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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VII
1.
Giovedì 11 febbraio 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Aprea Valentina, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA RECANTE «DIALOGO UNIVERSITÀ-IMPRESE» (COM(2009)158 DEF)

INDAGINE CONOSCITIVA SUL LIBRO VERDE «PROMUOVERE LA MOBILITÀ DEI GIOVANI PER L'APPRENDIMENTO» (COM(2009)329 DEF.) E SULLA RELAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO, AL PARLAMENTO EUROPEO, AL COMITATO ECONOMICO E SOCIALE EUROPEO E AL CONSIGLIO DELLE REGIONI «RELAZIONE SUI PROGRESSI IN TEMA DI CERTIFICAZIONE DELLA QUALITÀ NELL'ISTRUZIONE SUPERIORE» (COM(2009)487 DEF)

Audizione di rappresentanti di Confindustria e della Conferenza dei rettori delle Università italiane (CRUI):

Aprea Valentina, Presidente ... 3 7 10 12 18 21 24 26
Boccardelli Paolo, Professore associato della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali - LUISS Guido Carli ... 8 17 25 26
Carlucci Gabriella (PdL) ... 21 26
Centemero Elena (PdL) ... 18
Gentili Claudio, Direzione politiche industriali, economia della conoscenza, Europa e internazionalizzazione di Confindustria ... 3 10
Gozi Sandro (PD) ... 20
Melis Giovanni, Rettore dell'Università degli studi di Cagliari ... 7 15 23 24
Pes Caterina (PD) ... 19
Petrocelli Corrado, Rettore dell'Università degli studi di Bari ... 5 12 21
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud/Lega Sud Ausonia: Misto-NS/LS Ausonia.

COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 11 febbraio 2010


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VALENTINA APREA

La seduta comincia alle 10,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di Confindustria e della Conferenza dei rettori delle Università italiane (CRUI).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla Comunicazione della Commissione europea recante «Dialogo università-imprese» (COM(2009)158 def.), e nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul Libro verde «Promuovere la mobilità dei giovani per l'apprendimento» (COM(2009)329 def.) e sulla Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Consiglio delle regioni «Relazione sui progressi in tema di certificazione della qualità nell'istruzione superiore» (COM(2009)487 def.), l'audizione di rappresentanti di Confindustria e della Conferenza dei rettori delle Università italiane (CRUI).
Mi scuso in partenza perché, in ogni caso, alle 11,15 noi parlamentari dovremo interrompere i nostri lavori per scendere in Aula ed esprimere un voto. Se tra circa un'ora, dunque, avremo già concluso - cosa che non accadrà e non è giusto che accada - nulla quaestio, altrimenti faremo una breve sospensione e ci rivedremo dopo che noi avremo votato.
Poiché si tratta di due diverse indagini, ancorché brevi, che noi abbiamo voluto proprio per consentire alla nostra Commissione di esprimere un parere e alla Commissione comunitaria di tener conto anche delle audizioni, e non solo del parere della VII Commissione, abbiamo previsto che i nostri ospiti interverranno due volte. Pertanto, prima darò la parola a Confindustria e ai rettori sul Libro verde «Promuovere la mobilità dei giovani per l'apprendimento». In seguito, prenderanno la parola per esprimere il proprio orientamento sul secondo atto comunitario.
Per Confindustria è presente il dottor Claudio Gentili, della direzione politiche industriali, economia della conoscenza, Europa e internazionalizzazione di Confindustria, accompagnato dal dottor Zeno Tentella, responsabile dei rapporti parlamentari, della direzione rapporti istituzionali, e dalla dottoressa Martina Dezi della direzione rapporti istituzionali.
Do la parola al dottor Gentili.

CLAUDIO GENTILI, Direzione politiche industriali, economia della conoscenza, Europa e internazionalizzazione di Confindustria. Signor presidente, il tema affrontato nel Libro verde «Promuovere la mobilità dei giovani per l'apprendimento» è di grande interesse. È un tema che ci riguarda e che riguarda il vostro lavoro di parlamentari perché esistono in Italia delle condizioni che non favoriscono la mobilità.
Il 2007 è stato il XX anniversario del programma Erasmus, ma dobbiamo registrare che esiste ancora una forte difficoltà


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dei nostri giovani ad accogliere questa opportunità, sia per motivi finanziari sia per motivi culturali. Tra l'altro, l'introduzione del «3 2» ha ridotto significativamente la mobilità mediante Erasmus perché il corso triennale, per la sua breve durata, non favorisce sostanzialmente questa esperienza. In molte università si è registrato, anche dal nostro punto di vista, collaborando con la CRUI, questo dato.
Vorrei citare due parti di questo rapporto che raccomando al vostro approfondimento, anticipando che al riguardo invieremo un testo scritto. A pagina 4, quasi en passant, si fa un'affermazione per noi fondamentale: parlando del «Bologna process», si legge «Bachelor, Master, PhD». Questo significa che il famoso «3 2» è una deformazione italiana del «Bologna process». Nessuno ha obbligato l'Italia a fare il «3 2». Il «Bologna process» prevede semplicemente che i Paesi membri diversifichino l'offerta formativa in Bachelor, che può durare tre anni, ma anche quattro, in Master che può durare un anno, ma anche due, e in PhD.
Rilievo due aspetti: a) si sono ridotti a tre anni corsi di laurea che potevano durare quattro; b) si è data poca enfasi al PhD (di questo parlerò nella seconda esposizione, perché nel Documento europeo sul rapporto tra università e imprese si fa un esplicito riferimento alle difficoltà che ci sono in molti Paesi di usare il dottorato all'interno delle imprese).
A pagina 6 si affronta un argomento delicatissimo, sul quale so che esiste un grande consenso. Parliamo sempre del Libro verde. Il tema è quello dei visti scientifici e dei visti per ricercatori. Noi abbiamo esperienze di numerose nostre associazioni industriali che vengono attivate da rettori «amici» per far pressione sui questori, perché i visti richiesti da ricercatori stranieri sono seppelliti da valanghe di visti per le badanti, che invece vengono spostati in alto. Questo è incivile.
Esiste un problema di legislazione italiana - della Bossi-Fini, tanto per essere chiari - di adattamento della stessa alla direttiva europea n. 71 del 12 ottobre 2005. Questa direttiva è fondamentale, perché prevede corsie preferenziali per i ricercatori e per i visti scientifici.
Uno dei processi che ha caratterizzato l'università italiana è la disseminazione di sedi decentrate. Questa disseminazione è stata spesso fortemente voluta dalle realtà territoriali, ma ha raggiunto dei livelli che sono incompatibili con la qualità degli studi. Ho l'impressione che uno dei freni alla mobilità siano le università condominiali. Il primo freno alla mobilità - non solo transnazionale, ma anche transprovinciale - è l'esistenza dell'università sotto casa, che non favorisce la cultura della mobilità e spesso impedisce che le aggregazioni universitarie siano di sufficiente qualità.
Con questo - voglio essere molto chiaro, perché conosco bene la realtà di cui parlo - non sto dicendo che tutte le università decentrate non funzionano e vanno cancellate. Ce ne sono 130-140, comprese realtà che non sono neanche provinciali, ma appartengono a paesi. A parziale correzione di questa mia affermazione un po' tranchant vorrei citare l'indagine della Fondazione per l'innovazione tecnologica COTEC, che ha misurato il numero di ricercatori per abitante nelle varie province. Ebbene, le prime dieci province che si sono classificate, salvo Bologna, non sono sedi storiche di università (la prima è Pordenone, la seconda Bologna, la terza Vicenza, poi Treviso e via elencando).
Ci siamo accorti che ci sono realtà gemmate dalle università che favoriscono una forte integrazione tra università e territorio e tra università e ricerca industriale.
Pertanto, l'affermazione relativa alla necessità di ridurre il numero di università condominiali va interpretata cum grano salis: non vuol dire che qualunque sede decentrata è sbagliata, ma che bisogna ridurre la quantità di decentramento e soprattutto puntare a quelle eccellenze dove un corso decentrato si colloca in un distretto industriale, in una realtà produttiva,


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in una realtà territoriale particolarmente vivace dal punto di vista culturale.
Cito l'esempio della Danimarca che, con un accordo con Association Internationale des Etudiants en Sciences Economiques et Commerciales (AIESEC). citato nel documento, è riuscita a modificare i visti per i ricercatori; di conseguenza, i tempi di ottenimento dei visti sono passati da tre mesi a tre settimane. È un esempio che raccomando fortemente alla Commissione come modalità concreta.
Non voglio tediarvi, dunque vi faremo avere un testo contenente una serie di documenti, ma non subito perché abbiamo un problema interno. In Confindustria questi argomenti vengono gestiti sia da Gianfelice Rocca che da Diana Bracco. Peraltro, il 15 luglio avete già sentito la dottoressa Bracco: ci sono complessità di questioni che richiedono, anche al nostro interno, una sintesi.
Vi comunico solo un dato che conoscete a memoria sulla capacità di attrazione: noi siamo a 1,9 per cento. Questo significa che siamo un Paese che attrae poco gli studenti. L'università che attrae più studenti da Paesi più industrialmente avanzati è l'Università Gregoriana.
Se consideriamo la distribuzione degli studenti che costituiscono questo 1,9 per cento, vediamo che in testa ci sono gli albanesi, poi i rumeni e via elencando. È interessante il dato di attrazione dell'1,9 per cento, ma anche sapere l'origine degli studenti che vengono in Italia. Va molto meglio, invece, nell'attrazione dell'Erasmus. L'Italia è un bel Paese, quindi nella classifica dell'Erasmus siamo al quinto posto, prima della Svezia, dell'Olanda eccetera. Questo è un fatto positivo, che dipende anche dalla qualità delle nostre università, ovviamente, non soltanto dagli aspetti turistici. Comunque, un aspetto fondamentale è l'attrazione.
Con la CRUI - lo cito en passant - abbiamo realizzato un progetto chiamato «Marco Polo» per l'attrazione di studenti cinesi. Ci siamo accorti, dieci anni fa, che c'erano in Italia 160 studenti cinesi, a fronte dei 40 mila in Germania, 50 mila in Gran Bretagna. Un dato vergognoso. Ora abbiamo 2.000-3.000 studenti cinesi, grazie a un grande lavoro che è stato condotto in particolare dai Politecnici. Esiste, comunque, un problema di strategie per attrarre nel nostro Paese studenti «di qualità» da Paesi industrializzati ed emergenti.

PRESIDENTE. Grazie. Sono presenti la relatrice, onorevole Centemero, del PdL e gli onorevoli Barbieri e Carlucci, sempre del PdL; l'onorevole Goisis, capogruppo della Lega Nord; per il Partito Democratico l'onorevole Ghizzoni, capogruppo, l'onorevole Coscia, l'onorevole Pes, l'onorevole Gozi della XIV Commissione, l'onorevole Schirru e l'onorevole Siragusa.
Ricordo che avevamo anche invitato la CRUI, l'Università degli studi di Napoli «Federico II», l'Università di Bergamo e la Bocconi; tuttavia, essendo impossibilitate a partecipare, manderanno memorie.
Sono invece presenti - e li ringraziamo - il rettore dell'Università di Bari, professor Petrocelli, il rettore dell'Università di Cagliari, professor Melis, e, in sostituzione del rettore della LUISS, il professor Boccardelli.
Do loro la parola.

