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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VII
4.
Giovedì 4 febbraio 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Aprea Valentina, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE CONNESSE ALL'ACCOGLIENZA DEGLI ALUNNI CON CITTADINANZA NON ITALIANA NEL SISTEMA SCOLASTICO ITALIANO

Audizioni di rappresentanti dei mediatori linguistici e culturali, dei centri interculturali ed esperti del settore:

Aprea Valentina, Presidente ... 3 13 15 21 22 23
Carta Bussoli Marina, Responsabile dell'area socio-pedagogica del Centro COME ... 6 19 21
Certini Maurizio, Direttore del Centro internazionale studenti La Pira ... 8 22
De Pasquale Rosa (PD) ... 14
De Torre Maria Letizia (PD) ... 3 13
Guarnieri Nazzareno, Presidente della Federazione Romanì ... 11 17
Sibhatu Ribka, Rappresentante dei mediatori linguistici e culturali ... 5 18
Tailmoun Mohamed Abdalla, Portavoce dell'Associazione Rete G2-Seconde Generazioni ... 4 21 22
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud/Lega Sud Ausonia: Misto-NS/LS Ausonia.

COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 4 febbraio 2010


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VALENTINA APREA

La seduta comincia alle 14,15.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizioni di rappresentanti dei mediatori linguistici e culturali, dei centri interculturali ed esperti del settore.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche connesse all'accoglienza degli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico italiano, l'audizione di rappresentanti dei mediatori linguistici e culturali, dei centri interculturali ed esperti del settore.
Do la parola all'onorevole De Torre che ha chiesto di parlare sull'ordine dei lavori.

MARIA LETIZIA DE TORRE. Vorrei mettere a verbale quanto segue: spiace che il Ministero dell'istruzione non si sia reso disponibile a partecipare alle audizioni di questa indagine conoscitiva, che non è stata pensata contro il Ministero o contro le sue politiche ma è stata istituita per lavorare in sinergia, per conoscere e svolgere il compito della Commissione, che è quello di dare indirizzi e di interloquire con il Ministero.
Ritengo particolarmente grave che, da quando è iniziata l'indagine conoscitiva, in aprile, il Ministero non sia potuto ancora venire in audizione.
Desidero inoltre sia messo a verbale che, con queste premesse, ritengo che questa indagine conoscitiva non possa proseguire: il motivo è evidente, sono presente solo io, non occorre spiegare altro.
Pertanto, dobbiamo trovare altre modalità e altri giorni di incontro oppure, come io stessa ho suggerito - possono esserci tante altre modalità -, dobbiamo prenderci una mezza giornata e fare le cose in modo più serio. A me sembra un peccato sprecare un'occasione che impegna risorse e prevede viaggi da parte degli intervenuti.
Io, personalmente, e il gruppo del Partito democratico, faremo la nostra parte affinché l'indagine conoscitiva serva, e so che anche la presidente della Commissione ha la stessa volontà e lo stesso desiderio. Tuttavia, chiedo ufficialmente che venga cambiata la modalità con cui lavoriamo.

PRESIDENTE. Ci tengo a mia volta sia verbalizzato che il Ministero non si è mai rifiutato di partecipare ai lavori relativi all'indagine conoscitiva in corso: ha solo chiesto del tempo. Oggi è stata approvata la riforma della scuola secondaria superiore, quindi hanno avuto altre priorità. Sono al corrente della nostra richiesta; pertanto, prima di chiudere l'indagine, dovremo acquisire i dati da loro forniti. L'audizione dei rappresentanti del Ministero si terrà.


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Le altre questioni attengono all'ufficio di presidenza, per cui prego l'onorevole De Torre di ripetere il suo intervento in tale sede.
Apriamo la nostra seduta sull'indagine conoscitiva relativa alle problematiche connesse all'accoglienza di alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico italiano.
Devo innanzitutto riferire che questa mattina la Commissione ha lavorato per molte ore su un decreto molto delicato e, non essendo previste altre votazioni, molti deputati sono ritornati ai loro collegi. Io, in qualità di presidente, e l'onorevole De Torre, siamo presenti. Attendiamo comunque l'arrivo di altri deputati.
Le vostre testimonianze e i vostri discorsi saranno verbalizzati e, soprattutto, saranno raccolte le vostre memorie. Tutto questo materiale farà parte di uno studio, di un lavoro, di un documento conclusivo dell'indagine conoscitiva che presenteremo alla fine dei lavori. Ciò che conta, in questo momento, è quello che voi rendete alla Camera in termini di esperienza e di comunicazione.
Vi ringrazio di essere intervenuti. Sono presenti: per la Rete G2 Seconde Generazioni, il portavoce dell'associazione, Mohamed Abdalla Tailmoun; per i mediatori linguistici e culturali, la signora Ribka Sibhatu; per il Centro COME, la responsabile dell'area socio-pedagogica, Marina Carta Bussoli; per il Centro internazionale studenti Giorgio La Pira, il direttore del centro, dottor Maurizio Certini; per la Federazione Romanì, il signor Nazzareno Guarnieri.
Do la parola agli auditi per lo svolgimento delle loro relazioni.

MOHAMED ABDALLA TAILMOUN, Portavoce dell'Associazione Rete G2-Seconde Generazioni. Preciso che, per la Rete G2, è presente anche Ezechiele Lurcovich che mi accompagna in questa audizione.
Ringrazio la Commissione per la disponibilità e per averci invitato a questa audizione, importantissima perché ribadisce l'attenzione e l'importanza della scuola come istituzione fondamentale per l'integrazione, l'inclusione e la formazione di nuovi cittadini nella società italiana.
Prima di noi, nelle precedenti audizioni, avete già sentito anche altri tecnici che, come abbiamo visto nel sito della Commissione, hanno informato ampiamente i parlamentari dell'importanza della scuola e delle politiche di integrazione e inclusione di tutti i bambini, siano essi cittadini italiani o meno.
Desidero richiamare l'attenzione della Commissione su un dato fondamentale, che ritroverete nella memoria scritta che abbiamo consegnato: i minori stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2009 sono 862.453. Il 60 per cento di questi bambini, 518.700, sono nati in Italia, quindi sono stranieri solo dal punto di vista della cittadinanza formale, in quanto in Italia non si applica lo ius soli, mentre invece sono da considerare a tutti gli effetti, come i loro coetanei, cittadini italiani.
Partendo dalla constatazione che noi siamo un'organizzazione di figli di immigrati, noi auspichiamo che, nella normativa del Parlamento e nelle successive circolari del Ministero, tutte le persone nate in Italia possano venire considerate cittadini italiani a tutti gli effetti e questo perché, come organizzazione di figli di immigrati, noi pensiamo - e l'abbiamo sempre sostenuto - che il percorso di cittadinanza per un minore deve essere un patto che viene stipulato all'inizio del percorso di vita, per cui si diventa cittadini italiani e si viene considerati come tali se nell'iscrizione a scuola, così come nel contatto con tutte le istituzioni fondamentali di questo Paese, si viene trattati come tali.
Per quanto riguarda il percorso educativo e formativo, l'unica discriminante possibile è quella legata alla cittadinanza formale che, in qualche modo, va superata con una legge ad hoc - credo che il Parlamento si stia impegnando in tal senso - che rimuova tutti i limiti e gli impedimenti per cui tutti i bambini nati o arrivati da piccoli in Italia siano considerati e trattati come cittadini italiani.


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RIBKA SIBHATU, Rappresentante dei mediatori linguistici e culturali. Mi associo al ringraziamento a questa Commissione per l'ospitalità e per la volontà di ascoltare il nostro parere, come primi protagonisti della mediazione culturale ed anche come persone che rappresentano fattori di arricchimento culturale di questo Paese, che amiamo.
Prima si parlava delle seconde generazioni. Ebbene, nonostante io appartenga alla prima generazione, mi sento anch'io italiana e voglio essere considerata tale, perché amo questa terra e contribuisco all'arricchimento di questo Paese nelle scuole.
Penso che, come me, ci siano tante persone che vivono da tanti anni in Italia e che si sentono parte integrante della società. Ci fanno male i fatti spiacevoli che talvolta accadono, e ci fa piacere quando ne accadono di buoni.
Abbiamo anche dei figli e, piuttosto che parlare di prima e seconda generazione, a mio avviso sarebbe più semplice parlare di nuovi cittadini, perché sono nuovi cittadini a tutti gli effetti. Faccio innanzitutto un elogio alla scuola pubblica italiana, perché è il miglior terreno in grado di dare ai bambini interazione e senso di appartenenza e partecipazione.
Desidero sottolineare due punti fondamentali: innanzitutto, la valorizzazione delle culture e delle lingue di origine, perché rendono migliori i nuovi cittadini. Se una persona sente che la sua identità e la sua lingua sono valorizzate - quello che, forse, ad oggi nelle scuole manca - diventa un cittadino migliore e si contribuisce al vero arricchimento culturale.
Un proverbio indiano dice che con i nostri occhi vediamo il mondo intero, eccetto che i nostri stessi occhi, quindi l'altro diventa uno specchio per stare in armonia con noi stessi. Bisognerebbe, quindi, partire da questo concetto e percepire l'altro come elemento positivo.
Nelle nuove generazioni, soprattutto negli adolescenti, sta nascendo la crisi. Già nella mia area tanti adolescenti si sono suicidati, soprattutto rumeni, in realtà più per quello che viene detto nei media piuttosto che per quello che succede nelle scuole.
La scuola è un luogo felice, però ha bisogno anche dell'esistenza di un contorno culturale esterno. Questo è per il bene del Paese, perché ormai in Italia si fanno pochi figli e i nuovi arrivati sono una opportunità.
Ad esempio, quando nelle scuole faccio il gioco dell'astragalo, caro ai romani, qui in Italia, soprattutto nelle grandi città, vedo che è stato dimenticato. Tuttavia, i bambini italiani imparano questo gioco, antico e interculturale per eccellenza, dai nuovi arrivati, e giocano per ore e ore senza comprare giocattoli - bastano cinque sassi - e si divertono.
Questo è un esempio del fatto che l'immigrazione deve essere concepita come ricchezza, non come differenza. In questo modo la scuola viene potenziata. In varie parti d'Italia, a macchia di leopardo, ci sono esperienze positive: occorre valorizzarle, non tagliare le spese.
Una cosa ancora più importante è la seguente: presso la scuola elementare Di Donato, a Roma, è stato istituito un corso di lingua cinese. La maggioranza di bambini è italiana e io penso che, con il progresso dell'economia cinese, questi bambini saranno all'avanguardia grazie ai loro coetanei cinesi, con l'aiuto dei quali stanno imparando la lingua. Forse, nella cooperazione, saranno i primi diplomati che arricchiranno questo Paese e si apriranno all'oriente.
Oltre ad essere molto importante la valorizzazione delle culture di origine, è importante anche l'inserimento dei bambini stranieri, non la loro ghettizzazione, che spesso si sente proporre da parte di alcuni politici irresponsabili.
Faccio un esempio per farmi capire. Mio nipote, per dieci anni, è venuto regolarmente in Italia, dall'Inghilterra; tuttavia, pur essendo rimasto qui per molto tempo, non aveva imparato molto bene l'italiano.
Quando mia sorella si è ammalata, l'ho iscritto alla scuola italiana per tre mesi, aspettando che lei guarisse. Ebbene, al


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terzo mese ha incominciato a chiedere ai suoi compagni, in italiano, i compiti delle cose che non aveva capito bene. Questo significa che l'interazione con i compagni italiani ha accelerato la sua capacità linguistica.
Stiamo attenti, quindi, a non fare queste separazioni, non solo per i bambini, ma per il futuro dell'Italia. Si deve considerare l'immigrazione come un investimento sul futuro del Paese. Non è questione di destra o di sinistra, ma è una questione che riguarda il Paese.

