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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VII
1.
Mercoledì 4 novembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Aprea Valentina, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE CONNESSE ALL'ACCOGLIENZA DEGLI ALUNNI CON CITTADINANZA NON ITALIANA NEL SISTEMA SCOLASTICO ITALIANO

Audizione di esperti del settore:

Aprea Valentina, Presidente ... 2 7 10 12
Barbieri Emerenzio (PdL) ... 7
Capitanio Santolini Luisa (UdC) ... 8
De Biasi Emilia Grazia (PD) ... 8
De Torre Maria Letizia (PD) ... 10
Favaro Graziella, Coordinatrice della rete dei centri interculturali italiani ... 4 11
Giovannini Graziella, Docente di sociologia dell'educazione presso l'Università di Bologna ... 2 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 4 novembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VALENTINA APREA

La seduta comincia alle 15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti del settore.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche connesse all'accoglienza degli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico italiano, l'audizione di esperti del settore.
Porgo le mie scuse agli auditi, perché abbiamo avuto un problema di inversione dell'ordine del giorno e vi ringrazio per averci atteso. Sono oggi presenti la professoressa Graziella Giovannini, docente di sociologia dell'educazione, professoressa associata confermata presso l'Università di Bologna, e la professoressa Graziella Favaro, coordinatrice della rete dei centri interculturali italiani, esperta di processi educativi nella migrazione. Come sapete, la coordinatrice di questa indagine è l'onorevole De Torre.
Do loro la parola per lo svolgimento della relazione.

GRAZIELLA GIOVANNINI, Docente di sociologia dell'educazione presso l'Università di Bologna. Grazie, presidente. Vi ringrazio dell'invito. Come sociologa, considero molto importante conoscere per decidere, ovvero costruire un sapere prima di prendere decisioni.
Abbiamo condiviso con Graziella Favaro alcune riflessioni che vogliamo proporre alla vostra attenzione. Permettetemi innanzitutto di richiamare alcuni punti fermi, utili a capire la situazione attuale, per poi entrare nel merito dei nodi cruciali delle questioni in attesa di soluzione.
Provo a disegnare rapidamente lo scenario. Non desidero richiamare i numeri, anche perché so che sono disponibili, bensì richiamare il contesto all'interno del quale proponiamo le tipologie di problemi più urgenti e più emergenti.
Il primo punto fermo è che il fenomeno della presenza dei minori stranieri nella scuola italiana si configura come stabilizzato e contemporaneamente in movimento. Si ravvisa infatti una serie di caratteristiche ormai consolidate e riconosciute, quali la numerosità che è andata crescendo in poco tempo in termini percentuali, che però, pur continuando ad aumentare, in questi ultimi anni sembra registrare alcune battute di arresto.
Non abbiamo i dati relativi all'anno 2008-2009, perché contrariamente agli anni precedenti, nei quali in questo periodo avevamo già a disposizione i dati relativi all'anno scolastico terminato, quest'anno il Ministero, che pure ha questo bel servizio di informazione e produzione di materiale informativo, non ha prodotto nell'estate l'analisi relativa all'anno scolastico 2008-2009.
Si tratta comunque di una presenza consolidata, che evidenzia come i neoarrivati non rappresentino più, come nei primi anni, il grosso della presenza nelle scuole, perché la storia, seppure recente,


