Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Strumento di esplorazione della sezione Lavori Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

Torna all'elenco delle indagini Torna all'elenco delle sedute
Commissione X
11.
Mercoledì 26 settembre 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Froner Laura, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE CARATTERISTICHE ATTUALI DELLO SVILUPPO DEL SISTEMA INDUSTRIALE E IL RUOLO DELLE IMPRESE PARTECIPATE DALLO STATO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL SETTORE ENERGETICO

Audizione di rappresentanti della Banca d'Italia:

Froner Laura, Presidente ... 3 10 16 19
Franco Daniele, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia ... 3 5 6 16 17 18
Lulli Andrea (PD) ... 14 16
Pezzotta Savino (UdCpTP) ... 14 18
Romani Paolo (PdL) ... 11
Testa Federico (PD) ... 10
Torazzi Alberto (LNP) ... 5 6 12 16
Vico Ludovico (PD) ... 11 17

ALLEGATO: Documentazione consegnata dai rappresentanti della Banca d'Italia ... 21
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, Democrazia Cristiana): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA; Misto-Iniziativa Liberale: Misto-IL.

[Indietro] [Avanti]
COMMISSIONE X
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 26 settembre 2012


Pag. 3


...
Audizione di rappresentanti della Banca d'Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle caratteristiche attuali dello sviluppo del sistema industriale e il ruolo delle imprese partecipate dallo stato, con particolare riferimento al settore energetico, l'audizione di rappresentanti della Banca d'Italia.
Do la parola ai rappresentanti della Banca d'Italia per lo svolgimento della relazione. Seguiranno gli interventi dei componenti della Commissione che vorranno porre domande e formulare osservazioni.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Comincerò io e i colleghi, eventualmente, mi aiuteranno nel rispondere alle domande.
Abbiamo preparato una nota abbastanza lunga che, ovviamente, non leggerò, ma scorrerò molto rapidamente, fermandomi su alcuni punti, restando comunque disponibili per qualsiasi approfondimento.
La nota cerca di riassumere i lavori svolti in Banca d'Italia, ma non solo, sull'evoluzione, la struttura e le difficoltà del sistema industriale italiano. Una prima sezione cerca di offrire un quadro dell'evoluzione del sistema produttivo italiano grosso modo dall'inizio di questo secolo. Nella seconda sezione ci concentriamo sui fattori esterni che hanno determinato le difficoltà vissute dal nostro sistema produttivo, come la globalizzazione e i cambiamenti tecnologici. Nella terza sezione esaminiamo la dinamica della produttività, in Italia in questo periodo particolarmente negativa se confrontiamo il nostro Paese con quasi tutti gli altri Paesi. Qui cerchiamo di descrivere i fattori che possono spiegare questa dinamica. Nella quarta parte ci occupiamo delle imprese pubbliche, nella quinta del settore dell'energia e, nell'ultima sezione, cerchiamo di delineare come la politica economica possa cercare di alleviare le difficoltà del nostro sistema produttivo.
Partirei rapidamente dalla prima parte, nella quale, innanzitutto, riassumiamo cos'è accaduto al nostro sistema produttivo mettendo in luce come, guardando ad esempio la crescita del PIL pro capite, questa sia andata a mano a mano rallentando, per arrivare alla situazione attuale, in cui nel 2011 il PIL pro capite era di quasi 7 punti inferiore al livello pre-crisi. Questa è la più grande recessione che l'Italia abbia visto dal dopoguerra e quest'anno subiremo un ulteriore taglio.
La figura 1 a pagina 39, mostra come l'Italia, rispetto agli altri principali Paesi


Pag. 4

occidentali - siamo la linea rossa - abbia progressivamente e fortemente perso posizioni. Accanto a questo rallentamento dell'economia italiana, nello scorso decennio abbiamo visto anche un progressivo peggioramento del saldo italiano con l'estero. La nostra bilancia dei pagamenti, nonostante l'economia crescesse poco, è andata molto male arrivando a un deficit superiore al 3 per cento del PIL, quasi 1.000 euro l'anno di deficit per cittadino italiano. Questo ha riguardato soprattutto il saldo delle merci, per cui in questo senso il settore industriale risulta essere importante.
A pagina 5 della nota entriamo nel merito del settore industriale e diamo conto del peso che esso riveste in Italia, ancora relativamente importante. La figura 4, a pagina 40, mostra come (l'Italia è di nuovo rappresentata in rosso) il nostro Paese sia secondo solo alla Germania sotto il profilo del peso del settore industriale, con la differenza, però, che in Germania l'incidenza del settore industriale negli ultimi anni è rimasta costante e addirittura aumentata, mentre in Italia ha visto una discesa, come del resto è accaduto per Spagna, Francia e la maggior parte degli altri Paesi dell'area dell'euro.
Attirerei la vostra attenzione sulla figura 5, a pagina 41, che spiega meglio cosa è accaduto. Nella parte alta, da sinistra verso destra, ci sono i vari settori industriali del commercio internazionale: a sinistra, ci sono i settori che sono cresciuti molto negli ultimi anni nel commercio internazionale; sotto la linea, ci sono i settori in cui l'Italia è sottorappresentata; sopra la linea quelli in cui l'Italia è sovrarappresentata.
Il grafico nella parte alta mostra come nei primi cinque settori più dinamici del commercio internazionale, negli ultimi 15-20 anni, l'Italia sia sottorappresentata. La parte in basso mostra, invece - è la stessa fotografia, ma guardando i singoli Paesi - come l'Italia sia sottorappresentata nelle esportazioni verso gli Stati Uniti e la Cina, che sono i due Paesi cresciuti maggiormente in termini di commercio internazionale negli ultimi anni. Questo dato ci dice che l'Italia ha affrontato gli ultimi 15 anni con una specializzazione per settori e per mercati che non era quella cresciuta maggiormente in questi anni e questo in parte spiega i nostri problemi.
Nelle pagine successive esaminiamo quanto è accaduto nei vari periodi, nel 2000 e durante la recessione. Attirerei la vostra attenzione sulla figura 6, a pagina 42, una fotografia di quanto è accaduto al settore produttivo italiano durante la recessione. Due settori sono scesi molto. In blu è il settore delle costruzioni, dell'edilizia e delle infrastrutture; in rosso il settore manifatturiero. Il primo è, sostanzialmente, in discesa dall'inizio del 2008; il secondo ha subìto una caduta pesantissima nel 2009, ha recuperato in parte e adesso è di nuovo in una fase discendente. Questi sono i due settori che hanno subìto più fortemente la crisi.
Attualmente, la produzione industriale è del 22 per cento inferiore al livello pre-crisi, ma con cadute molto più forti in alcuni comparti, come quello del tessile abbigliamento, dei veicoli e dell'automobile. In questo siamo molto diversi dalla Francia, in cui la caduta è del 12 per cento, e dalla Germania, dove di fatto non c'è più caduta, ma che ha, al contrario, recuperato la posizione precedente.
A pagina 8 del testo e alla figura 9, a pagina 45, ci concentriamo sulle esportazioni ed emerge che in tutti i Paesi dell'area dell'euro adesso sono queste la componente più dinamica della domanda. L'Italia ha una dinamica dell'esportazione che va relativamente bene, ma restiamo molto meno dinamici della Germania, che in questi ultimi anni ha visto una dinamica molto migliore. Si nota dai grafici che questo in parte dipende dal fatto che la Germania è molto più presente nei Paesi che crescono molto, come la Cina e i Paesi dell'estremo oriente.
Complessivamente - secondo la figura 10 a pagina 46 - l'Italia ha perso quote molto significative del mercato mondiale, sia che guardiamo alle esportazioni in volume sia che vi guardiamo in valore. L'Italia, infatti, in blu, ha subìto perdite


Pag. 5

considerevoli, un po' in linea con la Francia, ma certamente la dinamica è molto diversa da quella tedesca.
Nella seconda parte cerchiamo di spiegare perché questo è successo. Ovviamente, ogni settore industriale, ogni impresa hanno una storia diversa, per cui pretendere di semplificare con interpretazioni generali è sempre difficile. Credo, tuttavia, che una linea di interpretazione possa essere che la nostra economia è stata colpita da tre fattori di cambiamento, innanzitutto dalla globalizzazione. Nell'arco di pochi anni, il commercio internazionale è aumentato enormemente, la concorrenza, in particolare dei Paesi asiatici, è aumentata moltissimo e il proseguimento del processo di integrazione europea che ha aumentato la concorrenza...

