Sulla pubblicità dei lavori:
Gibelli Andrea, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SITUAZIONE E SULLE PROSPETTIVE DEL SISTEMA INDUSTRIALE E MANIFATTURIERO ITALIANO IN RELAZIONE ALLA CRISI DELL'ECONOMIA INTERNAZIONALE
Audizione di Carlo Trigilia, professore ordinario di sociologia economica presso l'Università di Firenze:
Gibelli Andrea, Presidente ... 3 10 11 14
Calearo Ciman Massimo (PD) ... 11
Pezzotta Savino (UdC) ... 10
Testa Federico (PD) ... 11
Torazzi Alberto (LNP) ... 10
Trigilia Carlo, Professore ordinario di sociologia economica presso l'Università di Firenze ... 3 11
Vico Ludovico (PD) ... 11
ALLEGATO: Documentazione prodotta dal professor Carlo Trigilia ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.
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Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 14,25.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell'economia internazionale, l'audizione di Carlo Trigilia, professore ordinario di sociologia economica presso l'Università di Firenze.
Ringraziamo il professor Trigilia per aver accettato il nostro invito. Abbiamo previsto venti minuti per lo svolgimento della sua relazione, dopo di che, come di consueto, daremo la possibilità ai colleghi di formulare osservazioni e porre quesiti.
Do la parola al professor Trigilia.
CARLO TRIGILIA, Professore ordinario di sociologia economica presso l'Università di Firenze. Grazie presidente, sono onorato di quest'invito. Il tema che ho deciso di affrontare, facendo riferimento all'indagine più generale che è in corso, e che mi sembra menzionato anche all'interno degli obiettivi dell'indagine conoscitiva, è quello della situazione dell'alta tecnologia in Italia.
Cercherò di affrontarlo da un punto di vista particolare, facendo riferimento anche ad alcune ricerche che ho condotto e sto conducendo con altri collaboratori, sia sulla diffusione dell'alta tecnologia, in termini di occupati e di addetti di imprese, sia, in particolare, attraverso l'indicatore costituito dai brevetti.
Il punto di partenza del discorso - credo sia ovvio, ma lo richiamo brevemente - è il fatto che, con i processi di globalizzazione e di crescente internazionalizzazione dell'economia, diventa sempre più importante, per le economie dei Paesi avanzati, poter contare su attività legate al processo scientifico, e quindi alla cosiddetta economia della conoscenza, dal momento che si tratta di attività a elevato valore aggiunto che espongono tali Paesi, come ben sapete, a una minore concorrenza o a una maggiore capacità di resistere alla concorrenza delle economie emergenti, le quali lavorano molto, come vantaggio competitivo, sui bassi costi, e, in particolare, sul basso costo del lavoro.
All'interno di questa problematica, ossia il fatto che la globalizzazione richieda un salto in avanti ancora maggiore in termini di innovazione tecnologica, sia nelle nostre specializzazioni tradizionali - il cosiddetto made in Italy - sia nelle
specializzazioni ad alta tecnologia, che vedremo brevemente tra un momento, gli interrogativi che mi pongo, e sui quali voglio proporvi alcune considerazioni, sono due: qual è la collocazione dell'Italia nel mondo dell'alta e medio-alta tecnologia, e qual è il ruolo del territorio nella crescita e nell'organizzazione di queste attività.
Voi naturalmente sapete molto bene che l'Italia è considerata un Paese debole dal punto di vista dell'innovazione tecnologica. Nella documentazione che lascio agli atti della Commissione sono citati alcuni dati, per esempio alcune statistiche dell'Unione europea, che mostrano come l'Italia non sia collocata, in questi tentativi di classificazione dei diversi Paesi sul versante dell'innovazione tecnologica, in una posizione di particolare preminenza.
La domanda che però mi pongo - e che, come vedrete, è in parte retorica - è se quest'immagine sia del tutto realistica. Dobbiamo accompagnarci di questa immagine, che spesso nelle classifiche internazionali composte con tanti Paesi colloca l'Italia in posizioni che talvolta sembrano tra il curioso e l'assurdo?
Credo che ci sia uno spazio per valutare in modo più preciso la posizione del nostro Paese in questa dimensione, e, in particolare, vorrei sviluppare alcune considerazioni sulle imprese, i settori e i territori dell'alta tecnologia in Italia.
Userò un indicatore limitato, che, come tutti gli indicatori, ha alcuni limiti, peraltro ben noti. Voi sapete che i brevetti sono un indicatore soprattutto della capacità di innovazione tecnologica, ma naturalmente non tutte le innovazioni sono tecnologiche.
Noi sappiamo che nei settori del made in Italy lo sono molto poco, perché c'è un tipo di innovazione diversa, legata all'immagine, alle caratteristiche dei prodotti e anche al ruolo incrementale dell'innovazione, che non si manifesta attraverso il brevetto. Certamente, però, per quanto riguarda i settori ad alta e medio-alta tecnologia, esso rappresenta un buon indicatore.
Potremmo ricordare che non tutte le innovazioni tecnologiche sono brevettabili e che non tutte sono brevettate, e, inoltre, che non tutti i brevetti si concretizzano in innovazione. Per esempio, in alcuni settori esiste la cosiddetta brevettazione strategica: le imprese fanno brevetti per difendersi da altre aziende concorrenti e bloccare lo sviluppo nella logica della competizione di alcune attività che i concorrenti stanno svolgendo.
La conclusione è che, pur con tutti questi limiti, a livello internazionale il brevetto è considerato un buon indicatore per misurare le capacità di innovazione nei settori dove essa è più tecnologica e, quindi, prevalentemente, in quelli ad alta e medio-alta tecnologia.