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della migrazione italiana ci permette di affermare che il 40 per cento dei bambini e dei ragazzi di cittadinanza non italiana presenti nelle scuole italiane sono ormai nati in Italia o hanno frequentato qui quasi tutto o tutto l'itinerario scolastico. Questa stabilizzazione segna dunque una diversa tipologia delle presenze. I neoarrivati, che pure continuano a presentare specifici problemi, sono comunque una quota minoritaria rispetto alla totalità delle presenze nel territorio.
Sappiamo che la presenza è diversificata nei territori, nei vari percorsi e indirizzi scolastici. Si tratta di un fenomeno che continua a mutare, che non possiamo considerare ormai delineato in tutte le sue componenti, perché continua a cambiare come quasi tutti i fenomeni umani, ma possiede coordinate che da tempo abbiamo posto sotto osservazione e che riusciamo a interpretare.
Un secondo punto fermo che sottopongo alla vostra attenzione è che, nonostante le diversità politiche dei vari Governi che si sono succeduti dal primo presentarsi del fenomeno migratorio ad oggi, ritroviamo alcune linee trasversali, che nell'ambito dell'Osservatorio costituito dal Ministro Fioroni ci hanno permesso di individuare una via italiana, che è quella dell'integrazione interculturale. Tale prospettiva nasce già negli anni '90, ma non è cambiata neanche oggi.
Nelle circolari ministeriali del Ministro Gelmini, laddove si individuano gli orientamenti per l'insegnamento di Costituzione e cittadinanza, si parla in maniera molto precisa del significato della formazione alla cittadinanza in un contesto multiculturale. Le parole che si utilizzano, gli orientamenti sono in continuità con quello che abbiamo trovato nei periodi precedenti, così come anche l'atto del settembre scorso del Ministro Gelmini per quanto riguarda i curricula della scuola dell'infanzia e della scuola primaria.
Anche lì viene infatti accolto il tema della diversità, della presenza di un pluralismo di tipologie di soggetti all'interno della scuola, in una forte continuità con quanto individuato nella normativa precedente. Esiste un filo rosso che lega e che fa da sfondo, rimane sotteso a tante, differenti prese di posizione politiche e sui media, che di volta in volta fanno emergere analisi e situazioni, rivelandosi più contingenti e puntuali, mentre sotto c'è una linea che, pur nelle differenza tra Governi, dal punto di vista dell'insegnamento scolastico garantisce ai bambini elementi di continuità.
Si tratta in particolare del principio secondo cui a questi bambini debba essere offerta una pari opportunità di accesso all'istruzione, con il richiamo comunque sempre alla Convenzione internazionale dei diritti dell'infanzia e con l'idea che sia necessario farsi carico del pluralismo culturale, problema che riguarda non solo i ragazzi stranieri ma tutte le nuove generazioni, tutti gli studenti, tutti i nuovi figli.
Nonostante questi due pilastri, l'inserimento di bambini stranieri continua a presentare questioni, problemi, difficoltà che devono essere affrontati. Ne abbiamo individuate alcune. Una prima grande questione, che mediaticamente suscita più clamore, riguarda le situazione di concentrazione e «segregazione». Questo è il nodo più caldo, oggetto di riflessione nella pubblica opinione e più dibattuto in atti politici dei vari partiti.
La concentrazione, che significa una presenza rilevante di bambini stranieri talvolta anche superiore alla presenza dei bambini italiani, appare un tema chiave per realizzare una buona politica. Tutte le circolari ministeriali sulle iscrizioni e le direttive hanno rilevato la necessità di mantenere l'eterogeneità all'interno dei contesti e delle scuole, giacché solo l'eterogeneità può permettere un buon dialogo interculturale e una buona integrazione.
A questa questione della concentrazione non è possibile oggi trovare una soluzione unitaria, in grado di risolvere tutte le questioni ad essa legate. Pensare a una sola soluzione come quella delle quote indifferenziata su tutto il territorio e per tutti i livelli di scuola rischia di creare più problemi di quanti riesca a risolverne, perché dobbiamo compiere lo sforzo di capire come questa concentrazione si generi


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e quali caratteristiche assuma. Una concentrazione di bambini o ragazzi di un solo gruppo nazionale di appartenenza è differente da una concentrazione che veda all'interno delle classi una pluralità di provenienze e di cittadinanze. Questa seconda realtà è più presente nelle scuole italiane. Abbiamo anche alcuni casi di concentrazione per etnia, ma sono molto più numerosi i casi in cui la concentrazione coinvolge una pluralità di situazioni.
Queste concentrazioni si generano a partire da differenti tipologie di presenza in Italia di bambini. Una concentrazione del 20 per cento di neoarrivati è diversa da un gruppo di bambini nati in larga parte in Italia, che si concentri in un territorio. È quindi necessario smembrare e analizzare questa concentrazione, cercare di capire come sia composta. Se tutti non fossero capaci di parlare italiano, come non si verifica perché la quota dei neoarrivati sta diminuendo, si creerebbe infatti un problema diverso da quello che si ha in presenza di una differente presenza dei ragazzi stranieri in Italia.
È dunque importante cercare di interpretare come si sia arrivati a questa concentrazione, perché si rilevi in alcuni territori piuttosto che in altri, perché in alcune scuole piuttosto che in altre. Capire questo è indispensabile per trovare una soluzione che si adatti a quel contesto.
Parlare di una grande città con più scuole vicine, di cui magari una attira più di altre, perché le altre respingono più facilmente gli stranieri è diverso dal parlare di Correggio, di una frazione o di Porretta a Bologna, dove la concentrazione dei bambini stranieri è legata a problematiche di tipo socioeconomico e abitativo, laddove vi sono arrivate famiglie immigrate in cerca di abitazioni più convenienti o attratte dalla presenza di lavoro. È diverso se si tratta della scuola materna, della scuola primaria, della scuola secondaria superiore, laddove sappiamo che la concentrazione è maggiore negli istituti professionali piuttosto che nei licei.
È quindi necessario sostenere la necessità di decodificare contesto per contesto, cercando di trovare soluzioni adeguate. Credo che questa sia la strada intrapresa in maniera meno mediaticamente rilevante in tanti territori. Non siamo all'anno zero e accanto ad alcuni casi di scuole che scoppiano, che finiscono sui giornali e giustamente sono alla nostra attenzione e ci danno il senso dell'emergenza, in tanti altri territori da anni si stanno creando attività di coordinamento, patti di territorio in varie forme.
Con l'aiuto degli enti locali e in prima istanza della società civile, vari contesti cercano di intraprendere percorsi che permettano ad esempio un'equa distribuzione fra scuole, che si mettono in rete e insieme decidono di promuovere POF coordinati, azioni comuni di orientamento, realtà già esistenti, che stanno funzionando a Torino, in Toscana, in Emilia.
Questa questione delle concentrazioni non può essere risolta senza fare riferimento alle famiglie italiane e non italiane, perché nasce da cause economiche, sociali, abitative, di differente offerta delle scuole, ma anche a partire dalla libera e volontaria scelta di famiglie e dalle rappresentazioni, in particolare delle famiglie italiane, rispetto alla bontà di una scuola con una determinata percentuale di immigrati. Molti fenomeni di concentrazione si sono quindi realizzati proprio a partire da una difficoltà di costruire una buona scuola, che rassicurasse le famiglie italiane nel restare in un contesto in cui la presenza degli stranieri continuava a lievitare. I patti con le famiglie sono uno strumento a disposizione della scuola, che è stato introdotto nel 2007 e continua a essere utilizzato. Su questo versante è necessario lavorare. Ho affastellato numerosi aspetti, perché il tempo è scarso, ma il problema deve essere smembrato.

