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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
6.
Giovedì 17 febbraio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione di esperti del settore:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3 6 7 9 13 14 16 18
Bracchi Giampio, Presidente dell'AIFI ... 3 6 7 10 13 14 16 17
Soglia Gerardo (PdL) ... 9 15

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal presidente dell'AIFI ... 19
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 17 febbraio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 14,15.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti del settore.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione di esperti del settore.
Oggi diamo corso all'audizione dei rappresentanti dell'Associazione italiana del private equity e venture capital (AIFI), rappresentata dal presidente, professor Giampio Bracchi.
Professore, credo che lei conosca già l'oggetto e le finalità dell'indagine conoscitiva. Attraverso le audizioni dei soggetti operanti nei mercati degli strumenti finanziari - finora abbiamo ascoltato l'ABI e altri esperti -, ci proponiamo di ottenere un quadro complessivo della situazione della Borsa italiana.
La Commissione è conscia delle difficoltà esistenti in tale settore della vita economica del Paese. Quando abbiamo delineato il programma dell'indagine conoscitiva, ci siamo prefissi di focalizzare, tra le questioni più rilevanti, le ragioni che hanno storicamente impedito al mercato italiano di attrarre un maggior numero di imprese, di investitori e risparmiatori, i costi di accesso e di permanenza, nonché l'adeguatezza del quadro normativo e degli assetti regolamentari e di vigilanza.
A fronte di un'eccessiva polverizzazione della struttura imprenditoriale, è interesse del Paese, in un contesto economico globalizzato, creare le condizioni per una crescita dimensionale delle piccole e medie imprese italiane.
Con riferimento specifico al Fondo italiano di investimento, al cui capitale concorrono il Ministero dell'economia e delle finanze, la Cassa depositi e prestiti, Confindustria e i principali gruppi bancari italiani, ci piacerebbe capire, inoltre, quali prospettive possano avere le predette imprese, nella fase successiva al disinvestimento, attraverso la borsa.
Le do quindi la parola, professor Bracchi.

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Signor presidente, innanzitutto ringrazio lei e la Commissione per l'invito. Ci fa sempre piacere parlare della nostra attività ed esporre il nostro punto di vista: la realtà delle banche è, in generale, meglio conosciuta rispetto a quella degli investitori in capitale di rischio, i quali svolgono compiti diversi, ma comunque molto importanti in un'ottica di sviluppo dell'economia.
Il presidente dell'Associazione bancaria italiana vi ha già illustrato come il tessuto imprenditoriale italiano si caratterizzi, attualmente, per un'elevata esposizione nei confronti del sistema bancario e, di conseguenza, per una scarsa patrimonializzazione. Tale situazione di sottocapitalizzazione, particolarmente visibile nelle piccole


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e medie imprese, ancor più che nelle grandi, è da ricondurre anche ad alcune disposizioni fiscali che non ho bisogno di indicare specificamente in questa sede.
Poiché gli stakeholder principali delle imprese sono proprio le banche, talvolta più degli stessi azionisti, occorre considerare che Basilea 3 costringerà gli istituti di credito, più che in passato, ad adeguare i propri requisiti patrimoniali a criteri volti ad assicurare al sistema finanziario una maggiore stabilità. Tutto ciò provocherà, inevitabilmente, un ridimensionamento quantitativo del credito in relazione al patrimonio, in base ai nuovi standard prudenziali. Si tratta di un problema che, presumibilmente, sarà all'ordine del giorno anche di codesta Commissione nei prossimi anni. C'è da sperare che le banche - aiutate anche da voi - sappiano trovare il giusto equilibrio tra le proprie esigenze patrimoniali e quelle di finanziamento delle imprese.
In tale scenario, l'attività di investimento istituzionale in capitale di rischio, propria del settore del private equity, diventa essenziale. In Italia, è particolarmente debole la capacità di dotare di adeguato capitale le nuove aziende tecnologiche. Un'impresa che nasce non ha bisogno di debiti, ma di capitale, che nei primi anni consuma per sviluppare i prototipi.
Gli operatori di private equity intervengono nel capitale di rischio di aziende non quotate. In ciò si differenziano dai fondi di investimento, che investono, di norma, nelle aziende quotate, raccogliendo risparmio e investendolo, e ancora di più dai fondi hedge, che compiono operazioni tipicamente speculative, orientate ad una logica di ottimizzazione dei rendimenti di breve termine.
I fondi di private equity sono caratterizzati da una visione dell'investimento di medio-lungo periodo e, oggi, tendono a rimanere nelle aziende dai quattro ai sei anni: poiché i mercati non sono particolarmente vivaci, il disinvestimento è più difficile. Comunque, la logica cui è ispirato l'investimento di private equity non guarda al breve periodo: per riuscire a valorizzare l'investimento, bisogna far crescere le imprese, comprarne altre e aggregarle, e tutte queste attività richiedono un periodo piuttosto lungo.
Normalmente, l'uscita del fondo dall'impresa avviene mediante la rivendita della partecipazione, se di minoranza, all'imprenditore stesso e, se maggioritaria, a un altro compratore industriale. Certo, sarebbe auspicabile che la presenza del fondo nella compagine societaria avesse come sbocco la quotazione in borsa delle aziende, una volta cresciute.
Negli ultimi anni, abbiamo visto come il private equity abbia consentito a tante imprese di quotarsi in borsa e di rimanere in Italia.
Ad esempio, un'azienda come Esaote Spa sarebbe stata venduta a una multinazionale americana interessata al mercato italiano se non fosse intervenuto il private equity per due volte (adesso l'azienda è gestita dallo stesso management di dieci anni fa).
Un caso analogo è quello di DiaSorin Spa, operante nel mercato della diagnostica in vitro. In seguito alle difficoltà di un gruppo industriale, era stata ceduta a una multinazionale americana, che l'ha ceduta a sua volta. È intervenuto il private equity, e oggi DiaSorin Spa è un'azienda italiana di successo, che ha acquisito altre società e rami di aziende.
Un esempio ulteriore è quello di Prysmian Spa, nata dal bisogno del Gruppo Pirelli di ricavare mezzi finanziari per portare a compimento altri interventi. È stata comprata da un fondo di private equity e, nel 2007, il titolo della società ha esordito sul Mercato telematico azionario. Avrebbe potuto essere venduta a società cinesi o coreane, ma è rimasta un'azienda italiana, gestita da management italiano di tipo pubblico, nel senso che non ha un azionista di maggioranza.
Abbiamo fatto riferimento alle banche. Anche aziende come Santander o come il Banco di Bilbao, molto importanti in Spagna, sono di tipo public, nel senso che non hanno azionisti di maggioranza. Questo è