Cominciamo a vedere alcuni dati e figure. La torta illustrata nella slide n. 5 della documentazione ci dà un'indicazione di come sono distribuiti i brevetti nelle varie macroaree del nostro Paese. Per la verità, con maggiore precisione, si tratta di domande di brevetti presentate da imprese italiane all'European Patent Office (l'Ufficio europeo dei brevetti) tra il 1995 e il 2004. È riportata una cifra: i brevetti italiani in questo decennio sono stati circa 28 mila, la maggior parte dei quali, quasi il 47 per cento, proviene dai sistemi locali del Nord-Ovest, in particolare Piemonte, Lombardia e Liguria, ma una parte molto consistente - un altro 43 per cento - viene dalla cosiddetta terza Italia.
Nell'economia e nella sociologia economica italiana si parla di terza Italia ormai da una trentina d'anni per individuare le regioni del Centro-Nord-Est (Toscana, Emilia, Marche, Veneto, il cosiddetto Triveneto) che sono state caratterizzate, negli ultimi 30-40 anni, da una forte crescita dei distretti industriali e dei sistemi locali di piccola impresa del made in Italy. Il dato relativo a quest'area si riferisce soprattutto a una particolare componente della nostra specializzazione distrettuale, e cioè alla meccanica e agli apparecchi medicali.
Abbiamo una presenza consistente nel Lazio, che significa essenzialmente Roma. Purtroppo vedete da questi dati come, se
usiamo l'indicatore brevetti, lo scarto tra il Centro-Nord del Paese e il Mezzogiorno risulta molto più marcato per questo indicatore di propensione all'innovazione tecnologica che non se usassimo altri dati, con i quali vengono tradizionalmente sviluppati i confronti tra Nord e Sud. Nella slide n. 6, vediamo ancora un quadro delle regioni non tarato sugli abitanti: sono indicati valori bruti, assoluti, del numero dei brevetti. Spiccano la Lombardia, ma anche l'Emilia-Romagna e il Veneto: la posizione di queste regioni - come spiegherò tra un momento - è molto legata al peso della meccanica nelle loro attività produttive. Il Sud, come notate, quasi scompare nella cartina.
Nella slide n. 7, i rossi e i verdi più scuri sono i sistemi locali del lavoro che, come sapete, rappresentano una particolare partizione territoriale che viene usata ormai da tempo dal nostro Istituto di statistica nazionale, il quale individua un'area integrata tra residenza e lavoro, ed è stimata attraverso i flussi di pendolarità giornaliera. I sistemi locali del lavoro sono praticamente aree di mercato del lavoro integrate, e questo ci offre un'indicazione più fine della diffusione. Vedete molto bianco nel Mezzogiorno, molto verde nel Centro e nel Nord-Est, ma anche alcuni rossi, che corrispondono a Milano, Bologna e Torino. Il ruolo delle città è molto importante, come ci si poteva aspettare, nelle attività ad alta tecnologia, e le città metropolitane rivestono un ruolo di primo piano: Milano da sola ha circa il 20 per cento del totale nazionale dei brevetti. Arriviamo al 40 per cento, se consideriamo
insieme Milano, Bologna, Roma e Firenze.
La particolarità italiana è che abbiamo una rete di città medio-grandi, sui 100 mila abitanti, che fanno parte soprattutto dell'area che menzionavo prima, la cosiddetta «terza Italia», le quali contribuiscono, tra l'Emilia, il Veneto e, in parte, la Toscana, alla crescita dei nostri brevetti.
Nella slide n. 9, la linea in alto, colorata di rosso, vi mostra il trend di crescita. Fortunatamente, c'è una dinamica di crescita dei nostri brevetti. Nel secondo quinquennio, ossia tra il 2000 e il 2004, le domande sono state di un quarto superiori a quelle del primo quinquennio che abbiamo considerato, e l'area maggiormente cresciuta è il centro Italia.
Penso che il grafico seguente (slide n. 10), soddisfi alcune curiosità, illustrando la composizione per macrosettori tecnologici. La parte sotto la torta, che di colore rosso, con circa il 50 per cento, è costituita dall'alta e medio-alta tecnologia. Il ruolo fondamentale - come vedete sulla sinistra dai dati concernenti la scomposizione per settore - è svolto dalla meccanica, il nostro vero asse portante. Potrei aggiungere che noi siamo i leader nel mondo soprattutto nella meccanica strumentale e ci contendiamo questa posizione, anche in termini di brevetti, con i nostri competitori principali, ossia i tedeschi. La Germania e l'Italia sono i due Paesi all'avanguardia nella meccanica strumentale e nella produzione di macchine per altre produzioni, in particolare il packaging, ma anche di macchine di movimento terra, e via elencando. L'alta tecnologia da noi rappresenta circa un quarto del totale, il cui 50 per cento consiste in
meccanica e autoveicoli, ma in senso stretto - uso queste definizioni secondo le classificazioni internazionali dell'Unione europea e dell'OCSE - vede una presenza non trascurabile della farmaceutica e degli apparecchi medicali, un interessante settore che combina un'antica tradizione nella farmaceutica, piuttosto gloriosa in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta. Qualcuno ricorderà Farmitalia e l'Istituto Carlo Erba, imprese che sono state in gran parte assorbite da multinazionali straniere. Esiste, però, ancora una tradizione importante, soprattutto in Lombardia, ma anche a Siena e in altri centri minori. È interessante anche il ruolo degli apparecchi medicali, che è uno strano settore, come dicevo, a cavallo tra la tradizione farmaceutica e quella meccanica. Nell'alta tecnologia, i poli principali per la farmaceutica sono Milano e Roma, ma anche Siena. Per gli apparecchi medicali sono Milano e Bologna, ma ci sono anche centri minori. Per
esempio, curioso
è il caso, che molti di voi conosceranno, di Mirandola, in Emilia, un distretto specializzato in apparecchi medicali. Nella medio-alta tecnologia, abbiamo Bologna in particolare, naturalmente Torino per i mezzi di trasporto, e Milano per la chimica.