GRAZIELLA FAVARO, Coordinatrice della rete dei centri interculturali italiani. Sarò telegrafica. Desidero esprimere alcune riconsiderazioni di sintesi sulla situazione attuale, per poi trattare velocemente il contesto europeo, in particolare rispetto agli ultimi documenti e ad alcune


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proposte che la politica e le leggi potrebbero formulare rispetto a questi temi per la scuola.
La situazione è quella che è stata delineata. L'Italia ha una presenza già da venti anni, dal momento che la prima circolare risale al 1989, per cui compiamo venti anni di pratiche rispetto all'integrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri. Sono 191 Paesi di provenienza e questi rappresentano un dato considerato positivamente in Europa. Si vede infatti più negativa la situazione in cui i 700.000 alunni seduti sui banchi di scuola quest'anno provengono da 2-3 contesti, mentre viene considerata positiva la pluralità delle provenienze. Il 40 per cento sono nati qui, mentre gli altri sono qui da anni e il 10 per cento è costituito da neoarrivati.
Per quest'anno scolastico abbiamo la stima di 700.000 alunni stranieri, mentre i dati francesi per questo stesso anno indicano 450.000 bambini e ragazzi stranieri. Sono così pochi, nonostante la lunga storia di immigrazione della Francia, perché la maggior parte degli alunni, pur avendo un'origine straniera, ha la cittadinanza francese, così come succede in Gran Bretagna.
Il dato relativo all'integrazione degli alunni stranieri e il dato relativo alla cittadinanza ci induce a chiederci se si tratti di 700.000 presenti a scuola o del 50 per cento di futuri cittadini, in quanto presenti qui da anni. La legge sulla cittadinanza del 1992 consente a chi nasce in Italia di presentare la domanda e diventare cittadino alla maggiore età, mentre altri Paesi la concedono prima. Il quadro dell'integrazione scolastica degli alunni stranieri si interseca profondamente con la cittadinanza.
Per quanto riguarda gli altri Paesi europei, la Francia e la Gran Bretagna stabiliscono politiche, progetti e risorse per quella quota di alunni definiti neoarrivati. Ad esempio, la Francia non ha un progetto alunni stranieri, ma un progetto per gli élèves nouveaux arrivants en France ENAF. La Gran Bretagna ha realizzato un progetto New arrivals excellence programme NAEP. Si tratta della quota di non francofoni o non anglofoni o non italofoni.
Quando parliamo quindi di dispositivi specifici, di numero di alunni non italofoni per classe, dobbiamo dimostrare attenzione a quel 10 per cento di arrivati quest'anno, andando anche al 10 per cento di coloro che sono arrivati lo scorso anno, dal momento che l'apprendimento di una lingua richiede un tempo maggiore, quindi a un 20 per cento di alunni, di cui il 10 per cento non italofoni e l'altro 10 per cento che ha ancora bisogno di consolidare la lingua italiana.
C'è quindi un problema di lessico, di definizioni e di allarmismo delle famiglie, laddove dire che in una classe di venticinque bambini ci sono dieci bambini stranieri, di cui cinque nati in Italia e gli altri arrivati già alla scuola dell'infanzia è diverso dal dire che sono bambini non italofoni. È infatti importante anche come si racconta questo grande cambiamento e questa grande trasformazione delle nostre scuole.
L'altro aspetto importante è il modello di integrazione in Europa. Il libro verde del luglio 2008 di tutti i Ministeri dell'Unione europea si intitola Migrazione e mobilità: le sfide e le opportunità per i sistemi d'istruzione europei. Ovviamente, anche l'Italia si riconosce in queste raccomandazioni. Il modello prevalente in Europa è il cosiddetto modello integrato, in base al quale l'alunno neoarrivato sta nella classe ordinaria comune per fasce di età con i propri compagni italofoni, autoctoni, e uscirà dalla classe per alcune ore settimanali per frequentare i moduli e i laboratori di italiano come seconda lingua. Il dibattito verte sulle 6 o 8 ore settimanali e in quali discipline, mentre la Svizzera per gli alloglotti prevede 12 ore settimanali. Su questo punto a seconda delle risorse e delle possibilità economiche ci sono delle modalità.
Per esaminare i modelli di integrazione, cito due testi europei: l'Handbook on Integration, un testo sul quale tutta l'Europa concorda sul senso dell'integrazione, e i rapporti EURIDICE dell'Unione europea. Quello del 2004 verteva sul modello integrato


