggiore liquidità, i fondi pensione potrebbero rendere più dinamici i mercati, ma dovrebbero agire con estrema attenzione, perché i rovesci arrivano e sono pericolosi. Il problema è che questi strumenti, nonostante l'esistenza di disposizioni fiscali abbastanza vantaggiose, non hanno ancora avuto lo sviluppo che dovrebbero avere.
Se lo consente, signor presidente, coglierei l'occasione per rimarcare quanto sia essenziale fornire un'informazione adeguata sul tema della previdenza complementare. Coloro che cominciano a lavorare oggi devono sapere che, quando smetteranno di lavorare, non avranno la stessa pensione dei loro genitori, ma molto di meno. Si tratta di un'informazione vitale: bisogna evitare che le future generazioni corrano il rischio, tra qualche decennio, quando andranno in pensione,


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di ritrovarsi molto più povere e deboli di quanto avessero immaginato quando hanno cominciato a lavorare.
Per quanto attiene all'ammontare del flottante nella Borsa di Milano, mi dispiace, onorevole Fluvi, di non poterle fornire il dato da lei richiesto, in quanto non dispongo, in questa sede, dei necessari elementi. Comunque, si può eseguire un calcolo preciso, dal momento che i patti di sindacato sono pubblici.
Passando a Basilea 3, con l'ABI si sfonda una porta aperta.
Il primo aspetto da porre in rilievo è che si discute di una regolamentazione in itinere, che non avrà forza di legge - sotto il profilo democratico, non mi sembra una sottolineatura oziosa - se non quando il Parlamento avrà tradotto in provvedimenti legislativi le nuove regole elaborate dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, le quali sono state approvate dal G20 di Seul a novembre 2010.
Credo che il tema della leva finanziaria sia fondamentale.
I rilevanti attivi delle banche italiane, come ricordava uno degli onorevoli intervenuti, hanno sicuramente costituito una garanzia durante la crisi. C'è un problema, però, che la rinnovata regolamentazione prudenziale non affronta e non risolve. Quando il legislatore si dedicherà alla lettura e all'analisi delle nuove regole, non potrà fare a meno di considerare una peculiarità del sistema bancario italiano, vale a dire che il 65 per cento medio degli attivi delle banche è rappresentato da crediti alle famiglie e alle imprese. Allora, se vogliamo evitare un'eccessiva finanziarizzazione dell'attività bancaria, dovremo fare in modo che, in termini ponderali, i predetti attivi abbiano un vantaggio rispetto agli attivi finanziari.
Ove ciò non dovesse avvenire, le banche - le quali sono pur sempre imprese e, in quanto tali, sono tenute a remunerare il capitale investito dai propri azionisti -, in presenza di un sistema che attribuisce vantaggi a un determinato tipo di attività, saranno indotte a sviluppare una conseguente politica imprenditoriale, perché le norme costituiscono uno dei parametri in base ai quali le aziende definiscono i propri indirizzi.
In tale ottica, deve essere favorito, secondo noi, chi finanzia l'economia reale, e sfavorito chi si dedica alla speculazione finanziaria; va favorito chi ha attivi ragionevoli, e sfavorito chi ha attivi irragionevoli.

PRESIDENTE. La interrompo brevemente, presidente, per introdurre nella discussione il tema degli eurobond.
Leggendo il Financial Times di oggi, si apprende che i giapponesi sono pronti a investire in fondi sovrani. Poiché si tratta di un argomento di nostro interesse, è utile avere una sua opinione in merito.
Prosegua pure la sua replica, presidente Mussari.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. È evidente, onorevole Fluvi, che lo sforzo richiesto al sistema bancario per adeguarsi ai nuovi requisiti e standard sarà diluito nel tempo, poiché la fase di transizione avrà inizio il 1o gennaio 2013 e si concluderà il 31 dicembre 2018.
Occorrerà verificare in quale modo le nuove regole saranno recepite, che tipo di ricavi le banche realizzeranno e quale capacità di patrimonializzazione riusciranno a esprimere.
L'applicazione di regole prudenziali, la dimensione e la qualità degli attivi sicuramente influenzeranno in maniera positiva la stabilità del sistema; tuttavia, sarà importante anche la capacità delle banche di realizzare ricavi, di remunerare gli azionisti e di determinare in maniera autonoma la propria solidità patrimoniale.
Anche da questo punto di vista, per rispondere alla giusta preoccupazione da lei espressa, onorevole Fluvi, non sarebbe male, soprattutto in questa fase, se ciò che rimane in patria fosse tassato in maniera diversa da ciò che va all'estero. Dobbiamo ammettere con grande chiarezza che, quando perde un asset industriale cruciale per l'economia, il Paese perde un pezzo della propria sovranità. Ecco perché dobbiamo assolutamente fare in modo che le