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ciò che il private equity fa, anche quando acquisisce la maggioranza del capitale di un'impresa.
In Italia, abbiamo 170 operatori di private equity, i quali investono mediamente 4 miliardi di euro l'anno: erano più di 5 nel 2008, ma in questi ultimi due anni, non buoni per l'economia, la cifra è scesa a 2,5 miliardi annui.
Avendo riguardo al numero di operazioni, il mercato italiano è relativamente piccolo rispetto a quelli degli altri Paesi. Da noi si effettuano circa 300 operazioni ogni anno - 283 l'anno scorso -, mentre in Germania, in Francia e nel Regno Unito il numero di operazioni è tre volte superiore (non lo è, invece, il valore). Uno specifico comparto del mercato in cui si registra un particolare ritardo è quello dell'early stage, che riguarda le imprese in fase di avvio. Il numero di operazioni, anche se in crescita in questi ultimi anni, non supera le 80 annue, mentre in Germania è superiore a 600. Si tratta, quindi, di un segmento particolarmente debole.
Il ridotto numero di operazioni è in contraddizione con la struttura della nostra economia: essendo questa incentrata sulle PMI, ci si aspetterebbe di vedere rispecchiata tale realtà in una grande quantità di operazioni.
Si pone, quindi, il problema di come intervenire nel capitale di minoranza di aziende di piccole dimensioni.
Un primo intervento reale, di tipo pubblico-privato, a favore del private equity è stato compiuto, su impulso del Governo, mediante la costituzione del Fondo italiano di investimento, che investe in imprese con un fatturato compreso tra 10 e 100 milioni di euro.
Per aumentare la disponibilità di capitale di rischio a servizio delle imprese di piccole e medie dimensioni, e delle nuove imprese tecnologiche, si possono attuare operazioni simili a quelle realizzate in altri Paesi, che potrebbero rivelarsi molto utili anche da noi.
In questi anni, abbiamo più volte segnalato all'attenzione del Parlamento e del Governo l'esperienza della Francia, dove sono state sviluppate, intorno alla Caisse des dépôts et consignations e al Ministère de l'Économie, des Finances et de l'Industrie, specifiche azioni a favore del capitale di rischio. Sebbene presenti caratteristiche peculiari, il Fondo italiano di investimento somiglia notevolmente al Fonds stratégique d'investissement francese.
Apprendiamo con soddisfazione che è prevista, nei prossimi giorni, l'approvazione definitiva, da parte del Senato, della riforma in materia di tassazione dei fondi comuni di investimento, recata, tra le altre misure, dal decreto-legge n. 225 del 2010. A tale proposito, ricordo che l'AIFI aveva più volte sollecitato il passaggio dalla tassazione sul maturato a quella sul realizzato, al fine di rimuovere un'anomalia che penalizzava i fondi italiani.
Speriamo che si trovi finalmente una soluzione. Invero, il vigente sistema di tassazione procura difficoltà anche di ordine contabile, imponendo la redazione di una contabilità volta ad evidenziare il guadagno per gli investitori (l'anomalia è rappresentata dal fatto che, calcolando il NAV, anche se non si è obbligati, si pagano subito le imposte).
Nel documento che ho consegnato sono illustrate alcune proposte, in specie a favore delle start-up innovative, mediante l'attivazione di strumenti a livello regionale, oltre che nazionale, nonché l'introduzione, a supporto di iniziative esistenti, come il Fondo italiano di investimento, di strumenti di garanzia a parziale copertura dei rischi assunti dagli investitori nei fondi.
In tal modo, si potrebbe dare sostegno agli investimenti di minoranza in piccole imprese, anche per risolvere i problemi connessi alla fase del disinvestimento. Infatti, simili investimenti pongono il problema della sorte della partecipazione di minoranza quando l'acquirente deciderà di vendere: potrà acquistarla l'imprenditore o un altro fondo, sebbene non sia facile vendere una quota di minoranza.
Anche la quotazione in borsa può rappresentare, in questi casi, uno sbocco. Esperienze di sostegno alle imprese che si quotano e a chi investe in imprese non quotate sono state già attuate altrove. I


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francesi, ad esempio, sono sempre stati bravi a trovare, nelle maglie della normativa comunitaria, gli spiragli per far accettare alla Commissione europea misure agevolative. In Italia, invece, non siamo ancora riusciti a fare altrettanto, ma dovremmo compiere uno sforzo in tal senso, magari prendendo esempio dalla Francia, la cui economia non è molto diversa dalla nostra.
La politica di coesione comunitaria per il periodo di programmazione corrente ha allocato, per quanto attiene all'Italia, oltre 500 milioni di euro, utilizzabili per la predisposizione di interventi pubblici a sostegno del venture capital.

PRESIDENTE. In quale modo i francesi hanno bypassato il problema dell'aiuto di Stato?

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Hanno introdotto un regime di deducibilità dal reddito delle persone e delle società - accettato da Bruxelles - per gli investimenti in quote di fondi dedicati ad aziende di piccole dimensioni, ovunque ubicate, ovvero ad aziende tecnologiche che si quotavano per la prima volta. Lo stesso Sarkozy si è molto impegnato a favore del settore quando ha ricoperto la carica di Ministro dell'economia, delle finanze e dell'industria, all'epoca del terzo Governo Raffarin.
Probabilmente, tenendo conto della sottocapitalizzazione delle piccole e medie imprese italiane, e della necessità che esse hanno di aumentare le proprie dimensioni, anche al fine di competere a livello internazionale, da noi si potrebbero assumere iniziative analoghe. In molte regioni, peraltro a sviluppo ritardato, si potrebbe chiedere anche una deroga, che l'Unione europea può concedere a determinate condizioni. Lo stesso discorso vale per il mercato delle start-up. Con il ritardo che abbiamo rispetto agli altri Paesi, avendo un mercato più piccolo, potremmo ipotizzare una misura che prescinda dalla localizzazione in Italia delle start-up tecnologiche.
Siamo disponibili, ove la Commissione lo ritenga opportuno, a produrre ulteriore documentazione, contenente, eventualmente, anche proposte normative mirate. A tale proposito, ho notato che ha partecipato alle audizioni qualche professionista associato a studi legali e tributari che lavorano con il mondo del private equity. Sono questi i professionisti della cui opera ci avvaliamo, anche per quanto riguarda l'attività della nostra Associazione.

PRESIDENTE. In occasione dello svolgimento delle audizioni, le domande sono poste al termine della relazione, in base a una prassi cui, stavolta, potremmo anche derogare.
Mi sono ricordato che l'articolo 2, commi 169, lettera a), e 178, lettera a), della legge n. 191 del 2009 ha introdotto una tassazione al 5 per cento sugli interessi relativi a obbligazioni e passività esplicitamente indirizzate a finanziare le piccole e medie imprese che investano nel Mezzogiorno, emesse dalla Banca del Mezzogiorno.
Non mi risulta che la disposizione sia incorsa nella censura dei competenti organi comunitari. Ciò considerato, se entrassimo nell'ottica di prevedere un intervento analogo a favore del venture capital, lei pensa che, al di là delle agevolazioni riguardanti gli investimenti effettuati da persone fisiche, sia ipotizzabile una defiscalizzazione dei capital gain?

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Come ho accennato, signor presidente, i francesi hanno introdotto due misure: una per chi investe nei fondi dedicati alle fasce deboli del mercato, come le PMI, e una per le start-up tecnologiche. A fronte di tali investimenti nei segmenti deboli dell'economia - mirati, e con l'osservanza di determinate regole di comportamento -, spettano deduzioni o detrazioni fiscali. La prima possibilità è questa.
Poi, c'è la borsa, a proposito della quale si pone un tema delicato, che aveva già creato problemi in passato: in quale modo è possibile attribuire un incentivo a chi investe nel capitale di rischio di aziende neoquotate?


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PRESIDENTE. Probabilmente, in base alle norme vigenti, anche in materia di prospetti e di tutela dei risparmiatori, l'investitore privato dovrebbe comunque passare attraverso un fondo di investimento...

