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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VII
2.
Mercoledì 2 dicembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Aprea Valentina, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE CONNESSE ALL'ACCOGLIENZA DEGLI ALUNNI CON CITTADINANZA NON ITALIANA NEL SISTEMA SCOLASTICO ITALIANO

Audizione di rappresentanti di UPI e di ANCI:

Aprea Valentina, Presidente ... 3 8 10 14 18 19
Bachelet Giovanni Battista (PD) ... 10
Baravelli Bruna, Assessore all'istruzione della provincia di Forlì-Cesena ... 5 18
Barbieri Emerenzio (PdL) ... 8
Ciocchetti Luciano (UdC) ... 13
De Biasi Emilia Grazia (PD) ... 11
De Torre Maria Letizia (PD) ... 10
Gentile Donato, Sindaco di Biella ... 3 16
Goisis Paola (LNP) ... 9
Rivolta Erica (LNP) ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 2 dicembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VALENTINA APREA

La seduta comincia alle 15,15.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di UPI e di ANCI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche connesse all'accoglienza degli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico italiano, l'audizione di rappresentanti di UPI e di ANCI.
Sono presenti per l'UPI la dottoressa Baravelli, assessore all'istruzione della provincia di Forlì-Cesena, e la dottoressa Samantha Palombo, funzionario dell'ufficio studi e responsabile area welfare; per l'ANCI il dottor Donato Gentile, sindaco di Biella, la dottoressa Camilla Orlandi del dipartimento immigrazione, e il dottor Matteo Valerio dell'ufficio stampa.
I rappresentanti dell'ANCI hanno chiesto di iniziare perché subito dopo sono convocati dal Ministro Gelmini.
Do la parola agli auditi, che ringrazio per la presenza.

DONATO GENTILE, Sindaco di Biella. Buongiorno. Saluto il presidente l'onorevole Valentina Aprea, che presiede una Commissione con grande conoscenza di causa, in quanto è stata autorevolissimo sottosegretario del Ministero della pubblica istruzione e tutti gli onorevoli parlamentari presenti.
Quello dell'integrazione degli alunni stranieri nelle nostre scuole è un argomento che, come comuni italiani, sentiamo particolarmente vivo. Ricordiamo un dato che sicuramente fa riflettere: abbiamo 650 mila alunni provenienti da altri Paesi nelle nostre scuole - dato MIUR del febbraio 2009 - che rappresentano l'8 per cento dell'intera popolazione scolastica.
È interessante paragonare questo dato con la percentuale di cittadini provenienti da altri Paesi rispetto alla popolazione del nostro Paese, che è invece del 4 per cento. Questo è un dato molto interessante perché, a fronte di una presenza sul nostro territorio di cittadini in condizioni ancora di clandestinità, il fatto che la scuola, come è giusto che sia, spalanchi le porte a tutti i bambini presenti sul territorio nazionale, è molto importante. Per questo registriamo una percentuale dell'8 per cento.
Il nostro Paese, tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, ebbe un momento di grande emigrazione, prima con l'emigrazione stagionale poi con quella definitiva verso i Paesi oltre oceano. Parlo di un'emigrazione che non è solo quella di chi, nell'immaginario, partiva dai paesi dell'Italia meridionale. Vengo dal Piemonte, una regione che, tra '800 e '900, ha riversato, prima in Svizzera e in Francia, in seguito anche in America, moltissime persone, oggi a pieno titolo cittadini dei Paesi in cui si sono trasferiti.


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Sono cambiati ovviamente i contesti, è cambiato il tempo e sono cambiati gli spazi, però l'attenzione su chi viene nel nostro Paese - in particolare qui parliamo di bambini - è trasversalmente un'attenzione che, per quanto riguarda il ministero e l'ANCI, è sempre stata altissima circa l'accoglienza e la piena integrazione.
Le scuole italiane, con l'aiuto dei comuni italiani, stringono protocolli di intesa, realizzano progetti che costituiscono un fiore all'occhiello. Ricordo anche un progetto condiviso tra Ministero dell'istruzione e ANCI, nella figura dell'attuale presidente della Commissione istruzione Daniela Ruffino (in quel caso, il comune di Biella fu un comune pilota): si trattava di un progetto di confronto tra le scuole di paesi vallivi del nostro biellese e paesi dall'Alto Atlante marocchino e si è verificato un confronto meraviglioso tra insegnanti e bambini, un incontro di culture diverse, con nostri insegnanti che si sono recati in Marocco per comprendere meglio come si fa scuola in quel Paese.
Al di là del fatto di indicare il modello culturale del nostro Paese, forse è più facile trasmettere valori e cultura laddove si possano conoscere meglio valori e cultura del Paese di provenienza.
L'ANCI considera con molta attenzione i dati preziosi che l'Osservatorio nazionale per l'integrazione scolastica del ministero tutti gli anni puntualmente elabora e mette a disposizione. Tali dati vengono rielaborati e utilizzati dai comuni. Il nostro presidente - presidente degli oltre 8 mila comuni italiani - Sergio Chiamparino, nella seconda Conferenza nazionale sull'immigrazione, che si è tenuta a Milano nel settembre di quest'anno, ha condiviso un Piano nazionale per l'integrazione tra ANCI e Ministero dell'interno, che prevede grande attenzione per il problema degli alloggi.
Per quanto riguarda il problema legato alla piena integrazione scolastica, con particolare attenzione alle best practices messe in atto dalle scuole insieme agli enti locali, è in piedi un lavoro attivo di coordinamento e monitoraggio per avere sempre un quadro molto preciso sotto gli occhi.
Come ANCI condividiamo l'idea che quando i ragazzi giungono nelle nostre città - al di là della difficoltà, da parte dei dirigenti scolastici, laddove non esistano documenti che li accompagnano, di mettersi in contatto con le scuole e i Paesi di provenienza, per avere una certificazione dell'ultima classe frequentata in quel Paese - la cornice culturale di sistemi scolastici di Paesi altri ha ovviamente un valore, ma comunque resta un valore relativo per quanto riguarda il modello culturale della scuola italiana.
In ogni caso, pare sensato che l'inserimento nelle classi debba avvenire in relazione all'età anagrafica. Ad esempio, un ragazzo che arriva dallo Zambia dove, rispetto all'equipollenza col nostro sistema scolastico, non è riuscito ad andare oltre la seconda elementare perché doveva zappare la terra, è un po' difficile inserirlo, a 14 anni, in una seconda elementare italiana. È del tutto evidente che frequenterà la terza media, che eventualmente ripeterà per consolidare quelle minime conoscenze che gli permetteranno di affrontare il sistema culturale del nostro Paese.
I nostri comuni sono sollecitati dalle scuole ad aiutare questo inserimento. Tutti sappiamo che la razionalizzazione scolastica è iniziata tanto tempo fa, quindi non è attribuibile a parti o colori politici. È un problema dello Stato quello di ridimensionare, in qualche maniera, le risorse del Paese, ma ovviamente definendo orari e organici tali da mettere nelle condizioni, laddove non esiste una cultura dell'organizzazione interna della scuola, di chiedere aiuto ai comuni per sostenere, ad esempio, una piena integrazione linguistica. Ecco, allora, che la seconda lingua, che permette di mediare livelli culturali diversi, deve essere stabilizzata attraverso la garanzia che devono offrire le scuole.
Nelle grandi città il fenomeno è di un certo tipo: è più possibile, sui grandi numeri, organizzare classi prevedendo, come tra l'altro previsto dal Ministero, una presenza di non più del 25-50 per cento di