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banche possano operare nel modo migliore, garantendo condizioni di maggiore redditività, ma anche spingendo le aziende a sostenersi in primo luogo con i mezzi propri e poi, se necessario, ricorrendo all'apporto di azionisti.
Devo scusarmi con l'onorevole Fugatti, perché credo di non essere stato chiaro. Nella mia relazione ho cercato di affermare che la qualità e la natura del nostro sistema imprenditoriale hanno consentito al Paese di sopportare una diminuzione del 5 del PIL senza che da ciò scaturissero situazioni di malessere sociale. Lo ritengo un asset determinante di questo Paese.
In particolare, non lamentavo che le imprese fossero poco «finanziarizzate», perché, anzi, considero anch'io un bene che nei loro portafogli non avessero strumenti finanziari. Ho affermato che una parte delle nostre imprese ha bisogno di più capitali, di maggiore solidità, di una più elevata capacità di effettuare investimenti e, paradossalmente, di ottenere credito dal sistema bancario. Se un'impresa con capitale 10 ha, in Italia, un credito bancario di 10, con capitale 15 può ottenere un credito di 15. In altre parole, esprimevo l'auspicio che le imprese aventi le necessarie dimensioni e determinate possibilità di sviluppo accedessero ai mercati: non per riempire i propri portafogli di strumenti finanziari, ma per crescere, drenando denaro dai mercati e irrobustendo il patrimonio aziendale.
Quindi, se non sono stato chiaro, onorevole Fugatti, mi scuso. Ciò premesso, sono assolutamente d'accordo con lei: la scarsa finanziarizzazione delle imprese e delle banche italiane (intesa come impiego del patrimonio per l'acquisto di strumenti finanziari, derivati o naturali) è stata un fattore positivo.
Un'impresa che dispone di liquidità può essere tentata da un'avventura finanziaria, che può andare bene, ma spesso, ahimè, proprio per la natura delle imprese e per la complessità dei mercati finanziari, può anche andare male. Non auspico assolutamente un modello di questo tipo; anzi, credo che, laddove fosse adottato, dovrebbe essere disincentivato.
Una situazione diversa è quella dell'impresa che si presenta sul mercato e apre la compagine societaria a nuovi soggetti, al fine di realizzare, anche grazie all'apporto finanziario di costoro, i propri programmi di sviluppo.
Per quanto riguarda l'opportunità di consentire un incremento, dallo 0,5 al 5 per cento, della partecipazione delle fondazioni bancarie nelle banche popolari, mi consenta di affermare, onorevole Fogliardi, che non mi ero formato un'opinione in merito e che, pertanto, non ho una risposta alla sua domanda.
Provando a darne una d'istinto, proprio per non sembrarle neanche minimamente scortese, potrei dire che, in generale e in astratto, non considererei strano ammettere tale possibilità. Del resto, perché escluderla se le fondazioni possono liberamente disporre del proprio patrimonio? Non dimentichiamo che le fondazioni sono soggette alla vigilanza del Ministero dell'economia e delle finanze, il quale può valutare se i singoli atti di disposizione da esse posti in essere rispondano a criteri di equilibrata gestione. Non mi viene in mente, quindi, su due piedi, una ragione per esprimere perplessità, ma può darsi che, ripensandoci, me ne vengano in mente moltissime.
Passando alle domande poste dall'onorevole Comaroli, ho affermato, in precedenza, che è possibile coniugare una maggiore semplicità delle procedure con la trasparenza.
Ha ragione lei, onorevole Comaroli: la tutela del risparmiatore, che crede nelle piccole e medie imprese e vi investe denaro, è il bene essenziale da garantire. Tuttavia, mi chiedo se l'insieme delle norme esistenti, delle formalità, della carta scritta e stampata siano veramente uno strumento utile e sufficiente per informare correttamente il piccolo risparmiatore, e se lo sforzo, anche economico, compiuto per produrre le norme e per tradurle in comportamenti concreti faccia effettivamente conseguire l'obiettivo che sta caro a me quanto a lei, onorevole. Personalmente,