ALBERTO TORAZZI. Chiedo scusa, interrompo per un chiarimento su uno dei grafici. Quando parla di PIL per ore lavorate, si riferisce all'industria, ai servizi o anche al lavoro dei dipendenti pubblici? È l'insieme di tutte le ore lavorate in questo Paese dai lavoratori dipendenti o soltanto dell'industria o del settore privato?

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Questo è il totale.

ALBERTO TORAZZI. Sono, quindi, calcolate anche le ore del lavoro pubblico?

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. A quale grafico si riferisce?

ALBERTO TORAZZI. A quello della figura 11.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Sì, è il totale.

ALBERTO TORAZZI. È, comprensivo, quindi, dei lavoratori dipendenti pubblici.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Sono tre i fattori di cambiamento esterni: la globalizzazione, l'integrazione europea, che a sua volta ha aumentato la concorrenza in ambito europeo, e l'accelerazione dei cambiamenti tecnologici, in particolare nel settore dell'informazione e delle comunicazioni. Tutto questo ha aumentato in tutto il mondo la pressione concorrenziale e ha, in qualche modo, colpito il nostro settore produttivo, che aveva, come vedremo, due elementi di debolezza, alcuni interni al settore produttivo, in particolare il fatto di essere composto di impresa in media molto piccole, altri nel contesto, che ha a che fare con la qualità dei servizi pubblici, della regolamentazione e così via. Vedremo più avanti.
In Banca d'Italia - pagina 10 - abbiamo condotto vari lavori in quest'ultimo decennio sulle imprese italiane. Per un'indagine annuale intervistiamo più di 4 mila imprese. Effettuiamo, infatti, interviste dirette con molte imprese ed emerge, da un lato, una situazione di difficoltà di molte imprese - molte hanno chiuso, si sono ristrutturate, hanno ridotto la loro attività - da un altro, si evidenziano moltissimi casi di successo, di cui abbiamo cercato di dare conto, di cui a pagina 10 cerchiamo anche di raccontare qualche episodio.
Moltissime imprese hanno reagito all'accentuarsi della concorrenza cambiando le proprie strategie, innovando i mercati e la tipologia dei prodotti. Queste imprese di successo sono quelle che hanno investito molto nelle attività produttive prima della produzione fisica e poi anche nella produzione fisica, investendo nel design, nella commercializzazione, nel marketing, nell'assistenza post-vendita. Si tratta delle imprese che continuano ad avere successo nonostante questa situazione.
A pagina 11, è visibile un altro tipo di imprese, di quelle che non vendono al consumatore finale, ma ad altre imprese. Molte di queste hanno subìto pesantemente


Pag. 6

gli effetti della crisi, ma anche qui abbiamo riscontrato molti casi di successo. Nel corso di un colloquio di qualche tempo fa con un operatore della grande distribuzione internazionale, ci è stato detto che comprano adesso in Italia da imprese italiane più di quanto non vendano ai consumatori finali, producono per loro e sono felicissimi della qualità dei prodotti che ottengono da queste imprese.
Nella terza sezione cerchiamo di dare conto dell'andamento della produttività, che è stata stagnante in Europa, come mostrato chiaramente dal grafico 11, a pagina 47. In L'Italia, in rosso, il PIL per ora lavorata, ad esempio, dal 1999-2000 è sostanzialmente costante. Questo pone l'Italia in una situazione molto diversa da quella della maggior parte degli altri Paesi.
Questa dinamica della produttività ha fatto sì che, nonostante l'aumento delle retribuzioni in questo periodo sia stato molto modesto - non abbiamo avuto una dinamica esplosiva del costo del lavoro, tutt'altro - l'Italia ha perso competitività. La figura 12, a pagina 47, mostra l'andamento del costo del lavoro per unità di prodotto: l'Italia - linea verde - ha avuto un aumento del costo del lavoro abbastanza significativo. La linea della Germania in basso è molto diversa.

ALBERTO TORAZZI. Come è misurato il costo per unità di prodotto? È l'insieme di tutte le ore lavorate? Se è così, i dati non sono intelligibili.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Il costo del lavoro per unità di prodotto è il salario sulla produttività oraria che si trova nel grafico in alto.

ALBERTO TORAZZI. Il totale di tutti gli stipendi pagati in questo Paese rispetto a tutti i prodotti e ai fatturati realizzati in Italia. Questo è il senso. Vuol dire che sono compresi anche i dipendenti pubblici.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Assolutamente sì. Questo è il costo per unità di prodotto per il totale economico.
Il grafico 13, a pagina 48, riporta un altro indicatore di competitività, basato sui prezzi alla produzione. L'Italia - linea verde - perde nuovamente competitività rispetto a Germania e Francia, ma ne guadagna significativamente rispetto a Olanda, Spagna e Belgio.
Nel complesso - guardiamo soltanto l'industria, a pagina 12 - la produttività del lavoro nell'industria italiana dal 2000 al 2011 è aumentata dello 0,8 per cento. È una dinamica nettamente inferiore a quella che si riscontra nell'industria degli altri principali Paesi europei.
Nella parte successiva cerchiamo di dare alcune risposte. Innanzitutto, possono sussistere anche problemi statistici. Ovviamente, in una situazione in cui parte della produzione è delocalizzata, può essere difficile capire come vada la produttività nei quartieri generali, nella parte delle aziende che resta in Italia.
Al di là di questi problemi statistici, però, resta comunque una produttività che non cresce molto e le spiegazioni possono essere varie. Una prima spiegazione è nel fatto che, in una situazione in cui è aumentata la concorrenza, in cui pesa di più l'innovazione dei prodotti e la capacità di modificare i prodotti e le tecnologie, un Paese che spende relativamente poco in ricerca e sviluppo - lo si vede dalla figura 14, a pagina 48, dove l'Italia risulta, tra i Paesi che qui consideriamo, spendere meno in ricerca e sviluppo, circa l'1,3 per cento del PIL - può avere più difficoltà a restare competitivo.
La differenza tra l'Italia e gli altri Paesi nella spesa per ricerca e sviluppo - pagina 15 - non riguarda tanto il settore pubblico quanto quello delle imprese, che spendono nel complesso lo 0,7 per cento del PIL contro l'1,2 della media dell'Unione europea, l'1,4 della Francia e l'1,9 della Germania. Anche in relazione al numero dei