MARINA CARTA BUSSOLI, Responsabile dell'area socio-pedagogica del Centro COME. Il mio intervento avrà un taglio emotivo diverso da quello precedente, che mi è piaciuto molto, e degli altri interventi riguardanti la «fisicità» dell'immigrazione.
Desidero presentare l'esperienza del Centro COME articolandola in quattro punti di riflessione, sui quali vorrei portare la vostra attenzione.
Noi ci siamo incontrati prima dell'audizione, e ognuno di noi cercava di sapere che cos'è il Centro COME. Il nostro Centro è una realtà del privato sociale, che nasce a Milano nel 1994. In quell'anno, a Milano e provincia erano censiti, dall'allora provveditore Martinelli, 3.300 alunni stranieri. Oggi, nel 2010, gli alunni stranieri a Milano e provincia sono 58.999 - a seconda delle statistiche; quindi, in questi 15 anni c'è stata una trasformazione nel territorio in termini di presenze, di luoghi comuni, di fisicità dell'incontro con la diversità.
Il Centro COME nasce a Milano con l'obiettivo di favorire l'accoglienza dei minori e delle famiglie straniere, partendo dalla consapevolezza che, per farlo, bisogna avere la certezza che l'integrazione alla quale miriamo - quello che adesso è realtà, ovvero una società fortemente integrata e al plurale - è un progetto che richiede nuovi saperi, nuove azioni, nuovi strumenti.
È su questo filone che il Centro COME è passato attraverso le tre fasi dell'immigrazione: la prima è stata quella folclorica e benevola, nella quale l'accoglienza era giocata sul mettere in evidenza le differenze, sul chiedere agli immigrati di raccontare il proprio Paese, di farci conoscere il loro alfabeto, e via dicendo. All'inizio degli anni 2000 si è passati ad una fase di maturità, con il bisogno di preparare strumenti e dispositivi e di instaurare buone prassi nelle scuole. Infine, si è giunti all'ultima fase, quella della riflessione sulle buone prassi, al fine di articolare un'attenzione sulla qualità dell'accoglienza.
Il Centro COME si è evoluto in questi 15 anni dando sempre una risposta ai bisogni emergenti, una risposta fatta di buone prassi per le scuole, di distribuzione di materiale - dapprima su supporto cartaceo, poi attraverso il sito Internet - e di una grande attenzione al diritto alla lingua, affinché ogni alunno straniero, nato in Italia o neo-arrivato, potesse fruire di un insegnamento sistematico - quindi di un apprendimento - della lingua straniera, perché è la lingua che ci fa uguali, elimina le discriminazioni e le differenze.
Per questo motivo, bisogna dare sia una grande importanza alla lingua nelle scuole, con i moduli linguistici, sia una grande importanza alla formazione dei docenti, perché solamente docenti altamente formati possono dare efficacia ai moduli di lingua, che devono essere applicati nelle scuole non in modo episodico, ma costante e regolare.
Procedendo sinteticamente per punti, in questi anni sono state fatte alcune cose. Mi piace ricordare, ad esempio, il progetto dei laboratori linguistici estivi, i primi realizzati sul territorio nazionale, costituiti grazie alla rete del privato sociale.
Questi laboratori hanno realizzato dei doposcuola linguistici in estate e nei primi giorni di settembre per i ragazzi stranieri neo-arrivati - sia presso le scuole, sia on-line, in città grandi come Milano - in modo da farli arrivare preparati all'inizio della scuola. Questa attività è stata svolta ad opera del privato sociale coordinato dal Centro COME.
Questi corsi sono stati seguiti, ad esempio, dal progetto «Le mamme a scuola», che è ancora molto attivo a Milano nelle realtà del privato sociale. In questo progetto,


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le mamme con bambini piccoli che ancora non sono iscritti alla scuola materna possono uscire dall'isolamento linguistico e sociale frequentando, al mattino, degli spazi dove i bambini sono tenuti in nursery appositamente strutturate e le mamme frequentano momenti linguistici.
Questa è testimonianza di un grande incontro con le famiglie e con il bisogno reale delle donne immigrate con bambini piccoli. Oltre a questi laboratori, che si tengono presso le scuole, abbiamo portato avanti soprattutto dei progetti territoriali in appoggio degli enti locali, in modo che questi ultimi, chiamati dal decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999 a interagire e a supportare le scuole, potessero intervenire anche con elementi di forza e di qualità.
Riallacciandomi a quanto è stato detto precedentemente, vorrei parlare dei progetti che attualmente il Centro COME sta portando avanti e alle sue priorità, che mi piace sottolineare perché credo che questa sia la sede deputata per dare adeguate risposte politiche.
Tra i progetti che attualmente il Centro COME sta portando avanti - come indicato nella memoria scritta - c'è il progetto «Non uno di meno», realizzato da quattro anni con la Provincia di Milano e rivolto agli adolescenti neo-arrivati della scuola media superiore.
Si tratta di un progetto che si articola in sette azione sistemiche che coinvolgono genitori, dirigenti scolastici, insegnanti e facilitatori linguistici, al fine di costituire dei moduli regolari di lingua italiana nelle scuole medie superiori.
A tal proposito, sono state realizzate delle verifiche che hanno messo in luce come, negli anni, l'aumento delle competenze in lingua italiana ha portato a un aumento di promozioni e a una diminuzione della discriminazione e dell'abbandono e, nello stesso tempo, ha dimostrato come si è rispettata maggiormente l'età anagrafica dei ragazzi.
Se inseriamo i ragazzi nelle classi di scuola superiore e, contemporaneamente, facciamo loro frequentare, in particolari orari, un laboratorio linguistico di cui si tiene conto come credito formativo nella scuola, si osserva che non solo c'è interazione con i loro pari, ma imparano la lingua e, già entro il primo anno, raggiungono il livello B1, che gli esperti ci dicono essere il livello dal quale si può cominciare a conoscere la lingua necessaria per lo studio.
Questo progetto ha coinvolto le scuole ed ha creato una rete on-line, facilmente raggiungibile sul sito della provincia di Milano e del Centro COME.
Questo progetto, oltre ad avere un valore in sé, ha messo in evidenza quali sono oggi i bisogni e le priorità ai quali dare risposta. Ho portato con me alcune memorie, che vi consegno.
Innanzitutto, gli adolescenti, oggi, sono la fascia più a rischio - in particolare i neo-arrivati - perché hanno delle sfide da superare: l'incontro con i loro pari senza possedere lo strumento della lingua, il legame all'interno della famiglia, l'inserimento in un sistema scolastico che non conoscono, essere sulla via dell'adultizzazione nel proprio Paese e dell'infantilizzazione qui, non essendo padroni della lingua.
Fondamentalmente, osservando quanto emerso dal nostro progetto possiamo dire che, innanzitutto, dobbiamo contrastare l'orientamento discriminatorio: i ragazzi stranieri frequentano tutti istituti professionali o tecnici, appesantendo la situazione di questi istituti e non sempre rispondendo alle aspettative degli stessi ragazzi o dei genitori.
Le ricerche di cui disponiamo dimostrano che i genitori hanno un tasso di scolarità molto alta: l'immigrato adulto, in Lombardia - ma anche in Italia, a seconda delle regioni - ha un tasso di scolarizzazione percentualmente maggiore di quello del cittadino italiano. Purtuttavia, i loro figli seguono tutti percorsi più precari, che lo diventano ancora di più nel momento in cui l'appesantimento negli istituti tecnici e professionali porta a un indebolimento della proposta didattica.
Abbiamo detto, quindi, che occorre focalizzare l'attenzione sull'orientamento discriminatorio, ma anche sull'insuccesso


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scolastico, sugli abbandoni e sulla necessità di spazi aggregativi extra-scolastici che si mettano in collegamento con la scuola.
A tale scopo abbiamo costituito, insieme al Comune di Milano, il progetto «Culture in comune», che mappa tutti quegli spazi, del privato sociale e delle istituzioni, in grado di accogliere i ragazzi negli spazi extra-scolastici. La professoressa Graziella Giovannini, dell'Università di Bologna, nel 1998 ha scritto un libro, pubblicato dalla Fondazione Iniziative e studi sulla multietnicità (ISMU), dal titolo Alunni in classe, stranieri in città. Ebbene, ancora oggi, rispetto agli alunni stranieri possiamo dire la stessa cosa.
Le priorità sono: mettere a sistema le buone pratiche, perché non possono essere abbandonati progetti che hanno dato esiti positivi; garantire il diritto allo studio soprattutto ai ragazzi neo-arrivati di 14 anni, che vagano da una scuola all'altra in quanto non si sa quali sono i titoli di studio; proporre norme chiare, che diano indicazioni ma tolgano la scuola dalla discrezionalità; garantire il diritto alla lingua, coinvolgere le famiglie e istituire percorsi di cittadinanza per tutti. Se ho sforato di qualche minuto, me ne scuso.