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nutro qualche dubbio (per averne, del resto, basta guardare un prospetto per la quotazione in Borsa).
È possibile, allora, passato il ciclone Parmalat, avviare una nuova riflessione sulla materia, non per ritornare alla situazione precedente, in cui nessuno era responsabile e nessuno capiva, ma per raggiungere una trasparenza reale, eventualmente risparmiando sui costi di consulenza. Era questo lo spirito che ispirava le mie considerazioni iniziali.
Mi scuso anche con lei, onorevole Comaroli, ma evidentemente non sono riuscito a esprimere compiutamente il mio pensiero relativamente alle agevolazioni fiscali. Non pensiamo ad agevolare i grandi investitori istituzionali, ma suggeriamo la correzione di uno squilibrio: gli investitori che acquistano quote di un fondo comune di investimento di diritto italiano sono assoggettati a un trattamento fiscale deteriore rispetto a quelli che comprano quote di un fondo comune di diritto estero.
Nell'ottica della creazione di società di gestione del risparmio specializzate nell'investimento in piccole e medie aziende, un altro nostro suggerimento è quello di riconoscere un vantaggio fiscale al risparmiatore italiano che sottoscriva quote di tali società. La ratio della proposta è chiara: probabilmente, il vantaggio fiscale porterà il risparmiatore a scegliere il fondo che investirà sulle nostre piccole e medie imprese, le quali, a loro volta, avranno maggiori risorse per realizzare i propri progetti di sviluppo.
Signor presidente, quello del finanziamento delle idee è un tema centrale per chi desidera lo sviluppo di un Paese. Tuttavia, premesso che l'ABI non intende sottrarsi al ragionamento, non basterebbe che io e lei - lo dico con tutto il rispetto per la sua persona e per la sua competenza - ci mettessimo seduti a un tavolo per discuterne. Quando abbiamo trattato con Confindustria, all'inizio della fase difficile della crisi, abbiamo litigato per un anno senza capire che era necessaria la presenza del soggetto politico, ossia di colui che detta le regole. Non dobbiamo replicare l'errore che abbiamo commesso allora.
Una maggiore apertura alle idee è una prospettiva sicuramente interessante; innanzitutto, però, dovremmo immaginare una pluralità di strumenti atti quanto meno a consentirla, non dico a favorirla. Tra i molteplici aspetti da approfondire, verrebbero in considerazione, ad esempio, quelli relativi alle garanzie, alle regole, all'allocazione dei capitali, alla misurazione del rischio e via discorrendo.
Oggi non siamo, oggettivamente, in una simile condizione, ma poiché lei, signor presidente, pone un problema di fondo, che giustamente va posto in questa sede, ritengo opportuno svolgere, al riguardo, un'ulteriore riflessione.
Per intraprendere il cammino nella direzione da lei auspicata, naturalmente con molta attenzione e senza fare salti nel buio, credo si ponga, preliminarmente, il problema dell'individuazione - da parte dei rappresentanti delle banche e delle imprese, del Parlamento e del Governo, con il quale stiamo già lavorando per andare oltre l'avviso comune - dei vincoli regolamentari, primari e secondari, che occorrerebbe rimuovere. Può darsi che i tempi siano maturi per procedere in tal senso. Stia comunque sicuro, signor presidente, che l'ABI sarà sempre pronta e disponibile a sedersi intorno a un tavolo per affrontare l'argomento.
L'altra questione di fondo è se il carattere bancocentrico del sistema italiano sia voluto, protetto e in qualche modo imposto dalle banche, in quanto comodo per loro e per un certo tipo di imprenditori (ma non per la gran parte di questi).
Non è questo il sistema che preferisco, signor presidente, per la semplice ragione che, se le imprese fossero più capitalizzate e più autonome dal credito delle banche, queste ultime, dovendo essere più concorrenziali, dovrebbero concedere più credito.
Non credo che la bancocentricità di un sistema determini un disequilibrio delle responsabilità ovvero, se vogliamo esprimerci in maniera più triviale, dei poteri. Non è questo il punto. Forse, uno scenario


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di disequilibrio potrebbe determinarsi se le banche fossero pubbliche, non in un sistema composto di banche private. Se guardo all'attivo delle banche italiane, mi accorgo che, più le imprese sono capitalizzate, meno il credito pesa come requisito patrimoniale, più credito si può ottenere, meno sforzi si devono chiedere agli azionisti.
D'altra parte, se il complesso delle imprese bancarie italiane non avesse condiviso, in questo momento - non sto discutendo, ovviamente, del passato -, la concezione che ho ora esposto, avremmo potuto trovare mille e una ragione per non partecipare al Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese.
Arrivo ad affermare che consideriamo tutto quanto favorisce la patrimonializzazione delle piccole e medie imprese italiane come un vantaggio diretto anche per le banche italiane. Più di così non potrei proprio aggiungere...