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alunni stranieri nelle classi. Nel piccolo paese di montagna, invece, laddove esiste un fenomeno di emigrazione che è andato a sostituire una popolazione che ha lasciato la montagna per andare in pianura e sono arrivate famiglie di marocchini che adesso lavorano in fabbrica, non si può che realizzare una scuola dell'infanzia con trenta bambini di cui ventotto marocchini e due italiani. Ci si trova, dunque, a mettere in atto esperienze di integrazione al contrario.
In qualche maniera, bisogna prevedere una stabilizzazione diversa del personale organico, che supporti chi non parla l'italiano e lenisca la necessità dello Stato di razionalizzare il personale della scuola. Dico questo a fronte di scelte compiute, ad esempio rispetto al maestro unico o ai nuovi orari definiti, che vedono piano piano entrare in crisi il modello scolastico del tempo prolungato, ad esempio nella scuola secondaria di primo grado.
Laddove ci sono bravi dirigenti scolastici che riescono ad avere un rapporto forte con il territorio, dove l'ente locale non è supplente ma collabora, e laddove abbiamo una cultura dell'organizzazione interna nella scuola - lo ripeto, soprattutto da parte dei dirigenti scolastici con la disponibilità di insegnanti motivati - si riescono a fare cose egregie. Laddove, invece, questi aspetti sono assenti, occorre recuperarli.
In ultimo, come ANCI vogliamo invitare il Governo a creare sportelli che ci mettano nelle condizioni di dialogare con le famiglie di alunni stranieri. Si richiede, quindi, la presenza di un mediatore linguistico e culturale per avere, una volta al mese, uno sportello aperto presso le scuole.
Con il Ministero degli esteri, inoltre, sarebbe importante definire quadri per avere immediatamente risposte precise dai Paesi di origine e schede informative rispetto ai percorsi formativi svolti in questi Paesi.
Risulta del tutto evidente che, come enti locali, facciamo appello al Governo e al Parlamento - a voi, onorevoli parlamentari - affinché si mantenga un livello di guardia sotto il quale non si può assolutamente scendere.
Voi tutti sapete che gli enti locali sostengono, ad esempio, l'edilizia scolastica, ma se si determinano di colpo emergenze dovute a flussi migratori, che creano situazioni inattese, è necessario il supporto del Governo che, comunque, sappiamo si sta muovendo in questo senso, attraverso il Ministero delle infrastrutture.
Come enti locali, vogliamo sicuramente stare vicini a quelli che sono i cittadini del domani, integrando al massimo le culture, secondo un modello culturale italiano che però tenga rispettosamente in dovuta considerazione anche la ricchezza che può derivare dall'incontro tra culture, attraverso i flussi migratori.
Crediamo che l'ANCI debba essere tenuta in alta considerazione dal Governo centrale. Come Commissione nazionale ANCI scuola e come Commissione nazionale ANCI cultura, partiremo con un grosso progetto che veda protagoniste un certo numero di città, con uno scambio anche con città dall'altra parte del Mediterraneo e del nord Europa, per attivare e approfondire rapporti - oltre a sviluppare il nostro spirito nazionale dell'accoglienza, della fratellanza e di valori alti che contraddistinguono il nostro Paese - di conoscenza reciproca che possano permettere a Paesi che vedono nell'Italia una meta e un obiettivo da raggiungere di averne, appunto, una conoscenza maggiore per potersi capire meglio.

BRUNA BARAVELLI, Assessore all'istruzione della provincia di Forlì-Cesena. Ringrazio l'onorevole Aprea e tutti i parlamentari presenti. Voglio esprimere l'apprezzamento dell'UPI per questa indagine parlamentare sulle problematiche connesse all'integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana nel nostro sistema scolastico, un tema di grande importanza.
La presenza di alunni stranieri è un dato ormai strutturale del nostro sistema scolastico. Il numero è in continua ascesa, anche in Italia, così come nel resto dell'Europa, ma forse in Italia ancora di più.


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Come vi ha già detto il sindaco Gentile, gli studenti stranieri in Italia sono 650 mila.
Vorrei porre l'attenzione sulla problematica concernente la scuola superiore, perché di competenza della provincia. Cito qualche dato, prima di esprimere l'opinione dell'UPI su questo tema.
Si rileva che la presenza degli allievi con cittadinanza non italiana è il valore più basso, ma si registrano, come ad esempio nella scuola dell'infanzia, gli incrementi percentuali annuali più consistenti. Nel 2008 gli allievi con cittadinanza non italiana sono il 4,3 per cento del totale degli iscritti, a fronte del 7,3 per cento nella scuola secondaria di primo grado, del 7,7 per cento nella scuola primaria e del 6,7 per cento nella scuola dell'infanzia.
Tale presenza è diversificata su base territoriale, con forte addensamenti nelle regioni settentrionali e in alcune aree del centro Italia. L'Emilia-Romagna è in testa a questo elenco, avendo il 9,3 per cento di allievi con cittadinanza non italiana, contro il 7 per cento in Lombardia, il 7,9 per cento in Umbria, per arrivare allo 0,9 per cento della Campania.
C'è un'evidente diversità perché le famiglie si spostano nei luoghi dove è più possibile trovare lavoro. Per questo, sono più presenti al nord e al centro rispetto al sud.
Varie sono le ragioni di questa minore presenza rispetto agli altri segmenti del sistema. La più evidente è che l'investimento delle famiglie nel secondo ciclo di istruzione è direttamente correlato con l'indice di stabilizzazione e di integrazione, oltre che con le diverse caratteristiche dei processi di scolarizzazione di massa nei Paesi di origine.
È evidente che ci sono fenomeni di dispersione scolastica: è un grosso problema. Il sindaco parlava prima della scuola dell'obbligo, di scuola primaria e scuola secondaria di primo grado. La legge prevede che il ragazzo straniero che arriva in Italia frequenti la classe corrispondente alla sua età, ma questo non sempre è così facile. Un problema particolare riguarda i quindicenni.
Nel regolamento del ministero ci sono i CTP, Centri Territoriali Permanenti, che in qualche maniera danno una risposta ai ragazzi stranieri e li aiutano ad ottenere un diploma di secondo grado. Molte volte, però, manca quello di primo grado, perché ci sono i quindicenni che, magari, per difficoltà precedenti sono arrivati alla fine della terza media e poi hanno abbandonato la scuola oppure non hanno preso la licenza di terza media oppure sono arrivati da noi a quell'età, dunque non possono entrare a pieno titolo all'interno dei CTP perché non hanno sedici anni, ma al contempo fanno fatica a rimanere nella scuola media, dove hanno l'obbligo di iscriversi in classi con ragazzi di tredici anni.
Insomma, è una situazione estremamente difficoltosa, anche per la stessa scuola e per tutto l'insieme. È evidente che i ragazzi di tredici anni che devono arrivare alla fine del loro ciclo di studio obbligatorio e i ragazzi di quindici anni hanno aspettative diverse.
Da questo punto di vista, si crea un problema. Vi dico, ora, quello che hanno cercato di fare la regione Emilia-Romagna e, naturalmente, noi province. Si è cercato di aiutare questi ragazzi ad arrivare al conseguimento del diploma di terza media, stipulando convenzioni tra la scuola media e il CTP o tra la scuola media, gli enti di formazione e il CTP o anche con la scuola superiore. Se, infatti, il ragazzino di quindici o sedici anni deve entrare nella classe corrispondente alla sua età, ma gli manca la certificazione della terza media, si deve ricorrere al CTP per averla. È troppo difficile per questi ragazzi frequentare la terza media ordinaria e sostenere l'esame. Questa possibilità di un percorso diverso, invece, permette loro di ottenere la certificazione.
Tutto questo non è semplice, perché si tratta di mettere insieme tanti soggetti diversi. Sono contenta, dunque, che almeno la regione Emilia-Romagna e le province hanno pensato di dare una mano e stringere degli accordi.
Gli studenti di provenienza straniera che frequentano la scuola secondaria superiore