MAURIZIO CERTINI, Direttore del Centro internazionale studenti Giorgio La Pira. Ringrazio dell'invito e di avermi dato questa occasione. Vorrei presentare sinteticamente la realtà del Centro La Pira. Ho lasciato una memoria scritta, ma ho altro materiale da depositare: un libro di glottodidattica, che per noi è fondamentale, un testo di informazione per gli stranieri sulla Costituzione italiana, e altre cose.
In quasi 32 anni di attività, oltre 30.000 giovani adulti provenienti da tutto il mondo hanno frequentato i corsi di lingua italiana presso il nostro Centro, che è un'istituzione voluta nel 1978 dalla diocesi di Firenze e sostenuta prevalentemente da attività di volontariato, sebbene con un minimo staff formato da personale dipendente.
Il Centro dispone di 100-150 soci volontari fra cui 50 insegnanti, quattro dipendenti, alcuni collaboratori occasionali, due giovani laureande in servizio civile e un insegnante statale di ruolo comandato presso l'ente.
Annualmente si iscrivono ai nostri corsi dai 1.000 ai 1.300 giovani e adulti di età compresa tra i 19 e i 50 anni. Dobbiamo rilevare - come si diceva prima - un significativo aumento delle presenze di soggetti in possesso di titolo di studio medio-alto.
Nel corso del 2009 abbiamo avuto una presenza prevalente di persone dall'est europeo, seguita da filippini, latinoamericani, cinesi - ma questo è un dato locale - e, in misura minore, da molti altri Paesi. Il 46 per cento possiede un titolo universitario, il 36 per cento possiede un titolo di scuola media superiore, il 12 per cento di scuola media inferiore.
A Firenze, nel tempo, sono sorte altre scuole di volontariato per immigrati adulti, che svolgono una preziosa opera sociale. Non sono, tuttavia, strutturate come la nostra e sono frequentate da persone mediamente meno acculturate e più marginali.
Le attività culturali, interreligiose, editoriali, educative, di aggregazione in genere ed anche di cooperazione internazionale svolte dalla nostra associazione sono numerose, e si sviluppano attraverso un'ampia rete di collaborazione e sostegni, soprattutto a livello cittadino ma anche regionale e, in taluni casi, nazionale e internazionale.
Ritornando alla lingua, perché di questo si parla, il metodo dell'insegnamento della lingua italiana del Centro internazionale studenti La Pira di Firenze nasce con gli adulti: dal 1978 il centro sperimenta un percorso di insegnamento della lingua italiana come lingua seconda, in virtù del quale gli apprendenti acquisiscono gradualmente autonomia.
Ci siamo preoccupati di trasmettere, attraverso la lingua, un metodo di studio e, in tal senso, il presupposto è che ognuno, a qualunque età, possieda la capacità di imparare, se viene messo in condizioni adeguate e personalizzate per farlo.


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Riteniamo che non sia possibile proporre un modello unico di insegnamento, dal momento che spesso ci siamo trovati a operare di fronte a persone di diversa lingua madre e molto differenti per cultura - in senso antropologico - grado di istruzione, esperienze di vita.
Possiamo dunque definire le classi del centro La Pira come caratterizzate da abilità differenziate. Del resto, tutte le classi sono così, anche nella scuola pubblica.
Questo ci ha orientati al recupero di varie esperienze educative e didattiche tra cui, in particolare, quella riconducibile a Don Milani e alla scuola di Barbiana. Tali esperienze indicano, come strategia, il lavoro di gruppo, in virtù del quale ciascuno ha la possibilità di esprimere al meglio le proprie potenzialità comunicative, quindi di «dare», e al contempo di colmare le proprie lacune, quindi di «ricevere» da tutti.
L'originalità dei corsi di lingua presso il centro La Pira è quella di promuovere permanentemente la riflessione interculturale senza superficialità, senza folklore, come occasione di reciproca conoscenza e favorendo l'esperienza alla convivenza civile, che orienta all'interesse per la vita della città nella quale si vive e alla cittadinanza attiva e partecipata.
L'originalità del nostro metodo è dunque, innanzitutto, quella di aver adattato agli adulti stranieri esperienze nate per i minori. Ad un certo punto, però, è accaduto il contrario: da vari anni facciamo attività nelle scuole, percorsi formativi rivolti ai minori e percorsi di formazione per docenti sulla glottodidattica e sulla facilitazione e semplificazione dei testi. Prendendo spunto dalle esperienze nate per i minori, le abbiamo adattate agli adulti e adesso le riproponiamo per i minori in altro modo.
Il centro La Pira è stato nel tempo apprezzato dalle scuole fiorentine per i percorsi di educazione alla mondialità che ha proposto, con il coinvolgimento di studenti universitari stranieri - siamo nati per loro - prima ancora che il Paese vivesse l'esperienza degli attuali flussi migratori, che ormai hanno una dimensione strutturale. Ciò ha permesso di far conoscere diffusamente questa nostra attività educativa molto articolata.
Di fronte al mutare della popolazione scolastica e alla presenza massiccia di alunni provenienti da altri luoghi, a partire dagli anni Novanta molti insegnanti, sentendosi impreparati ad affrontare la nuova realtà, ci hanno chiesto aiuto per la loro formazione.
Abbiamo così adattato questo nostro metodo sperimentato con gli adulti attraverso esperienze sul campo, e proponendoci alle scuole con percorsi formativi dell'italiano come, ad esempio, il corso L2, rivolto ad apprendenti minori per l'approfondimento, anzitutto, della lingua di comunicazione, che è un passaggio obbligato prima di cominciare a operare sulla lingua di studio.
Gli interventi di glottodidattica effettuati - ne abbiamo fatti tanti, almeno in una ventina di scuole nel corso di questi anni - dimostrano quanto forte sia la motivazione dei docenti alla formazione permanente come necessità per affrontare adeguatamente il nuovo (alcuni docenti ci chiedono corsi autonomamente, presentandosi da noi).
Entrando ancora più nel merito, occorre ricordare che è un dato consolidato in letteratura la distinzione tra la lingua di comunicazione - acquisibile, da un ragazzo che viene da altrove, in un contesto di immersione linguistica, in un arco temporale relativamente breve di circa due anni - e la lingua di studio, alla quale chi apprende arriverà dopo aver acquisito e consolidato la lingua di comunicazione per almeno 6-7 anni.
Questa realtà è in evidente contrasto con le necessità e le scadenze dell'inserimento scolastico dello straniero nella realtà scolastica italiana. A questa difficoltà, in questi anni di sperimentazione e collaborazione con enti che ci hanno contattato, si è visto che si può sopperire progettando percorsi formativi per aiutare i docenti a lavorare in classi ad abilità differenziate.


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Ci preme sottolineare il fatto che, più volte, gli stessi docenti coinvolti in questi processi didattici ci hanno riferito che le tecniche consigliate per aiutare gli apprendenti si sono rivelate utili e idonee anche per recuperare lacune di apprendimento in giovani studenti italiani.
I modelli operativi previsti per le classi ad abilità differenziate, nello specifico, prevedono percorsi e strategie di semplificazione e facilitazione, con particolare riguardo alle abilità ricettive del testo orale - comprensione all'ascolto - e del testo scritto - comprensione alla lettura -, e alle abilità linguistiche, indispensabili per poter successivamente padroneggiare le abilità produttive, ovvero il parlato e lo scritto.
Lavorare in classe ad abilità differenziate prevede la predisposizione di percorsi didattici induttivi nei quali gli stessi apprendenti sono coinvolti nella scoperta, fissazione, riutilizzo dei vari contenuti disciplinari. In particolare, sono stimolati ad una reale interdisciplinarità, permettendo a ciascuno di mettersi al servizio degli altri compagni in quegli ambiti in cui ognuno è più forte e, al contempo, di ricevere aiuto in quegli ambiti in cui si è più deboli.
Questa interdisciplinarità prevede il coinvolgimento di tutti i docenti nella progettazione e realizzazione della didattica, e la lingua italiana quale veicolo indispensabile di collaborazione fra gli stessi apprendenti. Il percorso che proponiamo, dunque, mira a diffondere questo valore della interculturalità.
Questi laboratori non sarebbero in contrasto con l'eventuale entrata in vigore della proposta legislativa delle cosiddette classi-ponte. Il Centro è in grado di strutturare laboratori linguistici come intervento didattico a integrazione e rinforzo del quotidiano lavoro in classe; tuttavia, l'obiettivo, in entrambi i casi, è quello di rendere, per il futuro, l'organizzazione scolastica il più possibile autonoma nel gestire l'accoglienza di apprendenti non parlanti la lingua italiana.
I laboratori linguistici, sia nella modalità di classe-ponte che nella modalità di supporto del normale lavoro in classe, dovranno essere inseriti nell'orario scolastico, al fine di non creare disagi per le famiglie. Accanto a questi laboratori, naturalmente, si affianca il corso di glottodidattica, che è essenziale.
L'obiettivo - e ribadisco questo aspetto - dei laboratori e del corso di glottodidattica è quello di fornire all'organizzazione scolastica e ai docenti in essa inseriti strategie, strumenti e materiale didattico da utilizzare anche negli anni successivi, rendendo l'organizzazione scolastica il più possibile autonoma da interventi esterni nell'accoglienza e nell'inserimento degli apprendenti stranieri. Il privato sociale - e noi lo siamo - va bene, è una punta avanzata, serve al nuovo, va avanti; poi, però, è l'istituzione scolastica che si deve far carico delle problematiche.
Naturalmente, i nostri corsi hanno tutti una certificazione di qualità ISO 9001.
Un altro aspetto importante è quello del bilinguismo e del plurilinguismo, tema di grande attualità destinato a diventare sempre più presente nei curricula dei Paesi europei.
In merito al bilinguismo e al sostegno alla lingua materna a partire dalla scuola primaria, abbiamo maturato una piccola esperienza che mostra quanto sia fondamentale che i ragazzi apprendano la propria lingua di origine, la lingua dei genitori, sia per rimanere in contatto con loro e non entrare in crisi nella propria identità e nella propria famiglia, sia perché saranno cittadini italiani potenziali ponti culturali ed economici dell'Italia nel resto del mondo. Bisogna valorizzare questo aspetto, che è fondamentale.
All'indomani dell'11 settembre - la tragedia di New York - la comunità araba fiorentina ha ricevuto alcune lettere minatorie. Sia l'Arcivescovo di Firenze, che il presidente della Regione, che non avevano contatti con la comunità - mentre noi li avevamo da tanto tempo - ci hanno chiesto di essere accompagnati.
Le mamme della comunità ci hanno chiesto aiuto nell'insegnare la lingua araba ai loro ragazzi. Abbiamo iniziato con un pool di mamme laureate - tra l'altro,


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alcune di religione islamica, altre cristiane di Giordania - e, per sette anni, abbiamo promosso questa scuola.
Accanto a questa scuola di arabo, anche la comunità russo-ortodossa ci ha chiesto di fare lo stesso, quindi è stato interessantissimo vedere in questi anni interagire, per feste o negli intervalli, questi ragazzi così diversi eppure così uguali.
Abbiamo stimolato l'istituzione pubblica a farsi carico di questa esperienza, e l'abbiamo fatta transitare in una scuola pubblica, lasciandola e fornendo tutti i nostri supporti.
Vi lascio questo testo, che giudico molto importante, insieme ad una memoria di 12 punti - forse non è il caso che li legga ora - che sintetizzano in modo puntuale le cose che ho cercato di dire.