CORRADO PETROCELLI, Rettore dell'Università degli studi di Bari. Signor presidente, cercherò di essere rapidissimo dati i tempi che lei ci ha indicato. Abbiamo prodotto delle memorie - non sono definitive, a causa del tempo assolutamente ristretto a disposizione, ma sono delle prime osservazioni - che consegnerò.
L'intervento del dottor Gentili, che ha parlato a nome della Confindustria, forse determina l'opportunità che io mi soffermi su alcuni punti che sono stati sollevati. Se dovessi parlare delle buone prassi che il nostro ateneo mette in atto, seguendo lo schema del Libro verde, probabilmente vi annoierei, anche perché sono descritte nel documento. È ovvio che abbiamo strutturato degli uffici per la mobilità degli studenti da e verso l'Europa; abbiamo gemellaggi e convenzioni con trecento università straniere. Vorrei ricordare che


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un'iniziativa che ha riguardato i nostri laureati è stata promossa aderendo al programma regionale «Bollenti Spiriti» (programma della regione Puglia per le politiche giovanili); in molti casi, non in tutti, si è avuto un buon ritorno. Sono stati finanziati alcuni nostri giovani laureati che, dopo aver concluso il loro percorso post-laurea all'estero, partecipando a una serie di master, in modo da poter raggiungere in ambito di formazione professionale un'eccellenza riconosciuta, sono ritornati in Italia per mettere a valore le conoscenze acquisite.
Esiste una difficoltà che è stata prima illustrata, secondo me in maniera puntuale, relativa alla mobilità. Oggi stimolare gli studenti, soprattutto nell'ambito della prima fase del loro percorso, quella triennale, a utilizzare tutti i programmi esistenti per la mobilità diventa difficile. Mi pare che noi siamo in parte colpevoli e responsabili di questa situazione.
Quanto alle riserve sul «3 2» che sono state poc'anzi espresse, alcuni di noi le hanno manifestate a suo tempo; io l'ho fatto anche in CRUI. Pare che, a distanza di tempo, non se ne possa discutere e questo continua a essere un tabù, ma non capisco perché. C'è stata un'applicazione in alcuni casi non felice. Una buona parte dei percorsi curriculari non si ispirano al «3 2» e bisognerebbe avere il coraggio di fermarsi e di riflettere.
Se il problema è di andare a cinque anni, secondo il Bologna process, ci andiamo; riportiamo a quattro anni i percorsi quadriennali e lasciamo - questa è la nostra idea - un quinto anno solo per la mobilità e la tesi di laurea. Secondo me, questo sarebbe formativo e determinante e forse comincerebbe a cambiare le cose.
La prima risposta che oggi gli studenti ci forniscono quando chiediamo loro perché, avendo essi la possibilità di utilizzare l'Erasmus o uno degli altri programmi di mobilità europea, non lo fanno, è che a loro piacerebbe andare in Spagna o in Inghilterra, ad esempio, ma sono obbligati ad acquisire un certo numero di crediti entro un determinato tempo e non possono «perdere tempo». Questa è la risposta peggiore che possano darci, perché significa che non intendono la mobilità come un momento di crescita, di avanzamento. Peraltro, non è sempre facile sostenere esami fuori dall'Italia e vederseli riconosciuti. Abbiamo difficoltà anche da questo punto di vista.
Introduco la seconda questione. È vero che con la CRUI è stato fatto uno sforzo, anche con il programma «Marco Polo», per esempio per gli studenti cinesi. Anche noi siamo entrati in quel programma. Ci hanno fatto una serie di domande di carattere assolutamente specifico, che riguardano la qualità della vita e le strutture che non un'università, ma la realtà nella quale l'università insiste fornisce a queste persone. Sono domande di una precisione pazzesca. Ci chiedono anche quante farmacie e quanti posti di pronto soccorso sono vicini a ogni plesso universitario, persino quanti cinema e teatri. Almeno adesso possiamo rispondere che il Petruzzelli è stato riaperto! Negli scorsi anni non sapevamo cosa rispondere.
Il problema è che noi non riusciamo - come tutti voi sapete, certamente - a fornire un numero decente di alloggi per i nostri studenti. Saranno anche di taglia ridotta, ma se veramente tutti i cinesi che hanno chiesto informazioni dovessero dirci, dall'oggi al domani, che vengono da noi, non sapremmo dove metterli. Questo è un problema serissimo, se considerate che l'unica casa dello studente che aggiunge dei posti la realizzeremo perché l'università ha messo a disposizione un suo immobile, ha vinto una gara presso il ministero e c'è stato un cofinanziamento. Questo, comunque, è un problema sul quale riflettere.
La mobilità, per le ragioni che ho detto prima, comincia dalla mobilità nazionale. Noi cerchiamo di trovare dei palliativi a questo. Il discorso sulle sedi decentrate probabilmente potremo riprenderlo quando parleremo di università e impresa, perché è inserito nella realtà territoriale e nella sua vocazione. È giusto dire che l'università dovrebbe nascere dove c'è una


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realtà con un tessuto produttivo forte, con delle infrastrutture che si integrano molto bene con quel tessuto produttivo. Ma dove questo tessuto non c'è? Non credo che possiamo assumerci la responsabilità di dire che in quel caso non possono nascere università. Semmai, dobbiamo dire che in quel territorio nasce un'università con la famosa «terza missione», che è quella di essere la leva propulsiva allo sviluppo di quel territorio. Dobbiamo sapere, però, che queste università non sono sullo stesso piano.
Infine, noi promuoviamo dei viaggi di studio e di formazione con i docenti, provvedendovi con nostre risorse, volutamente facendo sì che la quota a carico dello studente sia minima. Diversamente, se così non fosse, gli studenti che non appartengono a famiglie abbienti non potrebbero, ovviamente, mai parteciparvi. Abbiamo notato l'importanza di questi scambi e il fatto che diventa fondamentale l'insegnamento della lingua e della cultura italiana in altre realtà, soprattutto quelle dei Paesi dell'est. Non sto pensando soltanto all'Albania, alla Macedonia, alla Croazia che sono di fronte a noi, ma a una direttrice che parte da lì e arriva sino a Mosca. Dalla Repubblica moldava alla Lituania ho scoperto che c'è un fiorente insegnamento di lingua e cultura italiana.
Quando i rettori delle università di quei Paesi mi hanno comunicato di avere molti studenti che studiano e parlano l'italiano - io credevo si trattasse di qualche decina mentre ho sentito parlare addirittura di 300 giovani - sono rimasto meravigliato. È chiaro poi che questi studenti vogliano venire in Italia. Vorrei, perciò, che si potenziasse - così come noi potenziamo lo studio e la certificazione dell'apprendimento delle lingue straniere per dare stimolo all'Erasmus - quest'opera di studio della lingua e della cultura italiana all'estero, perché questo determina un fenomeno non solo di scambio, ma anche di ritorno.

PRESIDENTE. Intanto ci hanno raggiunto gli onorevoli Bachelet e Mazzarella per il Partito Democratico e l'onorevole Frassinetti, vicepresidente della Commissione, per il PdL.

GIOVANNI MELIS, Rettore dell'Università degli studi di Cagliari. Signor presidente, per chi viene da una realtà insulare la capacità di favorire la mobilità dei giovani è sicuramente fondamentale. Noi cerchiamo di promuovere questa attività, la stiamo sviluppando, in perfetta sintonia con analoghe iniziative portate avanti dall'amministrazione regionale, essendo le risorse ministeriali chiaramente carenti.
Sono rettore da circa cinque mesi e sono certo dell'importanza fondamentale di questo problema. Ho percepito le grandi difficoltà che esistono, dal momento che la mobilità per noi è molto difficile, soprattutto sul piano dell'attrattività, perché mancano le strutture. Non abbiamo un numero adeguato di posti letto per consentire agli studenti di muoversi. Per non parlare, poi, del problema che riguarda la mobilità importantissima dei docenti. Benché abbiamo un programma regionale, denominato Visiting Professor, che ci consente di chiamare docenti stranieri, abbiamo grandissima difficoltà a collocarli. Devo dire, però, con grande franchezza che questo è un problema marginale per un rettore, in questo momento. Il problema fondamentale che devo affrontare è quello di garantire la qualità e salvaguardare l'ateneo.
Il vero problema deriva dal fatto che con i tagli che sono stati impostati con la legge n. 133 del 2008, se non ricordo male, quasi tutti gli atenei sono un treno che rischia di deragliare. Se su un budget di 135 milioni di euro in due anni vengono sottratti 15 milioni di euro, nascono problemi serissimi, che comportano il ridimensionamento dell'offerta didattica, come stiamo facendo. Peraltro, vi è l'impossibilità di razionalizzare l'offerta didattica, poiché i vincoli al turnover sono un po' miopi, in quanto badano ai numeri. Tuttavia, un conto è «tagliare» un professore di matematica, cosa diversa è «tagliare» un professore di economia o altro.


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Insomma, si rischia di non riuscire a mettere insieme un'offerta didattica decente.
Per avere chiarezza su questo punto, dal 2008 al 2011 su 1200 docenti ne andranno in pensione 220, senza possibilità di sostituzioni. Il problema non è solo la riduzione del numero, ma la qualità della riduzione. Se questo si inserisce in una realtà insulare nella quale stare fra Cagliari e Sassari non è come stare fra Milano e Torino - non ci sono gli stessi servizi, non ci sono le autostrade, né i treni veloci, nulla - francamente anche l'intesa sulla regionalizzazione, che noi portiamo avanti, vuol dire far finta che non ci siano problemi. La verità è che abbiamo due Italie.
Se paragono la quantità di risorse per studente di cui dispone un mio collega del nord a quella di cui dispongo io o, meglio, noi del sud - il problema è generale, come abbiamo anche inserito nel documento - scopro che ci sono quasi 2.000 euro di differenza per ogni studente. Certo, io sono disposto a competere, ma non posso farlo se non ho condizioni pari a quelle di altri miei colleghi e se la competizione si basa sulle caratteristiche storiche, economiche e sociali del territorio. Non posso fare gli stessi progetti europei che fa il Politecnico di Milano, che ha sotto casa la FIAT e la Pirelli. Io non ho né la FIAT né la Pirelli e non posso competere su questi parametri.
Credo che questo sia un problema serio, che la classe politica deve affrontare. Vogliamo mantenere o no atenei che hanno una cultura centenaria? Ricordo che noi siamo nati nel 1600. Il treno che è partito, se non inverte la rotta, porterà inevitabilmente a grossi problemi. Noi stiamo sopravvivendo grazie all'apporto costruttivo dell'amministrazione regionale. Ma quanto potrà durare tutto questo?
Ho chiuso il bilancio 2009-2010 grazie al contributo dell'amministrazione regionale. Nel 2011, se vengono effettuati tagli per altri 10 milioni di euro, avrò difficoltà a chiudere il bilancio e dovremo attivare una forma di mobilità (non so se sarà possibile) o qualcosa del genere. Quello che è iniziato è un processo che non va da nessuna parte.
Paradossalmente, il progetto di legge di cui si sta discutendo adesso, a parte aspetti tecnici che si potrebbero approfondire, rappresenta di fatto la conclusione di una razionalizzazione - nel senso che non siamo più in grado di gestire quei corsi di laurea, quei dipartimenti, quel numero di facoltà - che può anche andare bene se dietro c'è qualità. Se, però, il taglio è cieco, si rischia di mantenere una certa facoltà e di doverne chiudere un'altra che, magari, sul piano del servizio al territorio, è molto più importante.
Per noi questo è un problema di sopravvivenza, di mantenere una tradizione centenaria. In una realtà come quella insulare non ci sono alternative. Non posso dire agli studenti di spostarsi in un ateneo a venti chilometri di distanza. Si parla di università decentrate. Per noi parlare di sede decentrata - è rimasta una sola sede - significa quasi parlare di una sede che si trova in un'altra regione.
In ogni caso, credo che i nostri studenti abbiano diritto ad avere le stesse alternative degli altri studenti. Se lo studente di Milano non ha un corso di laurea, può andare a Bergamo, a Brescia, a Lecco, a Como. Uno studente della Sardegna deve spostarsi a Torino, Roma, Bologna, e non è la stessa cosa. È un problema serissimo.
Noi abbiamo lasciato anche una memoria, che è provvisoria a causa dei tempi rapidissimi. Vi ringrazio per l'attenzione.