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si caratterizzano per scegliere prevalentemente l'istruzione tecnica e l'istruzione professionale o, comunque, per scegliere indirizzi di studi di tipo tecnico-operativo, attraverso i quali si conseguono competenze spendibili direttamente nel mercato del lavoro, molto più di quanto non avvenga per i loro coetanei di cittadinanza italiana. Si tratta di un fenomeno di vera e propria segregazione formativa, poiché questi ragazzi non possono fare diversamente. È chiaro, infatti, che essi non hanno gli strumenti di base per poter accedere a un liceo, quindi è più facile per loro accedere a un istituto tecnico o professionale, sempre che siano supportati da persone che fanno alfabetizzazione, non solo per la lingua italiana, ma anche per altre materie che questi ragazzi devono imparare per recuperare un gap di provenienza.
La segregazione formativa degli allievi con cittadinanza non italiana è significativamente meno accentuata nel caso dei nati in Italia. Secondo i dati del 2008, il 22,1 per cento dei nati in Italia sceglie i licei, contro il 34,99 per cento degli italiani; la percentuale scende al 13,1 per cento nel caso di non nati in Italia, ma presenti da tempo nel sistema scolastico italiano, e al 12,9 per cento nel caso di stranieri cosiddetti «nuovi entrati».
Quanto all'istruzione tecnica, mentre a sceglierla è il 33,8 per cento degli italiani, il valore sale al 40,3 per cento per i nati in Italia, al 37,2 per cento per i non nati in Italia, ma presenti da tempo nel sistema scolastico italiano - queste differenziazioni sono necessarie perché ci permettono di capire la loro preparazione di base e la loro possibilità di poter accedere a ordini di scuola diversi - e al 40,4 per cento per i nuovi entrati.
La differenza nelle scelte tra ragazzi italiani e ragazzi di altra cittadinanza è ancora più vistosa nel caso dell'istruzione professionale. Se a sceglierla è il 19,4 per cento degli italiani, la percentuale degli stranieri nati in Italia che la sceglie è pari al 29,3 per cento, quella dei non nati in Italia, ma presenti da tempo nel sistema scolastico italiano, è del 41,8 per cento, quella dei nuovi entrati è del 38,9 per cento.
Non voglio farla lunga, ma voi capite l'importanza degli enti locali in questo campo. L'insegnante nelle scuole non è soltanto il soggetto che trasmette le nozioni, ma anche quello che capisce con chi ha a che fare e come può aiutare l'altro a non sentirsi disadattato, bensì integrato. Siamo tutti consapevoli che solo un'integrazione può permettere una società civile, in cui siamo tutti più felici. Questo passa sicuramente attraverso la scuola, di tutti i tipi e di tutti gli ordini.
Abbiamo consegnato un documento - adesso non voglio tediarvi - in cui si riportano, ad esempio, le esperienze della provincia di Torino, che ha realizzato «Tutti a scuola», una guida in italiano, albanese, rumeno, cinese, arabo, spagnolo, peruviano eccetera.
Pensate che, a scuola, nella provincia di Forlì-Cesena, su 197 lingue ed etnie diverse, ne abbiamo 191. Capite, dunque, che c'è un bel mondo che partecipa alle scuole.
La provincia di Milano, inoltre, continua a stanziare 4 milioni per l'integrazione degli studenti stranieri, con una voce inserita nel bilancio.
Come dicevo prima, nella regione Emilia-Romagna - parlo per la mia provincia, ma anche per i comuni del parmense e del modenese - i comuni fanno molto per l'integrazione, ma per poter integrare occorrono risorse umane e finanziarie. Diversamente non si raggiunge una scuola di qualità.
Personalmente ritengo che sia un arricchimento avere stranieri in classe. I ragazzi, del resto, crescono in modo più semplice di quanto possiamo fare noi adulti, che siamo più sovrastrutturati. È evidente, però, che bisogna dare a tutti la possibilità anche di eccellere, perché non si deve abbassare, ma elevare il livello. Lo dico da insegnante.
Ebbene, il livello lo si eleva con l'aiuto, ad esempio, dei mediatori culturali. Sono stata insegnante di inglese fino al 2004, quando ho cominciato a entrare nell'istituzione.


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Sono sempre andata all'estero, ritenendo che la lingua si possa imparare non soltanto attraverso i libri di testo, ma anche attraverso altre fonti.
La conoscenza che ho dell'estero e dei relativi sistemi scolastici mi porta a considerare che soltanto figure veramente importanti e necessarie possono aiutare. Ho visto, anche in altri sistemi scolastici, ragazzi stranieri cui gli insegnanti potevano dedicare del tempo. Non è solo alfabetizzazione, i ragazzi non devono imparare solo l'italiano, ma anche la matematica e tutto il resto.
Cosa può fare l'Unione delle province d'Italia? Come sapete, la prossima settimana avremo i congressi e subito dopo ci attiveremo nei vari dipartimenti. Riteniamo che quello della scuola sia veramente importante per il futuro dei nostri giovani.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi deputati che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

EMERENZIO BARBIERI. Sono solito, più che ascoltare, leggere gli appunti che vengono consegnati, perché hanno più completezza rispetto alla necessità di sintesi degli interventi.
Mi rivolgo all'ANCI, perché sono tra coloro che ritengono che le province debbano essere abolite, dunque mi interessa di più raffrontarmi con i comuni. Ebbene, nel documento dell'ANCI, che ho letto con grande interesse - condivido, peraltro, quanto riferito dal sindaco di Biella - ci sono alcuni passaggi criptici, che abbisognano, per quanto mi riguarda, di una spiegazione ulteriore.
L'ANCI scrive: «un'educazione scolastica precoce che, partendo da una forte consapevolezza della propria identità - ho fatto anche io l'insegnante di italiano, storia e geografia per parecchi anni, dunque so cosa significa l'espressione »forte consapevolezza della propria identità« - concorra a costruire un adeguato processo di vita e di apprendimento, in un sistema di convivenza civile che non mortifichi la diversità, ma anzi la sostenga, la sviluppi e la integri nella cultura italiana».
Devo dire che chi legge questa frase si pone immediatamente un problema. Innanzitutto, essa è rivolta ovviamente a quanti hanno quattro lauree, perché sfido chiunque a dirmi come possa comprendere una frase di questo genere chi ha conseguito la licenza elementare o media.
A mio giudizio, il periodo è di assoluta contraddittorietà. Come è immaginabile che il bambino che ha una consapevolezza «forte» - questo l'aggettivo usato - della propria identità riesca a integrarsi nella cultura italiana, mantenendo tale forte consapevolezza? Non l'ho capito, ma può darsi che ci riuscirò quando il sindaco - mi pare di capire che siamo dello stesso partito - me lo spiegherà meglio. Per il momento, ho grandi difficoltà.
In secondo luogo, sollevo un problema culturale serio. Quando, peraltro in grassetto, si scrive «l'apprendimento dell'italiano come seconda lingua», a mio giudizio si commette un errore culturale formidabile. Nel momento in cui questo documento venisse in mano a un ragazzino che fa la quarta elementare, un ragazzino sveglio, nato in Italia, da genitori cinesi - vengo da Reggio Emilia, dove i cinesi ormai hanno sopravanzato tutti gli altri - dirgli che l'italiano è la seconda lingua è un errore formidabile: un'impostazione di questo genere, infatti, lo spinge a parlare il cinese in casa, quando esce con i suoi genitori per andare a comprare i giocattoli e quando va a passeggio con la mamma.
È necessario, invece, che come approccio culturale la questione venga sviluppata in termini tali che l'italiano sia la prima lingua per tutti. Il sindaco saprà - ma lo sa anche l'assessore provinciale di Forlì - che a Luzzara, comune di Zavattini, è in atto un esperimento che ha suscitato uno scandalo enorme - peccato che è stato fatto da un dirigente scolastico che milita nel PD e da una Giunta comunale composta da esponenti del PD - ossia una classe di soli bambini indiani. Ebbene, dopo tre mesi sono tutti contenti, perché quei ragazzi hanno imparato di più nei momenti di integrazione con i bambini