NAZZARENO GUARNIERI, Presidente della Federazione Romanì. Ringrazio la Commissione per avermi dato l'opportunità di essere ascoltato. Non è facile cercare di presentare in dieci minuti tutta la problematica Rom, perché usciamo dal discorso relativo all'immigrazione.
Sono il presidente di una Federazione che raggruppa organizzazioni e associazioni di Rom e Sinti presenti in molte regioni italiane. Negli ultimi anni si è registrata una grossa crescita dell'associazionismo Rom, che rappresenta la consapevolezza di partecipare.
Io sono un cittadino italiano, non tutti i Rom sono stranieri: il 70 per cento della popolazione Rom e Sinti in Italia è costituita da cittadini italiani.
Vorrei sottolineare una cosa: spesso sentiamo parlare di Rom, di nomadi, di Sinti. Ebbene, l'8 aprile 1971 a Vienna si è tenuto il primo congresso mondiale dell'Union Romanì, l'organizzazione non governativa rappresentata all'ONU per quanto riguarda le popolazioni Rom. In quell'occasione, è stato predefinito l'intero arcipelago Rom in cinque grossi gruppi: Rom, Sinti, Manouches, Kalé e Romanichals, distribuiti in Australia, America, Francia, Italia e resto d'Europa. In Italia abbiamo prettamente Rom e Sinti, anche se in Piemonte abbiamo una parte di Sinti Manouches, che vengono dalla Francia.
Questa era una precisazione doverosa, anche perché la nostra Federazione si chiama Romanì perché in quel primo congresso sono stati anche predefiniti un inno, una bandiera e un nome. Il nome è Popolazione Rom, che raggruppa quei cinque gruppi, suddivisi in Romanì, Romanipè, Romanò e così via, in tutte le varie declinazioni. Questo è il modo corretto di chiamare la mia popolazione.
Io sono cittadino italiano di etnia Rom e la mia formazione umana e professionale inizia con il conseguimento del diploma di abilitazione magistrale e, immediatamente dopo, con un incarico da insegnante precario nella scuola elementare, che mi ha permesso di avvicinarmi molto alla scolarizzazione del bambino Rom.
In quegli anni - parlo della fine degli anni Settanta - fui ricevuto da Papa Paolo VI perché ero uno dei primi Rom ad ottenere un diploma. Successivamente, la mia formazione è continuata incrementando le mie conoscenze seguendo il corso di operatore psicopedagogico presso l'Università dell'Aquila, e facendo numerose sperimentazioni - che proseguono ancora oggi - di mediazione culturale, di istruzione e di laboratori interculturali con la minoranza etnica Rom, in collaborazione con enti locali e istituzioni.
Anche se noi Rom viviamo in Italia da molti secoli, siamo certamente i meno conosciuti, i più disprezzati e coloro con i quali la convivenza sembra più difficile. Io vengo dall'Abruzzo, e in quella regione non c'è un campo nomadi. I Rom rumeni che arrivano in Abruzzo vengono guidati dal privato sociale verso un percorso di accesso ad una civile abitazione, coinvolgendo tutto il territorio.
Senza la partecipazione attiva e propositiva di Rom e Sinti alla vita sociale, culturale e politica, sarà mai possibile conoscere la cultura e l'identità Romanì? La conoscenza della cultura Romanì e il riconoscimento dell'identità culturale, non devono essere il punto di partenza indispensabile per un processo di acculturazione?


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Senza la conoscenza della cultura e dell'identità Romanì, i processi di acculturazione avranno mai successo?
Pongo questi quesiti per sottolineare che, per quanto riguarda la scolarizzazione dei bambini Rom in Italia, non è vero che non si faccia nulla: i progetti sono dappertutto. Essendo presidente di questa Federazione ho modo di visitare le varie associazioni e vedo molti progetti, quindi i finanziamenti per lo svolgimento delle attività, bene o male, arrivano.
Quello che manca sono i risultati. Prendiamo ad esempio il comune di Roma, che impegna circa 2,5 milioni di euro all'anno per scolarizzare 2.000 bambini, ma i risultati sono pari a zero. Questo va avanti da 15 anni e se, dopo 15 anni di progetto, a questi costi, non abbiamo un determinato numero di bambini con un buon livello di scolarizzazione, vuol dire che stiamo sbagliando. Allora perché non cambiare? Perché c'è la volontà di continuare su quella strada.
La partecipazione attiva e propositiva delle professionalità Rom e Sinti, in passato, è sempre stata ignorata. Si è sempre preferito che le esperienze di scambio culturale con la popolazione Romanì fossero definite da altri, che hanno tentato di interpretare la nostra cultura e i bisogni delle persone Rom e Sinti. Questa interpretazione estranea ha prodotto proposte di politica sociale differenziata e di assistenzialismo culturale, i cui disastri oggi sono evidenti a tutti.
Trenta anni fa, quando dicevo «Basta con i campi nomadi, perché non hanno nulla a che fare con la cultura Rom», mi rispondevano: «Sei un bambino, non capisci nulla, il campo nomadi è la risposta abitativa ai bisogni culturali di Rom e Sinti». È una bugia: oggi i campi nomadi sono la nostra tomba, se non usciamo da quella situazione ci troveremo sempre in una condizione molto difficile.
Oggi, il fallimento delle politiche per la popolazione Romanì dimostra che, senza la partecipazione attiva, propositiva e qualificata di Rom e Sinti, ogni iniziativa è destinata al fallimento. Occorre avviare un percorso per creare politiche di scambio reale e di arricchimento reciproco, al fine di condividere progetti e di avere una civiltà aperta, fluida e armoniosa.
Come Federazione Romanì ribadiamo sempre che, all'interno di ogni progetto, deve esserci una professionalità Rom capace di coordinare, monitorare, consigliare e gestire quel progetto.
Per quanto riguarda l'istruzione del bambino Rom, ci troviamo veramente nel disastro più totale. Una delle ultime indagini del Ministero dell'istruzione, risalente al 2000-2001, forniva questi dati (non ho i numeri precisi sottomano): nelle scuole medie, circa l'87 per cento dei bambini Rom era in dispersione scolastica. Questo è inaccettabile. Di fronte a questo dato è indispensabile fare qualcosa, intervenire in qualche modo.
Spesso i progetti riguardanti i Rom si occupano solo della frequenza, ignorando totalmente il successo del progetto educativo quasi che l'obbligo scolastico fosse solo finalizzato alla frequenza e non al raggiungimento del grado di obbligo scolastico.
Per quanto riguarda le mie esperienze all'interno della scuola, ho maturato alcuni esempi molto significativi con altri collaboratori, con altri Rom e altri Sinti che hanno un'esperienza qualificante, un profilo professionale. Spesso si utilizza il Rom solo in quanto tale, lo si manda nella scuola a fargli fare il mediatore culturale e magari non sa leggere né scrivere. Anche in questi casi, bisogna puntare su un discorso di qualità e di professionalità.
Le esperienze ci sono, ma quello che manca - e di cui purtroppo dobbiamo prendere atto - è la volontà politica, nazionale e locale, di intervenire con determinazione su questo argomento.
Abbiamo tutti gli strumenti professionali e tutte le risorse umane da mettere a disposizione per raggiungere gli obiettivi, non solo per lavarci la coscienza ricorrendo teoricamente a dei diritti riconosciuti.
Vi illustro le nostre proposte. Sicuramente, occorre un piano nazionale di formazione dei docenti, che della cultura