PRESIDENTE. Poiché abbiamo ancora tempo, approfittando della disponibilità del presidente Mussari, passerei alla seconda tornata di domande.
Darei, quindi, nuovamente la parola all'onorevole Barbato, il quale intendeva porre la questione dei costi dei conti correnti.

FRANCESCO BARBATO. In questi giorni, l'ABI ha diffuso una sintesi dei dati riportati nel Rapporto di previsione AFO-Financial outlook 2010-2012. Ebbene, secondo le stime degli uffici studi dell'ABI e dei maggiori istituti italiani, l'utile netto delle banche potrà segnare, nel prossimo biennio, un incremento di circa 5,5 miliardi di euro.
Naturalmente, noi consideriamo positiva tale previsione: sono iscritto al Partito europeo dei liberali, democratici e riformatori, credo nel libero mercato e, quindi, mi fa molto piacere che realizziate utili, presidente Mussari, soprattutto se questi saranno utilizzati per accrescere la solidità patrimoniale delle banche.
D'altro canto, però, mentre registriamo segnali positivi, apprendiamo di un'indagine recentemente svolta dalla Commissione europea, la quale ha evidenziato come i costi dei conti correnti italiani risultino eccessivi e anomali rispetto alla media europea. In particolare, il costo medio annuo dei conti correnti è, in Europa, di 112 euro e, in Italia, di 246 euro (cinque volte superiore a quello praticato in Olanda!).
Poiché auspico una migliore trasparenza, soprattutto con riferimento alle aree dei rapporti tra banche e clientela che sembrano caratterizzate, come quella di cui ci stiamo occupando, da maggiore opacità, mi piacerebbe ascoltare da lei, presidente, che ha assunto da poco la guida dell'ABI, non una difesa corporativa, ma una risposta che indichi le cause dell'evidenziata disparità di costi.
È mia opinione che gli incrementi dei costi dei conti correnti vadano a colpire prevalentemente le famiglie e i pensionati, dal momento che i conti correnti dedicati alle famiglie hanno subito un rincaro del 5,3 per cento e quelli dedicati ai pensionati del 6,5 per cento.
Come ha anticipato il presidente, sulla materia ho presentato un'interrogazione a risposta immediata, che sarà svolta nella seduta odierna. Vedremo quali risposte fornirà il Governo. Intanto, però, gradirei una parola di chiarimento da voi, che siete gli addetti ai lavori.
Si fa molta propaganda relativamente al quoziente familiare e alle politiche a favore delle famiglie, ma poi, nei fatti, accade un po' come per le tasse: si afferma che non si vuole elevare l'imposizione fiscale, ma ci si riferisce alla sola tassazione dei redditi, mentre occorre considerare che gli aumenti del costo dell'asilo nido, del biglietto del trasporto locale e di tante altre spese integrano una sorta di tassazione occulta.
Da un lato, non ci sembra corretto che il consolidamento patrimoniale delle banche sia realizzato facendone pagare il prezzo soprattutto alle famiglie e ai pensionati, attraverso i rincari dei costi dei conti correnti.
Dall'altro, le chiedo, presidente, se i rincari a carico dei correntisti serviti allo