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italiani che non se avessero fatto tutto quello che lei giustamente richiamava e giudicava assolutamente insufficiente.
Inoltre, voi scrivete: «l'integrazione scolastica non è stata ancora assunta come prioritaria dal MIUR». Personalmente contesto questa affermazione. Questo Governo, da quando si è insediato, ma anche prima - tra l'altro, seguiva la materia la collega De Torre, che politicamente è anni luce distante da me - ha affrontato il problema dell'integrazione scolastica. È un problema che ha cominciato a porsi il Berlusconi due, ma se l'è posto anche il Governo Prodi. Non credo, dunque, che si debba accusare l'amministrazione centrale di scarsa attenzione verso questa materia.
Vengo alla storia dei tagli ai bilanci dei comuni, un tema che, devo dire, viene sollevato in tutti i contesti: in un dibattito sulla previdenza sociale come in una discussione sul campionato di calcio. È vero, i tagli ci sono. È stato spiegato da questo Governo e da questa maggioranza che non è possibile rimediare in altro modo. Vedremo adesso quello che succederà in merito al Patto di stabilità. I comuni e le province, però, hanno l'obbligo di misurarsi con questi tagli. Poi faranno le loro rivendicazioni, porteranno i sindaci in piazza, non pagheranno, faranno quello che ritengono, ma quando si amministra si ha il dovere, etico prima ancora che politico, di misurarsi con le risorse che si hanno a disposizione. Non è educativo spiegare, su temi di questo genere, che la colpa non è del sindaco o dell'assessore all'istruzione, ma del Governo. Così torniamo ai tempi del «piove Governo ladro».
Da questo punto di vista, servirebbe una maggiore assunzione di responsabilità da parte delle autonomie locali, le quali fanno bene a protestare in tutti i modi, ma intanto devono fare i bilanci con i soldi che hanno a disposizione.
Anche il problema dell'integrazione dei bambini stranieri - dico stranieri e non extracomunitari, prima veniva citata l'esperienza della provincia di Torino, che riguarda i rumeni e altri - dovete affrontarlo tenendo conto della situazione reale della finanza locale.

PAOLA GOISIS. Naturalmente rivolgo un saluto a tutti. Vorrei partire in un modo forse provocatorio, ma tale non è, considerato che appartengo alla Lega nord e vivo in Veneto. È chiaro che l'argomento oggi è quello dell'inserimento dei bambini extracomunitari, ma mi chiedo come mai non si parta dalla presenza di bambini italiani. La questione è che, a furia di parlare di bambini stranieri, ci dimentichiamo dei nostri.
Risponderete che l'argomento di oggi è appunto quello dell'accoglienza dei bambini stranieri nella scuola, ma io dico che se vogliamo arrivare all'integrazione di questi bambini non possiamo partire da un livellamento verso il basso della formazione e dell'istruzione. Il rischio è proprio questo. Se è vero, come è vero e come i due auditi hanno riferito, che è difficile la situazione di questi bambini che non conoscono l'italiano, come possono gli stessi studiare la matematica e le altre discipline?
Perché la proposta che avevamo formulato, nella quale ancora crediamo profondamente, quella delle cosiddette «classi ponte», poi chiamate «classi di inserimento temporaneo», è stata così demonizzata? Nella vostra esperienza, l'avete esperita o l'avete bocciata completamente?
Anch'io sono stata insegnante per tanti anni e ho insegnato a ragazzi che arrivavano al primo anno del triennio, ma non avevano la certificazione della terza media. Mi dovete spiegare, dunque, come questi ragazzi avrebbero potuto conseguire il diploma di geometra o di ragioniere.
Ritengo che quando si parla di integrazione si debba partire non dal luogo di provenienza, ma da quello di arrivo. Infatti, se vogliamo che questi bambini diventino italiani - io direi veneti - dobbiamo insegnare loro la cultura, la storia, la tradizione del luogo in cui vengono.
Non posso accettare che in una scuola elementare, magari nella scuola del mio nipotino, ancora oggi, nel 2009, non si


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possa fare la Festa di Natale. Chiedo, allora, al sindaco Gentile e all'assessore Baravelli che esperienza abbiano in questo senso. È chiaro, poi, che ci si debba attendere che vengano fuori sentenze come quella emanata dalla Corte di Strasburgo secondo la quale i crocefissi danno fastidio.
Sono sicura che in nome della globalizzazione, della multiculturalità, della interculturalità eccetera, stiamo rinunciando alla nostra cultura. Andrà a finire che, fra qualche anno, i nostri bambini dovranno studiare l'Islam o la storia del Marocco, della Tunisia, della Romania, mentre non si studierà più la nostra storia.
Volete che sia ancora più provocatoria? Ho un timore grandissimo...

PRESIDENTE. Secondo lei saranno i nostri a dover chiedere la cittadinanza. Il concetto mi sembra molto chiaro.

MARIA LETIZIA DE TORRE. Ringrazio i nostri ospiti per i loro interventi.
Da parte del rappresentante dei comuni è stato toccato il problema del numero di alunni stranieri per classe nei piccoli centri, laddove gli abitanti sono emigrati nelle città e sono stati sostituiti dalla popolazione immigrata. Quali soluzioni, secondo voi, possiamo mettere in atto? Ci possiamo trovare in situazioni normali in una città, di quartieri dove le politiche abitative, certamente non pensate per questa situazione, ripropongono quello che è successo con gli immigrati dal sud nelle città del nord, quando interi quartieri venivano abitati da gente del sud: così adesso capita che vi siano quartieri interamente abitati da persone immigrate. Ovviamente, questo è un grosso problema per le città e riguarda le politiche abitative, i servizi eccetera, ma impatta sulla scuola senza che questa possa decidere nulla in questa direzione. Secondo voi, come si può fare? Può essere aperto un tavolo, un luogo di studio sui questa tematica?
La seconda domanda riguarda l'insegnamento dell'italiano a questi bambini. La dizione «L2» deriva da un linguaggio tecnico dell'università, non è termine coniato dall'ANCI, né da noi. A questi bambini bisogna insegnare l'italiano. I comuni talvolta sono impegnati in questa direzione, talvolta non lo sono.
Passiamo da situazioni come quella di Firenze, in cui l'insegnamento dell'italiano come seconda lingua per la scuola dell'obbligo è pagato totalmente dal comune, a situazioni in cui i comuni sono totalmente assenti e le scuole sono in difficoltà. Vorrei che entraste più nel merito di queste questioni.
Un altro tema di interesse è questo: ci sono o meno - e se sì sono sufficienti - centri per l'educazione degli adulti, funzionano bene o meno, riescono a svolgere questo ruolo?
Per quanto riguarda le province, c'è qualche accordo di programma realizzato tra province, università, scuole, in particolare relativamente alle scuole superiori, per i problemi citati dall'onorevole Goisis. A vostro avviso, questa è una strada o no? Qual è la valutazione di questi accordi a livello provinciale? La provincia è o no il livello giusto per questi accordi?

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Data l'allusione dell'onorevole Barbieri a un vecchio detto, mi domandavo - visto che lei è dello stesso partito, ma è anche dell'ANCI - se l'espressione «Governo ladro», con la rimozione dell'ICI, non possa essere considerata anche in parte tecnicamente esatta. L'onorevole Barbieri sostiene che gli enti debbano fare affidamento sulle proprie risorse, ma non possono farlo se vengono loro sottratte.
A parte la battuta, lei ha detto giustamente che bisogna considerare il limite fra supplenza e collaborazione. Immagino che avesse in mente qualche esempio che, invece, noi non abbiamo.
Anche su altre questioni che dovremo affrontare, con la riforma delle superiori, si fa sempre riferimento agli enti locali, ma non so quale sia l'esperienza al riguardo.
Una domanda interessante, complementare a quella dell'onorevole Goisis, è se gli enti locali hanno sperimentato una iniziativa un po' più utile per l'integrazione


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rispetto a quella di eliminare i simboli, ad esempio quella di valorizzare simboli e tradizioni dei nuovi arrivati.
In questi giorni, ad esempio, si celebra Hanukkah, la festa delle candeline degli ebrei, che richiama la dedicazione del Tempio. Ci sono, inoltre, feste degli arabi che si potrebbero facilmente valorizzare come elemento di studio anche per i bambini, soprattutto più piccoli.
Mi domandavo, quindi, se negli enti locali ci sono, da questo punto di vista, magari in sinergia con le scuole, esperienze di valorizzazione delle tradizioni di coloro che arrivano nel nostro Paese.