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Rom non sanno nulla, vanno a tentoni, e questo è uno dei problemi più grossi della scuola.
Quando una scuola ha uno, due o dieci bambini Rom iscritti, la prima cosa che fa è quella di chiamare le nostre associazioni chiedendo di darle una mano. In quel momento possiamo sicuramente intervenire. Tante scuole, invece, non ci chiamano, non ci dicono nulla, il bambino viene «parcheggiato», la dispersione scolastica è dietro l'angolo.
Non a caso, fino in quarta elementare, cioè fino alla prima parte del secondo ciclo, la frequenze è al 100 per cento, mentre dalla quarta elementare in poi la frequenza è una discesa ripida, ed è lì che occorre intervenire.
Tornando alle proposte, innanzitutto occorre affrontare il discorso di un piano di formazione per gli insegnanti. In seconda battuta, proponiamo la costituzione di un osservatorio nazionale, con osservatori regionali, in collaborazione con le organizzazioni Rom presenti in quel territorio, per monitorare tutto il percorso di scolarizzazione.
Oltre al piano nazionale di formazione per gli insegnanti, proponiamo che si sostengano delle sperimentazioni. Noi, ad esempio, stiamo sperimentando molto la homeschooling, la famosa scuola in casa, tenuta da genitori o altre figure di riferimento, che in America sta dando grossi successi per quanto riguarda il contrasto alla dispersione scolastica. I risultati sono veramente eccellenti, ma ogni volta che la proponiamo ci tagliano le gambe, perché «il bambino deve andare a scuola».
Io faccio questo ragionamento: devo mandare il bambino a scuola, perché è un suo diritto. Ma se poi questo bambino, a scuola, non ha la possibilità di impossessarsi dell'istruzione, che cosa faccio? Se, invece, posso creare una soluzione diversa affinché quel bambino possa istruirsi per evitare di essere escluso, credo che questa possa essere una cosa positiva.
Attualmente, per non discriminarlo lo discrimino due volte, creo oggi il presupposto per essere discriminato domani.
Proponiamo il sostegno di sperimentazioni mirate. Tra i progetti europei, ho lavorato con la Spagna, dove un gruppo di Rom, insieme a dei docenti, produce del materiale interculturale ad hoc, che il Ministero distribuisce alle scuole.
Noi sappiamo che il bambino Rom è un bambino che appartiene ad una cultura di tipo orale, una cultura totalmente diversa da quella italiana. Sicuramente ha dei processi cognitivi e affettivi diversi dagli altri bambini.
Producendo del materiale didattico specifico - come abbiamo fatto, con piccole sperimentazioni, a Reggio Calabria o a Padova -, abbiamo visto che il bambino, alla fine della prima elementare, sa leggere e scrivere. Col materiale didattico normale, invece, il bambino non sarà in grado di leggere nemmeno in quinta elementare.
Infatti, il dato che ci spaventa è che molti bambini Rom arrivano in quinta elementare e, nonostante l'aiuto dell'insegnante di sostegno, non hanno acquisito le abilità di base ossia leggere, scrivere e fare i conti. Ci sono bambini che, in quinta elementare, non sanno leggere e scrivere.
Ci auguriamo che questi incontri possano essere il modo per iniziare a capovolgere la situazione e intervenire su quei bambini che, se non vanno a scuola, non possono far altro che stare al semaforo a chiedere l'elemosina e, domani, andare a rubare.

PRESIDENTE. Do ora la parola agli onorevoli deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIA LETIZIA DE TORRE. Vorrei innanzitutto ringraziare gli intervenuti, perché dietro le parole che abbiamo ascoltato c'è tanta vita, tanta esperienza e tanta competenza.
Sarebbe bello poterci mettere all'opera insieme per portare avanti quello che ci avete segnalato e quello che intuiamo. Speriamo che, alla fine di questa indagine conoscitiva, si possa arrivare ad un documento di indirizzo che contenga tutto ciò che ci avete segnalato.


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Vorrei ora porre qualche domanda. Chiedo, innanzitutto, ai centri interculturali: se fosse qui presente il Ministero dell'istruzione nella sua massima guida, che cosa suggerireste di fare?
La mia impressione - ditemi se è corretta - è che ci sia molta ricchezza di esperienza che, come diceva il professor Certini, non viene istituzionalizzata, nel senso che non viene acquisita strutturalmente dalla scuola.
Con riferimento a questo problema, affinché le vostre non siano solo buone prassi isolate, che cosa suggerireste al Ministero dell'istruzione?
Alla signora Ribka Sibhatu, mediatrice culturale che, quindi, interagisce direttamente con le istituzioni scolastiche, vorrei chiedere quali reputa siano i punti di forza, i punti deboli, gli errori delle istituzioni, delle singole scuole, delle singole autonomie scolastiche, nell'affrontare questi problemi.
Ai ragazzi dell'Associazione delle Seconde generazioni, che ringrazio, chiedo in che modo la loro Associazione immagina di poterci aiutare. Ci avete segnalato un quadro importante sulla cittadinanza, su cui siamo tutti d'accordo. Bisogna che troviamo una strada per accelerare questa base di civiltà.
Riguardo alla scuola, da cui voi siete passati, vorrei sapere se, secondo voi, potreste aiutarci a capire quali sono gli errori che compiamo nell'approcciare i ragazzi, soprattutto gli adolescenti delle scuole medie inferiori e superiori, e quali invece sono state le cose che giudicate positive.
Non vi chiedo di dircelo adesso, perché ci vorrebbe tutto il pomeriggio, ma vorrei sapere se pensate di poter meglio aiutarci in questo aspetto.
Per quanto riguarda l'intervento del presidente della Federazione Romanì, rivolgo a lui un ringraziamento particolare: avrei voluto che l'intero Parlamento avesse potuto ascoltarla, perché credo che abbiamo un approccio totalmente sbagliato verso le minoranze Rom e Sinti del nostro Paese. Ad essere sincera, non so che domanda fare. Credo solo che, con verità e urgenza, dobbiamo incominciare a fare qualcosa, quindi l'impegno è a interagire ancora.

ROSA DE PASQUALE. Ringrazio tutti gli auditi. Mi dispiace di essere arrivata in ritardo, ma stavo seguendo una scuola del quartiere San Giovanni, si sono accavallati gli impegni.
Ho potuto ascoltare solo gli ultimi due interventi, e vorrei chiedere una cosa al presidente della Federazione Romanì. Sicuramente, la nostra conoscenza del mondo Rom e del mondo Sinti è molto scarsa: le conosciamo come persone abituate a vivere in una società nella quale non sono viste in modo molto positivo, e ne abbiamo una conoscenza molto superficiale.
Mi chiedevo, visto che ci sono associazioni come la sua e sicuramente ce ne saranno anche altre, se non sarebbe particolarmente proficuo fare un po' da ponte fra la cultura Rom e la scuola.
Io abito a Firenze, dove tantissime scuole hanno una grande accoglienza nei confronti dei Rom. Tuttavia, probabilmente per mancanza di formazione dei docenti, come lei diceva, ci sono insegnanti anche molto in gamba che non riescono a penetrare. Tante volte ci si chiede se non siano i Rom che vogliono rimanere nei campi nomadi.
Forse, allora, ci sarebbe davvero bisogno di conoscere meglio queste culture. Io non so come si potrebbe fare: la scuola è sicuramente un mezzo, ma non può avere moltissima flessibilità perché deve seguire anche tutti gli altri ragazzi, gli insegnanti hanno un orario di servizio, il discorso diventa difficile.
Forse, allora, il pre-sociale e il pre-istituzionale potrebbero essere un buonissimo terreno, anche attraverso l'aiuto delle seconde generazioni, ad esempio, affinché si metta in moto un meccanismo grazie al quale la scuola, che ha le sue rigidità, possa riuscire a drenare.
Mi sembra, però, che ci siano ancora troppa differenza e troppa lontananza, e che sia necessario un ponte reale fra queste due cose. Non so come si potrebbe


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fare ma, per essere realisti, bisognerebbe farlo.
Al dottor Certini vorrei chiedere, in base all'esperienza che gli riconosco, come realizzare la possibilità di insegnare l'italiano senza creare le classi-ponte ma mantenendo la presenza dei ragazzi all'interno delle classi, consentendo un proficuo insegnamento dell'italiano senza levare i ragazzi dalla scuola.

PRESIDENTE. Anch'io vi ringrazio. Quando predisporremo il documento conclusivo dell'indagine, cercheremo anche noi di fare le nostre proposte al Governo affinché questo lavoro possa essere di stimolo anche ad una migliore legislazione, con riferimento all'integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana.
Mi preme tuttavia chiarire due cose e chiedere a voi alcune precisazioni, anche per avere un feedback. Per quanto concerne i ragazzi di seconda generazione, io condivido quello che diceva la signora Sibhatu: non sono di seconda generazione, sono i nuovi cittadini.
Non c'è dubbio che siano più favoriti e agevolati rispetto ai loro genitori o ai loro nonni che, magari, hanno vissuto maggiori difficoltà; tuttavia, proprio per questo non vanno neanche lasciati al loro destino. Noi abbiamo conosciuto e fatto audizioni ai rappresentanti di realtà dove ci sono grandi concentrazioni di questi ragazzi, che sono nati in Italia ma che non riescono a integrarsi anche perché, come sapete, ci sono interi quartieri che, di fatto, ripropongono le realtà di provenienza, e dove la lingua principale non è l'italiano ma torna ad essere la lingua d'origine.
Se questo può essere un fatto positivo in assoluto, perché ovviamente ci dà anche una dimensione di interculturalità e di internazionalizzazione, dal punto di vista dell'apprendimento, invece, crea problemi.
Ora, io vedo qui dei giovani più che esperti anche nella lingua, e questo mi fa piacere: voi sicuramente siete cittadini italiani, immagino che andrete anche all'università o che, comunque, avrete le vostre professioni, i vostri mestieri.
I bambini che vivono, invece, questa doppia identità culturale, vengono esposti quotidianamente a varie difficoltà anche sul piano delle prestazioni, perché si parla di impegno culturale, di studio, di espressione e di comunicazione.
Io condivido con voi tutta la parte relativa all'integrazione dal punto di vista umano, delle relazioni, della socializzazione; vorrei, però, interessarmi un po' di più al successo scolastico e formativo, quindi a quello che noi, a scuola, chiamiamo profitto.
Supposto che noi dobbiamo occuparci della prima integrazione, è la seconda che non ci viene bene, ed è su questa che dobbiamo lavorare, perché anche quando i nuovi cittadini si inseriscono nelle realtà scolastiche, nelle classi italiane con pochi o tanti bambini italiani, non riescono ad avere quel successo formativo che ci aspetteremmo da bambini nati in Italia.
Dunque è questo il punto: capire come migliorare gli apprendimenti e le prestazioni di questi alunni. Oltre all'esempio di Roma, io conosco tanti casi anche a Milano: c'è una povertà linguistica, c'è un problema, ovviamente, anche di identità e di integrazione, ma anche proprio di apprendimento e di insuccesso scolastico e formativo.
Credo che sia questo ciò che ha spinto il Ministro a prevedere delle quote nelle classi, che significa favorire di più la personalizzazione, l'individuazione dei percorsi.
Ai mediatori culturali, piuttosto che ai centri, diciamo di sostenere le scuole rispetto a un fenomeno che non governiamo, e che finora abbiamo subìto. Come la dottoressa ricordava, sono state introdotte delle quote di alunni con cittadinanza non italiana, i quali sono cresciuti enormemente.
A questo, io aggiungo il problema della concentrazione in determinati luoghi, concentrazione che, se nelle aree metropolitane può essere un vantaggio - ma a volte neppure tanto, perché si creano dei quartieri-ghetto -, in altre zone come il nord