Pag. 7

brevetti, la situazione italiana non è particolarmente favorevole.
Un aspetto positivo - figura 15 - è, però, che negli ultimi anni la spesa delle imprese in ricerca e sviluppo, nonostante il rallentamento dell'economia, tende leggermente a salire. Le nostre imprese stanno reagendo alla recessione, almeno fino al 2009 - che sono gli ultimi dati a disposizione - con un aumento della spesa in ricerca e sviluppo, ma restiamo su livelli relativamente bassi.
In altri lavori - pagina 14 - abbiamo cercato di dar conto dell'introduzione di nuove tecnologie nel sistema industriale italiano. Emerge una lentezza del nostro sistema industriale a introdurre nuove tecnologie. Questo può riflettere, a sua volta, vari fattori. Un primo fattore è quello delle dimensioni di impresa. La tavola 5 a pagina 54 fotografa la situazione delle dimensioni di impresa in vari Paesi ed emerge che l'Italia è, tra i principali Paesi europei, quello con le imprese più piccole. Emerge anche che il divario nelle dimensioni di impresa, rispetto agli altri Paesi, si è accentuato negli ultimi decenni. Non è un problema l'esistenza di troppe imprese piccole, che vanno benissimo, ma che queste hanno una difficoltà a crescere, per cui abbiamo relativamente poche imprese medie e grandi.
In una situazione in cui si compete sul mercato mondiale, un'impresa piccola può avere difficoltà nell'affrontare i costi fissi che vengono dall'essere presenti in altri mercati, dall'innovare e dall'introdurre nuovi prodotti. Riteniamo, quindi, che la carenza di imprese medie e grandi più che in passato si ripercuota negativamente sul nostro sistema produttivo. Da alcune indagini che abbiamo svolto - c'è una nota in fondo a pagina 15, dove ne citiamo una - emerge che molte imprese italiane, in effetti, dicono di se stesse esattamente che si ritengono troppo piccole per il mercato in cui operano.
A pagina 16 ci occupiamo dei distretti industriali. Abbiamo, infatti, in Banca d'Italia vari lavori sui distretti, che sono stati spesso il modo in cui un'economia composta di imprese piccole è riuscita, ciò nondimeno, a restare competitiva. Restando, infatti, tutti assieme, anche se le imprese erano piccole e separate, riuscivano a ottenere economie di scala per la concentrazione territoriale. Anche il sistema dei distretti sta subendo forti cambiamenti, ciò a causa di vari fattori fra i quali la pressione della globalizzazione. In diversi casi alcune parti della produzione prima effettuate all'interno dei distretti sono adesso effettuate altrove, in Cina o in altri Paesi, e questo, ovviamente, mina un po' la loro stessa logica di avere vicino tutte le imprese che si occupavano di tutto.
L'anno scorso abbiamo chiuso alcuni lavori sui distretti, da cui emerge, ad esempio, che l'espansione dei distretti in Italia è, sostanzialmente, finita. Ovviamente, sono storie diverse e qui sto semplificando. Il Sole 24 Ore ha pubblicato una serie di articoli sui vari distretti italiani e ciascuno di essi evidenzia una storia diversa, ma emerge che l'espansione si è arrestata, che i distretti tendono a essere meno specializzati in un particolare settore rispetto a prima, che nei distretti l'impresa o le imprese più grandi tendono ad assumere un ruolo sempre maggiore. La produzione tende, quindi, a concentrarsi in poche imprese più grandi e, guardando alla redditività e alla produttività dei distretti, in passato superiore a quella delle imprese non incluse in essi, le differenze si sono molto attenuate. I distretti restano un punto di forza della nostra economia, ma difficilmente possono ricoprire il ruolo dei decenni scorsi.
A pagina 17 citiamo un lavoro svolto sulle imprese subfornitrici, confrontando imprese tedesche e italiane. Emerge che le imprese subfornitrici hanno subìto gli effetti della crisi più delle altre imprese e questo spiega, in parte, la differenza dinamica della produzione tra Italia e Germania, laddove in Italia queste imprese hanno un ruolo maggiore che in Germania.
Un altro aspetto che può essere di ostacolo all'adattamento, alla dinamica del nostro sistema produttivo è quello della struttura proprietaria e gestionale. Abbiamo,


Pag. 8

come diamo conto a pagina 17, un sistema di imprese in cui l'86 per cento è a proprietà familiare. Si tratta di una percentuale relativamente alta, inferiore a quella tedesca, pari al 90 per cento.
A distinguere le nostre imprese non è tanto la proprietà quanto la gestione. Emerge che, in larga parte delle nostre imprese a proprietà familiare, tutti i dirigenti dell'impresa sono membri della famiglia. Come rilevano i dati citati alle pagine 17-18, questo è molto diverso da quanto accade, per esempio, in Germania, dove la proprietà familiare è molto diffusa, ma la presenza di dirigenti e manager esterni è molto più diffusa che in Italia.
È chiaro che ogni famiglia sceglie come gestire la propria impresa ed è assolutamente libera di farlo, ma questo può far sì che le nostre imprese colgano meno l'opportunità di utilizzare del buon capitale umano rispetto alle imprese tedesche. Questa, ovviamente, resta una materia in cui l'imprenditore è proprietario e responsabile delle sue scelte.
L'ultimo aspetto esaminato in fondo a pagina 18 è quello di una classe imprenditoriale - lo vedete anche alla tavola 8 - in cui i nostri imprenditori sono mediamente più anziani di quelli di altri Paesi. Il 21 per cento ha un'età superiore a 64 anni, contro il 9 per cento in Germania, e abbiamo una forza lavoro in generale meno istruita in termini di laureati e di diplomati. Anche questo può essere un fattore che non agevola l'adattamento.
Passerei alla quarta sezione, che dedichiamo alle imprese pubbliche. Nella prima pagina cerchiamo di spiegare perché esistano le imprese pubbliche e quali sono i fattori che possono portare alla proprietà pubblica. A pagina 20 ricordiamo il peso che le imprese pubbliche hanno avuto in Italia nei decenni post bellici, seguiti dalla fase delle dismissioni avviata negli anni Novanta. In fondo a pagina 20 cerchiamo di fornire una fotografia attuale del ruolo delle imprese pubbliche.
Emerge anche da alcuni lavori dell'OCSE che l'Italia è un Paese in cui le imprese pubbliche hanno tuttora un ruolo e un peso più ampio che in molti altri Paesi, in buona parte non più di proprietà del Governo centrale, anche se ve ne sono ancora, ma soprattutto di proprietari di amministrazioni locali, in buona parte si tratta di imprese municipalizzate.
L'ANCI censisce 3.660 imprese con una presenza molto importante nell'energia, nella gestione dei rifiuti e nel settore dell'acqua. L'Istat ne censisce circa 4.200. In Banca d'Italia, come dicevo, effettuiamo ogni primavera un'indagine su oltre 4 mila imprese italiane e abbiamo censito, per questo lavoro, le imprese di proprietà pubblica degli ultimi anni: sono 276, ovviamente sono un campione non tutto l'universo di quelle che esistono in Italia, ma rappresentano un buon campione. Di queste 276 circa 204 sono, essenzialmente, municipalizzate e si occupano di energia, gas e acqua.
Dal confronto tra le imprese pubbliche e le restanti imprese emerge che sono, in genere, più grandi per dimensione e per occupazione, che hanno un fatturato medio più elevato. Tutto questo, tuttavia, dipende in buona parte dal tipo di settore in cui operano - pagina 22 - e sono imprese che hanno sofferto di meno durante questi ultimi anni di crisi in relazione al ciclo in quanto, essendo imprese che forniscono acqua, elettricità e servizi per i rifiuti, sono ovviamente meno esposte al ciclo economico e anche al grado di concorrenza. Si tratta, quindi, di imprese i cui risultati economici, in genere, non sono peggiorati molto durante la recessione.
Da ultimo, osserviamo che una valutazione ragionata sul fatto che queste imprese debbano o non debbano restare nella sfera pubblica richiede, ovviamente, un'analisi più approfondita a livello di singolo settore, possibilmente di singola impresa. Si tratta di evitare situazioni in cui si determinano inefficienze o distorsioni della concorrenza.
La quinta sezione è dedicata all'energia che, come dicevo, è un settore in cui sono presenti varie imprese pubbliche, soprattutto municipalizzate. Si tratta di un settore in cui l'Italia negli ultimi anni ha visto