EMILIA GRAZIA DE BIASI. Ringrazio anch'io per l'audizione interessante.
In primo luogo, accetto il terreno di ragionamento dell'onorevole Goisis, nel senso che ritengo che il tema delle culture di origine e del mantenimento delle stesse sia enorme.
Come si può ben immaginare, date le idee che ho professato in più occasioni, non concordo con il punto di approdo dell'onorevole Goisis. Tuttavia, la differenza fra un cosmopolitismo indifferente e la considerazione delle diverse culture è tema reale e molto serio, di cui tanti Paesi si sono occupati, da ultimo la Francia, però con un sistema molto ampio di garanzie e di regole relative alla laicità dello Stato e delle istituzioni.
È chiaro che, come si diceva prima, il modello è quello italiano, ed è un modello che ha delle peculiarità. Penso che varrebbe la pena di riflettere su questo. Ne abbiamo parlato l'anno scorso e penso che sarebbe opportuno avere di nuovo un momento di riflessione su che cosa significa modello italiano, perché comporta ovviamente delle scelte e anche una tipologia di investimento.
Ho fatto la mia battaglia sulla scuola, contro i tagli eccetera. Tuttavia, c'è un punto, quello della volontà politica delle istituzioni locali di decidere alcune priorità, autonome naturalmente. Una di esse, a mio parere, è quella che potremmo definire costruzione della società della convivenza.
È vero che la coperta è molto corta, è drammatico che siano i comuni a dover supplire alle mancanze dello Stato, ma è altresì vero che vi è una funzione delle regioni che viene tanto conclamata e di cui non si parla.
Vi è un aspetto, quello della collaborazione Stato-regioni, che mi pare segni piuttosto il passo. Peraltro, anche questa tematica riguarda la formazione. Penso in particolare agli adolescenti e a tutta la partita relativa alla formazione professionale. Non mi voglio dilungare su questo punto, ma dobbiamo considerarlo reale o meno?
Alla luce di tali considerazioni, credo che, oltre a verificare la compatibilità con le risorse che vengono erogate dai Governi centrali, bisognerebbe anche essere in grado di giocare sull'intera tastiera.
L'intera tastiera istituzionale, dunque, dovrebbe occuparsi di questo tema; cosa che a mio parere non avviene.
Vengo alla domanda. Avrei voluto parlare di più delle culture di origine, ma l'approfondiremo in un altro momento. Faccio riferimento a tale questione, presidente, perché diversamente rischiamo di impostare male la questione. Personalmente, ci tengo a dire che sono italiana e di cultura europea. Dopodiché, nel caso in cui mi si chiedesse se ho delle radici, risponderei che le radici le hanno gli alberi.
Ad ogni modo, la mia cultura non è indifferente, esattamente come la cultura altrui non è indifferente agli altri. Il punto è come si incontra l'altro. Tuttavia, dato che l'altro da sempre molto fastidio, come già evangelicamente viene detto, è del tutto evidente che si crea un potenziale conflitto direi tra saperi, oltre che di carattere sociale.
Tale aspetto meriterebbe l'audizione di qualche teorico in questo campo, come ad esempio un sociologo. Sarebbe molto interessante. Non so se è previsto, ma immagino di sì. Del resto, Touraine ha scritto cose molto importanti, come pure Baumann, Eugert e si potrebbe andare avanti.


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Ci sono davvero pensieri molto importanti in questo campo che andrebbero evidenziati.
La domanda è la seguente. Per quale motivo le regioni non legiferano e non trasferiscono finanziamenti ai comuni e alle province in modo chiaro su questo punto, dando un ordine di priorità?
In secondo luogo, se, come penso, sono le istituzioni di prossimità ad avere la maggiore responsabilità nella costruzione di un sistema di inclusione, integrazione, chiamiamolo come vogliamo, non sarebbe più serio - la domanda è abbastanza retorica - fare quello che diceva l'onorevole De Torre e anche il dottor Gentile, ossia aprire il campo al coinvolgimento delle famiglie straniere?
È uno spreco di risorse ed energie - passatemi il termine - occuparsi solo dei bambini. È del tutto evidente, infatti, che se il bambino sta in una classe (ponte o non ponte, collega Goisis) per un determinato numero di ore e poi ritorna in un contesto familiare che lo riporta drasticamente, in modo perfino drammatico, nella condizione primaria, senza nulla togliere ad essa, come ovvio, ogni volta si verifica il secondo principio della termodinamica, vale a dire che viene sempre disperso un pezzo.

ERICA RIVOLTA. Ringrazio gli intervenuti per il contributo che hanno dato ai nostri lavori.
Vorrei svolgere alcune osservazioni. Anche io, come l'onorevole De Biasi, non sono un albero, ma le radici culturali ce le ho eccome, intese come identità culturale. Quindi, non posso che essere d'accordo con la collega Goisis sul fatto che la presenza di un simbolo dalla nostra cultura è, rimane e sarà comunque qualcosa di importante.
Questo non vuol dire che tutti - perché questo non avviene e non è mai avvenuto - nelle scuole passino le ore a pregare, perché sono lì per studiare. Quindi, usciamo da questa confusione.
Ho sentito parlare di segregazione formativa. Capisco l'intento. Tutti vogliamo aumentare il livello medio, ma stiamo facendo delle considerazioni con famiglie di origine molto diverse.
Vi riporto un esempio in tal senso. Se una famiglia ha a cuore l'integrazione dei propri bambini nella scuola, ad esempio, sceglie di inserirli all'inizio dell'anno scolastico e non a metà anno, come invece succede abbastanza spesso.
L'onorevole De Biasi invitava poi a chiamare le famiglie a raccolta, proprio per coinvolgerle nel processo di integrazione, ma quante di queste si rifiutano e rimangono chiuse nella loro non integrazione, magari continuando a vedere i programmi televisivi - parlo di persone che ho conosciuto personalmente - nella loro lingua di origine, attraverso la parabola? Insomma, non fanno neanche lo sforzo di usare la televisione come mezzo per integrarsi.
Questo è un altro dei problemi esistenti e non dobbiamo fare finta che non esista.
In particolare, tuttavia, mi è sembrato che nelle vostre esposizioni sia mancato un concetto che anche l'onorevole Goisis sottolineava in forma diversa. Si è parlato di integrazione, ma non di rispetto.
Certo, dobbiamo considerare i bambini che arrivano da altri Paesi ed è giusto che vengano istruiti. Nessuno discute questo. Tuttavia, ci sono anche i nostri bambini che devono interagire con loro.
Se è tanto facile che facciano amicizia e si integrino giocando al pallone, ben più difficile è che questo accada seguendo le lezioni di matematica, di aritmetica o studiando, quando hanno delle difficoltà linguistiche notevoli.
Pertanto, la conoscenza della lingua per noi è la prima chiave per l'integrazione.
In proposito, sono state citate le classi di inserimento temporaneo - non è vero che debbano diventare classi-ghetto, come da qualcuno è stato detto - che porterebbero al conseguimento di due risultati: offrirebbero la possibilità di dare una base di comprensione temporanea e permetterebbero un passaggio importante, soprattutto per le persone che hanno una preparazione molto più arretrata rispetto alla loro età.