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sportello, come la massaia o il pensionato, non siano da ricondurre anche alla politica - sempre più seguita dal sistema bancario, sull'esempio di quanto avvenuto nell'ambito del sistema assicurativo - di spingere la clientela verso il canale della banca telematica, al fine di conseguire una contrazione delle spese.
In tal modo si riducono gli sportelli e, in particolare, si sopprime il cosiddetto sportello «sotto casa» (com'è già accaduto per molti esercizi di vicinato, di cui erano piene, una volta, le nostre città). Peraltro, la vicinanza di uno sportello può rappresentare il motivo che induce a scegliere una banca all'anziché un'altra: si vuole trovare la banca comodamente sotto casa; si vuole entrare in quella banca dove si è creato un rapporto fiduciario personalizzato. In molti casi, al di là dell'aspetto dei tassi applicati, si ha interesse proprio all'instaurazione di questo tipo di rapporto.
Esiste, quindi, presidente, una politica delle banche volta a ridurre gli sportelli tradizionali e a indirizzare la clientela verso i conti telematici, facendo paradossalmente lavorare, in tal modo, gli stessi consumatori?
Passo all'ultima questione. Guardando stamani il TG1, ho appreso una notizia che mi ha fatto piacere: premesso che troppo spesso sono compiute operazioni aggressive e azzardate da parte degli istituti di credito, i quali diffondono sui mercati titoli che, poi, si rivelano tossici, pare che, nel Regno Unito, abbiano imposto alle banche di mettere mano alla tasca, come si suole dire, e di provvedere in prima persona a risarcire i risparmiatori danneggiati.
Non ci fa piacere che lo Stato dia una sorta di avallo alle pratiche aggressive e azzardate delle banche, segnatamente consentendo che i danni da queste provocati ai risparmiatori siano scaricati sulla collettività. Vorrei conoscere la sua idea in proposito, presidente Mussari.

MAURIZIO FUGATTI. Desidero ricordare che il gruppo della Lega Nord Padania ha presentato una proposta di legge volta a modificare il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993, prevedendo una struttura semplice, chiara e comparabile delle forme di remunerazione che le banche possono applicare ai conti correnti sui costi bancari. La proposta traeva spunto dai risultati di un'indagine svolta dalla Banca d'Italia a seguito dell'introduzione del divieto di applicazione della commissione di massimo scoperto.
Nel corso di un'audizione presso questa Commissione, la Banca d'Italia si è dichiarata favorevole a un nuovo intervento del legislatore.
Qual è la posizione dell'ABI in merito alla nostra iniziativa, che riprende, peraltro, i suggerimenti della Banca d'Italia?

ALBERTO FLUVI. A proposito della commissione di massimo scoperto, di cui parliamo dai tempi delle «lenzuolate» del Ministro Bersani, nel ricollegarmi all'intervento dell'onorevole Fugatti, ritengo opportuno dare lettura di un brano del Rapporto sulla stabilità finanziaria predisposto dalla Banca d'Italia nel dicembre del 2010: «Sono significativamente aumentate le commissioni nette (del 12 per cento), sospinte anche dai servizi di amministrazione e gestione del risparmio». Perché sono aumentate queste commissioni nette? Il testo prosegue così: «Alla ricomposizione dei ricavi bancari da quelli da interessi a quelli da commissioni ha contribuito la sostituzione della commissione di massimo scoperto (...) con altre tipologie di commissioni (...)».
Per intendersi, abolire la commissione di massimo scoperto aveva un senso, per le considerazioni che abbiamo più volte sviluppato. Se, però, le commissioni sostitutive generano un aumento del 12 per cento delle commissioni nette, paradossalmente, sarebbe stato meglio mantenere la commissione di massimo scoperto.

MAURIZIO FUGATTI. Intervengo brevemente per proporre un ultimo tema, ringraziando ancora il presidente Mussari per la sua disponibilità.
La domanda riguarda il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro per


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i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti dalle imprese creditizie, finanziarie e strumentali. Abbiamo letto che alcune innovazioni introdotte in altri settori industriali potrebbero riguardare anche il settore bancario: vorremmo capire quanto vi sia di vero in tale ipotesi.