PAOLO BOCCARDELLI, Professore associato della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali - LUISS Guido Carli. Signor presidente, cercherò di dare un contributo incrementale rispetto agli interventi dei colleghi degli altri atenei e del rappresentante di Confindustria.
Sottolineo anche io l'importanza di alcuni aspetti, in particolare i temi legati ai visti, agli alloggi, sui quali non mi ripeto. Anche la Luiss produrrà una memoria, che vi faremo avere in breve tempo, con alcune sottolineature puntuali sul documento e risposte alle domande evidenziate.


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Voglio richiamare anche io il tema del «3 2», nel senso che i nostri studenti evidenziano chiaramente che quello triennale è un percorso a ostacoli, da superare rapidamente per entrare nel secondo ciclo di studio. Peraltro, devo dire che si commettono in molti casi anche degli errori, ad esempio accettare voti molto bassi, che li penalizzano nell'inserimento sul mercato del lavoro. Se in precedenza si immaginava che solo la laurea magistrale fornisse un biglietto da visita, il curriculum per gli studenti, in realtà le aziende hanno cominciato a guardare seriamente anche il primo ciclo di studi.
Con riferimento ai temi sottolineati dai colleghi, vorrei evidenziare un punto fondamentale. Il sistema di incentivazione che noi forniamo agli studenti per la mobilità in uscita, quindi per andare all'estero durante lo studio in Italia - il programma Erasmus fondamentalmente - è piuttosto scarso. Prima studiavano in quattro anni, adesso dovrebbero studiare in cinque, allunghiamo il periodo di studio con l'Erasmus e questo li penalizza sul mercato del lavoro. Un progetto che abbiamo avviato e che penso sia molto utile da immaginare come forma di interesse generale è quello di promuovere le tesi all'estero, in collaborazione con le aziende.
Abbiamo avuto un grande impatto di questo progetto. Abbiamo, infatti, più domande di studenti che vogliono fare la tesi all'estero che domande di studenti che vogliono seguire dei corsi all'estero. Questo deriva probabilmente dal fatto che la qualità dei nostri insegnamenti è comunque adeguata rispetto alle altre università, quindi va bene studiare in casa, ma l'esperienza professionale e di stage, di tirocinio all'estero, accoppiata ad una tesi, è il grande incentivo che loro evidenziano. Questo, però, è un elemento anche di criticità, perché un progetto serio dovrebbe offrire non dico un numero molto elevato di opportunità di questo tipo, ma indubbiamente qualcosa in più. Insomma, dobbiamo fare molto di più, e questo vale per tutti gli atenei del Paese.
Lo stesso vale al contrario, nel senso che gli studenti stranieri, come è stato sottolineato in precedenza, vengono in Italia certamente per la qualità di alcuni atenei e indubbiamente per la qualità dell'esperienza di vita in Italia. Se noi riuscissimo a offrire anche esperienze analoghe di stage-progetto, ovvero di tesi-progetto presso aziende e istituzioni italiane per studenti stranieri, certamente la nostra attrattività aumenterebbe e aumenterebbe di molto.
Sotto il profilo dell'attrazione di studenti all'iscrizione nei nostri programmi, il dato che citava il dottor Gentili è drammaticamente vero: meno del 2 per cento degli studenti che si sono mossi nel 2007 per motivi di studio sono venuti in Italia. Se confrontiamo questo dato con quello della Germania, che è pari all'8 per cento, indubbiamente non possiamo invocare la barriera linguistica. Il tedesco è sicuramente una lingua importante, ma non posso immaginare che sia diffusa come l'inglese. Pertanto, non si tratta di barriera linguistica, ma esiste una strategia di attrazione molto chiara ed evidente da parte della Germania, connessa a tutti i fenomeni già evidenziati.
Aggiungo un elemento che, in qualche modo, dovrebbe essere un incentivo per tutti noi, quelli di formulare un'offerta didattica incentivante per gli studenti stranieri. Cito un esempio: l'Italia, in questo momento, non è un Paese che ha una tradizione e una forza nel campo dell'industria del trasporto aereo. Abbiamo avuto delle difficoltà, come hanno testimoniato gli eventi di cronaca economica degli ultimi anni. Eppure noi abbiamo un programma dedicato a quel settore - il master in Aviation Business Administration - che ha una grande attrattività, perché è sviluppato in collaborazione con un partner francese, l'ENAC di Tolosa, una scuola rilevante, e con l'industria. Questo programma attira più studenti da fuori Italia che dall'Italia, perché è tra i pochi esistenti in Europa.
Noi dobbiamo cercare di valorizzare alcune specificità del nostro Paese, attrarre


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gli studenti con programmi che possano valorizzare queste specificità, ma allo stesso tempo creare un'offerta di contenuti e di servizi che li legano molto al mondo delle imprese anche italiane, che hanno una grande rilevanza nel mercato internazionale. Questo punto si lega anche all'altro documento di cui probabilmente parleremo dopo.
Sul tema delle risorse - colgo con piacere l'accorato stimolo del rettore di Cagliari - sottolineerei, a voi che avete un ruolo così importante, l'idea di trovare forme di incentivazione anche dell'investimento privato, che in Italia, per motivi non connessi necessariamente al privato, ma probabilmente per motivi regolamentari, non è così facilitato. Ci sono investitori americani che investono in tanti altri Paesi, non negli Stati Uniti, all'interno di università, perché forse trovano schemi di incentivazione più convenienti.

PRESIDENTE. Alle 11 dobbiamo essere in Aula per una votazione velocissima. Preferirei dunque interrompere ora i lavori e ricominciare con l'intervento del dottor Gentili in merito alla seconda indagine.
Sospendo la seduta.

La seduta, sospesa alle 10,50, è ripresa alle 12,20.

PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori.
Passiamo al tema riguardante la Comunicazione della Commissione europea recante «Dialogo università-imprese».
Do nuovamente la parola agli auditi, iniziando dal dottor Gentili, che ha già comunicato che dovrà lasciare la Commissione. Comunque, avremo modo di incontrarlo nuovamente e di discutere di questi temi quando sarà presa in esame la riforma dell'università.

CLAUDIO GENTILI, Direzione politiche industriali, economia della conoscenza, Europa e internazionalizzazione di Confindustria. La Comunicazione della Commissione europea sul dialogo tra università e imprese è, a nostro parere, particolarmente interessante e condivisibile. Vi sono dei punti di particolare interesse, e mi permetto di fare alcune sottolineature.
Il primo tema riguarda il modo in cui le imprese possono aiutare le università. Vi sono tre esempi concreti e il primo riguarda il rimodellamento dei curricula. In questo caso, il DM n. 509 del 1999 prevede già, in Italia, una consultazione degli atenei con le imprese che - lo dichiaro con molta onestà - non sempre è a livello di quello che gli atenei si aspetterebbero.
Al fine di migliorare questa consultazione, che non deve limitarsi a prendere atto e giudicare i curricula, abbiamo attivato a livello territoriale dei contact team - cioè gruppi di contatto di cui fanno parte imprenditori, presidi di facoltà e rappresentanti delle nostre categorie industriali - per dare delle risposte concrete alle università che stanno rimodulando i curricula di alcune loro facoltà.
Secondariamente, le imprese possono aiutare le università attraverso strutture di gestione. Questo è il tema della governance, e noi siamo molto interessati alla modifica della governance universitaria.
Infine, le imprese possono aiutare le università tramite il concorso al finanziamento. Tutti noi sappiamo che l'università soffre di una grave carenza di finanziamenti, che è sottofinanziata rispetto alla media OCSE e che sono anche stati fatti degli sprechi e un uso non corretto dell'autonomia universitaria, al quale alcune misure tendono a porre rimedio.
Mi ha abbastanza sconvolto un dato apparso nell'ultimo rapporto del Comitato nazionale per la valutazione dei sistema universitario (CNVSU), secondo il quale i fondi pubblici statali per l'università ammontano a 7 miliardi di euro, ma la somma dei loro bilanci è di 13 miliardi di euro. Questo significa che, accanto ai 7 miliardi dello Stato, le università, nella loro libera iniziativa, hanno trovato sul mercato - che spesso è pubblico ma non


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statale (regioni, province e via dicendo), ma anche imprese - una enormità di fondi.
Questo è stato segnalato dall'OCSE, secondo il quale l'Italia, negli ultimi sei anni, ha triplicato i fondi non statali verso l'università.
Tra gli argomenti del Documento che meritano di essere sottolineati, vi è la segnalazione dei curricula AT, ossia curricula che si ispirano sia alle conoscenze disciplinari che alle conoscenze di tipo trasversale.
Una delle cose che i nostri gruppi di contatto hanno segnalato è che spesso i ragazzi non hanno competenze relazionali. L'ENI ha assunto, circa due anni fa, 600 nuovi dipendenti senza richiedere una laurea specifica, si è accorta che il 70 per cento di questi nuovi assunti erano laureati in fisica e si è chiesta il perché. La risposta è stata che il modello di apprendimento della fisica favorisce il lavoro di gruppo, il cosiddetto team building, che in quel processo di selezione era stato valutato molto positivamente.
Questo significa che, anche laddove il team building sia meno abituale, le università devono attrezzarsi a fornire conoscenza anche sul lavoro di gruppo e la capacità di sviluppare relazioni.
Vorrei segnalare l'esperienza dei crediti formativi, di cui parlerò in modo sommario chiedendo scusa per la scarsezza di precisione e approfondimento delle mie espressioni, che appariranno perentorie.
In Italia c'è stato un abuso dei crediti formativi legati ad esperienze professionali, per cui laureare l'esperienza è diventato sinonimo di accordi tra alcune università poco serie e ministeri che, al tempo del Ministro Mussi, hanno portato sostanzialmente alla decisione di passare, per il riconoscimento delle competenze acquisite in modo non formale, da 120 a 60 crediti come previsto, se non ricordo male, nella Finanziaria del 2007.
Nel provvedimento in discussione al Senato, la proposta governativa prevede che da 60 crediti si passi a 12. Questo è per noi un fatto molto grave perché, significa che in Italia si smette di dare peso al riconoscimento delle competenze acquisite nell'ambito dell'esperienza professionale.
Un modo per risolvere il problema è il rigore. Questa norma sembra dire che, siccome siamo incapaci di garantire il rigore, ne eliminiamo ogni forma. Questo non va bene, anche perché 12 crediti sono quelli che già oggi si possono dare per gli stage e questo significherebbe che l'esperienza del lavoro nell'impresa non viene più misurata dal mondo accademico.
È evidente che vanno assolutamente vietate forme collettive di riconoscimento di credito a categorie, mentre va valorizzata la rigorosa capacità dell'università di selezionare le persone anche sulla base di queste competenze.
Tra le proposte, vi è il tasso di imprenditorialità. Secondo una recente indagine, la Cina ha un tasso cinque volte superiore alla UE. Il nostro problema è che le nostre università dovrebbero essere più attente a questa dimensione.
Cito sempre il caso di un mio amico che insegna al Politecnico di Milano, il quale, durante l'ultima lezione ai ragazzi del suo corso, che hanno sudato cinque, sei, sette anni, dice loro di non chiedersi se vi sarà un posto anche per loro, ma quanti posti di lavoro saranno capaci di creare.
Il lavoro non lo porta la cicogna, quindi se non sviluppiamo nelle scuole e nelle università l'attitudine imprenditoriale, l'uscita dalla crisi diventa più complicata.
Seconda proposta: il tema, delicatissimo, dei Consigli di amministrazione e degli esterni. Il Documento europeo sottolinea che vi sono dei modelli universitari pubblici, non privatistici, dove per «esterni» non si intendono persone che non sanno nulla di università, ma i non togati. Su questo, abbiamo appena sostenuto un'amabile conversazione con il rettore dell'università di Cagliari.
Noi non ci scandalizziamo se nella Corte costituzionale, esistono giudici non provenienti dai ruoli della magistratura, ma che evidentemente fanno parte del


