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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
10.
Giovedì 28 aprile 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione dell'amministratore delegato di Borsa Italiana Spa:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3 13 19 20 23 24 25
Barbato Francesco (IdV) ... 13
Berardi Amato (PdL) ... 19 20
Fluvi Alberto (PD) ... 16 19
Jerusalmi Raffaele, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa ... 3 14 17 19 20 22 23 24 25

ALLEGATO: Documentazione consegnata dall'amministratore delegato di Borsa Italiana Spa ... 26
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 28 aprile 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 14,20.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione dell'amministratore delegato di Borsa Italiana Spa.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione dell'amministratore delegato di Borsa Italiana Spa.
Il dottor Raffaele Jerusalmi è accompagnato dal dottor Fabrizio Plateroti, responsabile della divisione regolamentazione di Borsa Italiana Spa.
Credo che il nostro ospite abbia avuto modo di documentarsi in merito alle precedenti audizioni. In quella odierna, la Commissione ha interesse a conoscere meglio la situazione del mercato borsistico italiano, i problemi esistenti, anche in relazione al trasferimento della competenza sul listing alla borsa di Toronto, nonché tutto ciò che osta allo sviluppo della piazza finanziaria italiana.
Do la parola al dottor Jerusalmi, il quale svolgerà la relazione, cui seguiranno eventuali domande. Il dottor Jerusalmi ha consegnato un documento, che ho già fatto mettere a disposizione dei colleghi.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Signor presidente, onorevoli deputati, desidero innanzitutto ringraziarvi dell'invito rivolto a Borsa italiana Spa, che ci offre l'opportunità di presentare le nostre riflessioni sulle molteplici questioni attinenti ai mercati degli strumenti finanziari.
Illustrerò i passaggi più rilevanti del documento che ho predisposto per l'odierna audizione, di cui ho lasciato una copia agli atti, al fine di consentirne una completa visione. Esso è strutturato in una parte principale, che userò come traccia, e che leggerò in gran parte, seguita da approfondimenti, di cui non darò lettura, ma che sarà agevole, in seguito, rintracciare nella relazione depositata.
Il primo paragrafo è relativo a Borsa Italiana Spa e all'evoluzione dell'exchange industry, ossia delle borse.
Borsa Italiana Spa, operativa dal 2 gennaio 1998 in qualità di società di gestione dei mercati, persegue come obiettivo principale lo sviluppo dei mercati in condizioni di elevata trasparenza, competitività ed efficienza.
Il testo unico della finanza attribuisce alla società di gestione il compito e la responsabilità di adottare tutti gli atti necessari per il buon funzionamento del mercato e di disporre l'ammissione, l'esclusione e la sospensione degli strumenti finanziari e degli operatori dalle negoziazioni.
Al fine di cogliere al meglio le esigenze degli emittenti, degli intermediari e degli investitori, Borsa Italiana ha articolato i


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propri mercati e le relative regole di partecipazione in relazione a classi di strumenti finanziari.
Ciò si è tradotto nella seguente articolazione dei mercati: il Mercato telematico azionario (MTA); il Mercato telematico dei cosiddetti securitized derivatives exchange (SeDeX), dedicato alla negoziazione di strumenti finanziari cartolarizzati, come i certificates e i covered warrant, che, essendo più noti, avrete sentito nominare; il Mercato telematico degli OICR aperti (ETFplus); il Mercato telematico delle obbligazioni (MOT), dedicato prevalentemente alla negoziazione di obbligazioni e titoli di Stato, ma anche di obbligazioni corporate, principalmente rivolto alla clientela retail; il Mercato telematico degli investment vehicle (MIV), dedicato alla negoziazione di società di investimento mobiliare e immobiliare e di quote di fondi chiusi; il Mercato degli strumenti derivati (IDEM), dedicato alla negoziazione di strumenti finanziari derivati, ma anche di derivati sull'energia elettrica (IDEX).
In questi anni, Borsa Italiana ha progressivamente integrato a livello societario, attraverso l'acquisizione della Cassa di compensazione e garanzia e, successivamente, di Monte Titoli Spa, l'intera filiera dei servizi di negoziazione con i servizi di clearing e di post-trading.
L'acquisizione di MTS, il Mercato telematico dei titoli di Stato, ha rafforzato, infine, la posizione internazionale di Borsa Italiana anche nel settore del reddito fisso. MTS è il più grande mercato regolamentato elettronico: vi si negoziano titoli di Stato italiani, ma anche di altri Paesi europei.
Questo processo di integrazione ha consentito di massimizzare la qualità dei servizi offerti, in termini sia di affidabilità, sia di continua innovazione tecnologica, a un prezzo tra i più competitivi a livello internazionale, com'è stato riconosciuto anche dalla Commissione europea in un paper di alcuni anni fa.
Inoltre, Borsa Italiana ha valorizzato la propria sede storica in Piazza Affari, a Milano, realizzando un centro congressi che è diventato un punto di riferimento per la comunità finanziaria. Si segnala l'importante investimento compiuto nel corso dell'ultimo anno, finalizzato all'ammodernamento dell'intero palazzo, per consentire a tutte le società del gruppo presenti a Milano di occupare la medesima sede. Ciò consentirà di passare da 170 presenze a oltre 400. I lavori termineranno entro la fine di giugno.
La globalizzazione del mercato finanziario ha determinato, negli ultimi anni, un aumento della competizione e un consolidamento tra attori di diversi Stati.
Il 1o ottobre 2007 Borsa Italiana si è integrata con il London Stock Exchange. Dalla fusione è nato il London Stock Exchange Group, che costituisce il principale gruppo borsistico europeo, leader in Europa per listing e trading di azioni e per trading su sistemi elettronici di ETF, securitized derivatives e titoli a reddito fisso.
Il London Stock Exchange Group è quotato sulla Borsa di Londra ed ha un azionariato diffuso. Tra i principali azionisti, si segnalano Borse Dubai, con il 20,5 per cento circa, Qatar Investment Authority, con il 15,5 per cento circa, Unicredit, con il 6 per cento e Intesa Sanpaolo con il 5,65 per cento circa (le cifre che ho indicato sono ufficiali, ma suscettibili di variazioni, ove siano sopraggiunte, in questi giorni, vendite di cui non siamo ancora a conoscenza). Per la restante parte, l'azionariato è composto prevalentemente da fondi di investimento e, per una parte molto limitata, da altre banche italiane, che hanno una quota di partecipazione complessiva del 5 per cento.
Anche a seguito dell'integrazione, Borsa Italiana non ha subìto cambiamenti del proprio assetto istituzionale, mantenendo le competenze previste dalla legge. Essa rimane, pertanto, una società di gestione dei mercati, autorizzata e vigilata dalla Consob, con una propria autonomia nella gestione dell'ammissione alle negoziazioni degli strumenti finanziari e degli operatori, nonché nello svolgimento delle funzioni di vigilanza. Ovviamente, quando parliamo di ammissione alle negoziazioni,


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ci riferiamo anche al listing. Anche le società ammesse al mercato fanno parte di questo perimetro.
La complementarietà dei modelli di sviluppo di Borsa Italiana e London Stock Exchange, sotto i profili organizzativo, dei prodotti e dei clienti, nonché l'appartenenza a un gruppo internazionale, continuano a rappresentare un'opportunità di crescita per l'industria italiana.
La leadership sui mercati borsistici europei, raggiunta grazie all'eccellenza tecnologica e alla liquidità di un ampio listino, rappresenta il punto di partenza per un'ulteriore sviluppo, in grado di portare chiari benefici alle società quotate, agli intermediari e agli investitori.
All'integrazione di Borsa Italiana nel London Stock Exchange ha fatto seguito l'annuncio, lo scorso 9 febbraio, di una possibile integrazione del London Stock Exchange Group con il gruppo canadese TMX, oggi in fase di autorizzazione da parte delle autorità regolamentari.
La descritta evoluzione nazionale è avvenuta contestualmente a un periodo di consolidamento del settore a livello globale.
Nell'Europa continentale si è assistito a un processo di progressiva concentrazione dei maggiori poli borsistici. In particolare, nel 2000, dalla fusione delle borse europee di Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona è nato il mercato chiamato Euronext, con sede a Parigi. Nel 2007, Euronext ha annunciato, a sua volta, la fusione con il New York Stock Exchange, che ha dato vita al gruppo NYSE-Euronext.
Parallelamente, nel 2003, nei Paesi scandinavi e baltici è stato costituito il mercato OMX, in cui sono confluite le borse di Helsinki, Copenaghen, Stoccolma, Tallin, Riga e Vilnius. Nel 2007, OMX ha proceduto alla fusione con la società americana NASDAQ, per formare quello che oggi è il NASDAQ-OMX Group.
Deutsche Börse, rimasta fuori dal processo di integrazione dei mercati, ha ampliato la sua dimensione e operatività nel mercato dei derivati: nel 2007, ha acquisito International Securities Exchange Holdings, uno dei principali mercati di derivati americani, che negozia soprattutto opzioni su azioni e che, unito ai mercati derivati di Eurex, già di proprietà di Deutsche Börse, ha fatto di quest'ultima uno dei principali operatori su strumenti derivati a livello mondiale.
Il 15 febbraio 2011 è stata annunciata la fusione tra Deutsche Börse e NYSE Euronext. A tale annuncio ha fatto seguito un'offerta concorrente su NYSE Euronext da parte di NASDAQ OMX, unitamente a Intercontinental Exchange.
Il contesto competitivo tra società di gestione dei mercati regolamentati è stato interessato da significativi cambiamenti del quadro regolamentare di riferimento.
L'entrata in vigore della direttiva MiFID ha introdotto una maggiore concorrenza tra gli operatori dei mercati, eliminando l'obbligo di concentrazione degli scambi in borsa e introducendo nuove forme di mercato, i cosiddetti sistemi multilaterali di negoziazione, alternativi ai mercati tradizionali.
Al momento, i mercati azionari di Borsa Italiana hanno confermato la centralità del proprio pool di liquidità, mantenendo una quota di mercato superiore all'80 per cento. Aggiungo anche che Borsa Italiana è la società che ha mantenuto la quota di mercato più elevata all'interno del mercato europeo.
Nella seconda parte della relazione sono illustrate l'organizzazione del nostro mercato primario e le attività di promozione e formazione svolte da Borsa Italiana.
Dalla privatizzazione a oggi è stato compiuto un notevole sforzo per avvicinare le imprese italiane al mercato azionario.
Da una lettura superficiale dei numeri può apparire un quadro distorto. In particolare, il fatto che, a distanza di dodici anni, il numero di società quotate sia il medesimo potrebbe suggerire l'immagine di un listino rigido e cristallizzato.
Invece, la realtà è molto diversa, perché sono ben 267 le società ammesse alla quotazione sui mercati di Borsa Italiana in questi dodici anni (escludendo le ammissioni su MTA International e i trasferimenti