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. È inutile che mi dilunghi sulle difficoltà, sotto il profilo dell'accesso al mercato mobiliare, delle piccole e medie imprese italiane, o del mancato sviluppo di mercati alternativi come l'AIM e il MAC.
Abbiamo stipulato con l'ABI un accordo di collaborazione che ci permetterà di perseguire congiuntamente l'obiettivo del rafforzamento patrimoniale delle PMI, attraverso un maggiore ricorso al capitale di rischio. Inoltre, con Borsa italiana Spa abbiamo concordato la creazione di un accesso facilitato al mercato azionario per le società partecipate da uno o più fondi di private equity.
Mi piace ricordare, altresì, che l'AIFI, nell'ambito di un accordo stipulato con il Ministero dello sviluppo economico, finalizzato ad avvicinare le piccole e medie imprese al venture capital e al private equity, ha programmato l'organizzazione di incontri informativi e formativi sul territorio, in particolare nelle aree del Mezzogiorno. In tale contesto, pensiamo anche a nuove attività di formazione destinate ad avvicinare i dottori commercialisti alle tematiche del private equity, valorizzando, in tal modo, l'importante ruolo di consulenza che questa categoria può svolgere ai fini dell'apertura al mercato delle piccole e medie imprese.
È noto che i numeri attuali, invero piuttosto limitati, sono da ricondurre anche alla riluttanza delle piccole imprese, spesso organizzate su base familiare, a condividere con estranei le informazioni e la governance.
Comunque, ci stiamo organizzando per cercare di cambiare la situazione. Contiamo molto sulle iniziative informative e formative di cui ho detto, cui parteciperà anche il Ministero dello sviluppo economico. Bisogna fare in modo che almeno il Fondo italiano di investimento possa sviluppare la propria azione al meglio, evitando che possano entrare nel suo raggio di azione aziende non solide.
Quanto alla politica di coesione comunitaria, e alla prevista allocazione di oltre 500 milioni di euro per misure pubbliche a sostegno del venture capital, cui ho già accennato, occorre considerare che l'attuale situazione economica rende sempre più esigue le risorse a livello centrale da dedicare al sostegno delle piccole imprese e delle nuove imprese tecnologiche. È per questo motivo che proponiamo di prevedere un coinvolgimento anche delle regioni.
Da questo punto di vista, abbiamo una lunga storia di collaborazione con il Ministero dello sviluppo economico: in due occasioni, e con due diversi Governi, avevamo portato a termine una misura analoga al Fondo italiano di investimento, ma indirizzata alle start-up tecnologiche, sulla base dell'esperienza francese. Il fondo era stato anche finanziato, ma, alla fine, ha dovuto cedere il passo ad altre priorità, come Alitalia e il Fondo di garanzia per le PMI.
Tuttavia, collaborando con i competenti Ministeri, siamo riusciti a utilizzare parte delle risorse derivanti dal rilascio delle licenze per i sistemi di comunicazioni mobili di terza generazione (UMTS) per creare un fondo di fondi, tuttora esistente, destinato allo sviluppo, nel Mezzogiorno, di società high tech operanti nel settore dell'Information and communication technology. Dell'iniziativa hanno beneficiato quattro operatori, i quali stanno investendo. Si tratta dell'unica misura che siamo riusciti a concretizzare a livello centrale, se si eccettua la costituzione del Fondo italiano di investimento.
A livello regionale, invece, si è lavorato un po' di più. La regione più attiva è stata il Friuli- Venezia Giulia, dove Friulia Spa ha realizzato molti interventi. Iniziative analoghe sono nate ad opera delle regioni Lombardia, Sicilia ed Emilia-Romagna. Recentemente, anche la regione Lazio ha costituito il Fondo POR I.3, destinato a finanziare, in partnership con investitori privati, le start-up e lo sviluppo di PMI


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innovative nel Lazio. Non si tratta, quindi, di un fondo di fondi, ma di una forma di co-investimento pubblico-privato, che incentiva i co-investitori riconoscendo loro, in caso di successo dell'operazione, un premio in sede di completamento del disinvestimento (secondo il modello dell'upside leverage).
Lo schema, utilizzato in diversi Paesi, offre ai co-investitori privati i seguenti vantaggi: sotto il profilo della protezione del capitale investito, ad essi sono riservati prioritariamente i flussi di cassa, per quanto riguarda i soli strumenti di equity e quasi-equity; in caso di guadagno, il partner pubblico accetta un tetto al rendimento, in modo che l'extra vada ai privati. L'iniziativa potrebbe essere presa a esempio da altre amministrazioni regionali.
Le regioni hanno utilizzato assai poco le risorse messe a disposizione dall'Unione europea: soltanto otto hanno attivato iniziative per la costituzione di fondi di venture capital; inoltre, sono state selezionate operazioni per un ammontare di poco superiore agli 83 milioni di euro, rispetto agli oltre 500 allocati in Italia dagli organi comunitari.
A corollario delle misure regionali, proponiamo l'introduzione di agevolazioni fiscali a favore dei sottoscrittori di fondi di venture capital. I francesi l'hanno fatto in due occasioni: nel 2005, con la Loi no 2005-842 du 26 juillet 2005 pour la confiance et la modernisation de l'économie, e poi nel 2007, con la Loi no 2006-1666 du 21 décembre 2006 de finances pour 2007, mediante le quali è stato introdotto, come ho ricordato in precedenza, un regime di deducibilità dal reddito (o di detraibilità dall'imposta), per le persone fisiche, in relazione agli investimenti in quote di fondi dedicati a nuove imprese innovative.
Un'altra iniziativa che ci permettiamo di suggerire è quella dei fondi di garanzia, a carattere nazionale e regionale, volti a tutelare il soggetto privato in caso di perdite sull'investimento, secondo uno schema di protezione downside (si potrebbe prevedere, ad esempio, che il fondo di garanzia si faccia carico del primo 20 per cento di perdite). La regione Lombardia ha attuato qualcosa di simile anni fa, istituendo Next, che opera anche come fondo di fondi di venture capital (ricordo che fu molto lunga la trattativa per ottenerne l'approvazione da parte della Commissione europea): in sintesi, la regione ha messo a disposizione degli investitori istituzionali una somma destinata a coprire il 33 per cento delle perdite che saranno eventualmente registrate all'atto della liquidazione del fondo di investimento del venture capital.
Tali strumenti potrebbero essere introdotti anche a supporto dell'attività svolta dai fondi che saranno oggetto di finanziamento da parte del Fondo italiano di investimento.
Analoghe misure potrebbero valere per gli investimenti effettuati tramite le società di gestione del risparmio di fondi mobiliari chiusi - i fondi di private equity italiani sono quasi tutti gestiti da SGR -, per gli intermediari finanziari autorizzati a prestare servizi di investimento, di cui all'articolo 106, comma 2, del TUB, nonché per le società di capitali che nasceranno a seguito della nuova disciplina in materia di intermediari finanziari recata dal decreto legislativo n. 141 del 2010.
Le risorse potrebbero essere reperite includendo i fondi comuni di investimento mobiliare chiusi tra i soggetti cui può essere concessa la garanzia del Fondo istituito dall'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge n. 662 del 1996. Al momento, la predetta garanzia può essere concessa alle banche, agli intermediari finanziari iscritti nell'elenco speciale di cui all'articolo 107 del TUB, e alle società finanziarie per l'innovazione e lo sviluppo iscritte all'albo di cui all'articolo 2, comma 3, della legge n. 317 del 1991, a fronte di finanziamenti a piccole e medie imprese, ivi compresa la locazione finanziaria, e di partecipazioni temporanee e di minoranza, al capitale delle piccole e medie imprese.
L'ultimo aspetto da trattare è quello dei canali di disinvestimento.
Negli ultimi anni, la metà delle quotazioni in borsa di imprese non finanziarie