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mondo dei giuristi e penso che questo possa essere valido anche per l'università. Bisogna acquisire le competenze, anche manageriali, di ex allievi. Il tema fondamentale è: chi li seleziona? Come si selezionano?
Segnalo, tra i tanti modelli, quello dell'Istituto italiano di tecnologia (IIT), dove è stato istituito un search commitee di cinque o sei saggi a cui è stato affidato il compito di selezionare i membri non togati, quindi non accademici, da fare entrare nel Consiglio di amministrazione.
Infine, l'ultima proposta è quella di premiare anche i professori che collaborano con l'industria. Nella carriera dei docenti, quindi, si dovrebbero considerare anche la collaborazione col sistema produttivo e l'attrazione di finanziamenti.
Un'ultima battuta: in Italia ci sono le piccole e medie imprese, le quali difficilmente collaborano con le università. Io segnalo l'esperienza degli ILO, Industrial Liaison Office, presenti in diverse università, che sono degli strumenti creati per favorire le piccole imprese.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Gentili, che rivedremo sicuramente, dato che sono in arrivo molti provvedimenti riguardanti l'università.

CORRADO PETROCELLI, Rettore dell'Università degli studi di Bari. Con l'amico Claudio Gentili ho sempre modo di relazionarmi. Desidero svolgere alcune considerazioni: prima sono stato molto breve ma ora, pur cercando di essere rapido, vi chiederò qualche minuto in più perché il documento lo merita.
Vorrei partire commentando alcuni elementi fondamentali di questo documento, il quale comincia col dire e col riconoscere che, del triangolo della conoscenza - formazione e eccellenza, ricerca avanzata, innovazione e avanguardia - l'università rappresenta il vertice.
Questo è un riconoscimento non secondario a questa formula utilizzata in Europa per la realizzazione di una società e di una economia basate sulle conoscenze avanzate. Qui si ammette che l'università è strategica, da questo punto di vista. La verità è che nessun'altra istituzione ha, tutte insieme, le competenze dell'istituzione universitaria.
Detto questo, si passa all'idea di modernizzazione dell'università. La prima idea è sviluppare partenariati strutturati con il mondo imprenditoriale, per rispondere meglio e più celermente alle esigenze di mercato.
Il dottor Gentili ci ha detto che le imprese possono aiutare a rimodellare i curricula e contribuire al finanziamento. Abbiamo anche capito che le imprese mettono capitale se, in qualche maniera, possono essere determinanti ai fini della gestione di questi processi.
Io metterei in guardia sul rispondere, non tanto meglio, quanto più celermente alle esigenze del mercato, e non lo dico per un fatto ideologico. L'idea di celerità, di adeguamento alle necessità e di avere tempi rapidi è assolutamente antitetica all'idea di ricerca. Credo che su questo ci sia un equivoco.
Intanto, non io ma economisti di vaglia, a livello mondiale, hanno dimostrato che l'investimento in formazione e ricerca è il più redditizio, anche se presenta quello che agli occhi dei nostri amici può essere un difetto, cioè di avere tempi lunghi.
Se noi vogliamo che tutto questo si traduca in risultati immediati, non è quasi mai possibile farlo. Credo di non dover raccontare a questo consesso le ragioni per le quali alcuni elementi di cui noi oggi beneficiamo - ad esempio, internet - sono nati da discussioni che possono sembrare di carattere teorico e da progressi dilazionati nel tempo nel settore della tecnologia, che è stato citato prima.
Il progresso, per quello che riguarda la scienza è frutto della creatività e di una serie di azioni sperimentali. Il tempo medio perché la scoperta relativa ad una nuova molecola si possa tramutare nel farmaco che noi acquisteremo in farmacia e di cui beneficeremo per le nostre patologie è di 12-15 anni. I tempi sono questi.


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Vorrei capire, quindi, cosa si intende per tempi rapidi con «adeguamento immediato alle esigenze del mercato».
Non ci chiedono dei tornitori acculturati, che conoscano qualche pagina di Leopardi; io non credo che sia questo perché, poco dopo, lo stesso Documento dice che esistono, tra sistema delle imprese e sistema universitario, delle differenze di cultura, di valori e di missioni. Meno male!
Le cose, quindi, vanno contemperate e poiché - chi mi conosce lo sa - io parto dai nostri difetti e dalle nostre lacune, che sono stati in parte descritti dal dottor Gentili, quando si dice che c'è una mancata corrispondenza tra la competenza dei laureati e le qualifiche volute dai datori di lavoro, si dice una cosa giusta.
Per quanto riguarda i profili di ammissione e di approcci all'apprendimento, è vero che noi non facciamo abbastanza, soprattutto per scoprire il talento potenziale. Se noi facessimo un corretto orientamento alla fine del percorso scolastico, dal penultimo all'ultimo anno, in maniera rigorosa, metteremmo gli studenti nelle condizioni di capire le loro inclinazioni già negli ultimi due anni della scuola superiore. Questo significa scoprire il talento potenziale, non dopo, a posteriori.
È vero che la valutazione del profitto dovrebbe essere maggiormente orientata verso l'apprendimento e le competenze; è vero che ci vuole più interdisciplinarietà; è vero, come dice Gentili, che la pertinenza sociale ed economica dei nostri profili non sempre viene valutata e, spesso, quando noi diamo vita ad un corso di laurea, la discussione con le parti sociali e con gli imprenditori è un fatto di solito formale. Su tutti questi elementi io concordo, però adesso giriamo pagina.
L'idea del curriculum AT va benissimo, ma perché si citano le nozioni di base di economia e tecnologia? Il dottor Gentili parlava della facoltà di Fisica che, come modello, regge di più. Ma perché non può essere la matematica, che poi è alla base dell'origine del pensiero su tutto.
C'è un problema diverso: l'idea di stimolare l'indipendenza e la creatività va bene, ma i flussi reciproci di cui parla il Documento, reciproci non sono. Pensateci: sono monodirezionali, nel senso che si dice che è giusto che gli imprenditori intervengano sui curricula ed è giusto che una parte dell'imprenditoria venga chiamata a svolgere anche opera di insegnamento e di didattica, ma questa interazione è monodirezionale, solo verso una parte.
Tra l'altro, forse si ignora che le università si stanno muovendo da tempo in questa direzione, attraverso alcune azioni.
Mi ha fatto piacere sentire parlare degli ILO, ma non è soltanto quello. Io vi dico che nel nostro nucleo di valutazione noi abbiamo degli esterni, e uno dei valutatori è il presidente locale di Confindustria; quindi, problemi da questo punto di vista non ce ne sono, ma ci dobbiamo mettere d'accordo perché se questo documento dice che bisogna scegliere dei docenti dal mondo imprenditoriale, questo fa a pugni con i paletti della Nota n. 160 del 2009 - che adesso verrà trasformata in decreto ministeriale - la quale teorizza che, se non c'è un numero congruo di professori di ruolo, un corso di laurea non si può reggere. Di conseguenza, il numero dei contratti deve essere rigorosamente ridimensionato.
Per quanto riguarda i tirocini, noi abbiamo dato vita ad un progetto con 450 tirocini soltanto nell'ultimo anno. Questo va benissimo. Tuttavia, c'è una realtà frantumata di piccole e medie imprese. Questo non significa che la piccola e media impresa sia un male in assoluto: non dimentichiamo che ci sono Paesi, come la Finlandia, che hanno un numero molto elevato di piccole e medie imprese con non oltre i 12 dipendenti, quasi il 93 per cento.
Il problema, quindi, non sono le piccole e medie imprese, ma i settori in cui operano. All'interno di una realtà come la nostra, operano in settori tradizionali dove l'innovazione gli serve poco, non operano nell'high-tech e, comunque, non fanno filiera.


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Voglio essere brutale affinché ci si capisca: io non posso chiedere al titolare di un caseificio, di solito a conduzione familiare con un operaio, perché non investe parte del suo ricavato nell'innovazione.
L'idea - che io ho ben presente - di una filiera su tutta la lavorazione dei prodotti derivati dal latte mi vede in grado discuterne, e lo dico perché alcuni nostri ricercatori hanno trovato un sistema per capire se la mozzarella è stata fatta con un tipo di latte che dà determinate garanzie oppure no.
Voglio riferirmi al contesto: noi diciamo che, come generazione di conoscenza, l'Europa è molto produttiva e l'Italia è molto produttiva perché, con il poco che hanno, i nostri ricercatori fanno bene.
Nell'ambito dei Paesi industrializzati noi siamo ultimi quanto a finanziamenti, ma siamo al terzo posto quanto a qualità e produttività della ricerca.
Chi opera in alcuni contesti come quelli delle regioni dell'Obiettivo 1 - e ci siamo noi - e ha al suo interno delle eccellenze, va considerato per questo. Chi ha un grande ateneo ha delle eccellenze a macchia di leopardo, non può pensare di avere livelli altissimi ovunque.
Per capirci, è vero che laureare l'esperienza ha avuto delle storture. Secondo me basterebbe guardare quegli atenei dove le lauree sono rapidissime, anche al di sotto degli standard, e cominciare a penalizzarli.
Tuttavia, se fra i criteri di ripartizione delle risorse noi individuiamo quello del numero dei crediti acquisiti dagli studenti fra il primo e il secondo anno, dobbiamo capire che questo non ha niente a che vedere né con il rigore, né con la selezione, ma è un incitamento per i professori a promuovere tutti dal primo al secondo anno, per avere più soldi. Se qualcuno li boccia, non credo che saremo didatticamente improduttivi.
Se un'altra fetta delle risorse va distribuita secondo gli indicatori di occupabilità, va distribuita in rapporto al tasso di occupazione e disoccupazione di quella realtà ed anche in rapporto al PIL, che dovrebbe essere addirittura provinciale, legato a quella regione. Le ultime stime, le abbiamo lette?
Nella mia regione, la Puglia, l'unico ascensore sociale è l'università, che è aumentata al di sopra della media di tutte le regioni del Mezzogiorno consentendo al 46 per cento delle famiglie di avere, per la prima volta, un laureato, con un beneficio immediato e un cambiamento radicale nella loro vita. Tuttavia, ci devono poter credere, perché se fanno un grande sforzo economico affinché un figlio raggiunga non solo la laurea, ma alle volte anche una qualificazione di livello, attraverso un master o un dottorato di ricerca, e poi questo capitale umano qualificato non viene assunto o viene assunto con una remunerazione che corrisponde a quella del diplomato, quella famiglia penserà che non vale la pena spendere tutto quel tempo e quelle risorse per formarlo, quando invece non è così.
Ribadisco che noi possiamo dire che il dottorato di ricerca produce forse troppi dottori - anche se altrove non è così e diventa un elemento di qualità -, ma quelli che produce, dove vengono assunti? Assumere un dottore di ricerca qualificato, né nella pubblica istruzione né nel privato, oggi contempla punteggi aggiuntivi o forme di incentivazione. Perché non ci possono essere delle forme di incentivazione per le imprese che assumono dottori di ricerca? In questo modo risponderemmo alla qualificazione dei nostri laureati.
Dico questo perché, proprio da questo punto di vista, noi stiamo facendo una serie di convenzioni con Confindustria, con piccole e medie imprese, Confapi, ABI. Stiamo lavorando moltissimo sugli spin-off, che costituiscono un elemento per poter dire: «fate impresa e lo facciano i nostri giovani laureati».
Tutto questo, però, si scontra con alcuni elementi fondamentali tra cui la diversità che ci caratterizza, che è una ricchezza del nostro sistema universitario, non una penalità.