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tra mercati). Al 26 aprile 2011, queste imprese hanno potuto raccogliere circa 53 miliardi di euro, nonché altri 116 miliardi di euro attraverso aumenti di capitale.
Il maggior contributo alla crescita del numero delle società quotate viene dalle piccole e medie imprese: ben 189 di esse hanno trovato nella borsa un luogo dove poter finanziare i propri progetti imprenditoriali con capitale di rischio.
Si badi che, quando parliamo di piccole e medie imprese, intendiamo, in realtà, società che hanno una capitalizzazione fino a un miliardo di euro (quindi, di dimensioni piuttosto grandi).
Tuttavia, un importante contributo alla crescita è venuto anche dalle imprese di piccole e piccolissime dimensioni, in quanto le IPO di società con capitalizzazione inferiore a 100 milioni sono state in tutto 64, e hanno raccolto circa 1,1 miliardi di euro.
I delisting sono stati, nel corso di questi anni, circa 200 (quindi, numerosi), di cui 71 dovuti a fusioni per incorporazione in altre società quotate, 98 a offerte pubbliche d'acquisto e 27 a perdite dei requisiti per la quotazione.
Per quanto riguarda la procedura di quotazione - credo sia uno degli aspetti che interessano particolarmente la Commissione -, Borsa Italiana ha sviluppato negli anni un processo di due diligence di altissimo livello, volto a definire i requisiti di ammissione delle società al listino. Più specificamente, abbiamo sviluppato un sistema molto sofisticato, denominato QMAT (Quotation management admission test), spesso utilizzato anche a livello universitario, per mostrare le metodologie da applicare nella valutazione di un'azienda. Consideriamo motivo di vanto avere un team di professionisti di grande rilievo, con specifiche competenze anche di carattere settoriale, divenuti sempre più esperti nel corso degli anni.
La responsabilità dell'attività di listing, inteso come ammissione alla quotazione, è sempre stata, e sempre sarà - salvo cambiamenti riconducibili a scelte che esulano dalla sfera dei nostri poteri -, sotto la responsabilità di Borsa Italiana, riportata direttamente all'amministratore delegato. Tale attività, peraltro, è sempre stata totalmente separata dall'attività di promozione e marketing, e nulla è cambiato a seguito dell'integrazione con il London Stock Exchange.
L'attuale assetto normativo italiano, che vede la Consob responsabile dell'approvazione del prospetto di quotazione, mentre Borsa Italiana delibera in merito all'ammissione alla quotazione, appare coerente e in linea con l'esperienza europea, dal momento che Francia, Germania, Olanda e Spagna hanno adottato una ripartizione di competenze analoga a quella italiana.
La sola eccezione, in Europa, è rappresentata dal modello adottato nel Regno Unito, che rappresenta un unicum per specificità e complessità. Recentemente, peraltro, tale modello è stato sottoposto a una profonda revisione, alla luce degli sviluppi intervenuti nel panorama comunitario e degli sforzi di armonizzazione compiuti nell'Europa continentale.
Sul tema del listing registriamo, talvolta, una certa confusione. Probabilmente, è anche colpa nostra: evidentemente, non siamo stati chiari al riguardo quando abbiamo annunciato la fusione con TMX.
Il termine listing ha, in realtà, accezioni diverse.
Nel contesto anglosassone, il listing è l'attività di promozione e marketing effettuata per attrarre le società verso la quotazione. Quando si afferma che il listing, dopo la fusione con TMX, passerebbe ai canadesi, non si fa riferimento, pertanto, all'ammissione alla quotazione delle imprese, attività di natura puramente istituzionale, supervisionata dalla Consob, ma esclusivamente all'attività di promozione svolta per attrarre nuove società nel mercato.
Vale la pena di ribadire che, nell'attuale configurazione - l'operazione con la borsa canadese non è ancora stata approvata, e bisognerà attendere l'esito dei diversi incontri che sono in corso -, l'attività di listing è riportata direttamente all'amministratore


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delegato di Borsa Italiana, in qualità di responsabile della divisione capital market del gruppo. Ciò significa che la gestione dei mercati del gruppo fa capo a Milano, dove sono stabilito. Questo è l'assetto attuale.
Nel corso degli anni, Borsa Italiana ha creato modelli di mercato diversificati e ha posto le premesse per una continua evoluzione dei mercati, allo scopo di venire incontro alle esigenze delle imprese, in relazione alla fase di sviluppo in cui esse si trovano e alle loro dimensioni.
In tale ambito, una particolare attenzione è stata dedicata alle piccole e medie imprese, elemento vitale del tessuto imprenditoriale italiano.
Illustrerò, adesso, la composizione del nostro mercato azionario.
Il Mercato telematico azionario (MTA) è allineato ai migliori standard internazionali ed è rivolto alle imprese di media e grande capitalizzazione. Esso è in grado di supportare esigenze di raccolta di capitali domestici e internazionali, provenienti da investitori istituzionali e professionali e dal pubblico risparmio, nonché di garantire un'elevata liquidità dei titoli (su questo specifico aspetto fornirò, più avanti, informazioni alquanto interessanti).
Al 31 marzo 2010, le società quotate sul Mercato telematico azionario erano 270, per una capitalizzazione complessiva pari a 458 miliardi di euro. All'interno di tali società, quelle più grandi, le cosiddette large cap o blue chip, rappresentate nell'indice FTSE MIB (che riunisce i 40 titoli più liquidi), pesano per 395 miliardi di euro. Come vedete, si tratta di un mercato con un'altissima concentrazione.
Peraltro, lo spaccato della realtà economica italiana è alquanto diverso da come spesso lo descriviamo. Infatti, il nostro mercato non è dominato dalle imprese piccole e medie, ma soltanto dalle piccole. Come hanno chiarito le ricerche della Banca d'Italia, da questo punto di vista, l'Italia si presenta spaccata in due: da una parte, le piccole e le micro-imprese; dall'altra, le imprese grandi o grandissime. Le imprese che possono essere considerate medie sono, invece, in numero molto limitato.
Questa è, probabilmente, una delle ragioni che spiegano il numero limitato di società presenti sul nostro listino. Come vedremo più avanti, la quotazione in borsa è una faccenda complessa. Tuttavia, le piccole dimensioni non incentivano le imprese ad avvicinarsi al mercato dei capitali.
All'interno del Mercato telematico azionario (MTA), è stato lanciato, nel 2001, il segmento STAR, rivolto alle imprese con una capitalizzazione compresa tra 40 milioni e un miliardo di euro. Esso accoglie aziende di diversi settori, le quali decidono di fare della corporate governance e dell'adozione delle best practices di comunicazione e di relazione con il mercato il loro tratto distintivo.
Nel recente passato, nel 2007 e nel 2008, sono stati lanciati due segmenti dedicati alle piccole imprese.
Il MAC, riservato a investitori professionali, è sorto nel contesto di un'operazione di sistema, in quanto promosso congiuntamente dalle principali banche italiane e da Borsa Italiana.
Il mercato AIM Italia è stato lanciato, nel 2008, con l'obiettivo di mettere a disposizione delle imprese italiane un modello di mercato che si ispirasse all'AIM UK, il quale ha avuto la capacità di attrarre oltre 2.500 imprese nel corso degli ultimi dodici anni. Diversamente dal MAC, riservato agli investitori professionali, l'AIM Italia è aperto al pubblico indistinto e, quindi, è soggetto a ulteriori attività di due diligence.
All'attività di organizzazione del mercato Borsa Italiana unisce anche una forte iniziativa di promozione delle società quotate e del mercato.
Per le società di maggiori dimensioni, le cosiddette blue chip, essa organizza ogni anno, ormai dal 2000, un roadshow che tocca tutte le principali piazze finanziarie a livello mondiale, selezionate in base al pool di liquidità disponibile e all'interesse all'investimento nelle società italiane.


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Il programma del 2010 ha consentito alle nostre società di svolgere oltre 400 incontri con 180 investitori istituzionali, toccando le piazze di New York, Toronto, Londra, Stoccolma e Tokyo. Molti di questi incontri, in particolare a New York e a Tokyo, sono stati organizzati in collaborazione e con il supporto del Ministero degli affari esteri, che ci fornisce ausilio sempre con grande disponibilità.
Inoltre, dal 2001, Borsa Italiana organizza ogni anno due conference, una a Londra e una a Milano, dedicate a società appartenenti al segmento STAR. Quella di quest'anno ha visto la partecipazione, a Milano, di 105 case di investimento (tra cui una buona componente di investitori esteri provenienti da Svizzera, Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Nord Europa), che hanno effettuato oltre 800 incontri con il management delle società STAR.
La STAR conference di Londra è organizzata ogni anno con il supporto dell'ambasciata italiana, la quale, oltre a mettere a disposizione la sede (e a offrire una cena di benvenuto), ci dà la possibilità di presentare i risultati annuali alla comunità finanziaria inglese e internazionale.
Borsa Italiana svolge anche un'attività di stimolo e di education, affinché le imprese italiane scelgano la via dell'innovazione e della crescita, avendo in noi un naturale alleato. Queste attività sono fondamentali, perché uno dei motivi per cui le aziende italiane non si quotano è da individuare proprio nella scarsa propensione alla crescita. Si tratta di un fattore culturale che caratterizza il nostro mercato. Evidentemente, l'imprenditore italiano non è particolarmente orientato né alla crescita in generale, né a stringere alleanze, ma si accontenta del risultato raggiunto: è un dato oggettivo.
A tal fine, gli strumenti operativi utilizzati in via continuativa vanno dall'organizzazione di iniziative formative e informative pubbliche a incontri personalizzati con imprenditori e management delle aziende, dalla semplice segnalazione delle opportunità derivanti dalla quotazione all'individuazione dei gap che l'azienda deve colmare per poter accedere al mercato e, soprattutto, alla formazione sugli adempimenti di un'azienda quotata.
Tali attività prevedono un forte coinvolgimento delle società quotate (in qualità di tutor), di consulenti e di intermediari specializzati, non soltanto nell'attività propedeutica alla quotazione, ma anche nel processo di accesso al mercato vero e proprio.
Nel solo 2010 sono stati organizzati oltre 30 incontri pubblici, 150 incontri individuali con aziende e circa 15 incontri tecnici finalizzati alla selezione della squadra di consulenti necessari all'avvio del processo di quotazione.
Per contribuire a ridurre il costo complessivo della quotazione, in merito al quale forniremo qualche dettaglio successivamente, abbiamo creato un network di quasi 100 partner equity market di Borsa Italiana: studi legali, società di revisione e consulenza, intermediari e altri soggetti che lavorano nell'ambito del processo di quotazione. Mettendoli in competizione tra loro, siamo già riusciti a ottenere una diminuzione dei costi, per la parte di loro competenza, di circa il 50 per cento. Lo consideriamo un ottimo risultato, che dimostra come la competizione sia uno degli elementi che concorrono a ridurre i prezzi.
Borsa Italiana ha stipulato accordi strategici, finalizzati alla diffusione della cultura dell'equity, con alcuni importanti attori, i quali condividono la convinzione che la quotazione sia sinonimo di crescita, competitività e dinamicità del sistema economico-finanziario e industriale del Paese. In particolare, abbiamo siglato accordi con Confindustria, ABI, AIFI, Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, ANDAF e Università Bocconi (i contenuti salienti degli atti sono sinteticamente illustrati nel documento consegnato).
Per noi è sempre stato fondamentale attrarre liquidità sul nostro mercato.
La necessità di ampliare il numero di investitori e di accrescerne il carattere internazionale ci è subito apparsa un aspetto chiave per il successo del mercato italiano. Di qui la scelta di Borsa Italiana