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est o il nord ovest abbiamo altissime concentrazioni di immigrati in paesi molto piccoli.
Pensate alla Pedemontana, a Bergamo, Brescia, Treviso, Verona e tutta quella zona: è nella provincia di quei paesi, non nelle città, che ci sono altissime concentrazioni di bambini e di cittadini non italiani, e questo costituisce proprio un problema.
Ecco perché nascono le quote; le classi-ponte non significa che i bambini debbano vivere fuori dalle classi (cosa che, d'altra parte, fanno già).
Per i ragazzi adolescenti che arrivano in corso d'anno, le scuole che possono avvalersi di centri di mediatori fanno comunque un'integrazione linguistica, e questo è giusto. Si proponeva tuttavia, come è stato fatto in altre parti d'Europa - ma non so quando potremmo organizzarlo -, di dare un minimo di strumenti a questi ragazzi che arrivano in corso d'anno da altri Paesi, e che vengono comunque inseriti solo in base all'età anagrafica.
Talvolta, nel loro inserimento si sconta un anno ma, se nei Paesi d'origine hanno superato bene le difficoltà previste dalla classe precedente, non è neanche giusto che ripetano l'anno con la scusa che devono imparare l'italiano.
Sarebbe invece più giusto accompagnarli con una fase di full immersion e poi, man mano, inserirli nella classe giusta, naturalmente con ulteriori supporti e aiuti.
A mio avviso, rispetto a quanto finora la scuola italiana e i centri per l'integrazione hanno fatto, siamo abbastanza maturi per studiare migliori misure di integrazione e superare la gestione burocratica del fenomeno.
Attualmente, una volta che i ragazzi sono inseriti, la scuola telefona ai centri per procurarsi i mediatori, ma questo avviene sempre dopo: prima c'è l'iscrizione, prima si formano le classi, e dopo si corre ai ripari. Io credo che anche i docenti italiani potrebbero dare il meglio, potrebbero prestarsi in un modo migliore, se ci fosse un governo preventivo del fenomeno, proprio insieme a voi. Escludo che possa farlo la scuola da sola.
Credo che il governo territoriale del problema debba precedere anche l'iscrizione; ecco perché, con l'aiuto di genitori come voi, che hanno responsabilità nelle associazioni e conoscono le famiglie, è bene che se ne parli prima dell'iscrizione e che si decida prima qualcosa sul futuro di questi ragazzi.
Penso, ad esempio, al passaggio dalla scuola del primo ciclo al secondo ciclo perché, come abbiamo sentito - ma lo sapevamo già -, gli istituti professionali e tecnici stanno di fatto vivendo concentrazioni impossibili di questi studenti, che provengono già da una scolarità non brillante (non in tutti i casi, ma qui parliamo dei problemi, non delle soluzioni di successo).
Così facendo, va a finire quindi che anche l'istruzione professionale, statale piuttosto che regionale, diventa il luogo dove poi nascono altri problemi, sempre con riferimento al successo scolastico. Per questo motivo, abbiamo bisogno di creare innanzitutto un'integrazione tra adulti, ovvero tra i soggetti responsabili, ed è per questo motivo che vi chiedo se le vostre esperienze vi parlano già di tali possibilità di azioni preventive, e secondo voi cosa è più efficace.
La classe-ponte, quindi, serve solo in alcuni casi, solo quando avremo le risorse - al momento, non mi sembra che ci siano - e solo per agevolare l'inserimento nel giusto modo.
I ragazzi nati qui parlano due lingue e vivono due culture contemporaneamente. Pensate anche solo all'alimentazione: anche in questo abbiamo fatto molti passi in avanti nella scuola italiana e non ignoriamo questo problema; è bello quando l'integrazione si vede anche nelle mense scolastiche. Ciò non toglie che, a mio avviso, si debba avere come obiettivo il governo del fenomeno in modo preventivo.
Vorrei saper se, rispetto alle proposte che sono state qui ricordate, avete qualche soluzione che, a vostro avviso, possiamo suggerire al Governo.


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Io penso che anche gli accordi di rete con i comuni e con le associazioni siano strade già sperimentate che dovremmo seguire con consapevolezza, mentre mi pare che, invece, fino ad ora la scuola abbia fatto delle scelte in maniera autonoma, seguendo vie più burocratiche e stentando un po', soprattutto rispetto agli apprendimenti.
Vorrei capire, inoltre, in merito agli apprendimenti, se voi avete altre soluzioni oltre ad una maggiore conoscenza della lingua italiana e a un numero equilibrato tra studenti nati in Italia, anche da genitori italiani, e alunni con cittadinanza non italiana. Come facciamo a favorire il miglior successo formativo di questi ragazzi?
Do la parola agli auditi per la replica.

NAZZARENO GUARNIERI, Presidente della Federazione Romanì. Mi avete chiesto in merito alla conoscenza della cultura Romanì. Non a caso ho preparato una memoria di una quindicina di pagine, che non ho avuto modo di leggervi per intero. Forse, se lo facessimo, potremmo entrare nel mondo Rom, perché ho fatto una cronistoria.
Parto da questo esempio: qualche mese fa, insieme ad altre 27 organizzazioni del Tavolo nazionale immigrazione, siamo stati dal Presidente della Repubblica, a consegnargli una raccolta di firme contro il razzismo. Su 27 rappresentanti, 24 erano cittadini italiani. Con questo voglio dire che c'è un deficit di partecipazione molto forte, anche a livello istituzionale. Se non c'è una partecipazione diretta accanto ad altri italiani impegnati su questa tematica, la conoscenza non avverrà mai.
Io lavoro molto nelle scuole: c'è tanta intercultura, ma credo che siamo ancora ad un'intercultura convenzionale, non c'è ancora quella vera, viva. Ogni cultura ha il suo «non detto». Nella mia cultura ci sono molte cose non dette che io, che appartengo a quella cultura, conosco, ma che un altro dall'esterno può leggere, capire, interpretare, ma non trasmettere.
Per prima cosa, la conoscenza avviene attraverso una partecipazione attiva e propositiva, e questo è fondamentale, non vale solo per i Rom. Avendo lavorato molto all'interno di quel Tavolo nazionale, io ritengo che su questo ci sia un deficit anche per quanto riguarda l'immigrazione.
Fare da ponte, ma come? Io le faccio un piccolo esempio: ultimamente abbiamo fatto una proposta ad un comune che spende 13 milioni di euro per gestire i campi nomadi. Gli abbiamo suggerito di utilizzare i 13 milioni per costruire case. I campi nomadi li autogestiamo noi, Federazione, gratis, utilizzando i Rom. La finalità è smantellarli man mano, inserendo i Rom chi nella casa in affitto, chi nella casa di proprietà. Io sono convinto che almeno il 50 per cento dei Rom che vivono nei campi nomadi può comprarsi casa.
Questo comune ha rifiutato: ha convocato un Tavolo Rom al quale non partecipava una sola organizzazione Rom, quindi come facciamo a fare da ponte senza una collaborazione con gli enti locali e con il Governo nazionale?
La Federazione Romanì è nata per collaborare con l'istituzione nazionale e locale nel consigliare, nello stimolare e nel dare tutte le informazioni utili per una politica giusta di integrazione.
La sensibilità degli insegnanti è altissima, sono un uomo della scuola e riconosco alla scuola una grossa attenzione, però spesso solo l'attenzione non è sufficiente, ci vuole professionalità quando si ha a che fare con le relazioni umane, non è solo una questione di emozioni.
Come si può fare per conoscere? È il discorso della partecipazione. Noi, come Federazione Romanì, stiamo cercando di creare delle Accademie della cultura Romanì in tutte le regioni. È un nostro progetto ambizioso, che stiamo cercando di portare avanti in quattro o cinque regioni, con la Fondazione ANCI, per creare una prima sperimentazione di diffusione della conoscenza.
Quanto al successo scolastico, condivido moltissimo quel che dice la presidente: la scuola deve puntare non alla frequenza ma al successo scolastico. Il modo in cui farlo dipende sicuramente


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dalla partecipazione, quindi conoscendo di più quella cultura; ma è anche importante la produzione di materiale didattico innovativo e diverso, perché i processi di apprendimento delle diverse culture sono diversi e se noi non produciamo del materiale ad hoc per il bambino di ciascuna cultura, è chiaro che non andiamo da nessuna parte.
Per l'interculturalità bisogna fare ancora molto: stiamo facendo molto, i centri stanno facendo molto, le sperimentazioni sono veramente molto ricche.
Per l'integrazione linguistica io posso dire questo: i bambini Rom, ogni giorno, perdono un pezzettino della propria lingua. Io conosco bene la mia lingua, quindi imparo più velocemente anche le altre lingue. Spesso l'immigrato, il bambino Rom, perde parte del bagaglio della propria lingua e automaticamente diventa più difficile acquisirne anche un'altra.
Io credo, quindi, che sia molto importante investire sull'arricchimento della propria identità culturale di origine come punto di partenza, senza cancellarlo, per poi arricchirsi di altro.