Pag. 9

un aumento delle importazioni. Dai dati riportati all'inizio di pagina 24 si evince che dall'inizio degli anni Duemila l'incidenza del costo dell'energia sul nostro PIL è quasi raddoppiata, dal 2,3 al 4 per cento. Questo si è riflettuto fortemente sul saldo della nostra bilancia commerciale.
Un altro aspetto è rappresentato dal costo dell'energia per gli utenti italiani, imprese e famiglie, che tende in Italia a essere relativamente elevato rispetto ad altri Paesi anche per l'imposizione fiscale. All'inizio di pagina 24, nel secondo paragrafo, confrontiamo l'Italia con gli altri Paesi cercando di stimare l'insieme delle imposte sull'energia in media nel Paese misurate come euro di imposte su tonnellata equivalente di petrolio. Emerge che in Italia saremmo a 172 euro nel 2007 contro circa 120 euro nella media degli altri Paesi dell'Unione europea, per cui l'Italia è un Paese in cui l'energia costa di più anche perché è tassata di più. In fondo a pagina 24 ricordiamo gli effetti sulle bollette elettriche del finanziamento delle fonti rinnovabili. Credo che per il 2012 l'Autorità per l'energia stimi l'onere in circa 10 miliardi, un onere considerevole per i consumatori di energia.
Nella sezione successiva esaminiamo l'input di energia per le imprese italiane e osserviamo, in fondo a pagina 25, che i costi sostenuti dalle imprese italiane sono, in media, più elevati di quelli sostenuti dalle imprese manifatturiere concorrenti. Per l'energia elettrica vi è un divario di circa il 30 per cento, mentre non vi è un divario per il gas.
Nella sezione 5.2, a pagina 26, esaminiamo il settore della trasformazione energetica, ad alta intensità di capitale, che assorbe il 3 per cento degli occupati e genera il 12 per cento del valore aggiunto industriale. Il settore comprende i due grossi comparti della raffinazione e della generazione di energia elettrica.
Il settore della raffinazione, come notiamo a pagina 26, da anni vede una riduzione significativa dell'attività. Diverso è il caso del settore della generazione di energia elettrica, dove in alcuni anni vi sono stati alcuni sviluppi molto importanti. Innanzitutto, vi è stata una rapida diffusione di centrali termoelettriche a gas; dall'altro lato, vi è stato un forte aumento delle fonti rinnovabili.
Nel complesso, questi sviluppi hanno portato a un eccesso di capacità produttiva per quanto riguarda l'energia elettrica in questo Paese, come notiamo a pagina 27, per cui ci troviamo in una situazione di eccesso di capacità produttiva con costi dell'energia elettrica più alti che negli altri Paesi. In parte, questo divario di costi dato dal loro ricarico per le rinnovabili è connesso alla sovraccapacità produttiva.
A pagina 28 ci domandiamo che fare in questo contesto. L'ideale sarebbe individuare strategie che possano ridurre gradualmente il costo dell'energia per le nostre imprese e anche per le nostre famiglie. Un secondo passo è ottenere che il quadro normativo e regolatorio sia stabile. Abbiamo avuto, negli ultimi anni, vari cambiamenti della normativa che danno dei problemi agli operatori del settore.
Ci chiediamo, inoltre, se esistano ancora margini per le imprese italiane per ottenere ulteriori guadagni di efficienza nella gestione dell'energia e se vi sono modi in cui questi guadagni possono essere stimolati dalle autorità pubbliche, fissando degli standard minimi o agendo con incentivi economici come, ad esempio, le detrazioni fiscali.
Infine - pagina 29 - esistono ancora in Italia, nonostante un impegno preso in sede del G20, sgravi sulle accise ai carburanti per alcuni settori, sgravi che ovviamente mirano a sostenere alcuni settori - parliamo di agricoltura, di pesca, di autotrasporto, che possono meritare un sostegno ma se questo sostegno è concesso riducendo il costo dell'energia anziché in altri modi, questo tende a non spingere questi settori a comprimere i consumi di energia.
L'ultima sezione è dedicata alle indicazioni di politica economica. Sarò molto breve. Ovviamente, come dicevo, vi sono fattori all'interno del sistema industriale italiano, le dimensioni di impresa, la proprietà e la gestione familiare, che possono rendere il nostro sistema meno dinamico,


Pag. 10

ma il nostro sistema industriale convive anche con un insieme di fattori esterni che possono essere di ostacolo alla sua attività.
Alle pagine 29-30 ne ricordiamo alcuni: la regolamentazione - conosciamo tutti le difficoltà del quadro regolamentativo italiano; la pressione fiscale, relativamente elevata rispetto agli altri Paesi; la qualità dei servizi pubblici e anche dell'istruzione in Italia, soprattutto in alcune regioni. A pagina 31 ricordiamo il quadro concorrenziale: spesso in alcuni comparti dei servizi la concorrenza è più limitata di quanto si riscontra in altri Paesi. Questo insieme di fattori esterni ovviamente tende a essere di ostacolo alle nostre imprese. Negli ultimi anni riscontriamo molta consapevolezza e diversi sforzi da parte del Governo precedente e di quello attuale per porre mano a questi fattori di contesto.
Ricordiamo alcuni di questi sforzi alle pagine 32 e 33: pensiamo che questo cambiamento del contesto esterno delle nostre imprese italiane vada assolutamente proseguito, cercando soprattutto di migliorare la qualità dei servizi pubblici e investendo molto nel capitale umano. A pagina 34 ricordiamo, però, che, al di là di questi interventi sul contesto esterno al fare impresa in Italia, occorre preoccuparsi anche dei costi diretti sopportati dal sistema industriale. Abbiamo fatto riferimento ai costi dell'energia, ai costi connessi con l'elevata pressione fiscale: si può operare anche sui costi dei servizi a monte del sistema industriale?
Pensiamo che queste siano linee su cui è opportuno muoversi. Vi è un dibattito sul futuro del sistema industriale italiano, ma le centinaia e migliaia di imprese italiane di successo, molte delle quali incontriamo spesso, lamentano che il declino del settore industriale italiano non è per niente irreversibile. Vi è un dinamismo interno che va assecondato con il miglioramento del contesto esterno, con interventi di contenimento dei costi sopportati dal sistema industriale.
Da ultimo, tocchiamo la questione delle politiche più strettamente mirate al settore industriale. Abbiamo svolto vari lavori sui sistemi di incentivi per il sistema industriale italiano, incentivi alla localizzazione in alcune zone del Paese, per ricerca e sviluppo. In linea di massima, questi lavori mostrano che questi incentivi non sono stati molto efficaci. Spesso hanno incentivato le imprese a fare quello che avrebbero fatto in ogni caso e altrettanto spesso questo è successo perché gli incentivi sono arrivati dopo molto tempo. Se un incentivo è concesso dopo un lungo periodo, ormai l'impresa ha già preso le sue decisioni e, se le ha prese in un modo, ha diritto all'incentivo; se in altro, non vi ha diritto, ma ormai è già andata per la sua strada.
Forse c'è, allora, un'esigenza di ripensare a questi sistemi di incentivazione cercando di migliorarne il disegno, di non sprecare risorse, di concentrare quelle disponibili nell'agevolare la crescita dimensionale delle imprese. Ovviamente, non si possono forzare le imprese a crescere di dimensione, ma si possono rimuovere dei disincentivi. Si dovrebbe cercare di concentrare le risorse nella ricerca e nello sviluppo, nell'avvio di nuove imprese e anche nel riordino dell'attività pubblica di sostegno dell'internazionalizzazione delle nostre imprese.
Abbiamo, su alcuni di questi comparti, una serie di lavori e riflessioni in corso, ma non esistono certo bacchette magiche. Dobbiamo essere consapevoli che non si può affrontare il problema delle dimensioni delle nostre imprese in poche settimane, in pochi mesi, che non esistono soluzioni miracolose, ma sono necessari tempi lunghi. Vi ringrazio.