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Io vi prego di considerare questo aspetto: siamo diversi, noi e la LUISS siamo diversi, noi e il Politecnico siamo diversi perché quello è un ateneo tematico con due facoltà, io ne ho 15, compresa Medicina.
Un ateneo che ha Medicina non è uguale ad un ateneo che non c'è l'ha. Un ateneo che ha 500 anni non è uguale ad un ateneo nato da sei o sette anni. Un ateneo con 60 mila studenti non è uguale ad un ateneo con 6 mila studenti, e un ateneo situato in una zona in cui il tessuto produttivo è ricco, ben radicato, con ottime infrastrutture, non è uguale a quello che opera in una realtà in cui lui deve fare da leva di sviluppo.
Questo elemento, nel momento in cui si discute di ripartizione delle risorse e dei finanziamenti deve, una volta per tutte, contare. Deve contare qualcosa il fatto che noi continuiamo a produrre laureati che, dopo un po', non trovando posto, vanno dove c'è già una concentrazione di capitale umano qualificato, aumentando il gap tra centro-sud e nord.
Presidente, conoscendola, le chiedo a nome di tutti i rettori del centro-sud di poterne riparlare in questa Commissione in un'altra occasione. Questo non è il pianto di chi chiede risorse: il problema è che, pur consapevoli della gravità, noi stiamo facendo ogni sforzo per cercare di dare vita anche a questi processi di modernizzazione, e nei documenti che lascerò a vostra disposizione questo è provato. Da questo punto di vista, però, abbiamo bisogno di sostegno, altrimenti la nostra azione rischia di essere asfittica. Grazie.

GIOVANNI MELIS, Rettore dell'Università degli studi di Cagliari. Io concordo con le tantissime cose interessanti riferite dal collega Petrocelli. Limiterò il mio intervento ad una presentazione, a volte in positivo, del nostro operato, e a qualche osservazione soprattutto sulla governance, che riguarda le cose dette dal dottor Gentili.
Chi opera in una realtà economicamente non forte e ha la responsabilità di gestirvi un ateneo, non può non sentire in maniera forte l'esigenza di contribuire, col patrimonio di conoscenze e tecnologia, allo sviluppo del territorio. Questa è quella che ormai si chiama la «terza missione» degli atenei.
Noi siamo fortemente impegnati: abbiamo attivato dei rapporti con le associazioni degli imprenditori e con l'amministrazione regionale, insieme ai quali cerchiamo di realizzare sinergie e portare avanti questa difficile missione. È difficilissima non tanto perché in questa fase non ci sono le risorse - in realtà ci sono e arrivano, ad esempio, dalla comunità europea -, quanto perché rappresenta un salto di cultura e di qualità molto importante.
Noi siamo appunto impegnati con Industrial Liaison Office e siamo impegnati nel sostegno delle imprese nelle attività di brevettazione; stiamo attivando, con i nostri giovani e con i colleghi che hanno delle idee imprenditoriali, una serie di nuove iniziative produttive.
Stiamo attivando, ad esempio dei master in lingua - una delle cose più qualificanti del protocollo di intesa che abbiamo con una società di imprenditori -, in modo da coinvolgere i giovani dei Paesi del nord Africa e realizzare un collegamento con il territorio africano, formare i loro quadri e avere un riferimento per le nostre industrie.
Siamo assolutamente convinti del fatto che debba esistere un rapporto di collaborazione fra impresa e territorio. Non è facile, soprattutto perché, quando il tessuto imprenditoriale è molto debole, diventa molto teorico dire che le imprese investono nelle università: in realtà avviene il contrario, siamo noi che portiamo risorse e conoscenze, attraverso le quali trasferiamo anche dei finanziamenti alle imprese dal momento che, se i progetti comunitari vedono la partecipazione delle università, consentono anche alle imprese di accedere al rinnovo tecnologico.
Stiamo realizzando cose importanti: ad esempio, attraverso il progetto comunitario stiamo costituendo una rete di innovazione e competenze, mettendo in sinergia


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laboratori scientifici universitari ed extra-universitari, in modo da consentire alle imprese di capire quali sono le risorse e le competenze cui potrebbero accedere.
Siamo anche interessati a cogliere, attraverso la collaborazione con le imprese, quali siano le nuove professioni. Abbiamo da tempo introdotto nei nostri corsi di laurea le parti interessate, ovvero i rappresentanti del mondo dell'imprenditoria. Tuttavia, anche in quel caso è difficile andare oltre un confronto spesso formale, perché non è così che si costruisce una cultura diversa. La cultura dell'impresa, la cultura dell'attenzione al pubblico interesse non è facile da costruire.
Stiamo cercando di trovare, attraverso le imprese, occasioni di collaborazione e di crescita formativa dei nostri giovani tramite i tirocini formativi, ma vi posso assicurare che è una fatica enorme perché non ha senso mandare un ragazzo a fare un tirocinio formativo per poi metterlo a fare le fotocopie. Questo è il punto: dobbiamo superare gli opportunismi, questo è un discorso molto serio.
Si è notato che le aziende spesso chiedono un tirocinante e lo fanno lavorare al posto del lavoratore dipendente che, così facendo, evitano di assumere. Ci sono unità produttive che continuano a rinnovare tirocini per evitare di assumere personale. Occorre normare anche questi opportunismi.
Vorrei dire qualcosa sui giovani. Assistiamo, in questo momento, ad un flusso migratorio di giovani verso l'estero e verso il nord d'Italia. Vanno via i giovani più bravi, e questo significa un grave depauperamento del capitale umano delle regioni del sud, ma significa anche che se i nostri giovani trovano spazi nel mondo del lavoro sul mercato internazionale o nel nord Italia vuol dire che sono bravi e preparati, perché devono spesso superare un percorso formativo ad ostacoli. Questo è un dramma.
Mi ha fatto molto piacere quando il rappresentante di Confindustria ha detto che occorre capitale razionale. Siamo assolutamente d'accordo, ma fate il capitale razionale in aule con 300 studenti!
Il dottor Gentili ha parlato della facoltà di Fisica, ma sapete benissimo che il numero minimo di studenti per attivare un corso di Fisica è 6 e i corsi spesso contano 10 o 15 studenti. Così si lavora benissimo, ma con costi spaventosi che noi non siamo in grado di gestire.
Sul discorso della governance occorre fare un po' di chiarezza. Anche noi, nel nostro nucleo di valutazione, abbiamo componenti esterni presi dalle due imprese più grosse della Sardegna. Tuttavia, nel disegno di riforma c'è confusione. Io mi limito semplicemente dire che il problema non è fare far partecipare elementi esterni, ma capire bene come funziona un organismo.
Io sono un aziendalista e devo dire che, se dovesse passare il tipo di impostazione che è attualmente prevista nel disegno di legge, ci sarà la confusione più totale.
Io mi rifiuto di fare il rettore in una situazione del genere, che prevede un Senato accademico presieduto dal rettore e che ha dei compiti di grande discussione e di rappresentanza delle esigenze, e un consiglio di amministrazione che ha i poteri strategici e operativi e che può essere presieduto da un terzo, che non è il rettore. Stiamo scherzando? Infine, c'è il direttore generale, che dovrebbe essere in realtà il manager.
Qui bisogna capire bene il ruolo del rettore: nessuno vuole prevaricare o avere conflitti di interesse; tuttavia, se c'è un organo che deve esprimere le linee strategiche dell'ateneo, le esigenze culturali, scientifiche e via dicendo, questo deve essere il Senato accademico. Poi c'è un organo che deve avere la responsabilità operativa della gestione, quella che oggi manca completamente. Oggi c'è tanta economia e poca responsabilità, e le conseguenze si vedono: assenza di qualsiasi responsabilità. Quell'organo deve essere il consiglio di amministrazione e, per cortesia, guardiamo come funzionano questi organi: il presidente di un consiglio di


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amministrazione non ha compiti operativi, ma è colui il quale organizza i lavori del consiglio e decide quali sono i punti all'ordine del giorno.
Il rettore, pur non avendo poteri operativi, dovrebbe presiedere anche quest'organo. Se io sono il rettore e ho esigenze da prospettare, devo chiedere al presidente se, per cortesia, me le può mettere all'ordine del giorno. Io subisco le pressioni delle varie facoltà e devo chiedere ad un altro di risolverle? A quel punto, a cosa serve il direttore generale?
Distinguiamo nettamente i compiti strategici dai compiti operativi; nessuno vuole fare entrambe le cose, perché non è corretto e non esiste nella realtà aziendale, molto attenta all'efficienza. Non si può fare confusione.
Il problema, quindi, non è introdurre elementi esterni nel consiglio di amministrazione, ma mettere competenze manageriali e non rappresentanze di interessi. Gli interessi possono essere rappresentati in Senato, mentre per gestire un'università ci vuole un consiglio di amministrazione competente che, secondo me, deve essere coordinato dal rettore. Il presidente del consiglio di amministrazione non ha poteri operativi, questo per un minimo elementare di regole di governance: chi opera è la struttura, è il direttore generale che porta avanti le operazioni. Grazie.