PRESIDENTE. Presidente Mussari, le ricordo che avevo posto la questione degli eurobond.
Mentre lei svolgeva la sua replica, nella quale auspicava la collaborazione fra politica, industria e sistema bancario, pensavo che una delle caratteristiche fondamentali degli eurobond, almeno per come vengono proposti, è quella di servire, in parte, allo sviluppo e, quindi, anche al finanziamento delle infrastrutture.
Le banche ritengono che siano utili? Che debbano essere particolarmente incentivati? Che possano essere facilmente collocati? Che si debba prevedere una loro diversificazione?
Se ho ben capito, la Germania guarda principalmente al debito. Al di là della scarsa disponibilità ad aiutare la Grecia e, in seguito, l'Irlanda e il Portogallo, sembra quasi di assistere a una sorta di battaglia navale: ogni tanto, c'è qualcuno da affondare. In proposito, credo che dovremmo assumere una nostra posizione, altrimenti finirà molto male per tutti.
Do nuovamente la parola al presidente Mussari per la seconda parte della sua replica.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Onorevole Barbato, le sue domande sono fondate su un presupposto che lei ha tratto, del tutto correttamente, da un'errata comunicazione della Commissione europea, alla quale abbiamo risposto con estrema durezza.
Non è veritiero il dato indicato dalla Commissione europea: il costo medio annuo di un conto corrente italiano, calcolato dalla Banca d'Italia, non da noi, è di 114 euro all'anno.
Certo, avendo riguardo alle convenzioni cui dovrebbero essere improntate le relazioni con le istituzioni, la nostra replica è stata, probabilmente, un po' sopra le righe. Tuttavia, se qualcuno la racconta grossa, bisogna pur reagire!
Il costo medio annuo dei conti correnti presso le banche italiane è, dunque, di 114 euro.
Non è tutto: la comparazione tra i conti correnti che è possibile effettuare in Italia, semplicemente accedendo al web, è la più trasparente in Europa. Sa perché, onorevole Barbato? Perché è l'unica. In Germania, si sono rifiutati di realizzare un analogo strumento di comparazione.
Possiamo avviare una discussione volta a stabilire se 114 euro annui siano molti o pochi, ma partiamo dal dato reale, fornito non da noi, ripeto, ma dalla Banca d'Italia.
Venendo alla seconda questione da lei posta, onorevole, il sistema bancario non adotta alcuna strategia luciferina per spingere la clientela sul web, in particolare aumentando i costi da una parte, in modo che tutti vadano dall'altra. L'attività sul web delle banche va di pari passo, in termini dimensionali e quantitativi, con l'attività sul web dell'intero comparto economico.
Oggi le imprese possono usufruire dei servizi bancari per via telematica nel 99 per cento dei casi (naturalmente, non possono farlo quando devono chiedere la ristrutturazione di un mutuo o un mutuo a medio-lungo termine per mettere in piedi un nuovo opificio). Da quando hanno la possibilità di compilare il modello F24 direttamente in Internet, non vengono più in banca nemmeno per pagare le tasse. D'altra parte, la telematizzazione dei servizi bancari è un sintomo di sviluppo del sistema, non di arretratezza.
Quanto alla vicenda che ha riguardato le banche inglesi, tutto ciò che viene introdotto per scoraggiare il moral hazard, l'azzardo morale, va benissimo. Segnalo che, proprio ieri, il CEO di Barclays, intervenendo in audizione davanti alla Commissione Tesoro della House of Commons, ha affermato in maniera estremamente chiara che non intende più rinunciare alla gratifica annuale. Peraltro, il