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Questo cuscinetto dunque servirebbe, a parer mio e della Lega, a creare una migliore integrazione.
Svolgerò ora una piccola osservazione, partendo dalla mia realtà, quella di assessore di un comune di 17.000 abitanti in provincia di Como, Erba, dove abbiamo un buon tasso di immigrazione.
Il comune si è trovato certamente a dover attuare operazioni di mediazione con i doposcuola, proprio per aiutare i bambini stranieri a integrarsi. Pertanto, è giusto che i comuni, così come gli insegnanti, prestino attenzione a tale aspetto.
Abbiamo parlato di famiglie, ma diamo per scontato che gli insegnanti abbiano una sensibilità per le diversità e per l'integrazione che è in realtà è utopistica. Infatti, potremmo avere degli insegnanti particolarmente sensibili e altri che proprio non ne vogliono sapere. Anche in questo caso, quindi, credo che sia assolutamente necessario lavorare sulla formazione. Ad ogni modo, tutto questo ragionamento parte da un concetto, quello del rispetto.
Svolgo ora un'ulteriore osservazione - e mi rivolgo all'assessore - circa l'edilizia scolastica. Si dice che, visti i flussi migratori, dobbiamo aumentare la capienza per i nuovi arrivati.
Vi è, tuttavia, un piccolo problema: la maggior parte delle scuole italiane si trovano in edifici storici e hanno norme di sicurezza che non sono ancora state sistemate. Pertanto, gli enti locali, comuni o province che siano, a seconda della competenza, se primarie o secondarie, si trovano già in grandissima difficoltà a fare questi lavori. È una condizione assai triste che viviamo tutti gli anni.
Questi non sono piccoli particolari. A mio avviso, sono degli argomenti importanti da tenere in seria considerazione. Nessuno nega l'integrazione, ma dobbiamo mantenere l'attenzione su alcuni punti fermi, quali la sicurezza delle scuole e degli edifici scolastici, l'italiano come prima lingua, le classi di inserimento temporaneo e la formazione degli studenti.
È giusto tendere a un modello ottimale, ma è inutile far finta che sia così vicino, perché la realtà delle cose è ben diversa. Perlomeno, non crediamo di essere al novantesimo gradino su cento, quando siamo al decimo.
Inoltre, ancora una volta, c'è una grande disomogeneità a livello nazionale, sia come presenza dei bambini immigrati, sia come attenzione all'argomento da parte della popolazione.
Ultimo particolare, non trascurabile, è un dato del 1998 relativo alla presenza di oltre 6.000 minorenni presenti nel territorio, ossia i minori non accompagnati (definizione tecnica che mi suggerisce la collega De Torre).
Anche questi rappresentano un grosso problema. Ovviamente, il nostro Stato se ne fa carico, come è giusto che sia. Rendiamoci conto però - è un dato tecnico - che molti di questi bambini abbandonati, o inviati come un pacco postale nel nostro Paese, vengono da noi nutriti e istruiti, eppure molto spesso, alle soglie dei diciotto anni, scappano dagli istituti dove sono stati accuditi per tanti anni e rientrano nel giro della malavita, insieme ai fratelli già presenti in Italia. Ho avuto questi dati da operatori del settore.
Pertanto, onorevole De Biasi, questo è un grosso problema con cui abbiamo a che fare, perché non solo comporta un investimento per il nostro Paese, ma alla fine oltre al danno abbiamo anche la beffa.

LUCIANO CIOCCHETTI. Presidente, intervengo brevemente soltanto per svolgere alcune considerazioni. Mi sembra che la fotografia presentata dimostri con grande chiarezza che abbiamo situazioni molto diverse all'interno del nostro Paese, che quindi abbisognano di risposte differenti.
Anche le percentuali che sono state disegnate, provincia per provincia e comune per comune, mostrano con evidenza le presenza di situazioni diverse, anche all'interno delle singole città.
Nel caso di Roma, ad esempio, in alcuni quartieri, anche periferici, la presenza dei ragazzi o delle ragazze straniere supera ampiamente il numero di ragazzi italiani all'interno delle classi.


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È chiaro che quando un insegnante si trova in una situazione di questo genere ha difficoltà a dare delle opportunità, se non aiutato, attraverso sostegni specifici, anche di tipo organizzativo, che chiaramente andrebbero messi in campo insieme ai comuni e alle province, a seconda dell'ordine delle classi. Inoltre, se possibile, occorrerebbe anche la capacità del terzo settore di sostenere questa attività. L'insegnante, o il corpo insegnante, infatti, si trova da solo ad affrontare una situazione di questo genere.
È chiaro dunque che si pone un problema di risorse per i comuni, in particolare vista la situazione in cui si trovano oggi. I comuni infatti vivono tutti una condizione di grande difficoltà economica, dal primo all'ultimo. Gli oltre 8.300 comuni italiani sono a rischio di dissesto economico finanziario, a meno che siano solo i comuni che conosco io a vivere tale situazione.
Bisognerebbe dunque fare investimenti di sostegno e di supporto anche alle politiche di mediazione che, come è stato detto, si stanno portando avanti. Tuttavia, servirebbe maggiore aiuto, perché la scuola da sola non ce la farà mai a dare una risposta di questo genere.
In altre situazioni, laddove vi sono due, tre o quattro presenze di ragazzi stranieri nelle classi, è più facile costruire un'integrazione.
Pertanto, credo che uno dei temi importanti a cui porre attenzione è legato al fatto che bisognerebbe aprire un ragionamento anche con le regioni, allargando le competenze del diritto allo studio. Queste ultime oggi sono legate soprattutto alle università, ma credo che il discorso andrebbe riferito allo studio inteso in senso lato e quindi anche all'integrazione.
Probabilmente, dunque, tale tema dovrebbe essere posto in maniera equilibrata sia nella conferenza Stato-Regioni, che nella conferenza regioni-enti locali.
Inoltre, occorre affrontare la questione delle risorse economiche e delle nuove figure professionali che dovrebbero aiutare il tema dell'integrazione.
Una persona può sentirsi integrata se conosce la lingua del posto in cui si trova, quindi è chiaro che la prima sfida da compiere è quella della lingua, insieme alla matematica e a tutte le altre materie, perché in assenza di quella tutto il resto diventa assolutamente inutile. Sinceramente, non credo che classi di inserimento temporaneo possano dare soluzione a questo problema.
Come mi pare sia stato detto in alcune relazioni presentate, laddove i ragazzi o le ragazze che non conoscono la lingua, che vengono da altre esperienze e da altri Paesi, sono poco numerosi, dopo un certo periodo riescono ad integrarsi. Lo vediamo dappertutto.
Quindi, metterli in una situazione a parte, anche se in modo temporaneo, non credo che risolva la situazione. Il problema riguarda gli strumenti che mettiamo a disposizione della scuola, per poter ottenere questo obiettivo e questo risultato.

PRESIDENTE. Volevo concludere questa audizione così vivace e partecipata, ricordando che ormai abbiamo anche un punto di riferimento europeo.
Al Consiglio dei ministri del 26 novembre, infatti, è stato presentato il Libro verde «Migrazione e mobilità: le sfide e le opportunità per i sistemi di istruzione europei».
Lo facciamo girare tra i banchi della Commissione. Ho portato il documento, ma volevo che la Commissione lo richiedesse in veste ufficiale, perché mi sembrerebbe anche più significativo.
Ebbene, basta leggere i punti che hanno fatto da cornice al dibattito politico che i ministri dell'istruzione, in quella sede, hanno discusso a Bruxelles, per comprendere che ormai la polemica nostrana non ha più senso. Del resto, è inutile opporsi quando ci sono dei dati di fatto.
Anche il dibattito politico che si è svolto alla Camera, e che ha visto la maggioranza essere oggetto di accuse inesistenti, trova una giusta collocazione nel Libro Verde europeo, dove si dice che la prima cosa da fare è insegnare la lingua.