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di promuovere il mercato presso le principali piazze finanziarie internazionali e di facilitare l'incontro tra società quotate e investitori.
Complessivamente, la borsa italiana ha raggiunto e mantenuto il primato europeo della liquidità: alla fine del 2010, la turnover velocity, vale a dire il rapporto tra valore degli scambi e capitalizzazione di mercato, ha raggiunto il 170 per cento, rispetto al 68 per cento del 1997. Tanto per dare un'idea della rilevanza di tale risultato, posso riferire che la turnover velocity del London Stock Exchange è intorno all'80 per cento (meno della metà di quella della borsa italiana), mentre in Francia e in Germania il valore si attesta tra il 100 e il 140 per cento. Deteniamo, da circa dieci anni, un primato che non è apparso mai in pericolo.
La composizione degli intermediari che partecipano ai mercati gestiti da Borsa Italiana è variata, negli ultimi anni, a favore degli operatori internazionali, anche a seguito della fusione con il London Stock Exchange. Sia nel 2009, sia nel 2010, gli intermediari esteri che hanno chiesto di aderire al mercato azionario sono stati più numerosi di quelli domestici (nel 2009, dodici intermediari esteri e nessuno domestico; nel 2010, dieci esteri e uno domestico). Va detto, comunque, che il mercato domestico aveva già raggiunto un suo grado di sviluppo e di maturità.
Per quanto riguarda il mercato internazionale, quando abbiamo attuato la fusione con il London Stock Exchange avevamo già una cinquantina di operatori esteri. Grazie all'integrazione delle piattaforme tecnologiche, siamo riusciti ad attrarre operatori di secondo e di terzo livello, i quali, evidentemente, hanno trovato la convenienza economica e hanno effettuato una scelta che, se fossimo rimasti da soli, sicuramente non avrebbero compiuto.
Anche la partecipazione degli intermediari internazionali alle negoziazioni sui mercati gestiti da Borsa Italiana è notevolmente cresciuta: il controvalore scambiato in azioni è stato pari al 35,8 per cento nel 2009, al 46,4 per cento nel 2010 e nei primi tre mesi del 2011 ha raggiunto quasi il 54 per cento. In maniera analoga è cresciuto anche il numero dei contratti.
Il trend è ancora più evidente se guardiamo al mercato dei derivati IDEM: nel 2009, il 44 per cento dei contratti standard scambiati e il 55 per cento del controvalore nozionale erano conclusi da intermediari internazionali; tali percentuali sono cresciute sia nel 2010, passando, rispettivamente, al 56 e al 63,7 per cento, sia nei primi tre mesi del 2011, salendo al 60 per cento per quanto riguarda i contratti e al 67,6 per cento per quanto concerne il controvalore nozionale.
L'aspetto che, per alcuni versi, appare più sorprendente - per noi, si tratta di una nota molto positiva, che ci ripaga dello sforzo compiuto in questi anni - è rappresentato dalla percentuale di investitori istituzionali esteri presenti sul mercato italiano. Sembra veramente incredibile, ma la quota di investitori istituzionali esteri supera il 90 per cento - secondo gli ultimi dati in mio possesso, è del 96 per cento - degli investitori presenti nel capitale delle società di grandi dimensioni. Guardando l'altra faccia della medaglia, la percentuale degli investimenti effettuati da investitori istituzionali italiani (fondi comuni, compagnie di assicurazione, fondi pensione) nelle aziende e nei titoli italiani è calata in maniera drammatica, al punto da essere risibile.
I fattori che hanno determinato tale sproporzione sono molti. Tra i principali, possiamo menzionare la sensibile diminuzione, negli ultimi dieci anni, del numero di fondi dedicati ad azioni italiane, nonché la marcata disaffezione dell'investitore istituzionale italiano rispetto all'investimento azionario in generale. Ormai, l'investitore istituzionale italiano compie, rispetto al mercato italiano, scelte di investimento commisurate a ciò che esso rappresenta, utilizzando benchmark mondiali.
Come sapete, noi siamo esportatori netti di capitale finanziario, nel senso che il nostro risparmio viene in gran parte impiegato in investimenti all'estero. I gestori,


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infatti, vanno dove ritengono di trovare le migliori opportunità, di solito offerte dai mercati più grandi.
Nel capitale delle società appartenenti al FTSE MIB (le 40 più grandi) sono presenti ben 1.280 società di investimento estere, provenienti da 40 Paesi diversi, in rappresentanza di circa 8.000 fondi. Se non altro, abbiamo ottenuto un risultato molto importante dal punto di vista della capacità di attrarre capitali dall'estero. I nostri roadshow hanno prodotto un ritorno molto importante per le nostre imprese.
Come ricordato, l'investimento azionario degli investitori istituzionali italiani è contenuto. I fondi comuni di investimento a specializzazione azionaria contano il 17 per cento delle risorse gestite (si tratta, per lo più, di investimenti in azioni estere). Il patrimonio dei fondi azionari specializzati Italia è sceso, a fine 2010, a poco più di 4 miliardi di euro, una cifra che rappresenta il 4 per cento del comparto azionario totale.
Estrema attenzione è stata dedicata agli investitori individuali, che rappresentano un tratto distintivo del mercato italiano anche nel panorama internazionale. I risparmiatori italiani, infatti, si sono avvicinati numerosi al mercato azionario in occasione delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta e detengono ancora oggi circa il 25 per cento della capitalizzazione del mercato italiano, la quota più elevata nel confronto europeo.
Inoltre, l'Italia si caratterizza per l'esistenza di un'alta componente di investitori retail, i quali operano sui mercati finanziari attraverso Fineco, IWBank e Directa, grandi operatori on-line che rappresentano un'eccellenza anche nel confronto europeo. Il trading on-line rappresenta circa un terzo dei contratti scambiati quotidianamente sul mercato e il 15 per cento dei contratti derivati, una componente importante dell'attività che si svolge tutti i giorni sul mercato.
Non a caso organizziamo insieme ai broker on-line, ormai da otto anni, Trading Online Expo. Ospitiamo per due giorni, a Milano, circa 4.000 persone, alle quali offriamo la possibilità di seguire specifici corsi di formazione. Riteniamo che, ricevendo una corretta formazione, un investitore individuale possa operare sul mercato in maniera più consapevole.
Tale sviluppo è stato reso possibile grazie all'azione combinata di Borsa Italiana e degli intermediari, i quali hanno assicurato agli investitori finali condizioni di eccellenza tecnologica e un costante investimento nella formazione finanziaria.
La terza parte della relazione è dedicata ad alcuni spunti di riflessione.
In Italia, il rapporto tra capitalizzazione di borsa e PIL era pari, a fine 2010, al 27 per cento, contro il 43 per cento della Germania, il 74 per cento della Francia, l'82 per cento della Spagna, il 133 per cento del Regno Unito e il 231 per cento della Svizzera.
A fine 2010, in Italia erano quotate 332 società, ad Atene 280, a Francoforte 765, su Euronext 1.135, sui mercati nordici di NASDAQ-OEM 778 e a Londra 2.670. Com'è evidente, il numero di società quotate in Italia è nettamente inferiore.
Il peso delle blue chip italiane nel panorama europeo è relativamente modesto, e in leggero declino negli ultimi anni, confermando un'importante separazione tra il peso del sistema economico e la sua rappresentazione in borsa.
Il dato più significativo - altri sono indicati nella relazione - è che il peso dell'Italia è di circa il 4 per cento a livello europeo e di circa l'1,5 per cento a livello mondiale. Tali valori riflettono, probabilmente, il peso dell'economia quotata e non dell'economia nel suo complesso, atteso che nelle statistiche generali siamo sempre intorno al settimo o all'ottavo posto.
Il numero e le dimensioni delle società quotate rappresentano un gap che separa l'Italia dal resto dei Paesi europei e che si configura come una vera e propria anomalia, pur in presenza di un potenziale significativo.
Poiché la quotazione agirebbe direttamente su alcune caratteristiche del tessuto industriale italiano, la mancata attivazione di questo canale di supporto alla crescita e al cambiamento delle strutture proprietarie


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è un'opportunità cui il sistema industriale non può rinunciare senza aprire una seria riflessione.
Abbiamo già menzionato alcune tra le principali concause di tale fenomeno. Si tratta di temi abbondantemente discussi, triti e ritriti. La verità è che portare le aziende alla quotazione è un'operazione difficile e complessa, la quale richiede la concomitante azione di tanti elementi diversi.
Innanzitutto, è piuttosto scarsa la propensione alla quotazione delle imprese italiane, in particolare delle PMI, delle più piccole. Ciò è dovuto, essenzialmente, alla struttura familiare della proprietà e alla riluttanza all'apertura del capitale, per timore di ingerenze nella gestione aziendale e, in alcuni casi, di un'eccessiva trasparenza.
Inoltre, vi è carenza di fondi specializzati nell'investimento in PMI domestiche, in conseguenza del fatto che mancano le aziende che si quotano.
È difficile stabilire se sia più importante avere prima gli investitori o le società quotate. Comunque, in Italia, sono solo sette i fondi specializzati in PMI, con 180 milioni di euro di capitale. A fine 2009 erano nove, ma comunque pochi se pensiamo che in Germania erano undici, nel Regno Unito cinquantasette e in Francia sessantuno.
Evidentemente, si genera il classico circolo virtuoso ovvero vizioso: se si quota un numero maggiore di imprese, aumentano i fondi; con meno imprese che si quotano, ci sono anche meno fondi.
Se le aziende di grandi e medie dimensioni riescono ad attrarre capitali internazionali, per le PMI l'accesso al capitale di un grande investitore estero risulta più costoso e difficile, in termini monetari e organizzativi. Questo è un altro elemento che può aver concorso a limitare l'accesso delle imprese italiane al mercato azionario.
D'altro canto, è scarso anche il livello di patrimonializzazione delle imprese italiane, che storicamente privilegiano l'accesso al credito rispetto al capitale di rischio. Non bisogna dimenticare che la fiscalità è nettamente sbilanciata a favore del credito, in quanto i finanziamenti bancari sono fiscalmente deducibili, mentre il costo della quotazione non lo è. Questo è un altro elemento di cui è necessario tenere conto.
Per quanto riguarda i costi della quotazione, ai quali si è interessata, ultimamente, anche la stampa, abbiamo svolto un'analisi molto semplice e oggettiva, sulla base dei dati contenuti nei prospetti informativi delle offerte pubbliche iniziali. Com'è noto, in tali prospetti la società indica anche il costo della quotazione, che, di conseguenza, è un elemento del tutto trasparente. Le informazioni sono accessibili a tutti: basta guardare i prospetti.
Negli ultimi cinque anni, il costo di quotazione dichiarato nei prospetti informativi per le aziende con capitalizzazione inferiore a 500 milioni di euro è, mediamente, di 4,4 milioni di euro e rappresenta il 7,5 per cento del capitale raccolto. Invece, il compenso pagato a Borsa Italiana è, mediamente, lo 0,65 per cento del costo di quotazione sostenuto dalle imprese (una somma risibile rispetto al costo complessivo). Ciò significa che, se un'azienda spende 4,4 milioni di euro per la quotazione, corrispondenti al 7,5 del capitale raccolto, paga a Borsa Italiana circa 30.000 euro.
Preciso che c'è differenza fra capitalizzazione e capitale raccolto, nel senso che la società può avere una capitalizzazione di 100 milioni di euro e può realizzare, in sede di IPO, una raccolta di 20 o 30 milioni di euro. In genere, i costi sono computati dagli intermediari, che ne percepiscono la porzione maggiore, sul capitale raccolto. Tali costi rappresentano circa la metà del costo complessivo. La parte restante è relativa alle spese legali.
Osservando i costi di quotazione, siamo noi stessi a sostenere che si può fare sicuramente qualcosa per ridurli. Se noi, che dedichiamo tempo e risorse a un'attività di due diligence molto onerosa, il cui svolgimento richiede competenze che non è facile acquisire, portiamo a casa -