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come modello positivo e prevalente, che è stato sviluppato in questi vent'anni con l'aiuto degli enti locali e del territorio. Quello di quest'anno tratta in particolare due temi, che sono la relazione con le famiglie straniere di origine immigrata e quello delle lingue di origine.
Un altro aspetto per quanto riguarda l'Europa e gli immigrati: i bambini e i ragazzi di recente immigrazione presentano risultati scolastici che si discostano da quelli dei bambini italiani, cioè hanno il ritardo in ingresso, per cui vengono messi non nella classe corrispondente all'età, ma, anche se la legge raccomanda di tener conto del criterio dell'età, in classi due o tre anni inferiori rispetto all'età. Questo significa partire penalizzati, laddove non è positivo che un ragazzino di tredici anni stia con bambini di dieci anche per la relazione, oltre che per l'apprendimento, e anche in termini di esiti ci sono dei divari.
In base ai risultati europei del Programme for International Student Assessment PISA, i Paesi con una forte immigrazione non hanno risultati scolastici più bassi dei Paesi senza immigrazione o con pochissima immigrazione. Nel tempo, quindi, i nati nei Paesi e gli arrivati piccoli fino agli otto anni di età hanno risultati scolastici del tutto paragonabili a quelli della popolazione autoctona. In Italia, abbiamo immigrati provenienti dall'Europa dell'Est, dall'Ucraina, dalla Moldavia, dalle Filippine, da altri Paesi asiatici, con contesti scolastici non inadeguati, che su determinate materie hanno perfino competenze maggiori, ovviamente quelle non verbali.
Per quanto riguarda l'Italia, i risultati PISA, scorporando la Lombardia, che da sola ha un quarto delle presenze degli alunni stranieri - Milano ha il 10 per cento e la Lombardia ha un quarto - evidenziano come i dati scolastici della Lombardia con classi già multiculturali e plurilingui da anni siano migliori rispetto ad altre regioni, nelle quali la presenza degli alunni stranieri è lo 0,5. Il dato alunno straniero, se accompagnato con dispositivi e risorse, nel tempo non peggiora, anzi ci sono casi di eccellenza in Italia proprio degli alunni stranieri. Ricorderete una disgraziata scuola di Palermo, la cui preside dichiarò che avevano i dieci migliori studenti che mettevano in una sorta di albo. Di questi sette erano ragazzi dello Sri Lanka.
Le trasformazioni sono veloci, le scuole si sono adattate, sono distribuite a macchia di leopardo con situazioni positive ed altre invece ancora molto arrancanti, che devono essere accompagnate.
Colgo dieci priorità. La prima è la modalità di accoglienza, per cui evitare le concentrazioni in una scuola, anche se non sono legate al solo dato demografico in Italia. In Olanda o Germania tutti gli stranieri stanno in due città, mentre da noi sono disseminati nei paesi piccoli, medi e grandi e nelle grandi città.
La seconda priorità è un piano nazionale promosso da questo Ministero con il progetto Scuole aperte-Italiano L2 per le scuole, che è di italiano seconda lingua per comunicare e per studiare. La terza priorità è quella, ora con questa distribuzione delle lavagne interattive LIM, di mettere a disposizione di tutte le scuole anche strumenti multimediali di Italiano L2, che le scuole possano utilizzare anche in autoapprendimento.
La quarta priorità è un tema sempre poco valorizzato, ma a mio giudizio importantissimo: l'attenzione alla scuola dell'infanzia. L'inserimento nella scuola dell'infanzia dei bimbi stranieri tra i tre e i sei anni è fondamentale, anche per l'italiano.
La quinta priorità è l'orientamento degli ultraquattordicenni, con la loro concentrazione negli istituti professionali. La sesta priorità è la valutazione standard dei neoarrivati su due anni, in modo da evitare le bocciature precoci.
Le altre priorità riguardano tutto il tema della relazione con le famiglie, dell'integrazione del lavoro tra scuole ed enti locali e tutto il tema dell'intercultura e della cittadinanza.
Il tema integrazione, italiano Lingua 2 e dispositivi specifici si sposa con un


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discorso più generale di come stiamo cambiando come città e come comunità, oltre che come scuola.

PRESIDENTE. Do ora la parola agli onorevoli deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