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Primo Ministro inglese, Cameron, aveva dichiarato appena il giorno prima che il Governo inglese, sebbene sia entrato nel capitale di diverse grandi banche a seguito della crisi (com'è avvenuto in Olanda), non pensa di imporre tetti ai bonus dei manager bancari.
Con grande chiarezza, ritengo che le banche debbano migliorare ulteriormente in termini di trasparenza: deve essere compiuto ogni sforzo per rendere più trasparente tutto ciò che fanno e tutto ciò che chiedono al cliente a titolo di remunerazione dei servizi resi. Tuttavia, diffido di quelle banche che non realizzano i propri profitti fornendo servizi ai clienti e facendoseli pagare, perché ciò depone a favore di una diversa provenienza dei ricavi. Più specificamente, poiché è difficile immaginare che un istituto di credito si metta a commerciare in vino o in granaglie, le banche che presentano utili non provenienti dalla remunerazione dei servizi resi alla clientela o stanno gonfiando gli attivi finanziari o stanno innescando problemi come quelli che hanno dovuto accollarsi i contribuenti inglesi, olandesi e belgi (ma non quelli italiani).
Onorevole Fugatti, ho appreso in tempo reale del contenuto della sua proposta di legge. Con grande serenità, le rispondo che alcuni interventi normativi hanno fortemente condizionato - me lo lasci affermare in maniera sintetica, considerata l'ora - la libertà d'impresa delle banche. Più interventi saranno attuati per fissare i prezzi per legge, più tutti stabiliremo gli stessi prezzi, i quali tenderanno a coincidere con gli importi massimi ammessi.
Consideriamo, ora, un altro aspetto. Era evidente che la commissione di massimo scoperto, come applicata in precedenza, presentasse notevoli criticità. Occorre considerare, tuttavia, che siamo di fronte alla situazione in cui un imprenditore o un privato, affidato o non affidato, va oltre i fondi a sua disposizione sul conto. Si tratta di un comportamento che, in termini negoziali, integra un inadempimento contrattuale: io ti concedo un fido fino a 100, e tu disponi di 105.
So bene che le cause per cui si può arrivare a disporre di 105, anziché di 100, possono essere moltissime, e che tra esse può esservi anche una carenza operativa della stessa o di altre banche (penso, ad esempio, all'accredito che non arriva per tempo), ma, al netto della casualità, siamo pur sempre di fronte a un inadempimento contrattuale.
A fronte del mancato rispetto del contratto, le banche possono reagire in due modi: o non onorano il pagamento, ipotesi alla quale non pensano nemmeno, perché un tale comportamento determinerebbe seri problemi all'intero sistema, o lo onorano, e ciò fanno, assumendo, però, un rischio non calcolato all'inizio, per il quale devono ricevere la giusta remunerazione. Io la vedo così.
Proprio per evitare situazioni spiacevoli, l'ABI, agendo nel pieno rispetto delle norme sulla concorrenza, ha impartito alle banche, alla fine dell'anno, un'indicazione molto semplice: per quanto riguarda gli sconfinamenti di piccola entità, non reiterati, esse possono evitare, se vogliono, di applicare qualsiasi tipo di commissione, proprio per sanzionare economicamente non il comportamento occasionale - che, ipoteticamente, può dipendere anche da una disfunzione del sistema dei pagamenti, e forse dalla disfunzione dello stesso sistema di pagamento delle banche -, ma i comportamenti non episodici.
Per capire meglio, possiamo analizzare più in dettaglio la situazione che si determina, all'interno di una banca, quando viene posto in essere un comportamento occasionale del tipo qui considerato.
Alla fine della giornata il direttore di filiale scopre che l'avvocato Mussari, titolare di un conto corrente senza affidamento, ha emesso un assegno di 800 euro, mentre aveva sul conto 650 euro (quindi, c'è stato uno sconfinamento di 150 euro). La mattina successiva, il direttore deve telefonare all'avvocato Mussari, per informarlo di aver pagato l'assegno e per chiedergli di restituire i 150 euro anticipati dalla banca. Non è detto che l'avvocato Mussari si precipiti immediatamente in banca con i 150 euro; anzi, probabilmente,


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dovrà essere sollecitato e, prima che restituisca il denaro, trascorrerà un po' di tempo. Abbiamo calcolato il costo del tempo medio che intercorre fino al momento in cui l'avvocato Mussari restituisce il denaro alla banca - ovviamente, in maniera non scientificamente esatta - in 25 euro (che siano poi, nel singolo caso, 50, 100 o 500).
Naturalmente, il Parlamento è libero di legiferare come meglio crede, ma io ritengo che sia stato raggiunto un buon equilibrio. Non lo affermo soltanto io: l'ISTAT ha comunicato che il costo dei servizi finanziari, a novembre 2010 (il dato di dicembre non è ancora disponibile), è diminuito dello 0,7 per cento.
Per quanto riguarda il brano tratto dal Rapporto sulla stabilità finanziaria di dicembre 2010, si tratta, onorevole Fluvi, di dati basati sulle informazioni trimestrali sui conti economici delle banche. Pertanto, non è detto che la voce «commissioni nette» sia riferita soltanto alla commissione di massimo scoperto o alle altre commissioni sostitutive. Ad esempio, vi sono commissioni che derivano dall'andamento positivo degli investimenti nei portafogli obbligazionari o azionari dei clienti, le quali, se il mercato è andato in una certa direzione, determinano maggiori ricavi per la banca, con un conseguente aumento dell'importo relativo alla voce del conto economico nella quale confluiscono. Complessivamente, il tasso di crescita dei mercati finanziari è quello indicato.
Per quanto concerne i ricavi e gli utili, il nostro sistema, purtroppo, ancora non remunera appieno il capitale necessario per far funzionare le banche. In altre parole, il problema non è quanto viene realizzato, ma il rapporto tra il risultato e il capitale occorso per produrlo. Rispetto a questo tema, dobbiamo assumere l'impegno a conseguire un livello di trasparenza e di efficienza superiore a quello attualmente raggiunto, ma aiutateci anche voi, non costringendoci a falcidiare continuamente i ricavi trasparenti, perché la stabilità del sistema si regge anche su questi.
Venendo agli eurobond, come associazione non ne abbiamo mai discusso. Personalmente, sono favorevole al progetto, in particolare se le risorse raccolte serviranno a realizzare le infrastrutture necessarie per far compiere all'Italia e all'Europa un enorme salto di qualità (penso soprattutto a ferrovie, strade e porti, non agli aeroporti, perché ne abbiamo a sufficienza). È evidente che le posizioni assunte al riguardo da talune Cancellerie riflettono egoismi non giustificabili. A mio modesto parere, il collocamento degli eurobond, se destinati allo scopo di sviluppare le infrastrutture, non incontrerebbe problemi.
Per quanto attiene al problema delle economie europee che sono entrate in una fase di difficoltà - mi auguro che fenomeni analoghi non si verifichino anche in futuro -, bisognerà cominciare a suddividere gli sforzi non in base alle quote di partecipazione alla BCE, ma all'esposizione che i singoli Paesi europei, e le singole banche, hanno nei confronti delle economie in difficoltà. È giusto, infatti, che paghi di più chi avrà di più, vale a dire chi si vedrà restituire una quota maggiore di ciò che ha poco saggiamente impiegato in quelle economie. Credo che impostare un ragionamento di questo tipo farebbe superare molti egoismi.
In merito al contratto collettivo, e a ciò che la stampa riporta su di noi e su talune imprese del settore industriale, non siamo, ovviamente, all'interno della logica cui lei accennava, onorevole Fugatti.
Poiché siamo soltanto all'inizio di una negoziazione, bisognerà attenderne l'esito. Sicuramente, la trattativa dovrà tener conto del contesto di cui abbiamo discusso, altrimenti avremmo rappresentato una situazione irreale.
Il contesto è quello di cui abbiamo discusso: bisogna averne coscienza.