RIBKA SIBHATU, Rappresentante dei mediatori linguistici e culturali. Oltre alla condivisione di ciò che è stato già detto, vorrei aggiungere altro. Il mondo della scuola non è un contesto estrapolato dalla società. Io vedo che, durante le campagne elettorali, ad esempio, l'immagine dell'immigrazione è descritta in termini negativi. La maggior parte delle persone guarda molto la televisione e non ha dimestichezza con la complessità del fenomeno. Di conseguenza, tanto danno arriva anche dall'esterno.
Io invito, quindi, chi parla di immigrazione ad avere consapevolezza del fatto che, parlando in termini negativi degli immigrati, magari avrà più voti in quel momento preciso ma rovinerà il futuro del Paese. La scuola, quindi, deve essere unita al contesto sociale. Della questione dell'immigrazione non bisogna parlare irresponsabilmente durante le campagne elettorali, ma risolverla sul terreno dell'agire concreto.
Invoco quindi una maggior sensibilizzazione dei media: questo tema è complesso e, con altrettanta complessità e attenzione, deve essere curato, perché influisce sull'immaginario in questo bel Paese, che pure produce il 20 per cento del volontariato. Adesso, un po' per la crisi, un po' per tutto quello che si sente, chi non conosce il fenomeno, si spaventa.
In secondo luogo, penso che occorra fare entrare seriamente nelle scuole la globalizzazione. Ultimamente, ad esempio, i libri di testo cominciano ad inserire nelle immagini dei bambini di colore; fino a due anni fa questi strumenti, che magari sembrano banali, non c'erano, e un bambino di colore poteva sentirsi escluso. Indirettamente, anche questo è uno strumento di integrazione.
Poi viene la storia: la storia italiana, nel bene e nel male, viene in parte ignorata. Ad esempio, tanti non sanno cosa sono state veramente le leggi razziali. Occorre conoscere la propria storia anche per evitare di ripetere gli errori del passato; bisogna quindi tornare indietro e fare un'analisi critica, ma nei libri di testo delle scuole io non riesco a capire realmente cosa è stato il colonialismo italiano. Occorre quindi prestare maggior attenzione e spiegare realmente cosa è accaduto.
Ciò che adesso manca è la continuità delle politiche. In Italia si fanno tante cose belle, che però si interrompono. Faccio un esempio: nel precedente Governo c'era l'Osservatorio nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e per l'educazione interculturale del Ministero della pubblica istruzione, che ha prodotto il documento «La via italiana per la scuola interculturale e l'integrazione degli alunni stranieri», che ora non esiste più. Per le buone prassi, manca la continuità. A prescindere dal colore del Governo, le cose buone dovrebbero essere riprese dal Governo successivo, per il bene del Paese. Questa discontinuità nella politica porta anche discontinuità nelle politiche sociali che si riflette poi a livelli più bassi.
La formazione dei docenti, ovviamente, è importante, ma bisogna anche inserire i nuovi cittadini in un contesto in cui possano


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contribuire con la loro cultura non scritta e non detta, rendendoli protagonisti e diretti interessati anche in prima linea.
Per un bambino, vedere a scuola un insegnante nero deve essere normale. Io non ho mai visto una maestra nera o cinese a Roma, e mi chiedo come mai. Facendoli protagonisti dei loro destini, si diventa più credibili: con la loro stessa presenza, elimineremmo tanti pregiudizi.
Vedo tanti convegni che parlano di immigrazione ma non vi partecipano immigrati: questo è contraddittorio. Inseriamoli, così siamo anche più credibili in merito a quello che diciamo. Occorre far entrare in tutti i settori i nuovi cittadini, dare loro delle opportunità, così che possano contribuire facilmente a questo processo, semplicemente lavorando.
Un altro problema riguarda l'irregolarità dei progetti: le mense interculturali a Roma c'erano, e adesso non ci sono più. Non si deve parlare solo di continuità, ma anche di coinvolgimento.
Prima si è parlato dell'esperienza di Milano e della necessità di coinvolgere tutti i genitori e i diretti interessati. Desidero fare un esempio: nel mio quartiere, io e mia figlia aiutiamo i bambini figli di immigrati, i cui genitori non sono in grado di aiutarli a fare i compiti. Ebbene, tutti hanno dieci in italiano, abbiamo ottenuto i massimi risultati ma li abbiamo seguiti da quando erano piccoli, e adesso in quinta elementare danno risultati eccezionali.
Questo è stato fatto in privato, ma si dovrebbe fare a livello nazionale. Ripeto, ci sono buone esperienze in Italia, ma a macchia di leopardo, mentre bisognerebbe farne un patrimonio di tutta la nazione, in maniera capillare, investendo risorse anziché fare tagli alla scuola.

MARINA CARTA BUSSOLI, Responsabile dell'area socio-pedagogica del Centro COME. Le domande poste mettono in luce diversi problemi, ma non credo che in questo contesto riusciamo a focalizzarli tutti. Proseguendo per punti, vorrei sottolineare alcune cose che sono state poste come domande.
Per quanto riguarda i centri interculturali, l'onorevole De Torre chiedeva quali sono le esperienze che vorremmo presentare al Ministro. Innanzitutto, il Centro COME, assieme al Centro Millevoci e ad altri, fa parte di una rete di centri interculturali sul territorio nazionale che hanno elaborato molte memorie scritte - ve ne lascio una del Centro COME -, tutte rintracciabili sui siti. Si tratta di proposte che vanno sottoposte al Ministro, perché devono uscire dalla sperimentazione e devono diventare sistema perché sono state fatte scientificamente, cioè ne sono già stati verificati i risultati.
In base a queste verifiche si è messo in evidenza che se, un tempo, i ragazzi stranieri a 18 anni venivano inseriti in prima superiore, negli anni sono stati inseriti dapprima in terza, poi secondo i crediti formativi del loro Paese e in base alla loro età anagrafica.
Questo è stato ottenuto offrendo moduli di italiano in un insieme di sette azioni sistemiche. Ciò significa che è stato possibile fare dei progetti che hanno ridotto la bocciatura e l'abbandono, e che hanno permesso l'apprendimento dell'italiano e il successo formativo.
A proposito di questo progetto, vorrei darvi un messaggio da parte delle scuole. Quest'anno, il progetto ha subìto un'interruzione di qualche mese perché, trattandosi di progetti che nascono con sussidi stanziati da enti, s'interrompono per mancanza di fondi. Questa non-continuità è terrificante, perché dà un senso di precarietà e interrompe delle aspettative, e credo anche che determini delle frustrazioni.
Nella riproposizione del progetto, le scuole hanno chiesto di attribuire loro finanche meno ore in termini di insegnamento dell'italiano, in quanto, avendo acquistato delle competenze, sono in grado intervenire per loro conto, ad esempio riducendo i curricula o individuando degli obiettivi.
Quello che interessa alle scuole è il coordinamento scientifico, perché è dal coordinamento scientifico dell'esperienza che si traggono motivi di formazione e


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diventano generatori di nuova progettualità, e questo significa saper spendere bene i fondi.
I dati che ho fornito indicano che gli insegnanti raggiunti attraverso il progetto e le attività di sportello sono, in cinque anni, 1.547 a Milano e provincia. Il sito è frequentato da 540 contatti e da 238 persone che utilizzano i materiali. Ogni esperienza non deve finire, ma deve essere generatrice di modelli messi a sistema, altrimenti davvero si buttano via i soldi.
La seconda cosa importante è la qualità dei moduli linguistici, quindi la qualità dell'intervento, la formazione. Sul successo formativo, una ricerca fatta dal Ministero ha messo in evidenza che imparano di più l'italiano i ragazzi che vengono inseriti direttamente nella scuola superiore che non quelli che transitano un anno o due nella scuola media.
Questo cosa significa? Non certo che i ragazzi che transitano nella scuola media siano stupidi. Vuol dire che coloro che transitano nella scuola media, a causa del fatto che la scuola media è particolarmente frammentata nelle discipline e che dà per scontato che il ragazzo sappia un po' la lingua, portano con sé dei deficit linguistici che non colmano più, mentre il ragazzo che viene inserito in prima superiore, se sostenuto da laboratori linguistici, riesce ad acquisire le competenze. Si tratta di una ricerca del Ministero, che io vi riporto.
Questo ci fa pensare che certi insuccessi formativi sono dovuti alla trascuratezza con cui la scuola si avvicina al diritto alla lingua dei ragazzi stranieri: una volta appresa la lingua per comunicare, si pensa che il ragazzo sia in grado di studiare, ma non è così; questo è il buco enorme.
Questi materiali si dividono in due tipologie: i materiali di letteratura grigia, che potete trovare sul sito (c'è anche la valorizzazione della lingua di origine), e i materiali pubblicati, quelli a cui vi rimando affinché, grazie a questo progetto - che, peraltro, è già stato sperimentato in parte a Trento, a Bologna e negli altri centri interculturali insieme alle risorse istituzionali, enti e amministratori - possa diventare sistema e modello, non più buona prassi.
La signora Sibhatu parlava di macchia di leopardo; oggi i sociologi e gli studiosi parlano di localismo dei diritti. Oggi alcuni ragazzi arrivano al successo scolastico perché l'integrazione ormai è un caso, una probabilità, una fortuna, una roulette: capiti nella buona scuola, hai un buon consiglio di istituto, hai un preside che si rende disponibile, hai le risorse esterne, allora sei fortunato. Non dimentichiamo l'importanza degli extra-scuola, ad esempio.
Vorrei parlarvi dell'altro progetto che stiamo portando avanti. Nel 1995 il Centro COME si è interessato al passaggio degli alunni stranieri, erano 3.000, dalla scuola media alla scuola superiore, facendo una raccolta di elementi di indagine, una ricerca qualitativa molto ridotta.
Abbiamo monitorato 100 alunni, pre-iscritti a gennaio, nel passaggio dalla scuola media alla scuola media superiore. Ebbene, alla fine del primo quadrimestre ne abbiamo trovati 25; degli altri 75 non si sapeva più niente. Su 100 ragazzi, 75 erano spariti. Gli altri 25 hanno mollato tutto, tranne 8: di questi, le testimonianze ci dicevano che avevano trovato un bravo preside, una collega o un assistente sociale bravi, insomma qualche figura di riferimento che li aveva aiutati a resistere alle sfide che dovevano sostenere.
Viene da dire che sono molto importanti anche le strutture esterne alla scuola, ovvero i sostegni linguistici e per i compiti, e le aggregazioni per tutti. Occorre quindi un impegno degli enti locali affinché queste cose avvengano, ma non come risposta a un bisogno immediato, bensì come progetto.
Non interessa niente che il Comune di Milano faccia i laboratori estivi affidandoli a una cooperativa e consumando tutto il budget nelle ore, se poi non monitora come devono essere fatti questi laboratori, in modo da verificarne i risultati.
Io direi che non è necessario arrivare alle classi-ponte. La circolare n. 2 sulle quote è bella e impossibile, perché innanzitutto


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dobbiamo capire se si parla di neo-arrivati o di nativi, perché c'è una discordanza tra il direttore regionale della Lombardia e il Ministro, che oggi si incontrano a Roma: secondo il primo, si calcolano tutti; il Ministro, invece, in un'intervista ha detto che si calcolano i neo-arrivati.
A parte questo, c'è una difficoltà oggettiva, così come c'è per le classi-ponte: il Ministero ha i soldi per finanziare queste cose? Personalmente, non le condivido neanche.

PRESIDENTE. È per questo che il Parlamento voleva fare la risoluzione, proprio per trovare i fondi. Di tutto si è parlato, tranne che di questo.