EMERENZIO BARBIERI. Grazie, presidente. Cercherò di non uscire da un percorso che mi porta a formulare alcune riflessioni, ma soprattutto a porre alcune domande. Spero di aver capito bene quello che hanno detto la professoressa Giovannini e la professoressa Favaro.
Credo che sia sbagliato da parte vostra usare il termine «alunni stranieri», dal momento che in essa rientrano anche i bambini rumeni. Il problema dovrebbe essere affrontato distinguendo fra i comunitari e gli extracomunitari, perché il problema da questo punto di vista è molto serio. Presumo che il 40 per cento degli alunni stranieri comprenda anche i comunitari.
La questione non riguarda però quello che avviene a scuola, laddove è drammatico quanto avviene in famiglia e al di fuori della scuola. Vivo a Reggio Emilia e desidero quindi soffermarmi sul caso di Luzzara, dove è stata effettuata una scelta che ha indotto una certa sinistra a gridare allo scandalo, anche se a Luzzara la Giunta è di sinistra. Il dirigente scolastico è un mio ex amico democristiano, che passò nel PPI e che oggi è nel PD.
Cosa succede a Reggio Emilia è evidente all'uscita da scuola: il tentativo della maestra di insegnare loro l'italiano purtroppo entra in grave conflitto con il fatto che all'uscita il bambino riprende a parlare in cinese sino al ritorno a scuola la mattina successiva, creando una situazione drammatica, laddove, mentre il bambino cinese o indiano a scuola s'impegna a parlare l'italiano, ovviamente con gli aiuti necessari, tutto riprecipita nel caos fuori dalla scuola. Il problema deve quindi essere affrontato anche in un rapporto molto forte con la famiglia. In Emilia Romagna si vedono mamme e papà che passeggiando con i bambini parlano il cinese o l'indiano e si rifiutano di parlare l'italiano, creando una situazione che non è delle migliori.
La professoressa Favaro suggeriva di prevenire la concentrazione, ma questo si può fare in grandi città come Roma, Milano, Bologna, ma si fatica a farlo in un comune come Luzzara, dove ci sono 7.000 abitanti, 1.000 pakistani e 700 indiani. Lì la crisi economica non ha ancora aggredito la piccola e media industria, per cui gli immigrati non rientrano nei loro Paesi di origine perché hanno ancora da lavorare nelle piccole e medie industrie della zona.
A Luzzara è stata compiuta una scelta, unica in Italia, che ha fatto gridare allo scandalo la CGIL e la sinistra non più rappresentata in Parlamento. La Giunta comunale, d'intesa con il dirigente scolastico iscritto al PD, ha fatto la scelta di una classe fatta di soli bambini indiani, cosa che è sta vista come traumatica come fonte di possibile discriminazione. Nonostante sia passato poco tempo, questo modello sta invece funzionando bene, perché su metà mattinata le due classi di italiani e di indiani - di italiani e di qualche straniero non indiano - hanno orari aperti ed esperienze comuni, ma nella classe di soli bambini indiani c'è un forte sforzo per insegnare la lingua. Il dirigente scolastico dichiara come dopo un mese e mezzo siano stati conseguiti risultati positivi.
Concordo con voi nel riconoscere come non esista un unico modello da applicare da Bressanone a Lampedusa, ma è necessario essere consapevoli di come sia possibile evitare la concentrazione nelle grandi città, ma non nei piccoli comuni, che magari hanno una sola scuola elementare. Pur non arrivando agli estremi della scuola Carlo Pisacane a Roma, con il 94 per cento di alunni stranieri, per cui la presidente Aprea ci fece avere un'audizione con l'assessore alla scuola del comune di Roma, Marsilio, nei piccoli comuni è comunque impossibile evitare la concentrazione.


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Il problema deve essere affrontato nella sua specificità, garantendo un serio contributo all'indagine conoscitiva chiesta dall'onorevole De Torre e accolta dalla presidente Aprea «sulle problematiche connesse all'accoglienza di alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico italiano». A parte l'iter della legge sulla cittadinanza, che il Parlamento forse approverà, per risolvere i problemi che si pongono è necessario anche avere il coraggio di sperimentare strade fino ad ora non sperimentate.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Mi riaggancio in parte alle considerazioni dell'onorevole Barbieri, perché da tempo sono convinta del ruolo molto importante giocato dalle famiglie, e le considerazioni delle professoresse audite mi hanno confortato in questa mia convinzione. Il problema è come agire.
Concordo nel riconoscere come le famiglie italiane percepiscano i modelli loro offerti in maniera differente e reagiscano in maniera diversa, più spaventata o più aperta, più o meno accogliente in base all'immaginario collettivo. Una questione che mi interessa molto da vicino è quindi il problema delle famiglie italiane.
Sono qui a chiedere non ricette, anche perché non credo che questa sia la sede per ricette preconfezionate, ma di accendere i riflettori sul tema della famiglia italiana che ha dei bambini stranieri. Non possiamo negare, infatti, l'esistenza di alcuni problemi. Non si può affermare che le famiglie italiane non siano accoglienti, perché indagini europee dimostrano come le famiglie italiane siano più accoglienti e disponibili rispetto a quelle di altri Paesi stranieri. È quindi possibile agire su un terreno positivo, non su un terreno di rifiuto aprioristico.
La seconda questione riguarda le famiglie straniere, che arrivano. L'onorevole Barbieri sottolineava come le famiglie vadano a prendere i bambini e continuino a parlare la propria lingua, cosa che mi sembra peraltro del tutto normale, laddove le nostre famiglie all'estero continuano a parlare in italiano. Mio nipote risiede all'estero e quando è a scuola parla portoghese, ma a casa parla italiano.
Quello che mi preoccupa è che molte famiglie vorrebbero interagire con la scuola. Conosco molte famiglie di immigrati extracomunitari - è giusta la distinzione tra comunitari ed extracomunitari - che vorrebbero interagire con la scuola, vorrebbero partecipare e capire cosa succeda al loro figlio a scuola nelle ore in cui loro sono tagliate fuori.
Nella scuola del futuro, che non so se potrà mai essere realizzata, sarebbe auspicabile accogliere anche le famiglie con corsi, percorsi, progetti non solamente limitati alle dodici ore della Svizzera o alle sette di qualche altro Paese, per sostenere le famiglie nell'imparare in fretta la lingua, nell'integrarsi il prima possibile, nel capire le regole della scuola, che cosa significhi avere un figlio lì piuttosto che altrove.
Ritengo che agire su coloro che hanno la responsabilità educativa dei bambini, ovvero le famiglie, sia italiane che extracomunitarie, rappresenti un percorso essenziale. Vorrei anche capire cosa intendiate parlando di famiglie, sotto questo punto di vista.