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è stata realizzata a seguito del ricorso a fondi di private equity (lo stesso è avvenuto sui mercati AIM Italia e MAC). Naturalmente, occorre considerare che i mercati regolamentati, negli ultimi due anni, sono entrati in una fase calante. Ha funzionato poco, purtroppo, anche l'AIM Italia, perché, evidentemente, è molto difficile che una nuova piattaforma di negoziazione abbia successo in un momento in cui il mercato è praticamente fermo. D'altra parte, è difficile anche valutare se tale piattaforma sia adatta o meno alle imprese italiane, proprio perché non c'è mercato.
È chiaro che la descritta situazione non potrà caratterizzare il mercato borsistico italiano in eterno. In ogni caso, può essere incentivata l'acquisizione di partecipazioni di minoranza in nuove imprese tecnologiche di piccole dimensioni.
Le audizioni svolte hanno dato modo alla Commissione di prendere conoscenza delle principali criticità della quotazione in borsa, dall'entità dei costi di ammissione e di permanenza, alla tempistica e alla complessità delle attività da porre in essere sia prima dell'accesso al mercato, anche sotto il profilo dell'organizzazione societaria, sia a collocamento avvenuto.
Sebbene l'AIM Italia sia caratterizzato da una semplificazione delle procedure e da una riduzione dei costi, la quotazione in borsa rimane pur sempre problematica per le imprese di dimensioni più piccole.
Semplificare ulteriormente potrebbe essere utile, ma è più importante, dal nostro punto di vista, prevedere incentivi per le imprese piccole e medie che intendono quotarsi, soprattutto per le start-up innovative e/o per gli investitori.
A nostro avviso, è possibile definire, muovendosi con accortezza nelle maglie della legislazione comunitaria, un regime fiscale agevolato che ottenga una deroga discrezionale da parte della Commissione europea. Ci rendiamo disponibili a dare in piena libertà il nostro contributo, anche avvalendoci, eventualmente, della consulenza degli studi legali che solitamente collaborano con noi.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GERARDO SOGLIA. Ringrazio il professor Bracchi della relazione, veramente molto esaustiva e interessante, soprattutto per chi ha avuto una formazione universitaria come la mia: appassionato alla materia fin da giovane, ho partecipato, nel 1992, a uno stage di tre mesi presso una società dedita al finanziamento, attraverso il venture capital, di imprese high-tech e, nel 1994, ho discusso una tesi dal titolo: «Venture capital e innovazione tecnologica: due strumenti per lo sviluppo del Mezzogiorno d'Italia».
Venendo dal Sud, pensavo che il venture capital potesse essere un modo per promuovere lo sviluppo di quella parte del nostro territorio. Sono vent'anni che provo a diffondere quest'idea, ma sono costretto a prendere atto, ogni volta, che è difficile farsi ascoltare.
Condivido appieno la sua relazione, professore. Innanzitutto, è importante una normativa che possa agevolare il disinvestimento.
Tuttavia, desidero svolgere alcune considerazioni.
Tenendo conto dello sviluppo del venture capital negli Stati Uniti, sorprende constatare come sia difficile, in Italia, trovare società di venture capital disposte a investire in aziende che abbiano un fatturato inferiore a 10 milioni di euro o che si trovino nell'early stage. Probabilmente, manca non soltanto la trasparenza nelle imprese italiane, ma anche quel tipo di cultura che può spingere i gestori di fondi di private equity ad accettare un rischio un po' più elevato.
Pur non avendo mai lavorato alle dipendenze di società di venture capital, ho avuto modo di confrontarmi con alcuni tra i protagonisti del settore nel mercato italiano. Poiché ho avuto anche modo di visionare alcuni accordi stipulati tra i fondi di private equity e le società nelle quali essi investono, mi rendo conto che alcune clausole, quali, ad esempio, quelle che prevedono opzioni put o call, possono


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spaventare qualche imprenditore e indurlo a non sposare, diciamo così, un partner che pretende di porre vincoli e limiti.
Provenendo dalla categoria, so che la gelosia delle proprie creature, delle proprie aziende, è molto diffusa tra gli imprenditori italiani. Esistono, inoltre, problemi di bilanci poco trasparenti.
È vero, d'altro canto, che l'approccio del venture capital nei confronti del mondo delle imprese è riduttivo. Voglio dire che anche l'atteggiamento culturale degli operatori di venture capital dovrebbe cambiare. Ad esempio, ogni volta che si tratta di investire in capitale di rischio, e conseguentemente di procedere a una stima dell'azienda oggetto di interesse, il metodo dei multipli, sempre più adottato nei procedimenti di valutazione, è spesso applicato in maniera tale da penalizzare le imprese.
A prescindere dall'aspetto valutativo, non mi sta bene, come imprenditore, che gli accordi di investimento prevedano vincoli o limiti per effetto dei quali, alla fine, eventuali perdite sono sempre scaricate sulle imprese.
Premesse queste brevi osservazioni, desidero sapere, professore, per quante operazioni cui partecipano fondi di private equity la quotazione in borsa può rappresentare, in concreto, un canale di disinvestimento.
In genere, a un fondo ne subentra un altro. In tal modo, gli investitori realizzano plusvalenze, procurando ai propri sottoscrittori buoni rendimenti, mentre le aziende oggetto di acquisizione, dopo essere passate da un fondo a un altro per due, tre o quattro volte, presentano parametri reddituali che non giustificano i guadagni realizzati.
Bisognerebbe capire quante operazioni con simili caratteristiche siano state realizzate, anche perché, in qualche caso, la quotazione in borsa potrebbe essere un modo per scaricare sul mercato i debiti accumulati nei successivi passaggi tra i fondi di private equity.
Da modesto osservatore, che nutre interesse per la materia, ritengo che il descritto meccanismo costituisca un limite del mercato italiano. Approfitto della sua presenza, professore, per chiederle di esprimere la sua opinione in merito.

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Bisogna distinguere il mondo vecchio dal nuovo.
Nel vecchio, la finanza tirava da sola, e l'operatore poteva avere una caratteristica soltanto finanziaria. Si compravano, generalmente, quote di maggioranza delle aziende (perché operare con quote minoritarie è più laborioso). I multipli aumentavano, le quotazioni in borsa si gonfiavano e il valore delle aziende si incrementava. Se ne compravano altre, si mettevano insieme e, facendole andare un po' sui mercati esteri, si portava il fatturato a 100-150 milioni di euro. Insomma, si comprava con un multiplo di quattro volte il margine lordo e si vendeva con uno pari a otto volte il predetto margine. L'investimento durava due o tre anni in tutto.
Il mondo nuovo è molto diverso. Da sole, le aziende non acquistano valore. Bisogna lavorare molto per farglielo acquistare. Bisogna aiutare l'imprenditore ad andare in Cina o in Brasile, fornendogli i soldi per comprare, all'occorrenza, un'azienda concorrente o una piccola azienda negli Stati Uniti.
I nostri operatori più bravi hanno uffici a Shanghai, a Mumbai, a Rio. L'operatore di private equity non si limita a eseguire operazioni esclusivamente finanziarie - non può più farlo -, ma aiuta l'impresa lavorando al suo interno. Nel private equity, oggi, ci sono più ingegneri e meno finanzieri.
Finché le cose andavano bene, perché scervellarsi? Oggi, la situazione è cambiata. Innanzitutto, il periodo di permanenza nelle aziende è molto più lungo. Inoltre, i rendimenti non arrivano più, in maniera quasi automatica, al 30 per cento, ammontare che consentiva all'investitore di realizzare, detratte le spese, un guadagno netto del 15 per cento. Oggi, bisogna lavorare molto per ottenere un rendimento superiore al 10 per cento.
Una delle maggiori difficoltà del venture capital, in Europa e in Italia, è stata