PRESIDENTE. Ringrazio il direttore Daniele Franco che ci ha offerto il prezioso contributo della Banca d'Italia derivante dai numerosi studi che essa ha condotto sul sistema industriale italiano.
Do ora la parola ai colleghi che vogliano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

FEDERICO TESTA. Vorrei fare due considerazioni velocissime. La prima è la seguente. Lei ha fatto riferimento alle problematiche delle piccole e medie imprese,


Pag. 11

al di là del cambiamento dei distretti, della gerarchizzazione all'interno dei distretti, c'è un fattore che non è sempre evidenziato, a mio avviso, quello della concentrazione in atto nella distribuzione, che concorre a rendere più difficile alla piccola e media impresa arrivare sui mercati. Esiste, infatti, uno squilibrio dimensionale fortissimo tra i soggetti. Vorrei sapere se questa riflessione, a vostro avviso, ha un senso o meno.
In generale, a voi va il mio apprezzamento per il lavoro. Sono d'accordo su tutto. Con riferimento alle politiche per il sistema industriale, credo che anche quanto ha illustrato sia generalmente condivisibile. In particolar modo, vorrei invitarvi a una riflessione, se ce ne sarà l'occasione, o comunque ad approfondire il tema del sostegno attraverso le politiche energetiche.
Uno dei problemi relativi al costo dell'energia, che avete giustamente evidenziato, è il pacchetto di misure a favore dei cosiddetti energivori, ma non solo in loro favore. Esiste, infatti, anche il caso delle fonti rinnovabili, laddove ci portiamo dietro una determinata storia. La mia impressione è, tuttavia, che non sempre ragioniamo sulla loro persistente utilità strategica per il Paese. Forse attraverso la bolletta finiamo per sostenere settori che non ha senso sostenere e dovremmo fare altro.

LUDOVICO VICO. Oggi è stato pubblicato il Rapporto Svimez, sul quale immagino svolgerete qualche approfondimento nei prossimi giorni per il ruolo che svolge quell'ente importante. Alcuni dati emergono in particolare, tra cui il processo di deindustrializzazione, di desertificazione industriale nel Mezzogiorno. Secondo il rapporto sono spariti interi comparti: negli ultimi quattro 147 mila unità del settore industriale, tre volte superiori a quelle del Centro Nord. Questo dà la dimensione anche rispetto al tasso di deindustrializzazione.
Di pari passo va la diminuzione del PIL meridionale - come mi sembra sia stato richiamato da voi con la precisione di analisi che sempre contraddistingue i vostri lavori - dovuta alla flessione dell'esportazione e della domanda extraeuropea. Esiste, però, un problema che si chiama consumo.
Nel quadro generale, per come ci è stato illustrato dal dottor Daniele Franco, questi elementi della forte diminuzione dei consumi richiamano il tasso di industrializzazione e le difficoltà che sono state qui ricordate che devono essere considerate insieme ad altri due fattori: gli aiuti e gli incentivi alle imprese sono ulteriormente diminuiti. L'ultimo decreto-legge cosiddetto «Cresci Italia» elimina di fatto gli incentivi automatici, semiautomatici e negoziali Premetto che molti di questi incentivi meritavano di essere abrogati - il punto non è la natura della norma e, prima o poi, capiremo cosa suggerisce il dottor Giavazzi versanti sulla questione - ma in questa fase siamo passati a una cancellazione formale degli incentivi e alla necessità di recuperare nel tempo (si pensi alla legge n. 488 del 1992). Si pensi a quanto è accaduto per il sistema derivante dalla legge n. 488 e simili: il punto è che non si muove un euro e gli unici fondi sono quelli per il Mezzogiorno, come abbiamo già visto con i fondi FAS. Vorrei quindi conoscere la vostra opinione su tali aspetti.

PAOLO ROMANI. Ho letto velocemente - sono arrivato in ritardo e chiedo scusa - ma questa relazione mi lascia un po' perplesso. Manca una premessa fondamentale: siamo di fronte a una recessione causata da una crisi importata. Non possiamo dimenticare che il problema nasce soprattutto dal fatto che, improvvisamente, si è dichiarato che non c'è più la sostenibilità del debito sovrano italiano Qualcuno l'ha messo in dubbio, le società di rating hanno fatto la loro parte e tutto nasce, fondamentalmente, da lì. Stavamo uscendo dalla crisi del 2008 con fatica e, improvvisamente, ci è arrivata la seconda gelata internazionale.
Vedo che sono presi in esame alcuni spunti negativi recessivi del sistema industriale italiano, ma chiedo a Banca d'Italia,


Pag. 12

che oggi, con la presenza della BCE, ha un ruolo fondamentalmente diverso: perché non cominciate a capire se sia giusto, ad esempio, visto che parlate di energia, il modo in cui è definito il PUN, Prezzo unico nazionale? Siamo proprio sicuri che la sua definizione, con quel meccanismo aberrante del rialzo anche rispetto all'offerta iniziale della mattina, vada ancora bene? Perché non vi chiedete se il Platts sia ancora un meccanismo valido? Perché non vi chiedete se il brent vada ancora bene quando fanno la media?
Tutti questi organismi internazionali incidono fortemente in maniera negativa sui sistemi industriali più deboli come il nostro e abbiamo visto cosa è successo con il LIBOR. Mi pare che Banca d'Inghilterra abbia ammesso di avere sbagliato. Ho sentito dire che anche su EURIBOR - Dio non volesse - c'è qualche piccolo problema. Un intero sistema finanziario industriale internazionale è totalmente indipendente, costituito, fondamentalmente, dai cartelli finanziari e industriali, che si fanno i «fattacci» loro e incidono negativamente sui processi industriali di Paesi industrializzati e manifatturieri come il nostro.
Ho l'impressione che Banca d'Italia debba cominciare a esaminare con freddezza e con un approccio molto laico se tutto ciò che è stato sempre dichiarato che andasse bene vada ancora bene per il futuro. Ai distributori di carburante improvvisamente troviamo sconti di 19 centesimi di euro, un quinto di euro, mentre fino a ieri lottavamo con l'UP, l'Unione Petrolifera, per lo sconto di 1 centesimo e non era possibile perché altrimenti sarebbe crollato il mondo della raffinazione petrolifera. Improvvisamente andiamo al self-service - abbiamo capito tutti la differenza tra self-service e servito - e troviamo sconti da 19 centesimi per due giorni alla settimana. Qualcosa in questo meccanismo andrebbe fortemente analizzato.
Visto che devo essere brevissimo, lo faccio con una seconda battuta: qui non si parla di accesso al credito, -19 per cento alla vendita degli immobili, -50 per cento di accesso ai mutui. Alle aziende le banche non danno soldi nemmeno per progetti industriali autentici anche di piccole dimensioni e i tassi di prestito sono al 9 per cento. È inammissibile! Se è vero, come afferma Mario Draghi, che lo spread italiano vale 200, ce ne sono 200 per la speculazione internazionale.
Su questo punto Banca d'Italia deve prendere posizione. Non è possibile che si sia sommersi dalle lamentele degli imprenditori. Ho letto anch'io con spavento della desertificazione nella pubblicazione del rapporto Svimez. Al Nord va ugualmente male. Non c'è la desertificazione perché la struttura industriale è molto forte, ma al Nord va malissimo, le aziende sono con l'acqua alla gola, non hanno più i soldi per pagare i leasing e le banche non fanno nulla. Questo è il problema che abbiamo oggi.
Da un lato, ci sono incrostazioni definitive, come il rating che dà CCC: ma dove? Noi non diciamo nulla, non abbiamo nemmeno il coraggio di fare una grande battaglia politica e polemica perché si crei finalmente un'agenzia di rating europea, che contraddica, quanto meno, quanto asseriscono questi signori che sono in totale conflitto di interessi con le grandi banche che fanno le grandi speculazioni internazionali, 617 mila miliardi di dollari sui derivati, il 14 per cento del PIL delle nazioni industrializzate. La realtà è la montagna di schifezze che ci sono in giro e che incidono negativamente sulle crisi industriali, compresa la nostra, e noi diciamo e non facciamo nulla.
Anch'io ho letto la vostra nota e sono tutte analisi condivisibili, ma ho l'impressione che forse ci vorrebbe un po' più di coraggio.