Nella slide n. 12, i due colori che vedete, il più scuro e il più chiaro, che dovrebbe essere un giallo chiaro, vi mostrano un confronto tra i sistemi dell'alta tecnologia leader, cioè quelli per i quali la brevettazione delle imprese è superiore alla media che abbiamo calcolato, confrontati con i sistemi che vedono una presenza di brevetti, ma inferiore alla media. Di nuovo, osserviamo l'importanza soprattutto dell'area settentrionale del Paese.
Che cosa ci mostra il grafico seguente (slide n. 13), attraverso il confronto tra i sistemi più specializzati e quelli meno specializzati? Le colonnine in alto di colore scuro mostrano come siano importanti, per questi sistemi, le infrastrutture economiche e sociali, le reti di servizio, le reti immateriali, le strutture del tempo libero e i servizi. L'ordine pubblico è inferiore alla media, perché si riflette la situazione più compromessa, da questo punto di vista, o più a rischio, costituita dai grandi centri urbani, e in particolare da Milano. Se ne deduce che ci sono correlati socio-istituzionali che accompagnano la specializzazione delle imprese, le quali non brevettano da sole, ma si concentrano in aree con caratteristiche particolari, che le aiutano nella loro azione di innovazione.
Il dato seguente è illustrato nella slide n. 14 ed è, invece, relativo alla meccanica. La zona subalpina è chiaramente marcata dalla presenza di questa specializzazione produttiva, e anche in questo caso ci sono alcuni correlati, in termini di infrastrutture economiche e sociali e di reti che distinguono queste aree, su cui mi soffermo brevemente. Confrontiamo i sistemi locali leader, dove c'è una capacità di brevettazione delle imprese superiore alla media, nei due poli, l'alta tecnologia in senso stretto, e le macchine e gli apparecchi meccanici. Quali sono le caratteristiche? Abbiamo situazioni simili, sottolineate nella parte alta del grafico, che indicano l'importanza dell'agglomerazione territoriale. Lo dico perché mi permetterò di ritornarvi in chiave di implicazioni politiche del discorso che stiamo svolgendo: il territorio conta moltissimo per lo sviluppo di queste attività, non possiamo
immaginare imprese isolate. Pensate che il 6 per cento di tutti i sistemi locali del lavoro, che in Italia sono circa 800, raccoglie l'84 per cento del totale dei brevetti. La stesso vale per le macchine e per gli apparecchi meccanici. Si tratta di imprese radicate e affondate in sistemi territoriali particolari, con un'elevata dotazione, come abbiamo visto, di beni collettivi. In che cosa si differenziano, come mostra la parte inferiore del grafico? Per l'alta tecnologia in senso stretto abbiamo visto, attraverso il ruolo di Roma, Milano, Torino e Bologna, che le città metropolitane sono importanti, per la presenza di grandi imprese, servizi avanzati, ma soprattutto di capitale umano qualificato e di università. Il rapporto con l'università è più diretto nei sistemi dell'alta tecnologia. Viceversa, per le macchine e gli apparecchi meccanici il fulcro sono le medie imprese dei sistemi manifatturieri della terza Italia. In sostanza, in
questo caso la brevettazione è una proiezione, anche sul lato dell'innovazione, di una realtà largamente di tipo distrettuale. Anche da questo punto di vista, mi permetto di segnalare - tornerò poi su questo punto - di prestare attenzione a non dare per defunti i nostri distretti. Vedete, invece, la loro importanza, in particolare per quanto riguarda la meccanica.
Qual è, dunque, la collocazione dell'Italia nell'alta tecnologia, e qual è il ruolo del territorio nel suo sviluppo? Comincio a fornire una prima interpretazione del discorso che abbiamo svolto. L'Italia è così mal messa, come sembrerebbe dalle statistiche europee? Forse è un modello più solido del previsto, perché è un modello specifico con due specializzazioni distinte. In particolare, se si considera la nostra forza nella meccanica, la posizione dell'Italia
appare più solida. Tuttavia, questo non emerge con sufficienza dai dati delle statistiche internazionali, e in particolare da quelli dell'Unione europea - il cosiddetto European Innovation Scoreboard, che l'Unione europea pubblica annualmente per graduare e classificare i diversi Paesi sotto il profilo dell'innovazione tecnologica - che ci mettono in una posizione che probabilmente ci penalizza rispetto alla realtà e alle capacità di innovazione, misurate anche attraverso i brevetti, delle nostre imprese.
Guardate l'ultimo dato della slide n.18. Mi riferisco a un Paese unitario, ma non voglio su questo aspetto che ci siano implicazioni politiche: se per un esperimento puramente mentale togliessimo il Sud, i brevetti per abitante salirebbero dal tredicesimo al nono posto tra i Paesi europei, e al settimo posto per la tecnologia medio-alta.
I grafici successivi offrono dati ancora più precisi, relativi alle grandi regioni europee dell'alta tecnologia (slide n. 19). Sembra di vivere forse in una realtà che non conosciamo e che non percepiamo bene, però notiamo che il Nord-Ovest viene immediatamente dopo l'Île de France e la Baviera, ma anche il centro non sfigura tra le grandi regioni europee dell'alta tecnologia, né il Nord-Est.