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diciamo così - 30.000 o 35.000 euro, è chiaro che gli altri 4,4 o 4,5 milioni di euro potrebbero essere ridotti.
Se si osservano le sole società con capitalizzazione inferiore a 100 milioni di euro, che hanno effettuato una raccolta di almeno 10 milioni di euro, il costo medio è stato di 1,96 milioni di euro, che rappresentano circa il 9 per cento del capitale raccolto e il 3 per cento della capitalizzazione al momento della quotazione.
Come potete osservare, ma è piuttosto intuitivo, l'impresa più piccola sopporta un costo percentuale più alto, anche perché ha una capacità negoziale inferiore. È chiaro che, quando si è quotata ENEL Green Power, la quale ha raccolto, ad esempio, 2 miliardi di euro, la società ha potuto negoziare condizioni molto diverse da quelle che può negoziare una piccola società.
Stiamo parlando di costi medi, la cui variabilità è piuttosto limitata: per quanto riguarda le società con capitalizzazione a 100 milioni, solo due sui casi esaminati si discostavano significativamente dalla media. A tale riguardo, bisogna fare alcuni distinguo. Il costo della comunicazione può essere anche minimo, ma se una società vuole pubblicizzare l'operazione sui quotidiani per due mesi consecutivi, può arrivare a spendere anche 1-1,5 milioni di euro. I casi in cui i costi si discostano significativamente dal valore medio sono dovuti, probabilmente, all'esistenza di maggiori costi legali e di preparazione alla quotazione (ad esempio, la società non era ancora pronta dal punto di vista del controllo di gestione interno).
La nostra analisi è stata condotta sui prospetti presentati negli ultimi cinque anni e su una cinquantina di società. Si tratta di un campione significativo. Non sono significativi, invece, i due casi di scostamento da noi rilevati rispetto al valore medio.
Nonostante siano apparentemente elevati, i costi che ho indicato sono allineati a quelli degli altri principali mercati europei. Evidentemente, per quanto alti possano apparire, tali costi non sono un deterrente alla quotazione negli altri Paesi europei.
Per quanto riguarda il nostro mercato, siamo comunque convinti che si possa compiere uno sforzo per ridurre i costi: è quello che stiamo cercando di fare, anche se possiamo influire in modo indiretto. I nostri costi, invece, come si può notare, sono molto bassi.
Nel confronto con forme alternative di finanziamento, come debito e private equity, è opportuno considerare che la quotazione offre una forma di accesso al capitale autonoma e permanente, a differenza della partecipazione di un fondo di private equity, che è invece temporanea. Può essere utile sottolineare che, nei tre anni trascorsi dall'inizio della crisi finanziaria, le imprese italiane hanno raccolto in borsa, se non ricordo male, circa 25 miliardi di euro, una cifra non trascurabile, se si considera la riluttanza degli investitori ad aprire i cordoni della borsa. Il sistema sarà tanto più efficiente quanto più frequente sarà il ricorso al mercato per raccogliere nuovi capitali.
Inoltre, è opportuno distinguere tra i costi strettamente funzionali alla quotazione e quelli correlati al conseguimento di superiori livelli di trasparenza e ai miglioramenti della struttura organizzativa, che rappresentano investimenti sostenuti dalle imprese per presentarsi in maniera adeguata agli investitori internazionali.
Vi è, nel nostro Paese, la necessità di incrementare il capitale di rischio destinato alle PMI, a supporto dei loro progetti di crescita. In altri Paesi, tra cui Francia e Gran Bretagna, sono state operate scelte a favore della capitalizzazione delle PMI, sia attraverso opportune misure fiscali incentivanti il ricorso al capitale di rischio, sia attraverso la costituzione di fondi pubblici o privati a sostegno del comparto.
È auspicabile che venga promossa un'azione di sistema volta a valorizzare la centralità della borsa all'interno delle politiche industriali e fiscali, quale strumento per la crescita, l'innovazione, la creazione


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di occupazione e l'adozione di una conduzione aziendale improntata alla trasparenza gestionale e fiscale.
Per quanto attiene agli assetti normativi e regolamentari, Borsa Italiana opera in un contesto normativo caratterizzato da forte complessità e da una debolezza dal lato della domanda. La numerosità e l'articolazione degli adempimenti normativi per le società quotate si è tradotta, com'è noto, in maggiori costi di accesso al mercato, il cui peso è inversamente proporzionale alle dimensione delle società.
Appare auspicabile l'individuazione di spazi di semplificazione degli oneri di quotazione per tutte le società ammesse nei mercati regolamentati, nonché di iniziative volte a favorire lo sviluppo di investitori specializzati.
Dal lato delle proprie competenze, l'attività di sviluppo e manutenzione regolamentare di Borsa Italiana può essere definita un cantiere sempre aperto. Ne sono esempi forti: il tavolo aperto con le autorità e con l'industria sul ruolo dello sponsor - che è sempre un soggetto bancario - , nell'ambito della procedura di ammissione, al fine di pervenire a una soluzione condivisa volta a meglio definire compiti e responsabilità e, per questa via, a ridurre potenzialmente i costi della quotazione; il progetto di revisione sistematica del Regolamento dei mercati, in un'ottica di razionalizzazione complessiva degli adempimenti; la recente istituzione dell'advisory board per i mercati AIM e MAC, con l'obiettivo di definire un modello unico di mercato per le PMI.
Quanto agli interventi sulla normativa primaria e secondaria, desidero sottolineare che condividiamo le iniziative intraprese dalla Consob, la quale ha costituito alcuni tavoli di lavoro per procedere a un'analisi sistematica dell'attuale contesto normativo e regolamentare, volta al recupero della competitività, alla semplificazione e alla razionalizzazione della normativa per le società quotate.
Un modello improntato su una nuova segmentazione a livello di normativa primaria, che introduca obblighi distinti in relazione alla partecipazione a uno dei due segmenti regolamentati, appare un'ipotesi interessante, di cui si stanno occupando i predetti tavoli di lavoro. Si tratta di creare un listino con standard più elevati e uno con standard meno elevati, in modo che le società non sufficientemente patrimonializzate, o non sufficientemente attrezzate per sopportare gli oneri relativi a una quotazione di tipo premium, possano trovare una più agevole strada di accesso alla quotazione.
Il problema è che una piccola società, indipendentemente dal fatto che si quoti sul mercato principale, sull'AIM o sul MAC, si trova a sostenere oneri post-quotazione simili a quelli di una grande azienda quotata.
In questo ambito anche la disciplina degli MTF, quali AIM Italia e MAC, potrebbe trovare un inquadramento più sistematico, basato sulla chiara ripartizione tra mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione e degli obblighi applicabili agli emittenti ivi quotati. Tale ripartizione incontra, attualmente, il limite normativo della disciplina, anche codicistica, relativa agli «emittenti diffusi» e/o «società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio».

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCESCO BARBATO. Desidero ringraziare, a nome del gruppo parlamentare Italia dei Valori, l'amministratore delegato di Borsa Italiana, Raffaele Jerusalmi, e anche il dottor Plateroti, che lo accompagna, per averci offerto l'opportunità di avvalerci della loro esperienza: ciò consentirà alla Commissione di approfondire meglio le problematiche relative ai mercati degli strumenti finanziari.
Dottor Jerusalmi, non ritiene che la borsa italiana sia sottocapitalizzata, soprattutto alla luce delle considerazioni svolte dal Ministro Tremonti, il quale, intervenendo in audizione la settimana scorsa, ha affermato che l'Italia è il secondo Paese manifatturiero in Europa? In ogni caso, siamo la settima potenza economica


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mondiale, mentre il nostro mercato borsistico è da Terzo mondo.
In base ai dati testé forniti, l'Italia sembra essere, da questo punto di vista, una sorta di cenerentola in Europa: le imprese quotate sono troppo poche (negli ultimi anni, si è registrato persino un decremento) e alle piccole e medie imprese spetta il ruolo di grandi assenti.
Dottor Jerusalmi, le porrò domande che non sono ispirate da ostilità nei confronti suoi o di Borsa Italiana Spa: il mio intento è semplicemente quello di mettere a nudo i problemi esistenti, perché è questo, a mio avviso, il tipo di approccio giusto per dare una mano al settore, anche introducendo nella legislazione in materia le eventuali modifiche di cui essa abbisogna.
La mia prima domanda, che è possibile porre in maniera sintetica, trattandosi di un aspetto molto tecnico, concerne i costi da sopportare per la quotazione delle imprese.
Desidero approfondire, inoltre, un profilo che rappresenta il punto debole della borsa italiana, il cui sviluppo è condizionato dal carattere «bancocentrico» del sistema. In altre parole, le banche preferiscono che le imprese siano poco capitalizzate e dipendenti dal credito bancario, piuttosto che quotate in borsa. D'altra parte, sono state attuate veloci iniziative di capitalizzazione riguardanti imprese decotte, come nel caso della Parmalat (ricordiamo tutti le vicende originate dalle obbligazioni immesse in quell'occasione sul mercato). Alla fine, si scarica tutto sui cittadini, sui piccoli investitori e sui consumatori: questo è un sistema che a noi di Italia dei Valori non piace.
Per quanto attiene alla fusione attuata nel 2007 con il London Stock Exchange, da cui è nato il London Stock Exchange Group, lei ha precisato che, mentre nulla è cambiato a proposito dell'attività di listing, rimasta sotto la responsabilità di Borsa Italiana, anche l'attività di promozione e marketing, vale a dire di attrazione delle società alla quotazione, è riportata, nell'attuale configurazione, direttamente all'amministratore delegato di Borsa Italiana, in qualità di responsabile della divisione capital market del gruppo.
Poiché diffido - la diffidenza è nel codice genetico di Italia dei Valori -, le chiedo come si fa a conciliare la sua enunciazione con il fatto che l'azionista di maggioranza, essendo a Londra, ha tutto l'interesse a spostare il mercato, con le nuove imprese da capitalizzare, nella principale città britannica. Non pensa che il London Stock Exchange eserciti un ruolo leonino rispetto a Borsa Italiana?
Un altro dubbio riguarda la disaffezione degli investitori istituzionali italiani, il cui interesse per il mercato azionario in generale, e per i titoli delle imprese domestiche in particolare, si affievolisce sempre di più. Nel contesto cui lei faceva riferimento, dottor Jerusalmi, con Londra che la fa da padrona, non accompagnate questi nostri investitori istituzionali, inconsapevolmente, verso altri lidi, fuori dall'Italia, proprio per la posizione subordinata che avete rispetto al London Stock Exchange?
Infine, la scelta del partner inglese è stata determinata dal fatto che, in Gran Bretagna, vige una normativa più elastica? Avete scelto il London Stock Exchange perché nel Regno Unito è più agevole muoversi? Uno spunto per il nostro lavoro potrebbe riguardare proprio quest'ultimo aspetto: ritenete che occorra modificare la regolamentazione italiana? Grazie.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Cercherò di rispondere alle sue domande, onorevole Barbato, seguendo una traccia che non ricalca esattamente l'ordine in cui esse sono state poste.
Partendo dalla domanda relativa all'interesse dell'azionista di maggioranza, del London Stock Exchange, rispetto allo sviluppo del mercato italiano, e dell'Italia in generale, segnalo un dato che potrà sembrare alquanto sorprendente: da quando abbiamo realizzato la fusione - gli anni dal 2008 al 2010 hanno coinciso con una delle più gravi crisi finanziarie che l'economia mondiale abbia mai vissuto -, il