PAOLO BOCCARDELLI, Professore associato della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali - LUISS Guido Carli. Anche in questa occasione, non ripeto alcuni concetti già espressi dai colleghi. Vorrei fare, tuttavia, una sottolineatura all'impostazione di questo documento, che mi sembra non sia stata finora evidenziata. Questo documento evidenzia come le università in Europa abbiano prodotto conoscenza e siano assolutamente adeguate nel farlo. Ciò che invece emerge è che, rispetto ad altre aree geografiche, non sono altrettanto efficaci nella collaborazione con il mondo imprenditoriale. Il focus di questo documento è questo e, indubbiamente, noi non possiamo che essere d'accordo.
Vorrei citare un dato: secondo le previsioni del Centro europeo per lo sviluppo della formazione (CEDEFOP), entro il 2020 verranno persi circa 18 milioni di posti di lavoro nei settori a bassa qualificazione professionale, verranno guadagnati 3 milioni di posti di lavoro nel settore a media qualificazione professionale e, soprattutto, verranno guadagnati 20 milioni di posti di lavoro nel settore ad alta qualificazione. Questo implica che il ruolo delle università diventa ancora più centrale, almeno è quel che io immagino.
Il problema di fondo è un altro: la mia sensazione è che, nelle nostre università, il rapporto tra università e impresa si sia sostanziato eccessivamente verso attività a bassa qualificazione professionale. Non è il caso della mozzarella - per il quale mi congratulo con i vostri ricercatori, vista l'importanza -, ma ho la sensazione che esista la necessità di allineare gli interessi delle università e delle imprese verso obiettivi un po' più importanti.
Le università sono alla ricerca di attività e di fondi, questo è indubbio, lo sappiamo da tempo; è un modo di rispondere ai bisogni delle piccole e medie imprese che, purtroppo, sono eccessivamente di breve termine e di corto respiro.
Il punto fondamentale è che, forse, dovremmo trovare una strategia-Paese che, in qualche modo, cerchi di allineare gli interessi delle imprese e delle università verso obiettivi più ampi.
Ad esempio, il fotovoltaico è stato indubbiamente un investimento di grande interesse nel nostro Paese. Il problema è che se osserviamo quali imprese producono oggi i pannelli solari, non mi sembra di ricordarne molte italiane.
Ci sono altri esempi nel settore energetico: stiamo lanciando in questo momento il programma nucleare (se non erro, a tal proposito anche ieri è stato fatto un annuncio dal Consiglio dei ministri), e devo sottolineare che questo si sposa con i piani strategici di importanti aziende del nostro Paese. Questo cambiamento di prospettiva mi sembra molto interessante.


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La logica consiste nel cercare di allineare i piani strategici che fanno riferimento all'università, alla ricerca e all'industria del Paese, verso obiettivi di ampio respiro. Io sono convinto che questo aiuterà entrambi a dialogare di più.
Vorrei sottolineare un fatto molto banale: la globalizzazione investe le imprese e le università, quindi i nostri laureati vanno all'estero perché sono bravi e perché trovano occupazioni di loro interesse. I nostri studenti vanno a studiare all'estero forse perché non trovano sufficiente offerta formativa italiana per essere competitivi sul mercato globale. Pertanto, lo sforzo deve venire da entrambi.
Sottolineo alcuni punti del Documento. Alle soft skill noi crediamo tantissimo; la LUISS ha lanciato - credo sia la terza edizione - un'indagine presso i propri laureati che occupano posizioni di responsabilità, ma anche presso i direttori del personale di tutte le aziende italiane, quindi un numero consistente, e per farlo ha investito in ricerca. Inequivocabilmente, ogni volta la risposta era: i vostri laureati sono bravissimi, ma mancano di competenze soft.
Noi abbiamo lanciato una serie di progetti per risolvere questo problema. Il punto fondamentale da chiarire è che nel sistema regolatore dell'università esistono delle economie curricolari, quindi se si aggiunge un corso, ad esempio, di «gestione del team», bisogna levare alcune ore di diritto o di economia politica. Da qualche parte, il sistema universitario deve valorizzare questa attività in maniera opportuna.
Per quanto riguarda l'imprenditorialità, anche noi, che non abbiamo dei dipartimenti di natura tecnica, stiamo svolgendo degli importanti investimenti perché, come è stato richiamato dal Documento, una parte importante dello sviluppo professionale degli individui è nella creazione di nuova impresa.
Non che l'Italia manchi di imprese, ma probabilmente manca di progetti imprenditoriali ad alto rischio capaci di aggregare interessi e risorse di vario tipo. Noi stiamo cercando di preparare gli studenti ad assumere il rischio come una delle prospettive centrali della loro formazione.
Ormai, anche le grandi imprese hanno capito che i loro manager devono essere imprenditoriali. Il rischio deve essere una cosa buona, non cattiva, come in alcuni casi purtroppo è successo.
Chiudo parlando del tema della valutazione. Purtroppo, in sede internazionale ci si è appiattiti esclusivamente sulla valutazione dell'impatto scientifico delle università. Negli ambiti disciplinari quali il management, al quale io e il collega rettore di Cagliari apparteniamo, si è aperto un dibattito su quanto veramente sia importante avere esclusivamente questo tipo di impatto.
La discussione ormai è molto avanti e si è ben capito che l'esclusiva valutazione dell'impatto scientifico nelle riviste accademiche pure rischia di essere distorsiva, ovvero noi prepariamo degli studenti e dei futuri professionisti senza alcune parti importanti nella loro formazione professionale.
Non sto dicendo che stiamo facendo questo errore, anzi, mi sembra che nei documenti presentati dai lavori di questa Commissione e di altri organi istituzionali, sia ben presente questo problema.
Vorrei sottolineare che, nell'ambito della nostra università, diamo un grande peso alla rilevanza della missione sociale dell'università, cioè all'impatto nel territorio - anche più vicino - attraverso la formazione di un capitale umano che sia in grado di interagire immediatamente con le imprese e le istituzioni. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ELENA CENTEMERO. Credo che questa indagine conoscitiva sia di grande interesse non solo per la dimensione europea, ma anche per quanto ci preparerà ad affrontare il tema della riforma del sistema universitario, attualmente in discussione al Senato e che poi arriverà qui alla Camera.


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Partendo dal tema europeo e dalle Comunicazioni del Libro Verde per le quali i nostri auditi sono stati chiamati ad intervenire oggi, pongo innanzitutto una domanda. Vi chiedo quanto, le università, accedono alle forme di finanziamento europee previste dalle misure a cui facciamo riferimento e, in quest'ottica, quali difficoltà devono affrontare le università per potervi accedere.
Sottolineo questo tema non solo per la dimensione europea in cui ci troviamo in questa indagine conoscitiva, ma anche perché, proprio lunedì, ho partecipato ad un convegno organizzato con Confindustria sul tema dell'innovazione della ricerca, a cui era presente anche il ministro Gelmini. Giustamente, tutte le parti presenti sottolineavano la necessità di reperire nuove forme di finanziamento, proprio in riferimento al discorso - che tutti voi avete sottolineato - della carenza di sovvenzioni.
Innanzitutto, si è discusso proprio della necessità di una finanza coordinata che unisca le risorse provenienti dalle università, dai vari ministeri, dagli enti di ricerca e dalle imprese, in una nuova modalità di finanziamento che risponda - mi riferisco a quanto detto dal dottor Boccardelli - alla necessità di una strategia-Paese, quindi si è parlato di un piano strategico con grandi obiettivi che l'Europa stessa ci potrebbe indicare.
Non dimentichiamo che noi partecipiamo a Programmi quadro europei: in questo momento, ci troviamo nel VII programma quadro e presto si aprirà l'VIII programma quadro europeo, in cui ci saranno delle filiere molto chiare e delle realtà in cui noi avremo leadership.
Questo significa che, all'interno di quei grandi temi, ci sono risorse, possibilità di finanziamenti e di effettuare una progettualità in cui l'università sarà chiamata - mi auguro - a contribuire in modo contingente, proprio nell'ottica della grande strategia-Paese, dell'obiettivo, perché questo rappresenta il nostro futuro.
D'altra parte, sono d'accordo con voi nel riconoscere la grande difficoltà, sottolineata anche da Confindustria, nel rapporto biunivoco tra impresa e università per mancanza di cultura e mentalità adeguate.
Abbiamo prevalentemente piccole e medie imprese per cui, a mio avviso, per far sì che queste possano giocare un ruolo decisivo c'è bisogno di nuovi modelli organizzativi innovativi, a costellazione piuttosto che in filiera, perché credo che questo sia l'unico percorso da seguire.
Credo che Confindustria e le piccole e medie imprese debbano giocare un ruolo importante nello spingere verso questa direzione, altrimenti non riusciremo mai a migliorare.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PAOLA FRASSINETTI

CATERINA PES. Farò un intervento veloce anche per consentire a tutti di tirare le somme di questa prima giornata di indagine.
Il tema affrontato è molto importante perché, sul futuro dell'università italiana ed europea in generale ci giochiamo anche le regole della cittadinanza, e penso che questo rappresenti il punto nodale di quanto stiamo dicendo.
Abbiamo parlato di mobilità e di imprese, e abbiamo ascoltato diverse esperienze di ricerca. È evidente che, mai come oggi e come in questo caso, quando si parla di Europa il contesto locale è fondamentale. È il destino che ci ha lasciato la globalizzazione, e questo noi lo viviamo in maniera chiara e stratificata nei territori.
Oggi abbiamo assistito alla testimonianza del professor Gentili, sempre molto importante (non è la prima volta che viene in Commissione), soprattutto in riferimento al ruolo e al rapporto tra conoscenza e impresa. Confindustria è per noi un grande suggeritore e spunto di riflessione.
Abbiamo poi sentito il punto di vista di un'università forte, ben radicata non solo nel territorio del Lazio ma nel territorio


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italiano; si tratta addirittura di un'università tematica quindi, proprio per questo, fortemente indirizzata verso la qualità dell'offerta formativa.
Infine, abbiamo sentito la testimonianza di due atenei generalisti - passatemi il termine -, che racchiudono in loro tutto il mondo della conoscenza dei territori che rappresentano, con tutta la grandezza che questo comporta, ma anche con tutte le difficoltà e i limiti.
Oggi mi sarebbe piaciuto molto sentire anche i vostri colleghi del nord, ad esempio delle università di Bergamo o di Milano, come la Bocconi, altra roccaforte del sapere italiano, o dell'università di Napoli. Mi sarebbe piaciuto perché avremmo avuto un vero quadro nazionale a macchia di leopardo. Fin dall'inizio, siamo stati consapevoli che per fare un lavoro del genere avremmo avuto bisogno di un'indagine conoscitiva ben più approfondita, a maggior ragione oggi che stiamo per discutere in Commissione cultura, in Parlamento, il disegno di legge di riforma dell'università.
Con i colleghi della maggioranza, confidiamo sul fatto che questo si potrà fare in futuro, e che l'incontro di oggi sia solo l'inizio di un percorso.
Vero è che, in questa fase, ci troviamo di fronte alla scadenza di dare i nostri pareri rispetto a questi temi incombenti riguardanti il processo di mobilità dell'apprendimento e il rapporto con le imprese.
Riassumo quanto emerso dalle vostre osservazioni e anche quanto auspico sarà una parte importante del mio contributo alla scrittura del parere su questo argomento, che vedrà protagonista anche il collega Gozi, esperto in politiche comunitarie.
Innanzitutto, mi sembra chiaro che investire in Europa significhi investire sulle conoscenze e sull'università, e che questo non può evidentemente accadere senza una politica di distribuzione delle risorse che consideri i luoghi, i contesti e, soprattutto, quelle che il professor Melis ha chiamato le pari opportunità.
Stiamo lavorando, sia per le politiche dell'istruzione superiore che per l'università, alla definizione di quelli che possiamo chiamare i profili di uscita delle competenze dei nostri studenti e dei nostri allievi. Per raggiungere i profili che l'Europa ci chiede, è necessario che le opportunità di partenza siano uguali e garantite per tutti.
Il tema delle opportunità è importante, perché è evidente che se ci troviamo di fronte a condizioni contestuali come l'isolamento territoriale di una regione come la Sardegna oppure, semplicemente, la carenza di alloggi (problemi che voi avete indicato e che, devo dire, sono molto concreti) piuttosto che la difficoltà a contenere tutte le richieste, è come dire che si fanno le nozze con i fichi secchi.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VALENTINA APREA