Passando alla successiva slide n. 20, notiamo che la parte più scura e piccolina negli istogrammi mostra l'alta tecnologia in senso stretto. Vedete le prime dodici regioni europee: abbiamo la Lombardia al primo posto, quindi Baden-Württemberg, Stuttgart, con l'industria automobilistica e meccanica tedesca, e la Catalogna; poi abbiamo un'altra zona, l'Oberbayern tedesco, l'Île de France, e poi ritroviamo il Veneto, l'Emilia-Romagna e il Piemonte. Il paradosso dell'Italia è che risulta sottodotata rispetto ad altri Paesi in termini di input dei processi innovativi. Se guardate le statistiche che ci mostrano sempre i giornali, vedete che, soprattutto per la spesa in ricerca e sviluppo in termini di ricercatori, di istruzione terziaria (universitaria e oltre), l'Italia sembra penalizzata, però i risultati che otteniamo in termini di brevetti, di addetti nell'alta tecnologia, di tasso di introduzione di nuovi prodotti, ci mostrano
una situazione diversa. Probabilmente il motivo è che abbiamo un modello più informale di innovazione e di brevettazione, e una proiezione, nel campo della medio-alta tecnologia, di una logica di tipo brevettuale, la quale fa sì che, pur non avendo il tipo di spesa formale in ricerca e sviluppo e di forza lavoro formalmente qualificata di altri Paesi, otteniamo risultati non trascurabili. Il territorio conta molto, ed è un punto sul quale insisto. C'è un forte effetto di agglomerazione: il 12 per cento dei nostri sistemi locali ha più di due terzi delle imprese che brevettano nei settori principali. Non mi soffermo ulteriormente. Vorrei concludere con alcune osservazioni che vi propongo, e che immagino utili per il vostro lavoro, che è interessato maggiormente alle implicazioni politiche del tema che noi cerchiamo di mostrare.
La domanda che mi pongo è la seguente: visto che abbiamo questo modello particolare, un po' più informale, di innovazione, ma non così debole come a volte si pensa e come le statistiche internazionali lo descrivono, le politiche per l'innovazione che attuiamo nel nostro Paese sono coerenti con le caratteristiche dei processi di crescita e soprattutto di radicamento territoriale delle attività innovative? Mi permetto di insistere per attirare la vostra attenzione sul punto del radicamento territoriale: pochi sistemi del lavoro raccolgono la maggior parte delle imprese più brevettanti. Se proviamo a eseguire piccoli conti molto semplici, notiamo che - e sto cercando adesso di suggerirvi che le nostre politiche non sono coerenti con il nostro modello di attività innovative - è vero che l'Italia spende poco per ricerca e sviluppo, meno della media dei grandi Paesi europei (siamo sotto il 2 per cento del PIL), ma è meno
noto un dato che le statistiche europee ci presentano, vale a dire che abbiamo il numero più alto, tra i grandi Paesi, di singole imprese finanziate con fondi per l'innovazione.
Se ci limitiamo alle imprese che Eurostat, il sistema statistico dell'Unione europea, definisce innovative, vediamo (slide n. 24) che ricevono finanziamenti il 44 per cento delle imprese in Italia, contro il 20 per cento in Francia e il 14 per cento in Germania. Questo vuol dire che spendiamo meno in ricerca e sviluppo, e in università - argomento oggi all'attenzione, perché il Consiglio dei ministri, come sapete meglio di me, ha appena varato un provvedimento relativo alle Università - però diamo molto di più a un numero elevato di imprese, il che sta a significare che, a fronte dell'elevato numero di finanziamenti individuali, diamo molto, ma in modo molto poco selettivo, e per entità modeste. Molte indagini ci mostrano che spalmare quello che noi spalmiamo su una platea così ampia di imprese, con incentivi individuali alla singola impresa, non ha sostanzialmente un impatto diretto sulla capacità
innovativa. Diamo, cioè, vantaggi a tali imprese per il loro bilancio ma, con le politiche che formalmente portiamo avanti sotto l'etichetta di politiche per l'innovazione, non sosteniamo realmente l'innovazione.
Le regioni hanno un ruolo particolarmente importante, come sapete, in termini di competenze e di risorse e, in alcuni casi, anche di utilizzo delle risorse europee. Si stanno cercando di muovere rispetto a quel modello tradizionale, ossia l'incentivazione di singole imprese spalmata a pioggia. Stanno cercando di attrezzarsi per fare più politiche di sistema, cioè per promuovere reti, per riconoscere che l'innovazione non è un fatto individuale della singola impresa, ma è legato alle reti e ai rapporti di collaborazione tra imprese, e tra imprese ed enti di ricerca e, in particolare, le università.
Concludo mostrandovi alcune ultime slide. Come recuperare coerenza tra modalità dell'innovazione e politiche? Al riguardo, suggerisco che occorrerebbe un migliore coordinamento, una migliore divisione dei compiti tra Stato, regioni e finanza specializzata. Lo Stato, come in altri grandi Paesi, dovrebbe impegnarsi maggiormente nella promozione dei grandi fattori di input dell'innovazione, quali innalzamento dell'istruzione, funzionamento dell'università, promozione della finanza specializzata per le imprese, grandi reti infrastrutturali. Le regioni, a loro volta, dovrebbero concentrare maggiormente le risorse e, invece di finanziare con incentivi imprese singole, promuovere reti di collaborazione tra università e imprese, anche con una forte connotazione territoriale.