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contributo di Borsa Italiana al gruppo è significativamente aumentato: oggi, contribuiamo al risultato economico del London Stock Exchange Group nella misura di circa il 50 per cento.
L'interesse dell'azionista di maggioranza a continuare a investire nel mercato borsistico italiano non è, quindi, soltanto affermato, ma trova concreta rispondenza nella realtà; diversamente, la contribuzione di Borsa Italiana a livello di gruppo non avrebbe potuto avere una crescita tanto importante.
Per quanto riguarda la scelta del London Stock Exchange come partner, essa è da ricondurre al fatto che Londra, secondo l'opinione non soltanto nostra, ma della generalità degli esperti del settore, è uno dei maggiori centri finanziari nel mondo: se non il primo, il secondo.
In un contesto competitivo in cui diventa importante offrire dimensione e accessibilità agli investitori, essere posizionati nel primo o secondo centro finanziario mondiale era una soluzione per distribuire i nostri prodotti e per raccogliere capitali per le nostre imprese.
Insomma, il London Stock Exchange sembrava essere il partner ideale. Siamo convinti, quindi, della scelta che abbiamo compiuto. Peraltro, anche i numeri dimostrano che tale scelta, almeno per ora, ha prodotto effetti che vanno nella direzione auspicata, ossia quella di attrarre un numero sempre maggiore di investitori e di intermediari sui nostri mercati e sui nostri prodotti.
Riguardo agli effetti della centralità del sistema bancario, l'argomento è molto complesso. Le banche esistono in tutta l'Europa. Anche la Francia e la Germania potrebbero essere considerate Paesi «bancocentrici», eppure ciò non ha impedito a tante società di trovare la via della quotazione in borsa. Poiché non scorgo differenze particolari tra Francia, Germania e Italia, con riferimento al sistema bancario e alla sua interazione con il sistema industriale, non credo che il «bancocentrismo», nel nostro Paese, possa aver dirottato le aziende italiane verso le banche più di quanto non potesse avvenire in Germania o in Francia. È chiaro che le banche sono società for profit, vale a dire organizzazioni che, dovendo badare al conto economico, cercano di procurarsi clienti come qualsiasi altra impresa: è la realtà.
Talvolta, è stata sollevata, in passato, la questione di un potenziale conflitto di interessi, quando gli azionisti delle banche erano proprietari della borsa. Fino alla fusione con il London Stock Exchange, infatti, le banche italiane possedevano il 100 per cento di Borsa Italiana. Dopo la fusione, la percentuale si è molto ridotta e, di conseguenza, non vi è più ragione di porre la questione (le banche italiane rappresentano il 15-16 per cento del capitale del gruppo).
Per quanto concerne gli investitori istituzionali, le loro scelte non sono guidate da noi, ma compiute in totale libertà: sono le loro strutture organizzative, i loro consigli d'amministrazione, a determinare se investire in Italia o all'estero. Non credo, d'altro canto, che possiamo influenzarne le decisioni.
Il discorso riguardante le modifiche regolamentari è aperto. Come ho accennato, stiamo collaborando con la Consob e con le associazioni di categoria per individuare semplificazioni da cui potrebbe derivare una riduzione degli oneri.
Bisogna considerare, peraltro, che gli oneri non sono rappresentati esclusivamente da spese, ma sono anche immateriali, legati, cioè, alla complessità, allo sforzo, alla macchinosità di certe procedure. La mia opinione è che si possa effettivamente migliorare la normativa, soprattutto per evitare che le difficoltà, materiali e immateriali, incutano timori eccessivi negli imprenditori.
Nei nostri incontri quotidiani constatiamo, ad esempio, che gli imprenditori hanno paura della visibilità connessa alla quotazione in borsa e, quindi, del giudizio che la comunità finanziaria può esprimere periodicamente sui numeri da essi divulgati al mercato. È un aspetto molto importante questo, di cui bisogna tenere


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conto. Forse, gli imprenditori italiani sono più timorosi, da questo punto di vista, di quelli francesi o di altri Paesi.

ALBERTO FLUVI. Dottor Jerusalmi, la ringrazio innanzitutto per la relazione, nella quale ha espresso un punto di vista un po' diverso da quello del presidente della Consob. Le sue interessanti valutazioni saranno senz'altro utili per il nostro lavoro.
Per quanto riguarda il rapporto con il London Stock Exchange, credo si sia trattato di una scelta obbligata, dopo il mancato conseguimento dell'obiettivo di creare una piazza finanziaria europea, per il quale si era impegnato anche il Ministro dell'economia e delle finanze dell'epoca. In un contesto caratterizzato dalle opzioni di riorganizzazione da lei chiaramente ricordate, dottor Jerusalmi, fu individuata la soluzione che, probabilmente, si presentava come la migliore in quel periodo.
Nell'audizione del 23 marzo scorso, il presidente della Consob ci ha riferito, con toni molto preoccupanti per la situazione del mercato azionario, che il numero delle società quotate domestiche è diminuito, nel periodo 2000-2010, da 297 a 286 - con una punta, nel 2007, di 344 -, così come la capitalizzazione, passata da 818 a 423 miliardi di euro (e dal 69 a 35 per cento circa in rapporto al PIL).
Ancora più preoccupante è l'analisi relativa alle società domestiche quotate nei mercati dedicati alle piccole e medie imprese. Le tabelle allegate alla relazione del presidente Vegas mostrano che, a febbraio 2011, le società quotate erano 19 in tutto in Italia, con una capitalizzazione di 351 milioni di euro, 968 nel Regno Unito, 127 in Germania e 136 in Francia. Le dimensioni dei mercati, com'è evidente, sono molto diverse.
Ritengo condivisibili, dottor Jerusalmi, le considerazioni da lei svolte in merito alla struttura del sistema industriale e imprenditoriale del nostro Paese e sui fattori che ostacolano l'ingresso in borsa delle nostre imprese.
Tutti sappiamo - lo ripetiamo in ogni occasione - che la borsa potrebbe rappresentare uno strumento straordinario per la crescita dell'economia italiana. Dobbiamo interrogarci, quindi, sulle cause che hanno impedito al nostro mercato mobiliare di svilupparsi, anche perché, in passato, con maggioranze di destra o di sinistra, sono stati fatti alcuni tentativi di promuoverne la crescita, con effetti che sono sotto gli occhi di tutti.
In una intervista rilasciata al quotidiano Il Sole 24 Ore alcuni mesi fa, facendo riferimento agli accordi di Basilea 3, lei ha affermato che le banche, essendo impegnate ad adeguarsi ai nuovi requisiti patrimoniali, saranno costrette a ridurre, nei prossimi anni, gli impieghi a sostegno delle piccole imprese - di cui è composto, per la gran parte, il sistema imprenditoriale italiano -, determinando, in tal modo, una grande opportunità per il mercato dei capitali, al quale le imprese medesime dovranno giocoforza rivolgersi per soddisfare le proprie necessità finanziarie.
Si tratta di un'affermazione sicuramente interessante. A tale proposito, ritengo che l'opportunità cui lei ha fatto riferimento, dottor Jerusalmi, debba essere corroborata con un'adeguata politica a supporto della borsa, la quale rappresenta una struttura rilevante per il Paese.
Personalmente, non appartengo al novero degli appassionati per la salvaguardia dell'italianità delle imprese, anche perché vedo che quelle importanti vanno a quotarsi là dove ritengono più conveniente farlo, a torto o a ragione. È essenziale, però, che il nostro Paese disponga di una struttura atta a consentire la ricerca di finanziamenti a costi più vantaggiosi.
Credo che dovremmo affiancare i fondi di private equity esistenti, come quello cui partecipa Cassa depositi e prestiti Spa, senza lasciarci condizionare dai numeri, attualmente esigui (il Fondo italiano di investimento ha realizzato due o tre interventi), con incentivi fiscali a vantaggio di tutti i fondi che abbiano come obiettivo, in particolare, la quotazione delle piccole imprese. Si tratterebbe, naturalmente, di una politica da attuare con la consapevolezza di poterne raccogliere i frutti soltanto nel lungo periodo e non nell'immediato.