EMILIA GRAZIA DE BIASI. Ringrazio moltissimo le audite. Il tema è da tempo dibattuto in questa Commissione, ma anche nell'Aula della Camera e abbiamo avuto risultati complicati e contenuti di difficile gestione. Esprimerò quindi alcune brevi considerazioni per arrivare a una domanda che mi sta molto a cuore.
Avete delineato un livello dell'Italia e dell'intervento italiano in Europa su questo tema molto alto. Il quadro normativo regolamentare dovrebbe quindi indurre all'ottimismo. L'applicazione ha però un tasso di «discrezionalità» piuttosto alto. Ritengo quindi che ci sia un problema che riguarda i livelli regionali di direzione scolastica e la capacità di far vivere in modo differenziato, nelle diverse realtà, principi e metodologie comuni.
Ritengo che l'inclusione - il termine «integrazione» non mi ha mai convinto fino in fondo - dei bambini stranieri nel


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sistema scolastico pubblico sia uno dei grandi banchi di prova della costruzione di una società della convivenza, perché si parte da lì, anche perché spesso il povero bambino deve fare peraltro il mediatore dei suoi genitori.
Quando parliamo della famiglia, quindi, dobbiamo considerare la sua tipologia, i suoi enormi disagi e difficoltà enormi, che peraltro come italiani ben conosciamo, perché il bambino cinese torna a casa e parla in cinese, ma molti bambini nel tempo tornavano a casa e parlavano il dialetto della propria regione. Se proprio la mettiamo su questo piano, continuo a pensare che il quadro condiviso costituzionale veda nelle differenze regionali e nelle differenti modalità di immigrazione interne allo Stato italiano un quadro non così sereno come a noi piacerebbe pensare.
Oggi, l'immigrazione straniera viene considerata molto forte per la quantità e per le conseguenze. Ricordo però come nel dopoguerra la grande immigrazione interna sia stata epocale ed enorme, a cui ha dato una mano uno strumento come la televisione. Tra le altre cose tristi del servizio pubblico radiotelevisivo del nostro Paese, sono personalmente sconcertata dal fatto che il contratto di servizio preveda esplicitamente trasmissioni che abbiano l'obiettivo della diffusione della lingua italiana per gli stranieri, ma che di questo il servizio pubblico radiotelevisivo non si sia mai fatto carico: una velina di meno e una trasmissione linguistica in più farebbero bene a tutti. Perché questo è un punto che riguarda la Costituzione e il futuro del nostro Paese, non esclusivamente il sistema economico, il mercato e il sistema della pubblicità.
Concordo quindi sull'esigenza di un'analisi e di un intervento differenziati. Gli strumenti possono essere diversi. Restano due punti, il primo dei quali, che mi intriga molto perché sono di Milano, è come noi consideriamo i cosiddetti «elementi di confine». Mentre infatti è molto più semplice ragionare sulla immigrazione stanziale, resta un problema serio il rapporto con le cosiddette popolazioni nomadi, che rappresentano una sorta di secondo livello di integrazione molto più complicato, per cui l'intreccio è molto complesso. Resta quindi il problema di come si definisce territorialmente un'omogeneità di convivenza, perché non è così scontato.
Poiché vivo in periferia, rilevo il rischio di avere scuole del centro tutte rigidamente belle, italiane e certificate, con famiglie molto tranquille perché si sentono fra pari, e di percepire allontanandosi dal centro della città verso le periferie un irrigidimento dei problemi legati anche a un irrigidimento di carattere sociale. Considero quindi necessario anche un ruolo più forte degli enti locali, il che significa finanziare naturalmente. Per questo mi permettevo quindi di nutrire perplessità circa le lavagne luminose, dal momento che l'arrivo del digitale nel sistema scolastico è unanimemente auspicato, ma, in base alle informazioni ricevute dal rappresentante del Ministero durante il convegno sui videogame allo stato attuale è prevista, non so se finanziata, una sperimentazione di trenta situazioni.
Nel ragionare di politiche scolastiche e di integrazione, come politici preposti alla legislazione non consideriamo mai l'elemento psicologico. Consideriamo alcune variabili come successo e insuccesso formativo, integrazione e non integrazione, ma vorrei avere un quadro, perché credo che nei riguardi di questi bambini sia necessaria una forma di rispetto in più. Il bilinguismo è infatti un elemento pesante nella vita di una persona, se la famiglia di origine non è colta, gli strumenti sono molto inferiori, e inoltre diventa una sorta di conflitto interiore, laddove meravigliosi libri francesi parlano di questo conflitto fra la tradizione e il presente, fra le due culture, fra il desiderio di continuare ad appartenere e la necessità e la voglia di essere cittadini italiani a pieno titolo.
Vi chiedo quindi di delineare un minimo di quadro su questo argomento, perché bilinguismo e doppia cultura sono una tematica piuttosto intrigante per la definizione di una società della convivenza.