Passiamo, infine, al terzo punto: occorre un ruolo maggiore della finanza specializzata. Questo è un punto importante, a mio avviso. Un'altra caratteristica distintiva del nostro mondo dell'innovazione, rispetto a Paesi all'avanguardia come quelli scandinavi, ma anche ad altri grandi Paesi europei, è che noi abbiamo una debolezza della finanza specializzata per l'innovazione. Sostanzialmente, abbiamo pochissimo venture capital. Questo settore potrebbe essere più importante, perché il pubblico dovrebbe ritirarsi dal finanziamento individuale e muoversi di più sulle reti, sulle attrezzature e sui beni collettivi, e lasciare la valutazione dei progetti individuali a chi, per caratteristiche e competenze, è maggiormente in grado di effettuare una valutazione in termini di finanza specializzata, nella quale il contenuto dell'idea innovativa è molto più importante rispetto alle tradizionali garanzie nella
valutazione del merito di credito.
Arrivo agli ultimi due punti che intendo affrontare. Che cosa ci suggerisce l'aver aperto un po' la scatola nera dei processi di invenzione nel nostro Paese? A mio avviso, le linee sono due: rafforzare la collaborazione tra università e imprese e promuovere la ricerca universitaria con maggiori potenzialità di ricadute sull'innovazione economica.
Illustro il primo dei due obiettivi. Se noi volessimo perseguirlo, ripeto, occorrerebbe ridimensionare drasticamente gli incentivi individuali, che sono modesti ma diffusi, e sostenere con incentivi pubblici la costruzione di grandi reti di collaborazione con radicamento locale. Faccio notare, da questo punto di vista, che uno
degli ultimi progetti più interessanti che in Italia sono stati messi a punto, Europa 2015, ignora quasi del tutto la dimensione territoriale nella valutazione e nella promozione dei progetti.
Occorre rafforzare, come dicevo, il ruolo della finanza specializzata per l'innovazione, una finanza privata e - perché no? - anche pubblico-privata. Perché non pensare, per esempio, al ruolo delle fondazioni bancarie e al loro radicamento nei territori? Del venture capital ho già detto.
Il secondo obiettivo è promuovere la ricerca universitaria con maggiori potenzialità per l'innovazione economica. È un tema di attualità proprio oggi, nel momento in cui è stato approvato dal Consiglio dei ministri un importante disegno di legge di riforma dell'università.
Vorrei, innanzitutto, farvi notare, da questo punto di vista, che studi approfonditi mostrano che il potenziale di risorse scientifiche dell'università italiana, incluso quello delle università del Sud, è molto superiore a quello effettivamente impiegato per sostenere l'innovazione economica. Che cosa vuol dire questa mia affermazione? Vuol dire che, se noi usiamo i parametri internazionali (le citazioni, i riconoscimenti scientifici nella letteratura internazionale), vediamo che le nostre università, anche quelle del Sud, hanno una buona collocazione nel panorama internazionale, ma che riusciamo meno di altri Paesi a tradurre tale potenziale in attività che abbiano ricadute sul mondo dell'economia. Per esempio, abbiamo meno spin off, cioè attività industriali attivate dalla stessa imprenditorialità accademica, dalle stesse università, e meno imprese che lavorano con le università a processi
innovativi. Che cosa si potrebbe fare da questo punto di vista? Concludo illustrando tre punti. Siamo un Paese curioso: tutti gli altri o non l'avevano, o hanno abolito il cosiddetto privilegio accademico: in Italia, nel 2001, è stata introdotta l'idea che il compenso per un'invenzione debba andare all'inventore. Si tratta di un principio che, innanzitutto negli Stati Uniti, ma poi anche in altri Paesi europei dove tale tradizione esisteva, è stato eliminato. Il risultato del brevetto, le royalty, come accade nel settore privato, o nel CNR da noi, è stato imputato all'istituzione per la quale si lavora, la quale poi può anche premiare l'inventore. È importante abolire il privilegio accademico, perché in realtà è un elemento di complicazione che ostacola i processi di contrattazione tra i soggetti che collaborano alle attività innovative, e finisce per essere un vincolo invece che una risorsa. L'altra
iniziativa che considero opportuna consiste nel premiare, con misure di incentivazione adeguate, le università che investono maggiormente in assetti organizzativi interni, per esempio uffici di collegamento con le imprese, centri di ricerca, parchi scientifici, per favorire la rete di collaborazione con le imprese. Nel sistema di valutazione di finanziamento nazionale, che adesso si sta cercando di attrezzare, occorre attribuire un peso rilevante alle forme che spingono le singole università a investire maggiormente nel mettere a valore le loro conoscenze per l'economia locale. Infine, ritengo sia necessario promuovere la ricerca di frontiera con finanziamenti adeguati, concessi, però, con rigorosa valutazione di merito. Questo è sempre il nostro punto debole.
Permettetemi di concludere le rapide osservazioni che vi ho proposto con una semplice affermazione: non possiamo pensare di «fare le nozze coi fichi secchi». Le nostre università hanno molti problemi, che stiamo cercando di affrontare. I docenti universitari, miei colleghi, e io stesso, abbiamo molte responsabilità per il modo in cui funzionano le strutture universitarie. Occorre però prestare attenzione all'idea che noi non possiamo fare dell'università il necessario motore dell'innovazione, misurandoci, da questo punto di vista, in modo efficace con altri grandi Paesi avanzati, se l'Italia non investe significativamente risorse nelle attività universitarie. Se continuiamo con una politica di tagli indiscriminati alle università, non potremo assolutamente
pensare a un futuro nel quale rafforzare l'economia della conoscenza nel nostro Paese.