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Qual è, dottor Jerusalmi, la sua opinione in merito a un'impostazione incentrata su queste due linee di intervento?
Lei ha fatto riferimento ai fondi comuni, ai fondi pensione e alle assicurazioni, che compiono le proprie scelte e dividono il loro portafoglio probabilmente su più piazze finanziarie, in base alla convenienza. Qualche anno fa, quando affrontammo il tema della previdenza integrativa, tenemmo conto di una duplice esigenza: integrare progressivamente la cosiddetta «gamba pubblica» con quella privata, per sopperire al progressivo indebolimento della prima, causato dell'andamento non favorevole della finanza pubblica; assicurare un sostegno all'economia, mediante l'utilizzazione delle ingenti risorse finanziarie affluenti ai fondi della previdenza integrativa. Ebbene, cos'ha impedito, a suo avviso, una più rilevante immissione delle predette risorse sul mercato?
L'ultima domanda richiede una breve premessa. Credo che la direttiva 2004/39/CE, nota come MiFID, sia stata importante, in quanto ha aumentato la concorrenza tra le diverse piazze finanziarie; d'altra parte, ritengo che essa non sia stata ininfluente rispetto a tutto ciò che è successo (e che sta succedendo ancora). Poiché è stato avviato il processo per la revisione di tale direttiva, ritiene di poter formulare qualche suggerimento per sostenere la nostra piazza finanziaria? Grazie.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Sono molti i temi trattati dall'onorevole Fluvi.
Per quanto riguarda l'intervista cui ha fatto riferimento, onorevole, il messaggio lanciato in quell'occasione era, suppergiù, quello da lei sintetizzato.
Sono due gli elementi che possono favorire la quotazione in borsa.
Uno è la risoluta lotta all'evasione che il Governo, con il Ministro Tremonti, sta attuando in questo momento: essa fa venir meno la tentazione di praticare una conduzione dell'azienda meno trasparente rispetto a quella necessaria per essere ammessi alla quotazione in borsa.
Quello indotto da Basilea 3 è, invece, un effetto a medio o lungo termine: la borsa rappresenterà sempre di più, in futuro, un valido strumento, alternativo al canale bancario, che consentirà di soddisfare, attraverso la raccolta di capitale di rischio, le esigenze di finanziamento delle imprese.
A causa del numero limitato di imprese quotate, sono poco sviluppati, nel mercato italiano, i due canali alternativi costituiti dall'emissione obbligazionaria e dalla quotazione in borsa. In realtà, i due mercati sono strettamente collegati, poiché è molto difficile che abbia successo l'emissione obbligazionaria di una società non quotata, la cui scarsa trasparenza, dovuta alla mancanza di adeguata informativa al mercato, restringe moltissimo il campo dei potenziali investitori. Quindi, la quotazione è importante, perché offre alle imprese maggiori opzioni, in vista sia della crescita, sia del superamento di eventuali momenti di difficoltà.
Per quanto riguarda la promozione della quotazione in borsa attraverso la previsione di incentivi di natura fiscale, credo sia necessaria un'operazione articolata.
Lei, onorevole Fluvi, ha fatto riferimento ai tentativi compiuti in passato. Più che a incentivi diretti, penso a quelli che furono introdotti dal decreto-legge n. 357 del 1994, noto come «legge Tremonti». In quel caso, gli incentivi, che favorivano la borsa indirettamente, produssero, come positiva conseguenza, un aumento del numero di quotazioni. Gli obiettivi del provvedimento erano diversi, ma le disposizioni da esso recate fecero sì, ancorché in modo indiretto, che molte imprese trovassero nella quotazione un vantaggio ulteriore.
L'incentivo crea distorsioni: introdurlo senza inserirlo in un articolato sistema di supporto è - volendo utilizzare una similitudine - come accendere un cerino, che si spegne poco dopo. I soggetti che devono supportare la quotazione delle imprese


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sono gli investitori. Questi sono fondamentali: senza investitori non si fa molta strada. Con questa consapevolezza, stiamo collaborando con il Ministero dell'economia e delle finanze, da almeno due anni, per favorire la nascita di investitori dedicati al segmento delle piccole e medie imprese (tenendo conto soprattutto dei problemi delle piccole imprese).
A breve arriveranno in borsa tre medie imprese. Per la verità, due sono quasi grandi, ossia Moncler e Ferragamo, mentre l'altra, Rhiag, ha una capitalizzazione di circa 500-600 milioni di euro. Ciò dimostra che, quando c'è una fase di ripresa del ciclo economico, tornano ad avvicinarsi alla borsa le imprese di un certo tipo, vale a dire quelle che hanno dimensioni e brand tali da attrarre molto interesse.
Le imprese piccole o medie sono molto meno attraenti. Nella maggior parte dei casi, hanno bisogno di essere valorizzate, di avere i riflettori puntati addosso. Per suscitare interesse, devono avere un piano industriale, un disegno di crescita da illustrare agli investitori.
Lo sforzo, quindi, deve essere compiuto su più livelli: uno è relativo agli investitori, un altro all'education dell'impresa, alla quale deve essere spiegato come si sta sul mercato finanziario, quali opportunità questo offre e a quali costi. La quotazione in borsa non è la soluzione a tutti i problemi: sarebbe troppo semplice.
A un certo punto, si potrà introdurre l'incentivo. Tuttavia, se è nostra intenzione attuare un'iniziativa che abbia un impatto concreto, dal momento che l'incentivo è soltanto una miccia, è importante che esso si inserisca in un quadro di interventi più articolato. Soltanto in questo modo riusciremo ad evitare che l'agevolazione, come il cerino della similitudine cui ho fatto ricorso in precedenza, esaurisca i propri effetti nel brevissimo periodo, e non dia più, in seguito, alcun tipo di vantaggio.
La direttiva MiFID, introducendo elementi competitivi prima inesistenti, ha avuto effetti piuttosto sconvolgenti, soprattutto sulla nostra industria. Stiamo lavorando attivamente, a livello di gruppo, per dare il nostro contributo al processo di revisione della direttiva.
Siamo speranzosi che si riesca a compiere un'operazione di sistema, anche grazie a una presenza forte della Consob ai tavoli di lavoro di cui ho detto. Dal momento che l'Autorità di vigilanza è più direttamente coinvolta, insieme alle altre autorità europee, nel processo di revisione delle attuali regole, è fondamentale che essa abbia una visibilità, e soprattutto un peso, all'interno delle discussioni che sono state aperte. Quando la MiFID fu approvata, la partecipazione italiana fu molto limitata a Bruxelles: abbiamo avuto, secondo me, un ruolo un po' passivo; speriamo di poterne avere, stavolta, uno più incisivo.
Sono tanti gli interessi potenzialmente incisi dalle decisioni che dovranno essere assunte. La lobby più forte è quella del sistema bancario, che è anche il più organizzato. Le borse e le autorità regolamentari dovranno fare fronte comune per cercare di bilanciare un tipo di riscrittura delle regole conforme ai desiderata delle banche. I risultati del lavoro che si sta conducendo dovranno salvaguardare l'interesse generale, perché un mercato dei capitali ben funzionante, efficiente e liquido conviene a tutti.
Il nostro mercato ha tutte queste caratteristiche. Ci ha fatto molto piacere che Ferragamo e Moncler abbiano scelto di quotarsi a Milano e non, come ha fatto Prada, a Hong Kong. A tale proposito, l'elemento che ha fatto la differenza è stato l'appartenenza di Borsa Italiana a un gruppo internazionale. Se fossimo rimasti da soli, malgrado la nostra riconosciuta capacità, saremmo stati percepiti come una piazza regionale da aziende di grande brand come Moncler e Ferragamo, le quali avrebbero potuto riflettere sull'opportunità di scegliere Londra, Hong Kong, New York o un'altra piazza finanziaria.
Per noi, avere una dimensione globale è molto importante. Venute meno le barriere di una volta, le quali avevano fatto sì che le imprese si indirizzassero verso le borse nazionali, l'emittente, la società che


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vuole quotarsi, ha tante opzioni. Di fatto, il mercato globale ha offerto un po' a tutti la possibilità di andare dovunque vogliano. Di ciò bisogna tenere conto. Stare fermi e chiudersi non è un'opzione.
Lei, onorevole Fluvi, ha accennato al tema dell'italianità delle imprese. Proprio stamani, su un quotidiano, è stata pubblicata un'intervista al presidente della Coldiretti, il quale ha affermato che i produttori italiani, ai quali interessa soprattutto vendere il latte, sono pronti a dare il benvenuto ai francesi di Lactalis, se lo compreranno a prezzi più alti. Anche questa è una visione di cui bisogna tenere conto: è un dato di fatto.

PRESIDENTE. Dottor Jerusalmi, mi sembra che non abbia risposto alla domanda sui fondi.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Siamo favorevoli alla creazione di fondi che abbiano come obiettivo quello indicato dall'onorevole Fluvi.
Come ho già riferito, stiamo da tempo lavorando in tal senso con il Ministero dell'economia e delle finanze. Abbiamo seguito anche la vicenda della costituzione del Fondo italiano di investimento per le PMI, sebbene esso non abbia come obiettivo prevalente quello di investire in società quotate (il che, tuttavia, non è escluso dallo statuto).

ALBERTO FLUVI. Poiché dobbiamo ragionare tenendo conto della realtà qual è, non quale vorremmo che fosse, il dato di partenza di ogni ragionamento è che la nostra realtà industriale è caratterizzata, per il 90 per cento, dalla presenza di tantissime micro e piccole imprese con una decina di dipendenti. È per questo motivo che sarebbe necessario un doppio canale.
Un fondo di private equity come quello cui partecipa Cassa depositi e prestiti Spa, dopo qualche anno di lavoro, può far crescere le imprese nelle quali ha deciso di investire, ma non è detto che, una volta cresciute, queste si quotino in borsa: le imprese più grandi avranno maggiori possibilità di farlo rispetto a un'impresa artigiana con dieci addetti (lo dico con tutto il rispetto dovuto agli artigiani).

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Ne siamo convinti anche noi: qualcuno deve accompagnare le piccole imprese in un percorso di crescita.
La borsa non è un approdo consono a un'impresa con dieci dipendenti. In teoria, un'azienda con dimensioni così piccole potrebbe anche quotarsi in mercati come l'AIM o il MAC, ma una tale evenienza non si è mai verificata: non avrebbe senso. Ha senso, invece, creare una cultura che aiuti l'imprenditore a guardare alla crescita, diventata oggi, più che un'opzione, una necessità.
La tendenza all'aggregazione, in Italia, non si è mai sviluppata, per motivi diversi, anche culturali. Poiché siamo un popolo di individualisti, e non sappiamo fare squadra (quando ci siamo riusciti, in altri ambiti, come il calcio, abbiamo vinto alcuni titoli mondiali), occorre fare promozione. Da questo punto di vista, le aggregazioni vanno sicuramente nella giusta direzione, e devono essere incoraggiate.

AMATO BERARDI. Nel ringraziarla, dottor Jerusalmi, per le informazioni che ci ha fornito, desidero porle, con specifico riferimento alle piccole e medie imprese, le seguenti domande: qual è il costo minimo annuale per quotarsi in borsa? Quali sono i costi di compliance rispetto alle grandi aziende?

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Se ho capito bene la domanda, il costo per quotarsi all'AIM è di circa 7.000 euro. I costi di compliance variano in relazione al grado di sviluppo e di sofisticazione dei sistemi: se l'impresa è arrivata a un punto di sviluppo sufficientemente avanzato, i costi sono anche molto bassi; se, invece, parte praticamente da zero, e deve mettere in piedi un controllo di gestione, i costi possono salire di molto.