SANDRO GOZI. Io vorrei fare alcune domande puntuali. Ad alcune magari è già stato risposto ma, se così fosse, reputo necessari degli approfondimenti.
Innanzitutto, parliamo di mobilità per l'apprendimento. Una delle idee circolate in Europa e che continuano a circolare anche in Italia è quella di andare, lo dico come uno slogan, verso un Erasmus obbligatorio, ovvero di rendere obbligatoria l'esperienza all'estero. Vorrei sapere cosa ne pensate e in che modo questo potrebbe essere organizzato nel sistema universitario italiano.
Secondo punto: mi sembra che una delle debolezze della capacità di attrazione dell'università sia anche la normativa sull'immigrazione. È evidente che ci sono problemi maggiori, rispetto ad altri Paesi, dovuti al fatto che in Italia siamo privi di corsie preferenziali per gli studenti e i ricercatori di Paesi che non sono membri dell'Unione europea. Vorrei sapere se, secondo voi, è necessario affrontare questo punto creando delle corsie preferenziali all'interno della legislazione sull'immigrazione, al servizio della capacità di attrazione


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delle università, e se avete conosciuto esperienze di altri Paesi e altre università in cui questo accade in maniera più facile.
Il terzo punto mi vede in conflitto di interessi, perché alla concezione del programma Erasmus Mundus ho partecipato anch'io, in collaborazione con l'allora commissaria europea Viviane Reding.
Sempre in merito alla capacità di attrazione, ho notato che le università italiane usano ancora poco - ad esempio, rispetto ai francesi - il programma Erasmus Mundus, che noi concepimmo proprio per aumentare la capacità di attrazione delle università, non tanto pensando a Oxford e Cambridge, quanto alle università italiane, spagnole e tedesche che, proprio per una questione linguistica oltre che strutturale - come la mancanza di campus - hanno maggiori problemi ad attirare studenti.
Vorrei sapere perché, secondo voi, alla luce della vostra esperienza, le università italiane faticano o approfittano meno del progetto Erasmus Mundus, anche se le statistiche dicono che è presente un trend di miglioramento. A 21 anni dal lancio del programma Erasmus, avete rilevato ancora problemi nell'integrare pienamente questa esperienza nei curricula universitari. Questo dipende dalle università, dagli studenti o da cosa?
Gli studenti continuano a vedere l'Erasmus come qualcosa in più mentre noi lo vediamo come qualcosa di fondamentale nella loro formazione. Uno studente che si laurea senza aver trascorso almeno sei mesi all'estero e senza parlare bene almeno un'altra lingua, non dico che sia un analfabeta ma parte svantaggiato, rispetto ai sui concorrenti, nel mercato del lavoro europeo globale. Perché, dopo 21 anni, nelle università c'è ancora questo problema?
Con l'ultimo punto vorrei approfondire la questione delle piccole e medie imprese nelle università. Ho capito la questione della filiera e della singola impresa, ma mi domando se non si possa utilizzare il dialogo tra università e impresa anche per tentare di orientare le piccole e medie imprese ad intervenire nei processi di innovazione guardando agli obiettivi politici italiani ed europei come, ad esempio, la lotta contro il cambiamento climatico. Le piccole imprese italiane possono essere protagoniste. Dipende dalle università o dalle industrie? Io credo che dipenda dall'industria. Purtroppo, il rappresentante di Confindustria è già andato via, ma io vi chiedo di approfondire questo aspetto, grazie.

GABRIELLA CARLUCCI. Desidero capire se, con la diffusione dell'utilizzo di Internet e di strumenti di apprendimento che passano attraverso l'utilizzo di nuove tecnologie, le vostre università contemplano l'utilizzo della cosiddetta «mobilità virtuale». Vorrei sapere se sono già stati fatti dei progetti in questo senso, anche perché la mobilità virtuale è uno strumento molto sfruttato da altre università nel mondo, e rappresenta un modo per sopperire alle carenze di finanziamenti e alla impossibilità di mobilità.

PRESIDENTE. Rinuncio all'intervento che avrei voluto fare perché mi riconosco in tutto quello che hanno detto i colleghi. Vorrei soltanto chiedere, sul punto toccato dell'onorevole Gozi in merito alla mobilità obbligatoria, se da parte vostra non vi sia una sorta di consapevolezza del fatto che, più di quanto non si faccia già ora, anche i docenti dovrebbero sottoporsi, con una «spinta spontanea» alla mobilità, per l'acquisizione di competenze linguistiche e di nuovi orizzonti. Si sa che le facoltà scientifiche, come Medicina e Ingegneria, sono già, per forza di cose, più avanti su questo discorso; molto meno le altre.
Vi ricordo che, con le memorie che potrete lasciarci al termine del nostro incontro, potrete fornirci qualche stimolo in più rispetto alla chiacchierata che abbiamo fatto oggi.
Do la parola agli auditi per le repliche.

CORRADO PETROCELLI, Rettore dell'Università degli studi di Bari. Parto dall'ultima


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domanda sollevata dalla presidente: ne siamo assolutamente consapevoli. In questi ultimi tre anni abbiamo puntato sul ricambio generazionale assumendo soltanto ricercatori, tanto da invertire il rapporto che prima vedeva più ordinari che ricercatori, cosa che reputavo ovviamente una follia. La situazione, oggi, somiglia ad una clessidra più che ad una piramide, perché ci sono tanti ricercatori quanti ordinari e associati; tuttavia, possiamo dire che ci siamo, è ovvio che abbiamo puntato su questo.
Puntiamo sui giovani, attuando una serie di progetti volti a premiare gli studi di ricercatori in formazione e stabilendo una serie di prerequisiti. Sono loro i docenti del domani, è a questo che pensiamo.
Mi fa piacere di averle sentito dire la stessa cosa che avevo detto io prima: come alternativa al piano di studi «3 2», io ipotizzo un «4 1» con l'ultimo anno obbligatorio per la tesi e il soggiorno all'estero.
Sull'Erasmus obbligatorio io sono assolutamente d'accordo. Che ci siano delle debolezze e delle difficoltà l'aveva detto anche il rettore Melis. Per i ricercatori in formazione ed anche per gli studenti, rispetto alla normativa sull'immigrazione abbiamo effettivamente avuto alcuni problemi, anche se non con tutti i Paesi (con l'India sì, ad esempio). Sull'Erasmus Mundus abbiamo dei ritardi e ci siamo attrezzando, anche questo è vero.
Il problema della difficoltà di integrazione dipende, lo dico molto serenamente, dal fatto che manca del tutto una osmosi curricolare fra noi e i programmi degli altri Paesi. Io non voglio guardare in casa degli altri, ma se noi continuiamo a riformare ogni sei o sette mesi i nostri curricula, gli altri atenei non ci capiranno mai niente.
Io vorrei che arrivasse il momento in cui si stabilisse per legge che, qualunque cosa succeda e chiunque sia al Governo, per dieci anni si esenta l'università da riforme di qualunque tipo e genere, anche di fronte a catastrofi.
Noi stiamo creando coorti su coorti, e ogni studente appartiene ad una riforma differente. Questa è una delle più grosse difficoltà.
Quando parlavo di rapporto biunivoco, dicevo che spetterebbe anche a noi orientare l'attività per quanto riguarda il mondo imprenditoriale. A noi ogni tanto spetterebbe, ad esempio, anche la possibilità di individuare delle professioni innovative. Noi creiamo, ad esempio, la figura di «operatore dei beni culturali» - che è diversa rispetto al passato - sapendo che questo programma comprende la gestione, la conservazione e la valorizzazione dei beni.
Per la prima volta, mettiamo insieme gli umanisti, gli archeologi e gli storici dell'arte con i chimici, con quelli che studiano i materiali, cioè facoltà di scienze e facoltà di lettere insieme. I cinesi ci hanno scritto apprezzando l'unicità di questo corso. Tuttavia, nel momento in cui noi diplomiamo i nostri studenti, questi dove vanno?
Questo è un fatto innanzitutto regionale, io l'ho detto chiaramente: l'86 per cento dei comuni della Puglia possiede almeno un bene culturale rilevante, e se ogni comune acquisisse anche un solo laureato per la gestione di quel bene noi avremmo risolto un problema occupazionale ad un certo livello di qualificazione. Piacciono però di più le sagre, quindi è chiaro cosa, tra l'orecchietta, la zampina, la pizzica e il bene culturale, interessa di più.
Noi abbiamo proposto questa nuova figura, ma siamo ancora fermi. Io ricordo di aver partecipato, nel Ministero Rutelli, ad una serie di riunioni in cui si diceva che se si vuole assumere negli archivi e nei musei bisogna qualificare le persone. La figura del custode è diversa dalla figura di chi deve illustrare i reperti. Per il primo, potrebbe bastare la laurea triennale, e qui torniamo al disgraziatissimo piano di studi 3 2; per l'altro, però, ci vuole forse la laurea specialistica.
Chiudo con due ultime osservazioni. Nei fogli che mi sono permesso di distribuire


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ci sono alcuni esempi di nostre buone pratiche, quindi non c'è quasi niente di quello che ho detto. Lasciatemi riferire un esempio: noi abbiamo partecipato alla costituzione di centri di competenza, tra cui uno proprio con la Sardegna, sulle biologie avanzate. Noi siamo sede di una facoltà di Scienze biotecnologiche che è trasversale, ci abbiamo creduto. Anche questo è un modo di rinnovare.
Noi siamo presenti sia nei distretti produttivi che nei distretti tecnologici, e adesso si è realizzato forse un unicum, con l'idea di creare un distretto sul farmaco. Sul nostro territorio abbiamo alcune industrie farmaceutiche come la Sanofi-Aventis e Merck Serono, e quando c'è un interlocutore in loco il discorso diventa più facile.
Quello che è nato come un distretto tecnologico per iniziativa dell'università, sta avendo talmente tanto successo da agglomerare una quantità di imprese tale da diventare un distretto produttivo (che, come sapete, nasce su iniziativa degli imprenditori). È paradossale: l'idea l'abbiamo avuta noi e adesso si costituisce un distretto produttivo. Va benissimo.
Nei centri di competenza, nei distretti produttivi e nei distretti tecnologici ci sono i nostri giovani, prima con il tirocinio e poi - noi speriamo - diversamente presenti.
Questo ci dà la possibilità di guardare anche ad altri campi. Noi stiamo lavorando nel settore delle energie alternative. Uno dei primi laboratori che abbiamo istituito a valenza didattica-imprenditoriale è presso la facoltà di Economia, e lavora sull'energia solare. Produce energia solare per il manufatto che ospita la facoltà di Economia, in una sede decentrata a Taranto che voi conoscete bene e che, grazie a noi, da tre anni a questa parte si sta risollevando.
Questo è stato possibile perché noi abbiamo creato un comitato sulle politiche ambientali, con docenti che prima non si parlavano tra di loro. Questo comitato ha creato un centro di educazione ambientale, con un accreditamento. Lentamente, sta venendo fuori l'opportunità di creare, in una zona a vocazione ambientalista - per il tasso di inquinamento che c'è nell'aria, nell'acqua e nel terreno -, un laboratorio scientifico-tecnologico nel territorio tarantino ionico che possa avere una valenza di piattaforma mediterranea.
Lì dreniamo le risorse a livello direttamente comunitario o a livello indiretto, perché i fondi FAS e FERS arrivano direttamente lì; tuttavia, essendo noi un generalissimo ateneo interdisciplinare - come con parola più nobile amano dire i miei colleghi -, se quando vengono definiti i temi del Settimo programma quadro a tutta la ricerca umanistica viene dedicato meno dell'1 per cento, con un'attenzione per i temi economici e sociologici, non va bene.
Ci valutano e poi ci dicono che una fetta delle risorse dobbiamo averla in base all'entità delle risorse che abbiamo drenato dal Sesto programma quadro. Ho capito, ma metà delle mie facoltà, anche volendo, lì non potevano attingere. Perché le dobbiamo penalizzare?