PRESIDENTE. Professore, la ringrazio per la relazione che ci ha proposto, che ha individuato anche alcuni elementi che sgombrano il campo da tanti luoghi comuni e dalla semplificazione di tante informazioni che, in realtà, ci giungono spesso attraverso i mass media, e che oggi, grazie all'analisi che ci ha proposto, consentono di ricollocare il nostro Paese in una prospettiva diversa, anche rispetto alle soluzioni che ci ha proposto.
Allo scopo di organizzare in modo efficiente i nostri lavori e per lasciarle il tempo di fornirci le sue risposte, proporrei ai colleghi di rivolgere domande molto precise, in modo da ricevere risposte altrettanto precise.
Penso che sia un'ottima occasione per approfondire molti temi che sono oggetto di questa indagine conoscitiva. Stabiliamo, dunque, di concedere due minuti per ciascuna domanda.
ALBERTO TORAZZI. Non sono molto sorpreso da questi dati, perché sappiamo che una forza del nostro sistema è il sistema della catena corta: le piccole e medie imprese sono più dinamiche, c'è meno burocrazia e, quindi, quando ci sono persone che hanno inventiva, vengono stimolate e messe alla prova più facilmente.
Mi interessa conoscere il numero di imprese rispetto ai concorrenti stranieri, il che spiegherebbe anche perché i finanziamenti vengono divisi in un certo modo.
Per quanto riguarda le iniziative per stimolare una maggiore connessione tra imprese e università - che io vedo sicuramente con favore - si pone il problema sulle modalità di realizzazione di tale collegamento. Io ritengo che sarebbe necessario - vorrei sentire il suo parere in merito - coinvolgere le associazioni che ben conoscono e ben raggiungono le imprese e che sono stimolate a portare loro l'innovazione. Mi riferisco a Confartigianato, alla Confapi o, comunque, alle associazioni delle piccole e medie imprese, nonché a Confindustria.
Sono d'accordissimo sul discorso della finanza specializzata. Quando lei, però, parla di connettere le università con le imprese, ritengo che manchi un passaggio: per quanto riguarda i ricercatori, anche in base all'esperienza maturata lavorando in fabbrica e contattando esponenti dell'università, ma anche del CNR, spesso ci sono soggetti che - diciamo la verità - non si ammazzano di lavoro e non si sforzano di migliorare.
Se vogliamo avere un rilancio continuo, dobbiamo introdurre una forma di concorrenza all'interno della categoria dei ricercatori e dei professori e, quindi, prevedere contratti che non possono essere a vita, ma che vanno rinnovati. Se tutto ciò viene realizzato a livello nazionale, non lo tradurremmo, come pensano alcuni, nel licenziamento di milioni di persone, ma ci sarebbe una selezione per spingere professori e ricercatori a darsi da fare per connettersi. Altrimenti, avremo sempre una forma di conservazione, che impedisce l'emergere delle buone idee.
Vorrei conoscere il suo parere sui tre aspetti che le ho segnalato.
SAVINO PEZZOTTA. Ringrazio il professor Trigilia per la relazione che, come sempre, è puntuale. C'è solo una domanda che vorrei porre in questa sede, anche per alcune letture di questi giorni. Il quadro da lei prefigurato, visto che è incentrato sulla meccanica, a me sembra impostato su un paradigma tecnologico tradizionale. Tale paradigma tradizionale regge ancora in questa fase, oppure c'è una difficoltà, una diffidenza, da parte del nostro apparato produttivo, ma anche politico e direzionale, rispetto ai nuovi paradigmi? Oppure, continuiamo a perdere il tempo a discutere di globalizzazione dimenticando che stiamo ancora operando esclusivamente, anche in base all'analisi che lei ci ha presentato oggi, sul motore elettrico?
Non vedo particolari iniziative per quanto riguarda i settori dell'informatica, della telematica, della modalità organizzativa, che pure dovrebbe rientrare nei processi di organizzazione, per quanto riguarda
la dimensione territoriale, dove la frammentazione eccessiva mette gli uni in concorrenza con gli altri e non genera elementi di cooperazione. Tale circostanza, peraltro, è confermata anche nella scarsa relazione, certo non dappertutto, tra le dimensioni distrettuali e i poli universitari.
MASSIMO CALEARO CIMAN. Vorrei rivolgere al professore una domanda. Lei fa riferimento ai brevetti europei, ricordando che la maggior parte delle imprese italiane sono piccole e medie. Il costo del brevetto europeo, molto spesso, è la ragione che limita la brevettazione alle piccole imprese. Credo che bisognerebbe trovare modi per aiutare le piccole e medie imprese ad avere la possibilità di brevettare in maniera seria.
Lei, giustamente, parla di brevetti europei, perché sappiamo che quello italiano non vale niente. Se riuscissimo a trovare alcuni strumenti per permettere alle piccole e medie imprese di essere aiutate nella brevettazione, forniremmo anche un sostegno alla crescita tecnologica delle imprese.
Da ultimo, a proposito del rapporto tra università e piccola e media impresa, l'università, perlomeno un determinato mondo accademico, ha sempre visto la piccola e media impresa come un modo di sporcarsi le mani, e la piccola e media impresa vede l'università come un luogo di «baroni». Sono, quindi, d'accordo con il collega quando parla di diretto rapporto con le associazioni di categoria, a cominciare da Confindustria. Ho molta paura, però, dei consulenti delle diverse associazioni, che fanno più sistema di consulenze che aiuto all'impresa.