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Ogni Paese europeo ha trovato una risposta a questa esigenza che va dalle classi cosiddette «ponte» a soluzioni di altro tipo.
L'unica soluzione che non mi sentirei di appoggiare è quella tedesca. Sapete come sono drastici. Loro prendono i bambini che non parlano la lingua e li mettono in classi speciali.
La Francia, invece, non prevede un sistema di istruzione differenziato in base alla provenienza degli studenti. Il ministro francese ha posto l'accento sull'eguaglianza dei cittadini. I bambini devono studiare tutti insieme in lingua francese. Oltre all'insegnamento della seconda lingua, vengono offerti anche corsi di cultura del Paese di provenienza. Quindi, hanno quell'attenzione in più di cui parlavano i nostri colleghi.
Questo per dire che, a mio parere, tutte le istituzioni, comuni, province, scuole, devono intensificare la proposta di conoscenza della lingua italiana.
Per voi che non siete pressati dall'istruzione, ma dall'integrazione, varrebbe molto di più la pena di accogliere i ragazzi stranieri anche in contesti non necessariamente scolarizzati. Insomma, si potrebbe realizzare quello che a Milano si fa da tempo con i bambini cinesi o provenienti da altre realtà.
Questo è importante, perché effettivamente il rischio, richiamato anche da alcuni interventi dei colleghi, è quello di lavorare tanto a scuola, ma di vedere poi annullato questo sforzo fuori dalla scuola. Quindi, ai Comuni e alle Province, semmai, dovremmo chiedere di svolgere questo lavoro di integrazione.
Si pone poi una questione, molto presente nel Libro verde europeo e nel dibattito politico che si è svolto in sede europea, che ha a che fare con il numero degli alunni per classe.
Capisco quello che dice il sindaco di Biella. Tuttavia, sindaco, è proprio lì che ci vuole il governo del fenomeno, per non lasciare quel piccolo comune di montagna o quella piccola scuola di montagna a sopportare il peso di una classe che diventa tutta composta di alunni stranieri.
Allora la regia delle province, piuttosto che dei consorzi di comuni o delle reti di scuole deve portare a fare in modo che anche se si crea una forte concentrazione in un piccolo comune, sia presente una regia sovracomunale o nel quartiere di un'area metropolitana, come nel caso di Roma che citava il collega Ciocchetti capace di governare il fenomeno.
I problemi purtroppo ormai sono noti. Seppure in logiche diverse, non si deve comunque scaricare la questione solo sulla scuola, perché nessuna scuola ce la potrà mai fare, né sulle famiglie degli italiani che vivono nei quartieri, o nei comuni, che si trovano a condividere questa realtà.
Quindi, l'idea che il Ministro Gelmini sta diffondendo, del 30 per cento massimo di alunni stranieri nelle classi, deve essere intesa come un traguardo, ma solo se ci sarà una regia.
Ci aspettiamo molto dai comuni e dalle province in questo senso.
Siamo partiti dalla presenza degli alunni rom nelle scuole. Ora stiamo parlando di tutti gli altri soggetti - è giusto -, anche extracomunitari.
Per alcune etnie in particolare, abbiamo davvero bisogno di una regia, per evitare, come afferma il documento, da una parte la ghettizzazione e dall'altra il fatto che questi ragazzi siano i meno fortunati anche quando vanno a scuola.
Da questa considerazione derivano delle scelte. Penso ad esempio all'istruzione professionale che verrebbe danneggiata, se fosse caricata anche di questo peso. Del resto, abbiamo già visto che esiste una ricaduta di fenomeni da questo punto di vista.
Peraltro, mi auguro che si possa indire presto una conferenza nazionale, con l'UPI, l'ANCI e tutte le altre istituzioni, per approfondire questo tipo di problema.
Per quanto ci riguarda, daremo il nostro contributo, quando saremo pronti con l'indagine e poi magari potremo parteciparlo anche in casa vostra, se lo riterrete opportuno, o qui alla Camera.
Do la parola agli auditi per la replica.


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DONATO GENTILE, Sindaco di Biella. Innanzitutto, ringrazio gli onorevoli parlamentari per tutti i loro interventi, grazie in particolare per le ultime preziose considerazioni della presidente onorevole Valentina Aprea.
Partirei subito dall'onorevole Barbieri che ci ha tirato in qualche modo le orecchie a proposito della forma di alcune frasi e di alcuni passaggi utilizzati da chi ha formalizzato la relazione ANCI.
Passo alla sostanza. Intanto lei, onorevole Barbieri, ha svolto delle considerazioni giustissime e condivisibilissime.
Sul discorso dei bilanci dei comuni vi è una grande difficoltà. Credo di essere uno tra i pochi - anche se i comuni sono oltre 8.000 - che chiude il bilancio rispettando il patto di stabilità, che continua ad assicurare i servizi, che pensa al 2010, ma che comunque confida, come tutti i sindaci italiani, nel fatto che il Governo dia quei fondi che, con l'assenza della distribuzione dei soldi dell'ICI, devono entrare.
Per il mio comune parliamo di 800.000 euro. Ciò significa, al momento, bloccare qualunque tipo di finanziamento per associazioni, enti e via dicendo che sono preziosissimi.
Pertanto, non si parla di fornire un contributo o un finanziamento alla squadra di pallacanestro che milita nella serie A, ma di dare quei 1.500 euro a don Remo, che ha l'oratorio e che tiene insieme i bambini, per comprargli le magliette e le scarpe, perché magari in quel quartiere se non ci pensa don Remo a provvedere a questo, non lo fa nessun altro.
Speriamo allora che il Governo intanto onori quanto il nostro presidente nazionale, Sergio Chiamparino, credo in uno degli ultimi incontri, ha avuto come garanzia da parte del Governo, ossia di veder riconosciuta l'ICI 2008.
Onorevole Goisis, sicuramente non ci dimentichiamo dei nostri. Parlo come ente locale ovviamente. Siamo l'associazione nazionale dei comuni italiani, a cui stanno tanto a cuore la bellezza del nostro Paese, la cultura italiana e la ricchezza straordinaria che ha prodotto il nostro popolo, i nostri genitori e i nostri antenati.
Proprio l'onorevole Simonetti, suo collega che ho incontrato prima, mi diceva che questo Parlamento lo hanno fatto i nostri padri, i nostri genitori, con tanti sacrifici. Allora, ha ragione quando dice che chi arriva deve avere rispetto - ci mancherebbe -, partendo dagli italiani sicuramente, che per primi devono saper rispettare anche il crocifisso di cui lei parlava.
Non voglio certamente addentrarmi in questo argomento, che ieri, per esempio, nel mio consiglio comunale ha scatenato un tale putiferio di parolacce che, come sindaco, disegnando una croce, ho detto chiedo scusa io a tutti coloro che oggi in questa sede si sono sentiti offesi, parlando di questo simbolo. Un simbolo che rappresenta chi si è sacrificato per i fratelli.
Quanto al livellamento verso il basso, rispondo in maniera assolutamente contraria. La scuola italiana, anche paragonata all'Europa, porta a livelli alti, anche con gli interventi dei comuni italiani. Penso alla scuola primaria in particolare che è un modello europeo universalmente riconosciuto.
Il decreto legislativo n. 112 del 1998 porta in capo ai comuni e agli enti locali, ma ai comuni in particolare, funzioni e compiti straordinari di supporto. Tuttavia, ciò accade quando un comune decide le sorti di una scuola, se fonderla, se accorparla, se tirarla via e può entrare nei POF - quello che lei diceva onorevole -, nelle scelte culturali di fondo, andandole addirittura a condizionare, ma in senso positivo, ossia mettendo a disposizione le risorse che vengono dagli assessorati all'ambiente, alla cultura, all'istruzione e a quant'altro.
Come sappiamo, ci sono stati tanti disegni di legge - penso che uno di essi abbia portato anche il nome dell'onorevole Aprea - per entrare nel merito degli organi collegiali e andarli a modificare, rendendo protagonisti, al loro interno, gli enti locali che oggi sono del tutto assenti