GIOVANNI MELIS, Rettore dell'Università degli studi di Cagliari. In merito ai Fondi europei, se oggi stiamo dando continuità ad alcuni servizi lo dobbiamo all'utilizzo di questi Fondi europei: Fondo Sociale europeo, Fondo europeo di sviluppo regionale (FERS) e Fondo aree sottoutilizzate (FAS), anche se quest'ultimo è solo un progetto, in quanto, questi fondi, al momento, non sono disponibili.
Il problema è capire quali siano le strade per accedere a questi fondi, ed è per noi molto importante riuscire ad avere un supporto, un centro di servizi. È chiaro che i dipartimenti e le aree più forti riescono ad accedervi, perché hanno sinergie e rete; ma, ad esempio, per le facoltà umanistiche, come si diceva, diventa molto più difficile. Noi stiamo cercando di costruire una struttura, ma scattano tutti i vincoli finanziari che ne rendono difficile la realizzazione.
Io sono assolutamente d'accordo sul fatto che vada valorizzato il patrimonio delle facoltà umanistiche. Penso semplicemente


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all'utilizzo turismo/cultura che, per le nostre regioni, rappresenta uno degli assi più forti del futuro.
In tutti questi progetti europei - soprattutto quelli che si traducono nel FERS, nel FAS e via dicendo - si parla sempre di innovazione tecnologica e ricerca. Benissimo, ma la ricerca deve produrre beni e servizi che possono essere spesi sul mercato; deve esserci il passaggio successivo, dal brevetto, dall'innovazione, alla sua immissione sul mercato, quindi alla produzione effettiva di ricchezza, che si ottiene mettendo risorse sul mercato e acquisendo dal mercato più risorse di quelle che sono state consumate.
Sono assolutamente d'accordo sull'Erasmus obbligatorio; qui il Parlamento deve trovare le risorse, però. Sono d'accordo anche sul fatto che occorra eliminare i vincoli sull'immigrazione degli studenti e dei docenti.
Le difficoltà che si incontrano con Erasmus derivano dal fatto che ci sono ancora delle differenze tra i nostri corsi e quello che si trova negli altri atenei. Concordo sul fatto che l'instabilità e la continua variazione dei cicli non ci aiutino e costino un sacco di soldi. Mi spiego meglio: se ogni anno devo riformulare l'offerta didattica perché c'è una nuova riforma, devo mettere in piedi un sistema informatico e complico la vita ai docenti, diventa un disastro.
Se proprio vogliamo fare tagli, diteci che dobbiamo tagliare del 10 per cento l'offerta formativa, ma che finisca lì.

PRESIDENTE. In questo Tremonti è stato molto chiaro.

GIOVANNI MELIS, Rettore dell'Università degli studi di Cagliari. Non la metta solo sul piano finanziario. Se dobbiamo ridurre del 10 per cento l'insegnamento, noi ci organizziamo: stiamo fermi per quattro anni risparmiando molti soldi. Se, però, mi impedisce semplicemente la gestione della razionalizzazione tagliandomi tutti i docenti di matematica quando io ho un esubero di ingegneri, non risolvo il problema. La strada è un'altra.
Per quanto riguarda il rapporto con le piccole e medie imprese, noi stiamo lavorando con loro perché dobbiamo orientare insieme il loro contributo. Difficile che arrivi da loro uno stimolo sull'innovazione o sulla ricerca; l'impresa medio-piccola questi problemi li ha, ma è anche in grado di risolverli.
Noi stiamo creando invece una rete delle competenze, in modo che gli imprenditori sappiano quali sono i saperi diffusi nel territorio. Lo stiamo facendo in sinergia con l'università di Sassari, in modo che gli imprenditori sappiano quali sono le potenziali risorse e le conoscenze disponibili e, noi stessi, lavorando con loro, riusciamo a dare un servizio.
La mobilità deve riguardare i docenti e i ricercatori. Nei dottorati, ad esempio, è previsto obbligatoriamente un periodo all'estero, ma le borse per il dottorato sono pochissime.
Sul discorso di utilizzo di Internet e la telematica, noi abbiamo un progetto che stiamo cercando di mandare avanti e nel quale io credo tantissimo.
Innanzitutto, questo progetto serve per fronteggiare le richieste delle sedi periferiche. Io credo che, salvo situazioni in cui ci sono specificità culturali o scientifiche, sia sbagliato portare l'ateneo allo studente, è lo studente che deve andare all'ateneo. Ci sono, tuttavia, alcune situazioni in cui i giovani non si possono spostare, perché magari sono dipendenti di un ente ma vogliono comunque laurearsi e migliorare, oppure sono fuori sede.
Il nostro progetto è quello di cercare di rendere visibile il corso attraverso le reti telematiche, attivando anche un percorso che parte da un altro dei problemi che qui non abbiamo citato ma che differenza tantissimo le varie regioni, ovvero la formazione di ingresso.
Noi abbiamo giovani che arrivano da doppi turni, da scuole a tempo meno che parziale, da situazioni di pendolarismo anche durante la scuola.
È ovvio che questi ragazzi abbiano delle difficoltà nei test. Se la Commissione osserva i test, che sono uguali per tutti,


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può notare che emerge immediatamente un divario nord/sud. Questo significa che, in ingresso, noi abbiamo studenti meno bravi. Non possiamo sceglierceli come fa la LUISS, perché altrimenti non si darebbe a tutti una possibilità.
Stiamo cercando di fare dei corsi di preparazione e di alfabetizzazione su materie come italiano, matematica e altre, e stiamo pensando di condizionare l'iscrizione del primo anno al superamento di questi test attitudinali e di cultura generale. Se non li superano, non li iscriviamo al triennio ma al quadriennio, nel quale il primo anno è dedicato al recupero dei debiti formativi.
Ad esempio, uno studente della facoltà di ingegneria che non ha supporti matematici farà prima un esame propedeutico di matematica e poi entrerà in facoltà. Questo ci evita anche di farli andare fuori corso.

PAOLO BOCCARDELLI, Professore associato della Libera Università Internazionale degli Studi sociali - LUISS Guido Carli. Nonostante la LUISS si scelga gli studenti, facciamo anche noi i pre-corsi di matematica. Questi sono difetti della scuola, che speriamo siano risolti in breve.
In merito all'Erasmus obbligatorio, io in generale sono abbastanza contrario agli obblighi, preferirei degli incentivi. Tuttavia è indubbio che, in un Paese in cui abbiamo portato l'università sotto casa agli studenti, pensare che tutti vadano a fare un'esperienza all'estero credo sia molto complicato. Occorre cambiare la cultura, e l'obbligatorietà potrebbe essere un mezzo.
Sulla normativa sull'immigrazione sono pienamente d'accordo, bisogna trovare delle soluzioni più efficaci.
Per quanto concerne l'Erasmus Mundus, invece, mi prendo dieci secondi in più. Io sono stato uno dei docenti in mobilità internazionale e ho avuto diverse esperienze all'estero. Vi assicuro che una differenza sostanziale tra quello che si fa all'estero e quello che si vive in Italia è che il tempo dedicato alle attività core in Italia, e di ricerca in particolare, è minimo. La didattica in Italia è tre volte più impegnativa che all'estero. Un mio collega della London School of Economics insegna 30 ore l'anno, questo è il suo obbligo, e ha un'attività di ricerca molto finalizzata.
Da noi, inoltre, la complessità burocratica e amministrativa è così elevata che i docenti sono fortemente impegnati anche nelle attività amministrative e organizzative. Detto questo, il tempo per fare anche un programma Erasmus Mundus alle volte è molto limitato (sono i docenti che se ne occupano, ed è giusto che sia così).
Sul collegamento con le imprese, mi è piaciuta molto la sua sottolineatura sulle costellazioni. È vero: le tecnologie sono cambiate, il paradigma dominante non è più verticale di filiera ma è convergente; settori come la nutricosmetica o altri nascono dalla convergenza, e in questi modelli di business ci sono operatori più diversi.
Alla fine è difficile pensare solo alla filiera, bisogna pensare ad una rete di imprese diverse, fare un apprendimento diverso, quindi avere anche la forza di aggregare risorse giuridiche che facciano, sui diritti di proprietà intellettuale, un lavoro importante, come voi fate.
Per quanto concerne la mobilità virtuale, noi siamo impegnati in un progetto, che abbiamo deciso di fare in maniera molto graduale, sulla digitalizzazione dell'università. La nostra strategia non prevede di erogare corsi totalmente on-line ma di avere un approccio blended, cioè bilanciato tra on-line e presenza.
Devo dire che si tratta di una complessità rilevante non tanto dal punto di vista tecnologico quanto dal punto di vista organizzativo, perché l'interazione con gli studenti è decisamente diversa, per cui 20 minuti on-line equivalgono ad un'ora di lezione. Questo significa, però, che il docente deve essere in grado, in 20 minuti, di dire le stesse cose che direbbe in un'ora. Il processo di cambiamento all'interno dell'università è graduale.
Con l'Erasmus non abbiamo ancora attuato questo politica ma l'abbiamo fatto con i master, dove abbiamo delle collaborazioni internazionali e utilizziamo delle


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piattaforme di learning management system per scambiare materiale e realizzare dei forum on-line.
Gli studenti che vengono da noi o, viceversa, i nostri studenti che vanno da loro, hanno una parte del percorso on-line in comune, quindi secondo me questo rafforza la mobilità internazionale, più che sostituirla.

GABRIELLA CARLUCCI. Permette anche di capire il livello di preparazione.

PAOLO BOCCARDELLI, Professore associato della Libera Università Internazionale degli Studi sociali - LUISS Guido Carli. Sono assolutamente d'accordo. Mi pare di aver risposto velocemente a tutti punti.

PRESIDENTE. Grazie per aver potuto e voluto trascorrere una giornata in Parlamento. Questo è uno dei tanti appuntamenti che avremo per ridisegnare complessivamente, forse per l'ultima volta, gli scenari universitari.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,35.

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