LUDOVICO VICO. Leggo oggi che Domenico Arcuri di Invitalia, all'osservazione che gli si pone «la vostra liquidità è scesa da 867 milioni di euro a 669», risponde «se li è presi il Ministro dell'economia». Invitalia, peraltro, non so per quali caratteristiche, sarebbe già candidata all'Agenzia del Sud. Lo stesso giorno in cui lei, professor Trigilia, sul Mattino ha scritto «Il caso Sud oltre la banca», il Ministro Scajola sostiene che il piano è quasi pronto e che ci sono 90 miliardi di euro di fondi europei destinati al Sud entro il 2013. Ho fatto molte operazioni, ma quelle cifre proprio non mi risultano. Esiste invece la Cassa depositi e prestiti il cui ruolo viene continuamente dimenticato.
Quando lei giustamente afferma che la sua non è una valutazione politica, ma se non ci fosse il Sud saremmo al nono posto, non è scritto da nessuna parte che dalla Val D'Aosta fino alla Sicilia bisogna produrre alta tecnologia. La tenuta unitaria di un Paese è una questione un po' più complessa e complicata. Condivido quanto lei ha scritto sul Mattino, ossia che forse non sono la Banca del Sud e il federalismo in sé «gli alimentatori» per affrontare la questione meridionale.
FEDERICO TESTA. Se non ho capito male, nella relazione si afferma che i nostri investimenti in ricerca e sviluppo sono più bassi di quelli a livello globale, ma che noi non otteniamo risultati inferiori, e si valorizza molto il discorso del territorio.
Dal punto di vista del legislatore, al di là dei suggerimenti proposti nella relazione svolta, quale può essere la strada attraverso cui riusciamo a cogliere il dato del territorio? Come possiamo individuare strumenti che non incidano sulla singola impresa, ma sui sistemi territoriali che, come abbiamo visto, sono una delle ragioni di forza del nostro modello? Spesso si è ragionato di questo, ma senza trovare poi il punto. Si era parlato di dichiarazione dei redditi, di distretto, di iniziative anche fantasiose, però qual è la strada?
PRESIDENTE. Sulla base degli accordi sull'organizzazione dei lavori che informalmente abbiamo preso, concederei al professor Trigilia di poter replicare fino alle 15,25, perché poi abbiamo l'ufficio di presidenza e il prosieguo della discussione della risoluzione presso la IX Commissione.
CARLO TRIGILIA, Professore ordinario di sociologia economica presso l'Università di Firenze.
Rispondo rapidamente, anche perché alcune domande possono essere trattate congiuntamente e si può fornire loro una risposta complessiva.
Per quanto riguarda le osservazioni dell'onorevole Torazzi, è vero che noi abbiamo molte più piccole imprese rispetto ad altri Paesi però, a maggior ragione, a mio avviso, il dato che vi ho mostrato, ossia che noi, sotto l'egida delle politiche dell'innovazione, finanziamo un numero molto più elevato e consistente di imprese con risultati poco efficaci, è motivato dal fatto - ormai ci sono indagini che lo verificano - che l'incentivo che l'impresa riceve non è tale da spostare le decisioni realmente importanti. Mi pare, per esempio, che anche Confindustria, nell'ultimo periodo, sia addivenuta all'idea che forse bisogna rinunciare agli incentivi individuali e concentrare le risorse finanziarie disponibili - vengo al secondo punto della sua domanda , che poi è stato sollevato anche da altri suoi colleghi - nel promuovere reti di collaborazione tra università e imprese.
Noi vediamo che quello di innovazione è sempre più un processo relazionale, cioè non è basato sulla singola impresa; l'impresa che innova e che brevetta, sia secondo le indagini che abbiamo svolto, sia secondo la letteratura internazionale, è più aperta a collaborazioni con altri soggetti e con strutture di ricerca. Sappiamo anche che una dimensione di impresa piccola o medio-piccola naturalmente ha difficoltà a rapportarsi con l'università. Ci sono costi - come ricordava l'onorevole Calearo - relativi alla brevettazione, ma anche legati al rischio di imbarcarsi in progetti di ricerca che possono essere costosi e dalla resa incerta nel tempo. Abbiamo bisogno di un sistema che favorisca e promuova, al di là della logica di mercato, che da sola non è in grado di farlo, la connessione tra imprese e mondo dell'università e della ricerca. Si tratta di una questione che è stata sollevata
anche da altri. Che cosa si potrebbe fare? La mia personale opinione, suffragata da un lavoro di studio e di ricerca di alcuni anni, è che lo strumento dovrebbe essere quello di favorire la competizione tra progetti di aggregazione costruiti volontariamente da imprese e mondo dell'università. Prendiamo il caso - per intenderci - di Europa 2015. Invece di prendere la strada che ha imboccato, avrebbe potuto, almeno in parte, intraprenderne un percorso basato sullo stanziamento di una quantità di risorse per progetti che promuovono reti territoriali, in cui imprese e università si aggregano per risolvere un problema di sviluppo. Faccio ancora un esempio. Il distretto di Prato ha problemi seri di innovazione e modernizzazione. Può mettersi insieme con l'Università di Firenze, di Siena, o anche di Düsseldorf o di Stanford, per un progetto nel quale le imprese si impegnano a collaborare, per esempio, per applicare le nanotecnologie
ai nuovi tessuti. Il progetto viene presentato e valutato, con strutture di valutazione assolutamente qualificate, anche internazionali, e soprattutto «blindate» da pressioni di natura politica, insieme ad altri progetti che vengono proposti. Si apre, quindi, una selezione tra reti che hanno anche una base territoriale, dal momento che l'innovazione ha una forte base territoriale, e alla fine vincono, sulla base del merito, i progetti migliori. Se immaginiamo tale meccanismo nel tempo, ci rendiamo conto che si tratta di un segnale che diamo ai territori. Il territorio che magari ha proposto una cattiva rete o non ne ha una proposte affatto, per i suoi bisogni di modernizzazione capisce che la prossima volta, se lo farà, avrà più chance, ma deve fare sul serio. Questo potrebbe essere un modo attraverso il quale promuovere l'innovazione nei sistemi locali, tenendo conto dell'importanza del radicamento territoriale, ma senza una
distribuzione spalmata secondo criteri di tipo politico o «tappabuchi», in base ai quali si stanziano soldi su un dato settore in crisi, senza che in realtà ci sia dietro un progetto o una progettualità che si devono, invece, stimolare.