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Ritengo infine che queste persone abbiano diritto a un sistema di diritti e non possano assolutamente essere considerati estranei alla Costituzione e rappresentanti di un secondo canale di diritto, una velocità inferiore di diritto nel sistema scolastico pubblico. Ritengo che il problema riguardi non tanto la quota di già cittadini italiani, che quindi godono di tutti i diritti del cittadino italiano, quanto l'altra quota, sulla quale si deve lavorare molto in modo non più sperimentale, laddove è ampiamente codificata una metodica che consenta l'apprendimento della lingua.
Resta il punto relativo all'educazione degli adulti, rispetto alla quale gli enti locali hanno compiuto grandi passi indietro, malgrado alti livelli di professionalità. Se nel territorio mancano occasioni di alfabetizzazione, diventa obiettivamente molto difficile considerare anche il tema delle famiglie, se non in una chiave puramente astratta. Vorrei sapere quindi se riteniate ragionevole che un ente locale debba oramai investire maggiormente su quella che è una delle sfide più alte del futuro.

MARIA LETIZIA DE TORRE. Desidero ringraziare le docenti per le relazioni e i colleghi per questa partecipazione. Ci sarebbero molti aspetti di natura culturale da approfondire su questa nuova realtà che l'Italia si trova ad affrontare, laddove un Paese deve riflettere sulle mutazioni che avvengono nella propria popolazione e capire però affrontare tematiche molto pratiche, ponendovi alcune domande. Girando per le scuole, ho visto situazioni di grande sperimentazione, situazioni di eccellenza, e situazioni nelle quali era necessario un pronto soccorso. Da questo emerge come le scuole non possano essere lasciate sole.
Ormai l'immigrazione è una realtà strutturale nel Paese, giacché la quasi totalità di queste persone ha deciso di vivere qui, per cui le scuole avranno sempre cittadini di culture e di cittadinanza non italiana. Vorrei quindi chiedervi quali azioni debba intraprendere il Ministero a livello nazionale nei riguardi della lingua.
In alcuni contesti come ad esempio quello di Firenze, che ho proposto ai colleghi di andare a visitare, l'accoglienza e l'insegnamento della lingua come L2 sono ottimali, mentre in altre situazioni non avviene nulla e manca un protocollo che le scuole come in altri Paesi europei possano mettere in atto, pur non avendo grandi competenze al loro interno, come si mettono in atto tanti altri protocolli dentro le scuole. Potrebbe dunque essere utile qualcosa di più strutturato riguardo l'accoglienza e l'insegnamento dell'italiano come seconda lingua.
In secondo luogo, le scuole non possono essere lasciate sole davanti a situazioni e decisioni che non dipendono dal sistema scolastico, come la politica abitativa, l'impegno dei comuni nel contesto della convivenza e dell'accoglienza delle famiglie. Vorrei sapere dunque quale indirizzo possa dare il Parlamento, affinché la politica abitativa tenga conto di questi elementi.
Il terzo contesto riguarda la formazione dei docenti e dei dirigenti. Vorrei sapere infatti cosa sarebbe opportuno introdurre nella formazione di docenti e dirigenti affinché dinanzi a bambini di cultura profondamente diversa sappiano fare le scelte migliori.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri auditi per la replica.

GRAZIELLA GIOVANNINI, Docente di sociologia dell'educazione presso l'Università di Bologna. Sono convinta, onorevole Capitanio Santolini, dell'impossibilità di modificare e rendere positiva la situazione senza lavorare con le famiglie.
Non abbiamo mai sostenuto e non sosteniamo che le famiglie italiane siano quelle che non vogliono l'integrazione, quindi con qualche prodromo di razzismo, non è questa la diagnosi che si fa. Le famiglie italiane possono però non conoscere la situazione o essere anche concretamente preoccupate da quello che vedono.