ALBERTO TORAZZI. Anch'io ho guardato e sentito la vostra esposizione. Osservo, innanzitutto, che mi sembra che questo discorso della produttività, che sta diventando leitmotiv di questo Paese, sia distorto. Lo è perché abbiamo perso un 20 per cento di PIL industriale e abbiamo ancora gli stessi dipendenti pubblici. Se avessimo reagito come qualsiasi azienda,


Pag. 13

con un 20 per cento di cassa integrazione ai dipendenti pubblici, probabilmente avremmo avuto molte meno ore lavorate, avremmo ridotto i costi dello Stato e la nostra produttività sarebbe rimasta in linea. Questa distorsione, quindi è pericolosa.
In un momento difficile, di grandi tensioni sociali, mi sembra molto grave chiedere a chi ha subìto ristrutturazioni, riduzioni, casse integrazioni nell'impresa privata, di fare altri sacrifici perché sembra che il problema siano loro. Io vengo dall'industria dell'automobile e anche da una multinazionale molto efficiente: il primo passo è fotografare il problema, non nasconderlo, per cui ammettiamo che esiste un problema di costo dello Stato che non è la produttività dell'industria, ma l'inutilità oramai di una parte consistente del costo dello Stato. Anch'io vorrei dire che servirebbe più coraggio.
In secondo luogo, lei ha affermato - chiedo a Banca d'Italia perché mi chiedo chi altri dovrebbe farlo - che il mondo è cambiato, c'è la globalizzazione: peccato che abbiamo ancora lo stesso sistema di tassazione che avevamo prima. Oggi produrre non è più un problema. Una volta c'erano le frontiere, c'era chi garantiva un mercato e chi pagava gli oneri sociali, che non servivano solo ai tuoi lavoratori, ma a tutta la società, per cui il welfare gravava, giustamente, sulle imprese e su chi produceva.
Oggi, chiunque può delocalizzare e ha diritto di vendere nel mio Paese, per cui le mie imprese sono costrette a sostenere il sistema del welfare, che alimenta i consumi di persone magari anche più in difficoltà, cassintegrati, disoccupati, i quali, siccome non hanno soldi, comprano le merci cinesi: vogliamo dire che sarebbe il momento di spostare il peso del welfare sulla vendita, sul fatturato, sull'IVA e vogliamo avere il coraggio di dire che non si tratterebbe di un intervento recessivo? Se si tolgono, infatti, gli oneri sociali, e quindi si restituiscono i soldi in busta paga ai lavoratori, e si riduce il costo di quelli che pagano le imprese, queste diventano più efficienti. Ciò aumenterebbe la domanda aggregata perché i lavoratori dipendenti avrebbero più soldi. L'aumento dell'IVA, in questo caso, non verrebbe a deprimere il mercato interno. Inoltre, sul medio e lungo periodo pagherebbero finalmente anche i cinesi, che pagano solo l'IVA. La triangolazione, infatti, è nota a tutti: le merci entrano in una società di Montecarlo, per esempio, o di un altro paradiso fiscale, dove si realizzano tutti gli utili. Sono poi rivendute ad una Srl italiana che non realizza utile, per cui l'unica tassa che questi soggetti pagano è l'IVA. Per chiarirci, su 100 fatto in Italia, lo Stato prende il 50 per cento tra tasse, oneri e altro. Quando, invece, c'è la triangolazione, entra solo l'IVA. Se è Banca d'Italia non svolge quest'analisi, non so chi debba farlo. Chiedo se abbiate intenzione di fare questa analisi per il futuro.
Quanto all'incidenza delle entrate fiscali sul PIL (figura 19 a pagina 51 della vostra relazione), si parla del 45 per cento: anche in questo caso il discorso è quello della trasparenza. A me risulta che questo 45,4 sia frutto delle tasse pagate da chi lavora onestamente; al denominatore c'è il PIL più il famoso lavoro nero, quindi quel 45 è in realtà un 55 per cento. Non è, allora, un problema di imprese, di produttività, di competitività, ma di ruolo dello Stato.
Faccio l'ultimo intervento sul credito, anche se dovreste farlo voi. Il problema delle imprese che non ricevono credito e che devono rientrare da situazioni debitorie, è che viene chiesto loro l'aumento senza che siano rinnovati i crediti e le linee già esistenti. Non so se Banca d'Italia sia al corrente del progetto Copernico della Confederazione svizzera, ma stiamo attenti che al Sud c'è una desertificazione di un certo tipo, al Nord ce ne sono due: c'è questa e c'è la migrazione dell'impresa della Brianza, del Varesotto, addirittura della bassa Lombardia, verso il Canton Ticino. Chiedo se la Banca d'Italia abbia intenzione di sollecitare il Governo a iniziative di contrasto a questa tendenza pericolosissima per la nostra economia, non per le nostre imprese, al fine di contrastare questa migrazione volontaria.


Pag. 14

SAVINO PEZZOTTA. Condivido molto di quanto ha detto l'onorevole Romani perché mi sembra che ci sia una questione più generale a livello globale che stiamo affrontando con estrema difficoltà. Penso che l'Italia stia affrontando con estrema difficoltà la mancanza di regolazione dei mercati finanziari e, pertanto, la questione della loro incidenza e della loro capacità di cambiare gli assetti. Credo che, anche non solo sotto il profilo del sistema bancario, ma delle intermediazioni finanziarie, bisognerebbe cominciare ad affrontare la situazione con un po' più di rigore. Diversamente, ci sfuggirà di mano.
Quanto al sistema creditizio, anche guardando alle realtà delle nostre piccole imprese, all'indebolimento dei distretti, quanto pesa il credito? Normalmente, quando avevamo la banca locale, essa rappresentava un fattore di movimento. La concentrazione bancaria, che sarà stata anche utile, ma che ha svuotato alcune realtà di credito legate molto al territorio, non ha aiutato i distretti a crescere e credo che questo sia un altro elemento sul quale occorre riconsiderare alcune politiche e alcuni interventi della Banca d'Italia.
La questione della produttività, in una situazione globale rappresenterà il problema vero assieme alla copertura del debito pubblico. Non so se l'incidenza del pubblico sia così determinante, ma ho l'impressione che uno degli elementi di calo della produttività sia dovuto a una carenza, a un arretramento di modalità tecnologiche.
Il paradigma tecnologico del nostro sistema manifatturiero non è cambiato, è ancora quello che conoscevo quando praticavo quel settore. Sarà un po' ammodernato, ma dal punto di vista tecnologico non è cambiato. Se non cambia il paradigma tecnologico, credo che diventerà difficile per il nostro Paese competere. Su questo mi servirebbe avere qualche ulteriore elemento.
Inoltre, siamo ancora fermi in un settore manifatturiero che dovremo difendere con i denti e con le unghie finché non ne avremo un altro che opera e agisce non solo con imprese familiari. Queste danno, infatti, anche l'idea di un settore manifatturiero tradizionale, fermo su produzioni tradizionali. Non siamo ancora entrati nella dinamica di un Paese avanzato di produzioni ad alto contenuto tecnologico.
Le nostre imprese sono ancora ferme negli stessi settori di produzione, avranno innovato dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro, saranno anche più presenti sul mercato internazionale, ma producono le solite cose che producevano vent'anni fa. Non so se reggeremo con i Paesi emergenti mantenendo questo standard di beni e prodotti o se bisognerebbe trovare la forma di incentivare un'evoluzione verso la produzione di beni ad alto contenuto tecnologico, che certamente richiede un cambiamento nelle competenze, nella forza lavoro e via dicendo.
Quanto al settore energetico, diciamoci una volta tanto la verità. Diversamente, non ne usciremo. Possiamo abbassare, alzare, erogare incentivi o meno, ma siamo scarsamente produttori di energia. La scelta di non entrare nelle tecnologie nucleari ha determinato una situazione che non so come supereremo. Non lo faremo con le pale diffuse in tutto il Mezzogiorno, che vanno bene e vanno incentivate, o con i pannelli che mettiamo sui tetti. Probabilmente, in un raffronto con la Francia, si evidenzia un gap di produzione energetica dovuto anche al fatto che quel Paese ha scelto una determinata strada e noi ne abbiamo scelta un'altra.
Non riesco a capire se le scelte che facciamo, bellissime - per carità - siano utili al nostro Paese, come accade per esempio per l'industria. Abbiamo perso il settore tessile, che ormai se n'è andato, ma nel momento in cui lo perdevamo, non abbiamo pensato con cosa sostituirlo e ci troviamo oggi senza un settore importante. L'abbiamo fatto anche con la chimica e, nel frattempo, non abbiamo avuto la fantasia e la creatività sia da parte, probabilmente, dei pubblici poteri sia da parte degli imprenditori di inventare qualcosa di nuovo.