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costituita dai rendimenti non soddisfacenti.
Al contrario, l'acquisizione, in Italia, di partecipazioni di maggioranza in aziende medio-grandi ha dato grandi soddisfazioni agli investitori: abbiamo rendimenti medi a dieci anni dell'ordine dell'11 per cento, superiori a quelli medi europei e statunitensi. Non a caso, metà della raccolta dei nostri operatori viene dall'estero: si tratta di uno dei pochi casi in cui dall'estero arriva denaro da investire in aziende italiane. In virtù dei predetti rendimenti, i nostri operatori effettuano pochissimi investimenti all'estero.
Viceversa, gli investimenti realizzati mediante l'acquisizione di quote di minoranza in aziende di minori dimensioni, soprattutto quelli dei venture capitalist, riconducibili al concetto di expansion financing, non hanno dato risultati positivi. In California, hanno fatto la fortuna degli investitori e delle aziende, mentre in Europa non sono andati bene, e in Italia hanno avuto un andamento ancora peggiore.
Se, quindi, vogliamo far nascere nuove imprese, dobbiamo trovare il modo per incentivare gli investitori a mettere risorse nei segmenti deboli del mercato.
Per quanto riguarda il tema delle clausole contrattuali, molti dei nostri operatori con formazione più prettamente finanziaria, provenienti dalle grandi banche d'affari internazionali, sono portatori dell'esperienza e della cultura accumulate lavorando per anni a Londra o a New York. Indubbiamente, ciò ha consentito loro di conoscere le prassi del mercato. Tuttavia, tali prassi non possono essere applicate all'assunzione di partecipazioni di minoranza nelle piccole e medie imprese senza il necessario adattamento, che comporta un cambiamento di attitudine e di linguaggio.
Non solo nella città di Milano, ma anche nella provincia, stanno nascendo tanti operatori specializzati, i quali costituiscono fondi da 60-100 milioni di euro, da investire in quote di minoranza di piccole imprese.
Questi soggetti agiscono con un approccio diverso dal passato, perché è chiaro che, se il cliente è diverso, deve essere diverso anche l'approccio.
I fondi non possono essere troppo piccoli. Dal momento che si alimentano con circa il 2 per cento annuo dell'impegnato, se il fondo ha una dotazione di 50 milioni di euro, il 2 per cento equivale a un milione di euro. Se si considera che, di norma, la struttura organizzativa di una SGR è composta da dieci o dodici persone - e non può essere più snella, perché gli oneri amministrativi e la compliance hanno un peso notevole -, si comprende come le SGR non possano essere troppo piccole. I fondi troppo piccoli, quindi, destano qualche preoccupazione.
Ora l'approccio sta cambiando. Per mostrarvi concretamente cosa richiede l'operatore di venture capital, vi farò avere una pubblicazione che abbiamo realizzato il mese scorso per i giovani imprenditori. Nella pubblicazione è compreso uno schema di contratto tipo che l'operatore propone alle nuove imprese tecnologiche.
Ciò che spesso crea problemi è la riluttanza dei nostri imprenditori ad accettare che chi investe nelle loro imprese voglia anche partecipare alla governance. Le banche non lo pretendono, se non nel caso in cui la situazione delle imprese diventi molto critica. Ebbene, bisogna far comprendere all'imprenditore che l'investitore, oltre a dare il proprio denaro, ha interesse non soltanto a controllare come questo è utilizzato, ma anche a partecipare all'elaborazione e all'attuazione del piano di sviluppo aziendale. Per fare ciò, anche chi acquisisce una quota di minoranza della società deve condividerne la governance.
Spesso, anche i nostri giovani imprenditori preferiscono non avere il fiato di qualche investitore sul collo. Il fatto è che, quando il fondo di private equity investe i propri soldi in un'impresa, vuole che questa cresca rapidamente: la domenica si va non a Positano, ma a New York, perché l'azienda, entro i successivi tre anni, deve valere il doppio. Insomma, si devono conoscere le regole del gioco.


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Una delle clausole guardate con maggiore preoccupazione dagli imprenditori è quella che prevede il cosiddetto drag along. L'esigenza che tale clausola vuole soddisfare è chiara. In sostanza, l'investitore fa all'imprenditore il seguente ragionamento: atteso che non conserverò la mia partecipazione sociale per sempre, fra cinque anni dovrò avere la facoltà di disinvestire. A quella data, quindi, potrai comprare tu stesso la mia quota, previa determinazione del valore dell'azienda. Poiché il piano industriale sarà stato elaborato e realizzato da te, ti farò anche uno sconto, se mi avrai fatto guadagnare più del previsto. Se, invece, tu dovessi rinunciare a comprare, allora cercheremmo di quotare la società in borsa. Se la soluzione della quotazione in borsa risulterà impraticabile, troveremo qualcuno che acquisti non soltanto la mia quota, ma anche la tua, che tu sarai obbligato a vendere insieme alla mia. Per evitare tale esito, potrai sempre decidere di comprare tu la mia quota.
Queste clausole preoccupano molto l'imprenditore, perché si sente obbligato a perseguire un piano industriale e a trovare le risorse necessarie.
Stiamo lavorando con l'ABI per verificare la possibilità di trovare una soluzione diversa, nel senso che il private equity metterebbe il capitale, mentre le banche potrebbero aiutare l'imprenditore a riacquistare la quota di minoranza.
Venendo alla domanda concernente i canali di disinvestimento, le statistiche del 2010 rivelano che, in più della metà dei casi, le quote sono state acquistate da compratori industriali. Poi ci sono i write-off, le quotazioni in borsa, la rivendita agli imprenditori e l'acquisto da parte del management.
Le vendite successive ad altri operatori finanziari, che raggiungono una percentuale del 20-25 per cento, non sono da considerare un fenomeno patologico, collegato alla necessità di mettere a posto i bilanci. Non si tratta, insomma, di scambiarsi le aziende come si faceva con le figurine dei calciatori.
Alla scadenza fissata, un fondo deve chiudere. Normalmente, la durata è decennale, articolata in un periodo di investimento di quattro anni e in un periodo di disinvestimento di altri quattro anni, più altri due anni di proroga. Il Fondo italiano di investimento ha una durata complessiva fino a quindici anni: cinque per l'investimento, più uno eventuale di proroga, e sette per il disinvestimento, più due eventuali di proroga. Sono queste le regole del mercato, e gli investitori stranieri vogliono trovare in Italia le regole cui sono adusi.
Quando un fondo valuta che un'impresa sta andando bene, ma non è pronta per il disinvestimento, perché deve crescere ancora, rivende la propria quota di partecipazione a un nuovo fondo, appena avviato, il quale ha davanti a sé un periodo di investimento della durata di alcuni anni. Naturalmente, lo schema può essere ulteriormente replicato. Ad esempio, un'azienda che produce vetro, pur essendo stata gestita dallo stesso management, è stata oggetto di interesse da parte di tre fondi. L'azienda va bene, ma non è ancora matura per il disinvestimento.
Come dicevo, i casi di trasferimento della stessa quota di partecipazione da un fondo a un altro, pur numerosi, non sono da considerare necessariamente patologici. Utilizzando la similitudine alla quale ho già fatto ricorso in precedenza, può anche darsi che, nei periodi cosiddetti di finanza facile, si verifichino alcuni «scambi di figurine»; tuttavia, quei periodi sono alle nostre spalle, perché il mondo è cambiato molto e, anche in questo settore, i comportamenti sono diversi rispetto al passato.
Il passaggio da un fondo a un altro non è assolutamente patologico e, anzi, è nell'interesse dell'azienda, il cui management può continuare a perseguire il proprio piano di sviluppo, sostenuto da un nuovo investitore finanziario. Ho citato il caso di Esaote: si tratta di un'azienda di successo italiana, gestita da un ingegnere di Genova, ormai piuttosto anziano, che sarebbe finita chissà in quali mani se non fosse intervenuto per due volte il private equity.