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AMATO BERARDI. Mi riferivo a un'impresa già quotata.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Se l'impresa è già quotata, i costi di compliance attengono sostanzialmente al reporting e all'informativa, ma non sono significativi per un'azienda di piccole dimensioni; possono diventare più rilevanti laddove la Consob, non noi, chieda tutta una serie di informazioni ulteriori. Questo segnava il confine tra l'azienda quotata in un mercato regolamentato e quella quotata in un sistema multilaterale di negoziazione.
Invece, una volta quotata, l'impresa è di fatto assoggettata a una normativa primaria che, per quanto riguarda gli oneri post-quotazione, non distingue tra grandi e piccole società. Su questo aspetto bisogna intervenire, perché è controproducente attrarre la piccola impresa se questa, una volta sul mercato, deve essere sottoposta al medesimo regime cui è soggetta, ad esempio, l'ENEL. È ovvio che un'impresa molto piccola, di fronte all'oggettiva difficoltà a sopportare oneri considerevoli, si trovi spiazzata e, di conseguenza, o decida di abbandonare la borsa, o rimanga sul mercato, ma con la sensazione di aver compiuto un passo sbagliato.
L'individuazione degli elementi di semplificazione e razionalizzazione dell'informativa societaria è oggetto di uno dei tre tavoli di lavoro costituiti di recente, su iniziativa della Consob.
Comunque, il problema di cui stiamo discorrendo non è imputabile alla Consob o a Borsa Italiana, ma deriva dalla normativa primaria.
Per rispondere in maniera più esplicita alla domanda concernente eventuali modifiche normative, bisogna pensare a disegnare un quadro di regole più coerente con la scelta del mercato di quotazione e con le dimensioni delle società: non possono essere poste sullo stesso piano imprese che hanno un fatturato di 20 milioni di euro e giganti come ENI, ENEL, UniCredit o Intesa Sanpaolo.

PRESIDENTE. L'audizione odierna si svolge alla presenza di un numero limitato di deputati. A prescindere dagli appuntamenti elettorali, molti colleghi avevano impegni da onorare in altre sedi. Ciò nonostante, ritengo che l'audizione si stia rivelando molto interessante.
Prima di svolgere alcune considerazioni attinenti al tema oggi in discussione, desidero rammentare, dottor Jerusalmi, una tra le tante attività che mi rendono orgoglioso di presiedere questa Commissione. Alla fine del 2008, abbiamo deliberato un'indagine conoscitiva sul credito al consumo, molto in anticipo rispetto al termine per il recepimento, da parte degli Stati membri, della direttiva 2008/48/CE. Ebbene, credo che il nostro lavoro, conclusosi a febbraio 2010, con l'approvazione all'unanimità di un corposo documento conclusivo, abbia prodotto risultati pregevoli, offrendo un rilevante contributo al processo di attuazione della predetta direttiva, sulla base dei principi e criteri direttivi recati dall'articolo 33 della legge n. 88 del 2009.
Mi piace ricordarlo nell'ambito di questa seconda indagine - la quale prende spunto dalle considerazioni che il dottor Cardia ha svolto poco prima di lasciare lo scranno di presidente della Consob - perché, come lei sa, dottor Jerusalmi, anche in questo caso saremo chiamati a esaminare, successivamente all'approvazione dei relativi provvedimenti di delega, gli schemi dei decreti legislativi di attuazione della normativa comunitaria volta a ridurre gli oneri amministrativi collegati alla pubblicazione dei prospetti e a prevedere un regime più flessibile per i mercati dedicati alle piccole e medie imprese.
Dottor Jerusalmi, anche se lei ha presentato la questione in maniera un po' edulcorata, si può affermare che AIM Italia e MAC sono praticamente inesistenti. Si pone, peraltro, anche il problema relativo alla scarsa percentuale di flottante.
Poiché considero interessante il dato relativo alla presenza degli investitori stranieri, mi piacerebbe avere qualche informazione ulteriore in merito. Abbiamo assistito,


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in passato, a una proliferazione dei fondi comuni di investimento di diritto lussemburghese autorizzati al collocamento nel territorio dello Stato. Questi hanno sempre goduto di un regime di tassazione sul realizzato che, di recente, è stato esteso anche ai fondi comuni di diritto italiano. Resta il fatto che, mancando gli investitori istituzionali, ed essendo scarso il flottante, le piccole e medie imprese ben difficilmente potranno quotarsi in borsa.
In una precedente audizione, abbiamo avuto modo di affrontare la questione del Fondo per le PMI con il dottor Gorno Tempini, amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Spa, al quale ho chiesto di chiarire quale scenario si prospetti dopo l'esaurimento della fase di investimento da parte del Fondo. Chi interverrà? In mancanza di fondi di private equity, o le società interessate si quoteranno in borsa, o gli imprenditori si troveranno nella condizione di dover ricomprare le quote che hanno ceduto, utilizzando risorse che non potranno essere destinate a ulteriori investimenti.
Una settimana fa, intervenendo in audizione, il Ministro Tremonti ha espresso l'opinione che il Fondo per le PMI debba intensificare la propria attività, essendosi attenuto, finora, a criteri troppo prudenziali. Effettivamente, i tre investimenti realizzati non sembrano un gran risultato. Insomma, se l'idea è quella di affastellare legna affinché il cerino non bruci invano - ho preso a prestito la sua similitudine, dottor Jerusalmi -, bisogna assumere i provvedimenti consequenziali.
Passando a un altro tema, potrebbe dare buoni risultati quello che lei ha definito «modello improntato su una nuova segmentazione a livello di normativa primaria», volta all'introduzione di obblighi informativi distinti in relazione alla scelta del mercato di quotazione.
Il ragionamento da lei sviluppato, dottore, riguarda tutti i Paesi dell'Unione europea. Tuttavia, lei sa benissimo che le banche tedesche sono estremamente esposte con i derivati. Ciò significa che avevano più interesse a lavorare sui derivati che a sostenere le imprese. Una situazione analoga non si è verificata, invece, in Italia, dove l'esposizione delle banche nei confronti delle piccole e piccolissime imprese è molto più elevata.
A proposito delle banche, dottor Jerusalmi, lei ha fatto riferimento al tentativo della lobby bancaria di trarre vantaggi dal processo di revisione della direttiva MiFID. Un tema in qualche modo collegato è quello del conflitto di interessi. Credo, in particolare, che rappresenti di per sé un problema il fatto di attribuire il ruolo di Nomad o di sponsor a una banca. Non ritiene che le imprese debbano essere accompagnate alla quotazione da soggetti che non si trovino in conflitto di interessi, e che svolgano, quindi, in maniera obiettiva il proprio compito? Poiché sono ridotti i rendimenti sull'attività retail, le banche prestano servizi relativi a operazioni caratterizzate da alti costi fissi e, di conseguenza, da laute commissioni (com'è noto ai clienti, i quali ne pagano le conseguenze).
C'è, inoltre, la questione dei costi. Sebbene non vi sia carenza di intermediari, i costi per l'ammissione alla quotazione possono arrivare, in alcuni casi, anche al 10 per cento del capitale raccolto. Sarebbe il caso, forse, di approfondire le ragioni che determinano la produzione di oneri così rilevanti. Sotto questo profilo, non vorrei che, una volta realizzata la fusione con TMX, si arrivasse a prescrivere in ogni caso l'obbligo di redigere i prospetti in inglese, il che complicherebbe ulteriormente la situazione. In tal caso, potremmo chiedere aiuto al nostro amico Berardi, broker finanziario eletto negli Stati Uniti...
Illustrando in dettaglio la composizione del mercato azionario, ha affermato, dottor Jerusalmi, che la capitalizzazione complessiva delle 270 società quotate sul Mercato telematico azionario (MTA) è pari a 458 miliardi di euro, mentre le large cap rappresentate nell'indice FTSE MIB, che riunisce i quaranta titoli più liquidi e capitalizzati sul listino, pesano per circa 395 miliardi di euro. Se ne deduce che 230 società hanno, complessivamente, una capitalizzazione


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di 63 miliardi di euro. Si tratta, quindi, di imprese decisamente piccole.
Poiché alcuni dei partecipanti alle precedenti audizioni hanno asserito che circa 2.000 imprese italiane potrebbero accedere al mercato, sempre che lo vogliano (Ferrero, ad esempio, non è quotata), cosa si dovrebbe fare per ottenere concretamente tale risultato?
Si potrebbe ipotizzare, certo, la deducibilità dei costi di quotazione. Tuttavia, essendo tali costi elevati, alla fine, qualcuno ci guadagnerebbe troppo, e ci rimetterebbe soltanto l'erario. Cosa si potrebbe fare, invece, per ridurre i costi, che, in base a quanto ci ha spiegato, dottor Jerusalmi, sono costituiti non tanto dal compenso dovuto a Borsa Italiana, quanto dalle spese di compliance e dagli oneri post-quotazione?
Infine, mi interessa sapere se dalle riunioni dei tavoli di lavoro e di consultazione ai quali partecipa Borsa Italiana sia emersa qualche buona proposta di modifica della regolamentazione, tale da consentire - ripropongo la metafora utilizzata in precedenza - di affastellare un po' di legna prima di accendere il cerino.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Partiamo dal ruolo del Nomad e dal potenziale o apparente conflitto di interessi delle banche.
Gli adviser non sono necessariamente soggetti bancari. La qualifica di Nomad su AIM Italia viene attribuita da Borsa Italiana a società di capitali note al mercato e con adeguata professionalità, le quali, tra le altre cose, hanno esercitato attività di corporate finance per un adeguato periodo di tempo, hanno maturato un track record di operazioni rilevanti e sono dotati di un numero sufficiente di dipendenti (key executive) dotati di adeguata professionalità ed esperienza in corporate finance, comprovata da un adeguato numero di operazioni rilevanti seguite. Borsa Italiana tiene un apposito registro in cui sono iscritti tutti i soggetti abilitati a operare come Nomad su AIM Italia.
Al fine di garantire l'indipendenza su base continuativa dell'adviser e l'assenza di conflitti di interessi con gli emittenti, abbiamo individuato alcuni criteri, che abbiamo chiamato soglie di compatibilità. Ad esempio, se si tratta di una banca, questa non deve aver concesso alla società da quotare affidamenti superiori al 33 per cento, ovvero avere in essa partecipazioni superiori al 10 per cento del capitale sociale.
Sebbene AIM Italia e MAC siano nati in un momento molto sfortunato, all'inizio della crisi finanziaria, l'esperienza di questi tre anni circa di vita suscita alcuni interrogativi. I due modelli, per motivi diversi, non hanno, a mio avviso, la forza di attrazione che potrebbero esercitare. Allo scopo di migliorarli, abbiamo deciso, quindi, di costituire un advisory board per lo sviluppo dei mercati di Borsa Italiana dedicati alle piccole e medie imprese - AIM Italia e MAC -, presieduto dal vicepresidente di Confindustria Vincenzo Boccia, nel quale siedono i rappresentanti di emittenti, investitori e intermediari.
Per un motivo o per un altro, il risultato è stato, fino ad oggi, quello che vediamo. Si tratta, del resto, di un dato oggettivo. Se ne potrebbe anche discutere, ma non ci interessa farlo, perché siamo un'azienda privata che guarda al futuro, non al passato. Siamo contenti di aver compiuto certe scelte, e riteniamo anche di avere operato molto bene. Ciò premesso, non abbiamo la presunzione di ritenere che quanto abbiamo fatto non sia suscettibile di perfezionamento; anzi, proprio perché siamo rivolti verso il futuro, vogliamo costantemente progredire, trovando soluzioni migliori di quelle che abbiamo già elaborato. Da questo punto di vista, ci sono sicuramente spazi di miglioramento. Troveremo un modello più attraente ed efficiente.
Per quanto riguarda i costi di quotazione, in Francia, in Germania e anche in Inghilterra le società che si quotano sopportano oneri analoghi. Ciò vuol dire che i costi non possono essere considerati un fattore decisivo. Lo sono, invece, la cultura di impresa, la complessità delle norme e i