Per quanto riguarda l'interessante osservazione di Savino Pezzotta, vi è certamente
una parte di paradigma tradizionale dietro queste considerazioni, però la meccanica è un mondo in forte evoluzione, tant'è vero che molti sistemi che oggi brevettano sono, più che di meccanica, di meccatronica, ossia un mix di meccanica e di elettronica.
In merito ai contenuti delle invenzioni che vengono brevettate, abbiamo provato, per esempio, a farli valutare da giurie di esperti qualificati nel campo - non siamo certo noi, poveri ricercatori socioeconomici, a poter valutare tecnicamente queste innovazioni - i quali sostengono che, in molti casi, la qualità dei brevetti italiani su quella specifica fascia è di tutto rispetto. Nella nostra meccanica vi è certamente una componente tradizionale, ma ce n'è anche una legata alla meccatronica, che è di tutto rispetto e andrebbe presidiata. Naturalmente, non è tutto: è giusto anche sottolineare che, quando si parla di alta tecnologia, si tratta anche di altro. Per esempio, la farmaceutica è un settore che dovremmo coltivare di più. Del resto, se leggete i dati sui brevetti, vedete che - oggi non ho potuto presentarli per ragioni di brevità - si ha molta brevettazione nelle fasi iniziali del processo di
sviluppo di un prodotto farmaceutico, che è un processo molto lento e dura in media dieci anni. Le prime fasi sono quelle più semplici, dal momento che si brevettano principi attivi, come proteine, o altro. Dopodiché, bisogna cominciare a vedere come la proteina si può trasformare in un farmaco, sperimentare sugli animali, e via elencando. Il fatto interessante è che siamo molto attivi in queste prime fasi, per i fattori legati anche alla potenzialità che ci sono ancora nelle nostre università, però non riusciamo a presidiare le fasi a valle, perché sono molto costose e richiedono investimenti. Anche su questo fronte bisogna tenere presenti le potenzialità anche di paradigmi non tradizionali, che pure ci sono. Questo, però, richiede una ricognizione, a mio giudizio, un'attenzione particolare. I dati offrono un'idea. Per esempio, se scendessimo nel dettaglio - l'ho mostrato per la farmaceutica
e per gli apparecchi medicali - è evidente che, se si vuole intervenire dall'alto, si deve introdurre una competizione tra i sistemi. Non si deve pretendere, che sia il Ministero dello sviluppo economico a stabilire a chi dare quanto. Occorre stimolare l'innovazione e la formazione di reti, farla valutare adeguatamente, e mettere in competizione i territori e le imprese tra di loro. Se si pretende di farlo dall'alto, si cade in un vecchio meccanismo di pianificazione politica che non funziona, perché l'operatore pubblico non ha gli strumenti per stabilire se sia meglio seguire una determinata traiettoria tecnologica, piuttosto che un'altra.
Il costo del brevetto è un problema su cui bisognerebbe intervenire, all'interno, però, dei progetti più ampi di rete, che potrebbero avere una componente di finanziamento e di assistenza specifica alle piccole imprese proprio per la brevettazione.
Con riferimento alle modalità di promozione del territorio, credo di avere risposto: immagino programmi che prevedano una competizione tra reti che si formano e che devono essere valutate.
L'ultimo punto è il problema del Sud, che, naturalmente, dal discorso sull'innovazione esce, come avete visto, drammaticamente. Il guaio è che, se andiamo a vedere le politiche di utilizzo dei fondi europei, notiamo che una buona parte di esse, e ancora di più nel nuovo ciclo che si è aperto, compaiono sotto l'etichetta di «politiche per l'innovazione». In realtà, sono spesso politiche distributive, che danno pochi quattrini a tante imprese, con scarsissimi effetti sull'innovazione.
Le argomentazioni che ho cercato di portare alla vostra attenzione hanno, a mio avviso, una valenza ancora maggiore nel Mezzogiorno, nel senso che proprio in quell'area bisognerebbe compiere uno sforzo per collegare maggiormente le potenzialità che ci sono nelle università meridionali - dove ci sono bravi ricercatori e, fortunatamente, nuclei di potenzialità e di innovazione molto forti - con le imprese. Se le regioni meridionali, nella
gestione dei fondi di loro pertinenza, utilizzano tali fondi, in realtà, per una distribuzione a pioggia, che rafforza i ben noti meccanismi consensuali, spesso - ahimè - richiesti anche dalle associazioni di categoria, il risultato è che noi non facciamo politica dell'innovazione e sprechiamo risorse.
PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione prodotta dal professor Trigilia (vedi allegato). Nel ringraziare il nostro ospite per la «lezione» che ha tenuto oggi, esprimo l'auspicio di poterlo incontrare nuovamente presso questa Commissione in altre occasioni.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15,25.
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