PRESIDENTE. Le pongo un'ultima domanda, presidente.
Crede sia necessario segnalare all'Autorità garante della concorrenza e del mercato il cartello sul costo dei bonifici bancari?


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GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Perché, c'è un cartello?

PRESIDENTE. Qualcuno dovrebbe spiegare come mai i costi dei bonifici siano arrivati a cifre intollerabili, addirittura calcolate in percentuale del valore del trasferimento, che il cliente, peraltro, esegue semplicemente premendo il tasto di un mouse. Siamo arrivati a richieste inaccettabili.
Posso ipotizzare che le banche siano state costrette a caricare sui costi dei bonifici alcuni utili che realizzavano su altre operazioni.
L'applicazione dei giorni di valuta per l'accredito degli assegni integrava un autentico furto a danno degli utenti, sul quale siamo dovuti intervenire noi e l'Unione europea. Adesso, la stessa vicenda si ripropone in relazione ai costi dei bonifici.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Signor presidente, se la Commissione lo desidera, potremo approfondire la questione dei costi dei bonifici in una successiva occasione.

PRESIDENTE. Certo. Magari, l'ABI potrebbe farci avere un prospetto dei costi, per capire come mai costi tanto eseguire un bonifico da un conto corrente a un altro, molto spesso anche presso la stessa banca.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Volentieri, signor presidente.

PRESIDENTE. Posso capire che rappresenti un costo la telefonata necessaria a recuperare il denaro anticipato al titolare di un conto corrente, ma, francamente, considero inaccettabile che un bonifico venga a costare decine di euro.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Non credo che un bonifico possa costare decine di euro.

PRESIDENTE. Le mostrerò l'estratto conto.

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Non metto in dubbio la sua affermazione, signor presidente, ma decine di euro mi paiono un prezzo sproporzionato.
Comunque, bisogna considerare che, anche quando eseguiamo un bonifico da casa, utilizzando il sistema più rapido e indolore, diciamo così, per trasferire denaro, usufruiamo di un'infrastruttura complessa, mediante la quale la banca si assume la responsabilità del trasferimento del denaro, consentendo all'utente di non muoversi da casa e di non effettuare alcun esborso, se non quello connesso al consumo dell'energia elettrica che alimenta il computer.
Quando ritorneremo, porteremo un'ipotesi di costo industriale.

PRESIDENTE. In Francia, hanno introdotto la Google tax, argomento che presto o tardi bisognerà affrontare.
Ponendosi nella sua ottica, presidente Mussari, poiché le banche, a loro volta, usufruiscono della rete telematica, potremmo pensare di introdurre una tassa a loro carico per tale utilizzo...

GIUSEPPE MUSSARI, Presidente dell'ABI. Signor presidente, basta con le tasse!...

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente dell'ABI, anche per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta (vedi allegato), e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,30.

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