ANDREA LULLI. Sarò in controtendenza, ma giudico molto positivamente la


Pag. 15

relazione presentata dalla Banca d'Italia. L'annotazione conosciuta, ma comunque organizzata bene, della progressione dell'aumento dei costi dell'energia dal 2000 a oggi dà, ad esempio, un'indicazione molto importante alla politica del legislatore. Non dimentichiamo, infatti, che quella data aveva un certo significato. Ringrazio, quindi, perché questo è un elemento di approfondimento importante che, certo, rimanda anche a un ruolo, come abbiamo tentato di evidenziare in questa indagine conoscitiva, sulle aziende partecipate dallo Stato, pur mantenendo ovviamente una logica di mercato, ma con i loro progetti, che credo siano un elemento di riflessione importante.
A differenza di quanto hanno detto i colleghi Romani e Pezzotta, nessuno nega che il 2008 sia stato un anno shock, ma vorrei ricordare, a me prima di tutto, che il problema della competitività del sistema Paese, come del sistema industriale italiano, non risale a quella data e forse qualche riflessione in più va avanzata.
È chiaro che ci sono delle questioni per le quali sarebbe necessario maggior tempo.
Ci sono in questo Paese due dualismi, quello Nord-Sud e quello di settori esposti alla concorrenza e settori, non solo quello pubblico, di servizi, ad esempio, alle imprese. Ricordo un'indagine svolta dalla X Commissione nella XIV legislatura, che già allora evidenziava come i servizi privati alle imprese crescessero a ritmi superiori che nel resto d'Europa. Si tratta del problema più complicato di un Paese che, purtroppo, annuncia le liberalizzazioni e non le realizza, in cui il mercato vale solo per alcuni prodotti e non per altri. Credo che questo esponga il Paese a problemi molto seri.
Tuttavia, esiste anche un problema di industria. Esistono, per fortuna, alcuni settori industriali o alcune imprese che, come si nota anche nell'analisi che avete fatto, hanno aumentato gli investimenti in ricerca traendone beneficio, ma c'è un elemento di debolezza da troppi anni sta erodendo la nostra capacità manifatturiera ed è un grande peccato.
Nonostante quanto già è stato detto, mi piacerebbe approfondire alcuni aspetti. Credo, ad esempio, che il problema non sia se determinati settori siano maturi o meno. Anche questa - se mi è consentito - è una discussione molto vecchia, che forse è superata. Certamente, un certo tipo di automobile è più vecchio di un certo tipo di prodotto tessile, ma il problema è come si affronta la questione dell'innovazione tecnologica, come si costruisce quella politica industriale diretta e indiretta che consenta di dare forza alle nostre peculiarità.
Parliamoci chiaramente: a proposito di alta tecnologia, nell'industria aerospaziale, anche se non abbiamo una grandissima presenza, rappresentiamo comunque una realtà importante. Possiamo andare oltre? La vedo molto difficile.
In altri settori abbiamo, come ci è illustrato dai dati impietosi, un ritardo difficilmente colmabile. Credo che si debba lavorare valorizzando quello che sappiamo fare, naturalmente sapendo che bisogna - lasciatemelo dire così - rivestire il nostro saper fare di nuova conoscenza. Da questo punto di vista, la politica industriale è stata latitante. Forse anche il tema degli incentivi automatici non è del tutto pertinente. Condivido totalmente l'affermazione che una serie di incentivi industriali non ha assolutamente prodotto nuovi investimenti o nuova capacità produttiva perché, probabilmente, sono andati dove comunque quegli investimenti sarebbero stati fatti comunque.
Il problema, quindi, è di interrogarsi sui modi di utilizzo. Le risorse pubbliche saranno anche ridotte, ma io credo che le risorse dirette, per non parlare di quelle indirette, siano ancora molto rilevanti. Naturalmente, bisogna avere chiaro dove si vuole andare. Credo che questo sia il problema che abbiamo di fronte e, quando si parla delle industrie o di attività economiche partecipate dal settore pubblico, abbiamo una platea non indifferente e che potremmo orientare in un modo molto rilevante per lo sviluppo. Queste sono solo alcune considerazioni sparse e non ho domande particolari da rivolgere.


Pag. 16


Un tema, invece, anche se non è legato al tipo di indagine conoscitiva che stiamo svolgendo, è, come ha detto il collega Testa, un ritardo del sistema paese rilevante. Non abbiamo più un ruolo, forse non l'abbiamo neanche mai avuto, almeno negli ultimi 20-30 anni, nella distribuzione commerciale a livello mondiale.

ALBERTO TORAZZI. Ci sono le Coop!

ANDREA LULLI. Le Coop sono Coop! Io vivo in una città dove la Esselunga ha tanti negozi quanti ne ha la Coop. Vi inviterei a fare meno ideologia. Il problema è che manca una grande distribuzione. Cito un esempio banale: Ikea in Italia ha anche la sezione di prodotti alimentari della Svezia. Noi, invece, non ci siamo.
Abbiamo rimediato con i monomarca, ma non è quello il veicolo principale su cui si può valorizzare la produzione italiana. Non è possibile un intervento diretto da parte dello Stato, ma potremmo favorire iniziative simili. C'è tanta frammentazione anche nel settore dell'internazionalizzazione delle imprese e sono assolutamente d'accordo che anche sarebbe il caso di riunificare. Allo stesso tempo, però, credo che il tema della distribuzione commerciale sia rilevante per il nostro Paese proprio per il tipo di struttura imprenditoriale che abbiamo e anche per il tipo di funzioni che siamo in grado di svolgere.