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PRESIDENTE. Professor Bracchi, vorrei che chiarisse un aspetto specifico: nell'ambito dell'Associazione italiana del private equity e venture capital, qual è il rapporto fra fondi di maggiori e di minori dimensioni?
Poiché lei ha affermato che è necessario un capitale minimo per giustificare gli investimenti e per coprire le spese, mi interessa avere un profilo dimensionale dei fondi associati all'AIFI.

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Signor presidente, invierò alla Commissione un po' di materiale relativo ai soggetti associati all'AIFI. Intanto, posso dire che gli operatori italiani del settore sono 170, di cui circa 130 soci di AIFI.
Tra i non associati, vi sono alcuni grandi fondi esteri che lavorano direttamente da Londra - come Goldman Sachs -, senza avere una sede fissa in Italia, e alcuni fondi esterovestiti, in numero molto limitato. Questi fondi, quasi un terzo dei nostri, sono in parte paneuropei o americani e hanno una sede in Italia. A volte, costituiscono una SGR, com'è avvenuto di recente, anche per ragioni di trasparenza; altre volte, non lo fanno. Si tratta di grandi fondi, in qualche caso da un miliardo e mezzo di euro, i quali, pur non avendo una raccolta specificamente destinata a investimenti in Italia, impiegano una quota delle proprie risorse, se fiutano il business, anche per attuare operazioni in Italia.
Le SGR italiane sono una cinquantina. Poiché le disposizioni di vigilanza della Banca d'Italia sono molto stringenti, non dovremmo avere problemi quando entrerà in vigore la normativa europea in materia di gestori dei fondi di investimento alternativi.
A tale proposito, potrebbe essere opportuna una riflessione più approfondita. Personalmente, non considero l'iper-regolamentazione un fatto positivo, in quanto deleteria per il piccolo business: essa garantisce meglio gli investitori professionali, ma toglie la possibilità di avere una fascia di mercato di piccoli fondi, più adatti a investire nelle piccole imprese e nelle nuove imprese tecnologiche. L'iper-regolamentazione - rispetto a inglesi, svizzeri o americani - ha un costo: più di metà delle persone che lavorano nelle SGR si occupa di questioni amministrative e non di business.
Inoltre, ci sono le banche, le quali operano nel settore del private equity o tramite il merchant banking o mediante SGR interne (i grandi gruppi bancari hanno proprie SGR). Il principale operatore bancario italiano di private equity, per numero di operazioni e per quantità di investimenti, è Intesa Sanpaolo. A volte, le banche creano una corporate separata.
Infine, ci sono le finanziarie regionali, una realtà piuttosto interessante: operano bene, effettuando investimenti in quote di minoranza di imprese del proprio territorio, anche nel segmento start-up. La più attiva è stata Friulia Spa, di cui ho già detto. Ve ne sono in molte regioni, e altre stanno nascendo.
Recentemente anche le camere di commercio hanno cominciato a istituire SGR di private equity. Ad esempio, le camere di commercio di Milano, Brescia, Bergamo e Como hanno promosso una SGR finalizzata all'investimento in capitale di rischio di PMI localizzate in Lombardia. Anche le fondazioni bancarie hanno avviato iniziative analoghe.
In sintesi, abbiamo fondi paneuropei, SGR italiane, captive delle banche, settore no profit, regioni, camere di commercio e fondazioni bancarie.
Quanto alle dimensioni, la raccolta media, a prescindere dagli operatori internazionali, è di 80-100 milioni di euro. I fondi domestici e le SGR italiane con grande raccolta sono molto pochi: «F2I» e «Clessidra SGR» sono sopra il miliardo di euro; anche «Investitori associati SGR» era piuttosto grande, ma adesso è un po' uscito dal mercato. Ha una struttura diversa «21 Investimenti», della famiglia Benetton, che opera in Italia, in Francia e in Spagna. I fondi gestiti da intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dalla Banca d'Italia, ai sensi degli articoli 106 e 107 del TUB (la cui disciplina è stata di recente modificata dal decreto legislativo


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n. 141 del 2010), sono una ventina. Alcune SGR sono bancarie. Tenendo conto di ciò, gli operatori indipendenti sono una sessantina.

PRESIDENTE. Quali sono i meccanismi di informazione? Mi spiego meglio. Noi che facciamo parte del corpo politico siamo avvicinati, spesso, da imprenditori che sanno poco o nulla delle opportunità loro offerte dal sistema finanziario. Da questi episodi, che mi lasciano alquanto perplesso, traggo spunto per riaccendere, ogni volta che ne ho l'occasione, una vecchia polemica con i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali: se gli associati non hanno cognizione dell'esistenza di strumenti che li possono aiutare a crescere, vuol dire che le associazioni non attuano una comunicazione efficace.
Inoltre, desidero rivolgere anche a lei, professore, una domanda che, per quanto riguarda le iniziative di competenza dell'Associazione bancaria italiana, ho già posto al presidente Mussari: cosa fa l'AIFI per intercettare, diciamo così, le imprese che presentano - in numero anche elevato, a quanto pare - i requisiti per crescere sotto il profilo patrimoniale?
Sul venture capital, e sulle operazioni finalizzate a sostenere la nascita di nuove iniziative imprenditoriali, dovremmo aprire un capitolo a parte. Accade, infatti, che il soggetto portatore di una buona idea, traducibile in un buon progetto industriale, non sappia nemmeno a chi rivolgersi per poterlo realizzare, perché dagli istituti bancari si sente rispondere che deve portare, oltre all'idea, anche le garanzie ritenute necessarie. Se la situazione è questa, per lo studente universitario, che ha come unica garanzia la bontà della propria idea, c'è poco da fare...