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vincoli procedurali. Sono questi, quindi, i fronti su cui dobbiamo lavorare di più.
Si può anche pensare all'introduzione di incentivi. Se, tuttavia, una volta quotata, la società è costretta ad assolvere oneri di reporting eccessivi o a vivere nell'angoscia di subire ispezioni e verifiche a ciclo continuo, il sistema non può funzionare. In questo momento, la normativa prevede nove livelli di controllo, che sono veramente tanti per un'impresa. Ho letto che anche il Ministro Tremonti, in occasione della sua audizione di una settimana fa, ha fatto riferimento all'individuazione di un criterio che, fatte salve le esigenze del controllo erariale, riduca la frequentazione delle imprese da parte dei molteplici soggetti incaricati di eseguire controlli (dai vigili urbani, ai vigili del fuoco e a tutti gli altri ispettori). Se è questo il problema fondamentale - e lo è -, dobbiamo compiere tutti uno sforzo per trovare una soluzione.
L'opera del legislatore è molto complessa. Spesso, da un intervento normativo opportuno possono derivare conseguenze inattese e non auspicate: è successo anche nel caso della direttiva MiFID. Talvolta, è difficilissimo formulare previsioni. Quando si interviene per modificare le regole, spesso qualcosa sfugge. Ce ne rendiamo conto anche noi: spostare l'asticella degli adempimenti o dei requisiti da un livello a un altro può comportare conseguenze che vanno al di là del risultato che si intende conseguire, malgrado l'iniziativa sia stata preceduta da studi e analisi appropriati.
Come ripeto sempre, noi vogliamo che le aziende si quotino, ma non che lo facciano a tutti i costi. Vogliamo che sul mercato, qualunque esso sia, ci sia un livello di qualità sufficientemente elevato, perché il successo nel tempo si ottiene esclusivamente con la qualità.
Non è un caso che le società del segmento STAR abbiamo fatto registrare, all'interno del mercato MTA, performance del 35-40 per cento nell'arco di dodici anni: probabilmente, il fatto che siano assoggettate a compiti più gravosi e a oneri maggiori in termini di comunicazione e di reporting ne ha migliorato il processo organizzativo e la produttività.
È un dato di fatto: la qualità è fondamentale. Il fatto che, nelle società STAR (le quali hanno una capitalizzazione inferiore al miliardo di euro), la quota degli investitori istituzionali esteri sia pari all'88 per cento, significa che, là dove c'è qualità, anche l'investitore sofisticato estero è disposto a portare i propri capitali in Italia.
La qualità è per noi un punto fermo. Il problema sta, dunque, nel coniugare una buona qualità con regole semplici e con oneri parametrati alle dimensioni delle imprese, anche se non si tratta di un compito semplicissimo.

PRESIDENTE. Che ne pensa della creazione di un mercato di obbligazioni convertibili come presupposto per la quotazione di PMI? Potrebbero esserci problemi?

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Da un punto di vista tecnico, l'obbligazione convertibile, per sua stessa definizione, non porta necessariamente alla conversione, derivante dalla quotazione dell'emittente. Peraltro, poiché l'obbligazione è convertibile, ma a determinate condizioni, bisognerebbe innanzitutto determinare queste ultime e, in secondo luogo, stabilire come, una volta soddisfatte, si giunga alla quotazione dell'impresa.
In genere, l'obbligazione convertibile è uno strumento utilizzato dalle società quotate, e l'upside consiste nel fatto che, anche in caso di mancata conversione, il titolo offre comunque un rendimento soddisfacente al sottoscrittore.
L'altra possibilità è che, all'avverarsi di determinate condizioni, in genere legate alla performance particolarmente positiva dell'impresa, le obbligazioni possano essere convertite in azioni, consentendo al sottoscrittore di realizzare guadagni importanti.
Lo strumento nasce, quindi, per essere utilizzato dalle società già quotate. Tuttavia, poiché chi opera nel mondo della


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finanza è molto creativo, gli strumenti finanziari possono essere impiegati, spesso e volentieri, con finalità diverse da quelle per cui sono stati concepiti. Un fenomeno analogo si è verificato per le azioni senza diritto di voto, di risparmio e privilegiate. Molti strumenti non standardizzati, o non allineati alle best practice internazionali, sono stati introdotti nel nostro mercato, nel corso degli anni, per soddisfare nuove esigenze.
È chiaro, quindi, che si può creare uno strumento specifico per corrispondere a una particolare esigenza. Tuttavia, da osservatore del mercato, da persona che lavora nel mondo della finanza da oltre venticinque anni, sconsiglierei di adottare una simile soluzione. Infatti, quanto più lo strumento è complesso, tanto meno è facile che abbia successo. Ad esempio, se esso è calibrato su una tipologia di struttura che, dopo pochi anni, diventa obsoleta, il mercato si avvia, ma la gente si ritrova, poi, con strumenti difficili da negoziare.

PRESIDENTE. Poiché è stato introdotto l'argomento, abbiamo l'occasione di approfondire un ragionamento sviluppato anche con l'amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Spa.
Il limite della Cassa sta nel fatto che, raccogliendo il risparmio postale, non può permettersi di perdere risorse in operazioni che non siano pressoché sicure: questo è il limite vero del Fondo italiano di investimento per le PMI. Eppure, in Italia si possono trovare tante aziende con buone prospettive di crescita e poca capitalizzazione.
Un mercato di obbligazioni convertibili potrebbe aiutare le imprese a crescere e ad assimilare la cultura dell'espansione, per affrontare mercati sempre più ampi e per realizzare prodotti sempre più competitivi, anche senza arrivare alla quotazione. In tal modo si potrebbe creare un mercato di aziende emergenti finanziariamente solide, alla cui nascita non potrà certo contribuire il sistema creditizio, impegnato a capitalizzarsi a sua volta, al fine di soddisfare i più stringenti requisiti patrimoniali di Basilea 3.
Incidentalmente, va detto che le potenzialità di un'impresa hanno, nel sistema di Basilea 3, una rilevanza nulla: se si ha un prodotto di sicuro successo, ma non il denaro per realizzarlo, non si va da nessuna parte. Da qui il nanismo delle imprese, le quali, non potendo attuare programmi di investimento, o cedono i brevetti o fanno realizzare i prodotti da altri. Non parliamo, poi, del venture capital...
Supponendo che le banche, intente a rafforzare la propria struttura patrimoniale, non possano offrire alle PMI, nei prossimi anni, molto denaro, è immaginabile un mercato di obbligazioni convertibili destinato a imprese che abbiano la necessità di capitalizzarsi e che ancora non siano in condizione di affrontare un mercato più ampio? Avrebbe senso mettere in piedi fondi di private equity che comprino?

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. Se posso, signor presidente, desidero sottoporre a lei e alla Commissione una mia vecchia idea, peraltro sempre attuale e potenzialmente utilizzabile.
Si tratta di una forma di finanziamento che non costituisce una novità.
Negli anni Settanta, e soprattutto Ottanta, erano molto in voga le cosiddette carte commerciali, le quali rappresentavano un ottimo strumento di finanziamento per le imprese. Caddero in disuso per motivi fiscali: la modifica del regime di imposizione sui cosiddetti impieghi a breve termine ne decretò la morte sostanziale.
Lo strumento potrebbe essere una via di mezzo tra la carta commerciale e la cambiale finanziaria, prodotti che hanno caratteristiche di grande flessibilità.
Si potrebbe creare un circuito analogo a quello che esisteva all'epoca. Poiché ho cominciato a lavorare proprio in quegli anni, ricordo che si scambiavano tantissime carte commerciali, di aziende anche molto piccole, non quotate e poco conosciute, alle quali veniva assegnato un rating dalle banche emittenti. La carta commerciale esponeva a rischi limitati, era scambiata, aveva una sua liquidità e,


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soprattutto, una durata relativamente breve.
Credo che questa sia una strada percorribile per risolvere i problemi di finanziamento delle piccole imprese. Nel recente passato avevo sottoposto l'idea ad alcune banche, con le quali stavamo approfondendo alcune valutazioni.
In effetti, la carta commerciale potrebbe rappresentare anche per le banche uno strumento interessante. Dovrebbe cambiare, però, il regime fiscale, perché l'applicazione dell'imposta sostitutiva con l'aliquota del 27 per cento non rende il prodotto appetibile. Se l'aliquota tornasse al 12,50 per cento, come quella applicata agli altri strumenti finanziari, la carta commerciale diventerebbe, a mio avviso, un prodotto con un grande potenziale. Creando un mercato, che potrebbe essere gestito da Borsa Italiana (questa era l'idea che avevo proposto alle banche), i titoli potrebbero essere scambiati, e si darebbe vita a un circuito che diventerebbe, a tutti gli effetti, un canale di finanziamento per le imprese.

PRESIDENTE. Le commercial paper hanno un orizzonte limitato, in quanto non aiutano le imprese a crescere: si emette la commercial paper e, alla scadenza, si rimborsa il finanziamento.

RAFFAELE JERUSALMI, Amministratore delegato di Borsa Italiana Spa. L'obbligazione è uno strumento idoneo. Non mi riferisco a quella convertibile, ma all'obbligazione tout court. Tuttavia, nell'attuale configurazione, mancando la quotazione o il rating, non può svolgere la funzione che ad essa si vorrebbe assegnare. Bisogna trovare, quindi, uno strumento ibrido.
Avevo pensato a un tipo di carta commerciale che fosse una via di mezzo tra la cambiale finanziaria e la carta commerciale vera e propria.
Più specificamente, l'orizzonte temporale dell'investitore potrebbe essere anche diversificato, prevedendo scadenze più brevi e più lunghe, premi al raggiungimento di determinati risultati, il collegamento tra la performance dell'azienda e la rendita corrisposta all'investitore. Si tratta di vantaggi più attraenti della possibilità di conversione, perché può anche essere che l'emittente di obbligazioni convertibili decida, poi, di non quotarsi.
Strumenti di questo tipo rappresentano un'ottima soluzione soprattutto per le piccole società e, di conseguenza, per un numero di imprese molto grande. Si può pensare a strumenti simili o assimilabili al capitale di rischio, ma quella dell'obbligazione convertibile non mi sembra una strada percorribile, perché, se l'emittente non si quota, non è possibile convertire. Occorre, secondo me, uno strumento ibrido.

PRESIDENTE. L'imprenditore potrebbe valutare che, essendo richieste le sue obbligazioni, incontrerebbero il favore del mercato, con molta probabilità, anche le sue azioni.
In altre parole, l'obbligazione convertibile potrebbe modificare l'approccio al mercato dei capitali del piccolo imprenditore italiano, il quale, allo stato attuale, è molto riluttante ad avviare la propria impresa alla quotazione in borsa, per tutte le ragioni di cui abbiamo diffusamente discusso in questa e nelle precedenti audizioni.
Credo che l'audizione odierna sia stata molto proficua.
Ringrazio l'amministratore delegato di Borsa Italiana Spa, anche per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,25.

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