MARINA CARTA BUSSOLI, Responsabile dell'area socio-pedagogica del Centro COME. Se facciamo i laboratori di sistema nelle scuole spendiamo meno, i ragazzi riescono ad avere un rapporto con i loro pari, a capire quali sono i concetti che devono apprendere e a non subire frustrazione, neanche simbolica. Oggi arrivano con dei bei piani di studio: dall'Europa dell'Est, ad esempio, arrivano con ottimi piani di studio certificati, che spesse volte noi non siamo in grado di valorizzare.
Senza arrivare alla classe-ponte, dunque, utilizziamo le risorse qualificate affinché nelle scuole ci possano essere dei laboratori certi, sicuri, qualificati, con i quali i ragazzi abbiano a che fare.
Conosco delle esperienze nel milanese, ad esempio, dove la scuola si è fatta carico dei ticket per la mensa, in modo da garantire ai ragazzi di poter fare il laboratorio linguistico a scuola nelle ore post-scolastiche, altrimenti non sarebbero rimasti.
La scuola, dunque, ha il pregio dell'autonomia; l'autonomia ha anche il vantaggio che puoi investire in termini creativi e innovativi, ed è su questo che bisogna lavorare affinché i progetti che sono stati fatti vengano messi a sistema.

MOHAMED ABDALLA TAILMOUN, Portavoce dell'Associazione Rete G2-Seconde Generazioni. Noi siamo un'organizzazione nazionale di figli di immigrati nati o cresciuti in Italia e arrivati da piccoli al seguito dei genitori, quindi quando parliamo di seconde generazioni intendiamo tutta la galassia dei figli dell'immigrazione, sia quelli come me ed Ezechiele, che siamo arrivati qui da piccoli, sia quelli che sono nati in Italia.
Quando parliamo di integrazione e accoglienza delle seconde generazioni in realtà intendiamo entrambe le componenti dei figli dell'immigrazione.
Come organizzazione nazionale dei figli di immigrati che lavora con le scuole in Italia, quando facciamo i nostri interventi sia di informazione ai figli degli immigrati sui diritti (quindi tutta la parte della legislazione), sia sul futuro, sulle prospettive che si aprono una volta usciti dalla scuola, poniamo sempre alle scuole la questione fondamentale della formazione degli insegnanti.
Una delle questioni fondamentali che, in realtà, riguarda anche le risorse che il Ministero e il Governo dedicano alla scuola, è il fatto che la scuola italiana, istituzione in cui noi siamo cresciuti, troppe volte viene lasciata a se stessa.
Ogni volta ci si chiede in che modo aiutare la scuola e gli insegnanti anche in cose come la questione dell'iscrizione, quasi che il fenomeno dell'immigrazione fosse esploso improvvisamente mentre io, anche se vengo sempre trattato da ragazzo, in realtà ho 36 anni, quindi siamo figli di un'immigrazione che ormai è lontana; i nostri genitori sono ormai anziani, sono stati i nostri nonni ad emigrare in Italia, per cui noi siamo nati qui o siamo arrivati al seguito. È fondamentale non ridurre le risorse dedicate alla scuola e alla formazione degli insegnanti.
Sulla questione delle quote, come si diceva, se ne può discutere quanto vogliamo: se fosse semplicemente una questione tecnica per sostenere la scuola, più che di quote percentuali nette - 30 per cento di cittadini stranieri, nati o meno in Italia, come ha precisato il Ministro, e 70 per cento di cittadini italiani -, anche per le cose che abbiamo sentito e per le


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questioni sollevate dalle scuole bisognerebbe piuttosto differenziare quel 30 per cento di stranieri.
Se in una classe di seconda o terza media mi ritrovo un 70 per cento di cittadini italiani e il 30 per cento di alunni appena arrivati tutti dallo stesso Paese, nella stessa classe, come insegnante mi troverei in difficoltà nel portare avanti la mia missione educativa e nel raggiungere il successo formativo dei ragazzi: sarei in grado solamente di fargli passare gli anni per poi farli uscire dalla scuola.
La cosa che ci rende più perplessi è il fatto che cala dall'alto un regolamento che di fatto provoca - questo è il nostro timore - una discriminazione nell'indicare gli alunni stranieri, siano essi nati in Italia o arrivati da piccoli, come il problema della scuola, come se il problema della missione educativa in Italia e del successo formativo fossero i suoi alunni stranieri iscritti nelle scuole.
A seconda di chi le cita, alcune cifre dicono che sono un numero molto grande, altre - è una ricerca presentata al CNEL l'anno scorso - dicono che in realtà sono 46.000, questi famosi alunni iscritti nelle scuole e non nati in Italia.
Si tratta di una percentuale molto bassa rispetto a tutto quello che avviene nella scuola italiana, che molte volte è lasciata come in trincea mentre invece è una fondamentale istituzione.
Per riprendere l'esempio che faceva la rappresentante del Centro COME, io sono arrivato a Roma molto piccolo, ho fatto le scuole in lingua araba qui a Roma e solo al liceo mi sono iscritto a una scuola pubblica italiana. Sapevo parlare e leggere l'italiano, ma non sapevo scrivere. Nel mio liceo scientifico c'erano insegnanti preparati, risorse adeguate, competenze da mettere in campo, per cui non è stato un problema. Quello stesso liceo oggi non è più in grado di fare la stessa cosa, perché mancano risorse e manca formazione.
Quando mi sono iscritto io, accogliere e formare cittadini all'interno della scuola era considerata una sfida, non un problema; una missione formativa che avevano gli insegnanti, come qualsiasi altra missione. Adesso, invece, con tutto quello che scrivono i giornali e tutto quello che si dice nel dibattito politico, questi studenti vengono bollati come un problema. Io stesso sarei un problema, se mi iscrivessi nuovamente al mio liceo. Con questa osservazione non intendo fare politica, perché non è questo il punto del mio intervento, bensì sollecitare una riflessione.

PRESIDENTE. Nel suo caso si parla di eccellenza, non sarebbe un problema per la scuola, anzi: chissà quante scuole vorrebbero alunni così preparati, magari con la conoscenza dell'arabo e con voglia di studiare.

MOHAMED ABDALLA TAILMOUN, Portavoce dell'Associazione Rete G2-Seconde Generazioni. Io faccio parte di quei 46.000 di cui parlavo prima. A 14 anni, che io fossi destinato a diventare un rappresentante della rete G2 e a fare attività politica nel Paese in cui sono cresciuto non lo potevano sapere né immaginare i miei insegnanti. Semplicemente, la scuola in quel momento faceva il suo dovere quotidiano. Io voglio dire che la scuola pubblica, lontana dai fari e dall'attenzione della stampa, con più risorse e con più formazione è in grado di fare ancora questo lavoro.

MAURIZIO CERTINI, Direttore del Centro internazionale studenti La Pira. Sono molto contento della dimensione nella quale affrontiamo il problema tutti insieme: ci sentiamo tutti partecipi del tentativo di far crescere questo nostro Paese e la scuola in questa direzione.
Il rapporto fra la scuola e il territorio è fondamentale e fa sì che probabilmente, come diceva la presidente, si possa tentare di governare il problema territorialmente in modo preventivo.
Desidero rispondere alla domanda su come migliorare le prestazioni dei bambini nati in Italia. Occorre assolutamente dare dignità e centralità alla scuola; il personale è diffusamente motivato, quindi occorre dare sostegno ai docenti, fare investimenti,


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offrire formazione per la qualificazione dei docenti di ruolo e per l'applicazione di tecniche di semplificazione dei testi nelle classi con abilità differenziata, cosa che poi è a vantaggio di tutti. Questa formazione deve essere fatta agli insegnanti di ogni disciplina, ma anche ai dirigenti.
Bisogna promuovere l'insegnamento della lingua italiana all'interno del plesso, in orario scolastico, e un apprendimento della nuova lingua che coinvolga i docenti di tutte le discipline, perché la valutazione spesso è inficiata dalla scarsa ed errata comprensione delle parole.
In merito ai protocolli d'accoglienza, questi ci sono ma, spesso, non diventano buone pratiche. Io proporrei di approfondire, in questa fase, la biografia scolastica dell'allievo.
Un'altra cosa importante è la formazione dei mediatori linguistico-culturali, personale prezioso da utilizzare soprattutto nella fase dell'accoglienza, ma anche come supporto occasionale.
Infine, auspico interventi didattici - ma qui siamo nell'utopia - mirati al mantenimento e allo sviluppo della lingua materna, perché è supporto allo sviluppo delle attività cognitive. Questo si può già desumere dalle linee guida per la scuola del Ministro Letizia Moratti e, successivamente, dal documento della via italiana per la scuola interculturale. È importante dare continuità a queste buone pratiche, a queste risorse, a questo lavoro fatto adeguatamente.
Un'altra cosa da prevedere è il mantenimento dei libri di testo per un numero adeguato di anni, come proposto dall'attuale Governo, al fine di permettere ai docenti di predisporre con la cura adeguata il materiale occorrente per la semplificazione e la facilitazione dei testi. Questo vale per tutte le materie.
Scuola e territorio: c'è una società italiana ancora impreparata al fenomeno dell'immigrazione, sebbene siano diffuse tante esperienze di integrazione, che è reciprocità. Come migliorare le prestazioni dei bambini nati in Italia, guardando tutto l'insieme anche nel rapporto scuola-territorio? Come favorire il successo formativo?
Io penso che bisogna lavorare sulle famiglie, sulle relazioni scuola-famiglia che sono fondamentali e bisogna potenziarle. Dopodiché, occorre lavorare sull'inclusione delle famiglie in rapporto al territorio e sui bambini, con l'associazionismo di gruppi giovanili, formativi, sportivi, educativi sul territorio, laddove ci sono; se sono carenti, bisogna investire nelle politiche sociali e giovanili affinché favoriscano questa aggregazione.
A mio avviso, la full immersion nella scuola va bene, se la si fa nella propria scuola.
Occorre stimolare la società: se la società va in una certa direzione, se la società non chiede cose nuove, la scuola rimarrà indietro. Bisogna dunque, o con i mass media o con la nostra politica, più in generale, sollecitare la società a interagire e a chiedere cose nuove alla scuola, e la scuola risponde.

PRESIDENTE. Vi ringrazio. Come avete visto, tanti problemi sono ancora aperti, ma confidiamo di arrivare almeno alla messa a punto degli stessi e a individuare strategie di successo.
Nel ringraziare i nostri ospiti, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16.

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