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Cominciando dall'ultima questione, essa fornisce l'occasione per accennare al fenomeno dei business angel, che ha avuto origine negli Stati Uniti. In California, in particolare, i business angel hanno realizzato lo stesso volume di investimento dei famosi fondi di venture capital tipo Sequoia.
Chi sono i business angel? Si tratta di ex imprenditori, ovvero di manager, in pensione, ma anche in attività, i quali decidono di investire una parte del proprio patrimonio personale nel capitale di rischio di imprese ad alto rendimento, come le start-up innovative.
In Italia, i business angel erano, almeno in origine, piuttosto prudenti: si rivolgevano alle banche, alle quali chiedevano prestiti per investire. Al contrario, se vogliono essere investitori, devono mettere la loro competenza, ma anche la loro liquidazione.
Adesso, i business angel italiani si sono costituiti in associazioni: IBAN, la più antica, ha organizzato reti locali che hanno cominciato ad animare il mercato, realizzando un centinaio di piccoli investimenti seed.
Tali forme di investimento attengono a una dimensione di intervento inferiore a quella del venture capital, che, per giungere ad attuare due investimenti, deve prima analizzare 100 opportunità, e poi approfondirne 10 con un business plan, naturalmente sopportando i relativi costi. Non a caso, tra le misure mediante le quali si cerca di stimolare il mercato, è contemplato uno specifico aiuto: alcune regioni si sono accollate i costi per la stesura del business plan nel caso in cui gli investimenti non vadano a buon fine (in sostanza, le regioni pagano le spese di consulenza). Ad esempio, la Regione Lombardia eroga un contributo, o voucher, a parziale copertura delle spese sostenute dalle imprese per servizi di consulenza volti alla predisposizione del business plan richiesto in sede di domanda di intervento finanziario al «Fondo di garanzia Made in Lombardy».
Volendo schematizzare l'articolazione della filiera, al livello più basso ci sono i cosiddetti incubatori di imprese, come quelli che abbiamo nelle università: sono ormai 300 le imprese avviate dagli incubatori delle università italiane.
A un livello immediatamente superiore operano i business angel, che aiutano, anche perché il ricercatore non ha, spesso, la competenza e l'esperienza necessarie


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per affrontare i problemi dei mercati finanziari. Il business angel mette a disposizione delle imprese esperienza gestionale, competenza tecnico-operativa e relazioni nel mondo degli affari.
In seguito, quando le imprese raggiungono dimensioni tali da rendere possibili investimenti di alcune centinaia di migliaia di euro, interviene il venture capital, che non ha interesse a spendere tempo e risorse per investimenti troppo limitati.
Indubbiamente, signor presidente, si pone anche un problema di informazione.
Anche gli operatori sono a caccia di idee e, di conseguenza, si muovono a loro volta. Come Associazione, abbiamo già attuato alcune iniziative, collaborando con le associazioni degli imprenditori e con le camere di commercio. Adesso sono previste, come ho già detto, nuove attività di formazione destinate ad avvicinare i dottori commercialisti alle tematiche del private equity e a valorizzare il ruolo di tale categoria ai fini dell'apertura al mercato delle piccole e medie imprese.
In particolare, stiamo cercando di organizzare, nell'ambito della formazione professionale continua, alcuni corsi sugli investimenti in capitale di rischio, tenuti dai membri del nostro consiglio direttivo, che prevedano l'attribuzione ai partecipanti di un determinato numero di crediti formativi.
Inoltre, abbiamo stipulato un accordo di collaborazione con il Ministero dello sviluppo economico, volto a favorire gli investimenti innovativi e una più elevata patrimonializzazione delle PMI. L'accordo rientra nelle azioni previste dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 maggio 2010, con la quale è stata data attuazione allo Small Business Act per l'Europa, di cui alla Comunicazione della Commissione europea del 25 giugno 2008.
Collaboriamo con i commercialisti, con l'ABI e con Confindustria per svolgere attività formative anche a livello locale. I nostri operatori si recano direttamente nelle sedi delle imprese. Adesso hanno imparato: per non spaventare i piccoli imprenditori, cercano di non abusare della terminologia anglosassone.
Insomma, il circuito informativo ha cominciato ad animarsi.
Dobbiamo far comprendere agli stessi ricercatori che hanno costituito imprese il ruolo che l'investitore in capitale di rischio svolge, cosa si aspetta (che l'investimento renda) e cosa pretende (essenzialmente, di condividere le scelte).
Nel nostro Paese non erano state compiute, finora, operazioni di venture capital di grande successo.
Insegno al Politecnico di Milano, e sono anche presidente della Fondazione Politecnico di Milano, la quale svolge un ruolo strategico, favorendo la collaborazione tra il Politecnico medesimo, la pubblica amministrazione e la realtà economica e produttiva. Ho premesso queste informazioni per ricordare che proprio la Fondazione gestisce, da alcuni anni, l'Acceleratore d'impresa del Politecnico di Milano, l'incubatore di imprese dell'ateneo. Dalla sua creazione, esso ha ospitato, in totale, circa sessanta imprese. Attualmente, le imprese incubate sono venticinque. Al riguardo, mi fa piacere sottolineare che proprio il mese scorso, per la prima volta, una delle imprese ospitate nell'incubatore è riuscita a vendere una parte della propria attività, per decine di milioni di euro, all'azienda statunitense leader del settore.
Poiché il mercato delle nuove tecnologie non è nel nostro Paese, ma è internazionale, abbiamo creato alcune opportunità anche in California, in modo da obbligare le nostre imprese un po' più mature ad andare incontro al mercato, fuori dai confini nazionali. La prima impresa che abbiamo mandato in California, dopo un anno, è riuscita a compiere l'operazione di cui ho detto poc'anzi, incamerando alcune decine di milioni di euro. Per un'impresa italiana è un grande risultato, ma non ne abbiamo tanti altri da esibire.

GERARDO SOGLIA. Ho una curiosità. Nel vecchio mondo del venture capital, gli operatori sceglievano i settori in cui investire.


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Erano specializzati e, quindi, sceglievano i settori in cui investire e determinavano la dimensione dell'investimento.
Alcuni anni fa, ho avuto modo di collaborare con Gianfilippo Cuneo, numero uno del fondo Synergo. Il suo modo di operare è innovativo - almeno, lui lo definisce tale - perché non gli interessa tanto il settore in cui investire, ma la persona, l'imprenditore su cui investire. A suo avviso, alcune ricerche condotte in materia di venture capital dimostrano che il successo delle imprese non è dovuto alla scelta del settore in cui operare, ma a imprenditori dotati della capacità di fare business. Insomma, non è determinante, per lui, che l'impresa sia altamente tecnologica, ma che l'imprenditore sia capace.
Cosa ne pensa, professore?

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. È certamente vero, ma bisogna fare un discorso più articolato.
Anche quando si tratta di acquistare una quota di minoranza di una media impresa, l'attenzione dell'investitore si appunta su specifici elementi di valutazione.
In primo luogo, supponendo che venga in rilievo una nuova impresa tecnologica, è essenziale che il prototipo abbia un mercato: si può realizzare un prodotto bellissimo; tuttavia, se questo non ha mercato, non si va da nessuna parte.
Inoltre, il mercato deve avere certe dimensioni: non devono esserci, nel mondo, tante altre imprese che stanno operando nello stesso ambito. In altre parole, poiché siamo non al centro dell'impero tecnologico, ma leggermente decentrati, se ci mettiamo a realizzare gli stessi prodotti che stanno già costruendo tanti californiani, e ora anche gli indiani, è difficile che riusciamo a prevalere sugli uni e sugli altri.
Poi, si guarda soprattutto all'uomo. Da questo punto di vista, cioè che conta è che la persona, dopo aver concepito un'iniziativa imprenditoriale, sia determinata a dedicare almeno i successivi due anni della propria vita, senza fare distinzione tra giorno e notte, alla traduzione della propria idea in un prodotto che dovrà primeggiare nel mercato. Talvolta, questa persona non è l'ideatore del progetto originale, l'inventore, ma un'altra persona, che ha un'attitudine più commerciale e finanziaria e che, collaborando con il primo, è in grado di portare a compimento il progetto.
Si investe sull'uomo - è giustissimo -, ma anche sul prodotto.
A questo punto, occorrerebbe approfondire il discorso della specializzazione dei fondi. In generale, i fondi italiani non sono specializzati, ma generalisti, anche perché sono piccoli, e la nostra industria è diversificata.
Tuttavia, sono nati, di recente, fondi più specializzati, come quelli che investono in società il cui fatturato deriva, almeno in parte, da attività tecnologiche connesse alle tematiche ambientali (perché la raccolta in tale ambito è considerata, evidentemente, più facile).
Sono pochi, in Italia, anche i fondi per le infrastrutture, un altro settore di enorme interesse. L'investimento può riguardare infrastrutture brownfield, già esistenti, o, meglio ancora, greenfield. Noi abbiamo bisogno di fondi che investano in questo secondo settore.
A tale proposito, nel mondo del private equity si discute se sia meglio avere operatori di tipo generalista, ovvero specializzati in alcuni settori.
A mio avviso, se il mercato è sufficientemente grande, avere una competenza di settore aiuta molto, perché non tutti sono uguali. Il buon senso ci dice che l'operatore di private equity specializzato - il quale non limiti il proprio intervento all'aspetto finanziario, ma voglia fare in modo che l'impresa trovi partner per internazionalizzarsi -, conoscendo bene il settore, perché ha già investito in altre aziende simili, può creare sinergie che non riuscirebbe a produrre se fosse generalista.
Comunque, la maggior parte dei fondi è di tipo generalista.