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e funzionano soltanto come enti serventi che danno i soldi per fare qualche cosa che altri a volte decidono.
Quello di cui parliamo è un lungo processo culturale che viene da lontano. Anche gli enti locali nelle scelte educative e formative dei comuni. Diciamo questo, proprio perché rivendichiamo una territorialità che vuol ben dire dialetto e tutto ciò che è cultura e identità locale.
Si figuri che abbiamo questo problema, al di là del tentativo di integrare il bambino rumeno e via dicendo, anche con comunità italiane che rivendicano la loro regionalità di provenienza. Penso, ad esempio, ai circoli dei sardi in Italia, alla FASI, federazione associazioni sarde in Italia, che ha delle associazioni culturali che prendono dei soldi dalla regione Sardegna, rivendicano la lingua e avanzano addirittura delle proposte - dico correttamente -, proprio nell'ambito dell'incontro delle regionalità.
Parliamo di un'Italia delle regioni, di un'Italia in cui è bello che un bambino piemontese, che ha un compagno di classe che viene dalla Puglia, perché il nonno è emigrato negli anni Sessanta per lavorare alla FIAT di Torino, proponga la sua bagna cauda o la sua polenta cunscia, ma quando va a giocare il pomeriggio a casa del compagno mangi le orecchiette con le cime di rapa.
Oggi, tanti nostri bambini - i miei figli ad esempio - hanno degli amici di origine marocchina e vanno a giocare a casa con loro, anche perché magari in quella casa c'è una donna che fa la mamma, mentre le nostre, ahimé, lavorano tutte. Non ho nessuna preclusione ideologica. Anzi, dico che è una fortuna che le donne lavorino, perché diversamente non arriveremmo alla fine del mese.
Vengo ora alla questione della festa di Natale. Gli enti locali non hanno nessun tipo di timore a dire che il Natale - nascita - si riferisce a un fatto successo 2.000 anni fa, all'arrivo di Gesù Cristo.
Se le scuole si fanno dei pudori nel ricordare che è la festa di Natale e che le vacanze di Natale mandano tutti a casa, bambini e docenti, perché si debba ricordare la Natività, i comuni certamente non si fanno di questi problemi.
Parlo per il mio comune che, a fianco della cattedrale, fa partire una grande mostra fotografica di rievocazione dell'arrivo della Madonna di Oropa, noto santuario alpino, che nel 1949 ha rappresentato un fatto straordinario.
Ad ogni modo, credo che gli enti locali abbiano un'assoluta serenità nel dire che il Natale è legato alla nascita di Cristo e che da 2.000 anni ricordiamo quel grande evento.
Voglio poi ringraziare gli onorevoli De Torre, Bachelet, De Biasi, Rivolta e Ciocchetti che sono intervenuti tutti a proposito. Mi piacerebbe parlare fino a domani mattina, ma purtroppo non abbiamo tempo.
Come ANCI, vi voglio ringraziare, ma voglio che capiate bene - prima non l'ho detto, ma concludo con questa considerazione - che siamo in presenza di un nuovo fenomeno. Intanto, i comuni sono più poveri. La nostra economia si sta impoverendo. Laddove, nei distretti industriali - parlo del mio distretto, la capitale laniera d'Italia, il biellese -, le aziende chiudono le porte, licenziano le persone e non danno più risorse allo Stato, perché con le tasse dia fondi ai comuni, tanto per essere chiari, abbiamo sempre più poveri, aumenta incredibilmente la spesa per i servizi sociali e si rende necessario porre rimedio.
Oltre a ciò, la differenza culturale fa sì che per il genitore di un bambino, che arriva in Italia dalla Tunisia piuttosto che da un'altra parte, spendere soldi per il trasporto, la mensa, i libri e la gita scolastica - di cui non si parla proprio - è considerato una follia.
Noi gli andiamo a spiegare che invece tutto questo è positivo, perché quella bambina domani diventerà una cittadina italiana, ed è giusto che abbia questo tipo di offerta formativa. Tuttavia, è un'impresa.
Quindi, oltre a sostenere le famiglie dal punto di vista dei servizi sociali, dobbiamo pagare tutti i servizi della scuola e inventarci non so più che cosa.


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Chiedo, dunque, che il vostro aiuto ai comuni, come parlamentari, sia quello di fare pressione sul Governo. Ce la mettiamo tutta, come comuni, ma il federalismo non vuol dire scaricare tutto, cose importantissime, sulla periferia e sui comuni, senza far confluire nuove risorse.

PRESIDENTE. Grazie per questa replica molto sincera e completa.

BRUNA BARAVELLI, Assessore all'istruzione della provincia di Forlì-Cesena. Stiamo parlando di stranieri, ma vorrei ricordarvi - forse prima non sono stata chiara - che il 40 per cento dei bambini stranieri, a tutti i livelli, sono nati in Italia. Quindi, quello in esame non è un problema al 100 per cento, ma è dimensionato. Dobbiamo tenerne conto.
Questi ragazzi hanno il cognome straniero, per cui si pensa di dover attuare determinate iniziative, ma nella realtà dei fatti sono nati in Italia e parlano italiano tranquillamente.
Insomma, non abbiamo a che fare con un problema così grande come si pensa. È molto più ridotto, perché questa è la nostra realtà. Vi sono bambini di seconda generazione nati in Italia, che quindi frequentano le scuole senza problemi, forse anche con più attenzione dei nostri figli.
Faccio un piccolo inciso. Rispetto a quello che vi ho detto prima circa i ragazzi che devono ancora ottenere il diploma di terza media, non si può pensare di considerare tale questione al livello del CPT e quindi legata solo agli stranieri. In realtà, tale tema riguarda moltissimi italiani. Lo dico perché conosco personalmente la situazione. Moltissimi italiani quindicenni non hanno ottenuto la licenza media.
Pertanto, come dicevo, adesso parliamo degli stranieri e va benissimo, ma vorrei ricordare che dobbiamo considerare anche i ragazzi italiani.
Proprio a proposito del fatto che occorre tener presenti anche i nostri ragazzi, volevo invitarvi - nel mio precedente intervento non mi sono dilungata troppo sul punto, perché non volevo essere troppo noiosa - ad esaminare i progetti che ha realizzato, ad esempio, la provincia di Torino.
Abbiamo distribuito la documentazione relativa. Ebbene, noterete che tale progetto parla, per la scuola della Fondazione San Paolo, di educazione alla cittadinanza per gli alunni stranieri.
In sostanza, hanno coinvolto un gruppo di docenti e formatori nella predisposizione dei materiali e degli strumenti per l'educazione e la cittadinanza, rivolta a ragazzi italiani e non. Quindi, c'è il coinvolgimento di tutti. Non si pone l'attenzione soltanto allo straniero.
Ho sentito parlare anche di edilizia scolastica, ma dobbiamo tener conto che ci sono meno nascite in Italia, quindi dobbiamo considerare che le scuole si svuotano.
Probabilmente, però, dovremo mettere mano all'edilizia scolastica, perché siamo chiamati al riordino degli indirizzi. Parlo delle superiori. Come sapete, anche questa è una partita non di poco conto. Forse, dunque, anche in quel caso saremo portati ad assumere delle scelte, a seconda dell'edilizia scolastica esistente. È evidente quindi che i ragionamenti devono essere svolti da tutti gli attori coinvolti, a partire dagli enti locali.
Mi dispiace che l'onorevole Barbieri non creda nelle province. Posso garantire che queste giocano un ruolo importante.
Nel mio consiglio siede la consigliera Maria Grazia Bartolomei dell'UdC. Proprio l'altro giorno, mi diceva che se non fosse stata presente non avrebbe capito il vero ruolo che sta giocando la provincia. Infatti, per poter avere tanti progetti e realizzare tante attività, occorre proprio il contributo della provincia che mette insieme i comuni - quelli collinari, ad esempio, parlo di quelli della provincia di Forlì-Cesena - e dà un aiuto da questo punto di vista.
Procedo velocemente, perché non voglio portare via tempo. Quanto ai corsi di alfabetizzazione, questi vengono certamente realizzati. Quando i ragazzi arrivano presso il CPT di Forlì o di Cesena - sono due - prima dell'inizio dell'anno scolastico, seguono tali corsi.


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L'orientamento è fondamentale per le nostre scuole, a tutti i livelli, soprattutto per i bambini che passano dalla scuola media alla superiore.
Volevo svolgere alcune considerazioni circa il limite del 30 per cento di stranieri nelle classi. In proposito, ringrazio l'onorevole Aprea per l'intervento che ha svolto e che condivido molto, perché ha posto l'accento sul problema di avere una regia territoriale. Penso che si debba fare proprio questo.
Infatti, può avere un senso porre un limite al 30 per cento, ma è chiaro che soltanto i comuni e le province possono sapere, ad esempio, che la scuola del quartiere vicino, non avendo tanti stranieri, può accoglierne alcuni. Realizzare tutto questo è possibile soltanto con una regia come quella a cui faceva riferimento l'onorevole Aprea.
Vi ricordo, tuttavia, che una politica di estrema razionalizzazione dei tagli non ci aiuta. Come sapete, infatti, la scuola è sempre andata avanti facendo leva sul volontariato degli insegnanti, sulla loro disponibilità. Adesso bisogna aiutarli anche finanziariamente.

PRESIDENTE. Vero. Nel ringraziare i nostri auditi per la disponibilità manifestata, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,45.

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