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È dunque necessaria un'opera di rassicurazione delle famiglie italiane, che dimostri come una scuola plurale possa funzionare. Nelle tante sperimentazioni citate dall'onorevole De Torre, abbiamo esempi di buone scuole che funzionano con un pluralismo di appartenenze. Le famiglie italiane avrebbero avuto grandi rassicurazioni, se i vari Governi avessero affrontato con forza, attraverso modelli integrati, l'insegnamento dell'italiano. Non è l'unica cosa che può risolvere i problemi, perché ci sono questioni legate alla cultura e all'identità, ma sono convintissima che la questione della lingua dovesse essere affronta fin dall'inizio con forza e non solo con progetti nei quali enti locali e società civile sono stati molto attivi, che però partivano a dicembre, poi a gennaio.
Nell'Osservatorio nazionale in funzione fino al 6 dicembre 2009, perché eravamo in carica per tre anni, abbiamo ragionato su questa possibilità di rendere sistematico l'insegnamento dell'italiano e non solo con forma progettuale, perché questo avrebbe migliorato la situazione per tutti, comprese le famiglie italiane. Queste infatti scappano non solo perché sono cattive e non accoglienti, ma perché analizzando la situazione a volte sono disinformate o necessitano di alcuni strumenti.
Per quanto riguarda le famiglie straniere, in Italia le esperienze di formazione degli adulti esistono. Torino ha fatto le scuole per le mamme, Firenze anche, si fanno i laboratori di italiano per i genitori fintanto che i bambini sono a scuola. La scuola italiana ha prodotto buone cose, che possono essere rafforzate e utilizzate e risolvere i problemi. Non è vero che le famiglie straniere, onorevole Barbieri, immediatamente fuori dalla scuola parlino solo la loro lingua originaria. Ci sono situazioni assolutamente diversificate. Lei ha ragione per quanto riguarda i cinesi, ma non è così per tante altre situazioni. Qui sarebbe opportuno un ragionamento sul bilinguismo e sulla conservazione dell'appartenenza familiare.
Sarebbe importante che il Ministero e gli enti locali lavorassero andando concretamente a verificare perché Luzzara abbia scelto quel modello e perché i limitrofi Correggio o Campagnola abbiano scelto un modello di patto territoriale, che segue una linea diversa. Concordo con lei sull'importanza di non fare un modello, ma di cercare di studiare le situazioni rendendole palesi, non ideologizzando a priori. La linea lunga è quella di rendere elevate le eterogeneità, se vogliamo creare la convivenza.

GRAZIELLA FAVARO, Coordinatrice della rete dei centri interculturali italiani. Come ribadito da più parti, l'integrazione comincia dai più piccoli e dalle loro famiglie.
A questo proposito, desidero ricordare un'altra caratteristica dell'Italia rispetto ad altri Paesi di vecchia immigrazione: abbiamo il 50 per cento di presenza femminile straniera e di donne che non sono venute, Penelope dei giorni nostri, dopo gli uomini, ma che sono partite in prima persona. Avere il 50 per cento di donne arrivate qui, che hanno poi avuto qui i bambini o che hanno fatto il ricongiungimento dei figli, garantisce, rispetto all'integrazione dei piccoli, una modalità di preparare l'inserimento educativo e scolastico dei loro figli più «accompagnata», anche perché sono a contatto con famiglie italiane, per cui il modello della famiglia italiana rispetto all'accompagnamento dei bambini si riverbera su di loro. Questa grande presenza femminile attiva è un altro punto di forza della realtà italiana.
Per quanto riguarda il discorso delle priorità, sicuramente c'è il tema del portare a sistema venti anni di pratiche, ovvero il «brusio delle pratiche» di Derrida, rendendole voce della scuola, facendo sì che da situazioni di eccellenza, di minor livello e inadeguate si pervenga con una minore discrezionalità, attraverso protocolli, indicazioni chiare, lavori delle regioni e dei centri interculturali, a una sorta di «modello di integrazione» comune e condiviso.
Per quanto riguarda gli aspetti psicologici dei bambini della migrazione, il discorso sarebbe lunghissimo, per cui non mi soffermo, ma ho scritto per la Mondadori


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I bambini della nostalgia e un altro libro, Come un pesce fuor d'acqua, proprio sul disagio dei bambini della migrazione e della seconda generazione in particolare, mentre la terza sarà di cittadini italiani a tutti gli effetti, speriamo bilingui. La seconda generazione incontra infatti difficoltà nel trovare il proprio posto nel mondo, perché a volte ci sono questi sentimenti di non appartenenza: nei Paesi di origine dei genitori sono stranieri, perché non sono più riconosciuti come cittadini dell'Egitto o del Perù, quando sono in Italia sono stranieri. Si sentono quindi stranieri due volte.
Per quanto riguarda le lingue di origine, delle quali l'onorevole Barbieri rilevava l'uso esclusivo fuori dalla scuola, le ricerche europee e italiane dei contesti bilingui come la Val d'Aosta dimostrano come si apprenda meglio la seconda lingua se non si abbandona a livello affettivo e familiare la propria lingua 1, che, come sostenuto dallo psicologo Anzieu, è come la pelle dell'individuo, non è un vestito che si toglie e si mette. Se dovessimo emigrare in Giappone con nostro figlio, sarebbe difficile sgridarlo, raccontargli le storie e il futuro in giapponese.
È quindi fondamentale imparare l'italiano di qualità, ma può essere una chance per il futuro di questi bambini mantenere la lingua spagnola, cinese, russa, rumena all'interno della dimora, come lingua affettiva della casa, perché questo non rompe la relazione fra le generazioni e diventa anche una modalità di autoprotezione.

PRESIDENTE. Vorrei aggiungere che è positivo mantenere anche la conoscenza della lingua cinese, onorevole Barbieri, visto che facciamo tanta fatica a insegnare le lingue ai nostri ragazzi.
Ringrazio le nostre gentilissime professoresse per la disponibilità manifestata e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,15.

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