PRESIDENTE. A prescindere dalle valutazioni relative al fondo Marguerite, agli altri fondi per le infrastrutture e agli


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eurobond, per tornare alla nostra indagine, una delle mie preoccupazioni è che, in base al proprio regolamento, il Fondo italiano di investimento per le PMI, a parte il problema della tempistica, non potrà realizzare investimenti in società di nuova costituzione (cosiddette start-up).
Come lei ha evidenziato, professore, il periodo di investimento avrà una durata di cinque anni, prorogabili di un anno, mentre quello di disinvestimento sarà di sette anni, prorogabili di due anni. Ciò premesso, non è ancora molto chiaro quel che succederà alla fine di questo percorso.
Per quanto disponga di un miliardo e 200 milioni di euro, il Fondo potrà funzionare se il sostegno finanziario alle imprese avrà una durata pari a quella prevista per l'attuazione del piano industriale.
Il meccanismo prevede la partecipazione al capitale e poi, conseguito l'obiettivo dell'espansione, della ristrutturazione della base azionaria, oppure dell'aggregazione, il disinvestimento, per investire in altre società, in maniera da svolgere una funzione di accompagnamento «successivo».
Tuttavia, la rotazione potrà avvenire in relazione alle possibilità di uscita. Se la partecipazione del Fondo avrà la durata di cui abbiamo già detto, saranno completati, se tutto va bene, due cicli o, forse, anche tre, in relazione a partecipazioni di più breve durata.
Il tema è, dunque, il seguente: una volta raggiunto lo scopo, quale sarà la via d'uscita?
Potrebbe essere la quotazione in borsa. Questa, però, non attraversa certo un buon periodo: da un lato, c'è carenza di investitori istituzionali; dall'altra, i nostri imprenditori sono poco propensi non soltanto ad accettare l'ingresso di estranei nella compagine aziendale, ma anche a dare al mercato, in maniera continuativa, informazioni relative alle proprie imprese.
Secondo lei, professore, le imprese accettano l'idea di un accompagnamento alla quotazione in borsa per il tramite del Fondo italiano di investimento, o di un fondo di fondi subentrante? E con quali modalità?
Per esempio, io pensavo all'ipotesi di attivare il sostegno finanziario da parte del Fondo italiano di investimento, ma di far subentrare, eventualmente, i fondi sovrani, i quali, nella fase successiva, potrebbero accompagnare le società alla quotazione in borsa, incentivata mediante la previsione di agevolazioni fiscali.
Quale potrebbe essere il meccanismo? Esistono le condizioni per un ingresso in borsa delle imprese dopo la conclusione del ciclo di investimento?

GIAMPIO BRACCHI, Presidente dell'AIFI. Sull'istituzione del Fondo italiano di investimento abbiamo espresso un giudizio positivo, sia pure proponendo che le risorse fossero allocate seguendo lo schema del fondo di fondi, con gli operatori distribuiti sul territorio. In altre parole, nutrivamo qualche preoccupazione in merito a una gestione centralizzata, da noi considerata non adatta a selezionare senza condizionamenti, secondo una logica di mercato, e poi a seguire più da vicino, le piccole e medie imprese da sostenere.
La nostra idea era quella di un fondo che investisse fino al 50 per cento in altri fondi, i cui operatori avrebbero dovuto assicurare metà della raccolta, accettando le regole del fondo di fondi e rischiando anche il proprio denaro e la propria reputazione.
Come sapete, è stata trovata una soluzione di compromesso: il Fondo italiano di investimento effettuerà investimenti diretti e indiretti. L'investimento in fondi segue le prassi usuali.
Normalmente, a fronte dei disinvestimenti, la SGR effettua rimborsi parziali pro-quota ai partecipanti, i quali, altrimenti, non vedrebbero più un euro per tutta la durata del fondo (una tale ipotesi, ovviamente, scoraggerebbe gli investimenti nei fondi).
Il limite del private equity, nei confronti di chi fa un solo investimento, è che questo risulta poco liquido. Il grande fondo pensione che sta investendo da dieci anni in private equity si è creato una diversificazione di fondi per annata e per tipologie, e investe ciò che rientra, ma non


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nello stesso fondo. Anche il Fondo italiano di investimento funziona in questo modo.
Sugli investimenti con un orizzonte lungo il problema è, evidentemente, quello della way out.
Probabilmente, la borsa è il canale di uscita ideale. Nel volgere di alcuni anni, le condizioni dei mercati borsistici saranno diverse dalle attuali. Questo è ciò che ci aspettiamo.
Inoltre, vi è sempre la possibilità di cedere la partecipazione a un altro operatore di private equity o venture capital, attraverso un replacement o un secondary buyout.
L'importante è che non si ricada nell'assistenzialismo. Tutti ricordiamo come alcune esperienze, realizzate in passato nel nostro Paese (soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo), non abbiano mai creato ricchezza, ma siano servite esclusivamente a erogare denaro pubblico (finito il quale, è finito tutto). Bisogna che le regole siano quelle del mercato, perché, se le imprese valgono, l'investitore lo trovano.
Certo, la creazione di uno strumento che agisse sul versante dell'investimento secondario potrebbe essere utile.
Voglio citare l'esempio della Caisse des dépôts francese. Nel 2000, all'epoca della bolla Internet, essa aveva già investito una notevole quantità di risorse in start-up Internet. Nel 2003-2004, nessuno dava più un euro a queste aziende, le quali, anche se valide, rischiavano di non sopravvivere. Ebbene, la Caisse des dépôts lanciò un fondo di investimento additivo, dedicato proprio al settore ICT, per consentire la sopravvivenza delle imprese del settore meritevoli di sostegno.
Purtroppo, il nostro Paese è condizionato dalla lentezza operativa e dalla mancanza di una prospettiva di medio termine, carenze che ci impediscono di vedere anche le soluzioni che sarebbe più saggio adottare.
Quando sarà possibile verificare gli effetti di ciò che è stato realizzato, se la borsa non tirasse e la situazione contingente fosse negativa, sarà il momento, probabilmente, di lanciare uno strumento dedicato soprattutto agli investimenti secondari.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Bracchi per il suo contributo e per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.

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