PRESIDENTE. Abbiamo tempo perché la seduta dell'Assemblea riprende alle 16,40 e sono stati dati i venti minuti di preavviso per le votazioni.
Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Vi ringrazio, innanzitutto, per le domande poste.
Comincerò dalla domanda dell'onorevole Testa sulla questione della grande distribuzione. Abbiamo svolto qualche lavoro sul rapporto tra industria e grande distribuzione nel settore alimentare. Credo che nel nostro sito sia stato anche pubblicato un lavoro, da cui sì emerge che abbiamo poche grandi catene di grande distribuzione e, soprattutto, alcune centrali d'acquisto. Le catene stesse, infatti, comprano attraverso centrali d'acquisto e credo queste siano 3 o 4 in Italia.
Questo pone spesso le piccole imprese alimentari nella posizione di essere sottoposte alla pressione della grande distribuzione. Il vantaggio di questa situazione, se si vuole, è dei consumatori. Spesso, infatti, la pressione per ottenere prezzi più bassi si tramuta in prezzi più bassi ai consumatori, ma indubbiamente qui un problema c'è.
Ancora in tema di grande distribuzione, risponderei all'ultimo punto affrontato dall'onorevole Lulli. Distinguerei il ruolo della grande distribuzione - che in Italia in parte è in mani straniere, francesi e tedesche - in Italia e all'estero. Abbiamo intervistato alcune di queste catene, le quali affermano che in Italia hanno difficoltà a vendere prodotti stranieri. Il consumatore italiano tende ad avere, anche quando si reca presso la catena straniera, una qualche preferenza per il prodotto nazionale. Questo, in qualche modo, fa sì che Auchan e simili incontrino alcune difficoltà. Non sto dicendo che questo risolva tutto il problema.
In termini un po' semplificati, in Italia succede più o meno questo, ma certamente non abbiamo catene italiane che vadano all'estero, e questo fa sì che i nostri produttori alimentari, spesso piccoli - alcuno sono grandi, ma molti sono piccoli - non riescano ad avere accesso in catene in cui, se fossero italiane, probabilmente sarebbe più facile essere veicolati visto che sarebbero fornitori in Italia e anche all'estero. Questo rappresenta un problema.
Infine, Ikea «mondo» compra in Italia molto più di quello che vende in Italia e la parte che compra in Italia è crescente. Era l'azienda che non ho menzionato prima, ma abbiamo intervistato il capo di Ikea Italia, il quale ha dichiarato che


Pag. 17

comprano in Italia una quota crescente di prodotti perché trovano fornitori italiani che vanno benissimo.
Esiste anche un problema di tempi: alcune produzioni sono spostate dall'estremo oriente in Italia perché questo taglia i tempi: i fornitori italiani spesso sono molto più elastici, se c'è bisogno lavorano nel fine settimana. È un quadro complicato, ma il punto è che, se avessimo nostre imprese di grande distribuzione multinazionali, questo ci aiuterebbe.
Onorevole Testa, sì, l'energia comprende nella bolletta costi in parte nascosti, ricarichi - pensiamo alle rinnovabili - che si sono accumulati nel tempo e credo ci siano anche i CIP6. Probabilmente, un ripensamento sarebbe necessario, ma forse, più che da parte nostra, che possiamo solo analizzare i dati, serve un ripensamento in parte politico. Bisogna domandarsi se tutto questo serve ancora. Forse si dovrebbe smantellare il sistema non da un giorno all'altro, ma gradualmente.
Rispondo all'onorevole Vico sul Mezzogiorno. In questa crisi del sistema produttivo italiano il Mezzogiorno è la parte che soffre di più perché era più gracile, aveva più problemi in partenza. Forse sa che negli anni scorsi abbiamo effettuato vari lavori sul Mezzogiorno. Abbiamo cercato di evidenziare che gli incentivi spesso non hanno funzionato molto bene e che, quindi, bisogna concentrarsi nello spendere bene le risorse disponibili.
Tra l'altro, emergeva dai nostri lavori che tutti i servizi pubblici, che grossomodo costano in euro pro capite la stessa cifra - come sanità, istruzione, giustizia, al Nord, al Centro e al Sud - al Sud producono una qualità dei servizi meno buona. È un problema di minore efficienza nell'uso delle risorse. Come si affronti questo, scuola per scuola, ospedale per ospedale, non è affatto banale, ma il punto che a me sembrava importante era cercare di evidenziare che la questione principale è come migliorare, a parità di spesa pubblica, la qualità dei servizi pubblici al Sud, dove i gap rispetto alle regioni del Centro-Nord sono spesso molto forti anche in servizi come l'istruzione o la giustizia civile, gestiti più o meno allo stesso modo in tutto il Paese, con la stessa struttura organizzativa.

LUDOVICO VICO. Mi spiegherà meglio la questione delle scuole.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Da molti lavori effettuati risulta che le scuole del Meridione, secondo il programma PISA e Invalsi, mostrano sistematicamente un grado d'apprendimento degli alunni meno buono di quello che si riscontra negli alunni del Centro-Nord.

LUDOVICO VICO. Stiamo parlando di cose molto delicate e spero che lei sia informato anche di ciò che è intervenuto sui test Invalsi successivamente.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Spero di non fare asserzioni sbagliate. Secondo le statistiche riferite agli anni scorsi, i test di apprendimento, PISA o anche Invalsi, mostravano, soprattutto per le medie e le superiori, dei gradi d'apprendimento nel Meridione meno buoni che nel Centro-Nord. Questo può essere cambiato in tempi più recenti.

LUDOVICO VICO. Chiederò di poter rispondere in un'altra sede, importante come questa.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. In ogni caso, sto rispondendo ad un quesito che mi è stato posto. Dico quello che so.
Vengo all'onorevole Romani. Oggi non volevamo tanto parlare della crisi o solo della crisi in corso e degli ultimi risvolti. Come mostra la linea rossa della figura 1


Pag. 18

a pagina 39 del nostro fascicolo, in termini di PIL pro capite, l'Italia è andata peggiorando sistematicamente rispetto agli altri Paesi ormai dai primi anni Novanta. Qui cercavamo di domandarci perché questo è accaduto.
L'Italia è andata meno bene degli altri Paesi prima della crisi del 2007-2008 e durante la prima crisi del 2008-2009, abbiamo recuperato meno degli altri nel 2011 e stiamo soffrendo più degli altri nel 2012, quindi questo è un problema che è cominciato prima, che adesso ovviamente si è accentuato.
Si parlava di analizzare meglio la questione dell'energia: è assolutamente così e alcuni lavori sono già in corso. È presente Ivan Faiella, nostro esperto di queste vicende, che sarà lieto di rispondere a qualsiasi quesito. Banca d'Italia si occupa già di molte cose, ma siamo ben lieti di raccogliere l'invito.
È vero che sull'accesso al credito esiste adesso un grossissimo problema. Non è questo l'oggetto principale dell'audizione, per cui ho risposto quello che mi sembrava essere la richiesta che mi veniva da parte vostra. Questo non vuol dire che pensiamo che non esista un problema, che è grandissimo per le imprese italiane di tutto il Paese. Credo che in altre occasioni il governatore Visco e altri esponenti della Banca d'Italia si siano occupati di questo aspetto e condivido che si tratti di un problema molto serio, ma non era questo l'oggetto della presentazione presentazione.
Onorevole Torazzi, ovviamente, sul peso del settore pubblico, lei ha assolutamente ragione. Se, però, isoliamo l'industria del settore privato italiano, troviamo un andamento della produttività, una performance meno buona di quella che si riscontra in altri Paesi, meno buona, come dicevo, anche perché i fattori di contorno, inclusa la tassazione, sono in Italia più difficili. Incontriamo spesso operatori stranieri e investitori e dico sempre che chi gestisce un'impresa italiana in questo contesto deve essere più bravo del suo omologo francese o tedesco perché vive in un contesto un po' più difficile.
È valida l'ipotesi di tassare di più dal lato IVA e meno dal lato lavoro, ma ci scontriamo con il problema che l'IVA è l'imposta preminente tra le imposte più evase in termini relativi in Italia. La quota di base imponibile teorica evasa in termini di IVA è elevatissima. In linea di principio, condivido assolutamente. Se recuperassimo quella parte evasa, che probabilmente vale 2,5 punti di PIL - vado un po' a memoria - ciò basterebbe per fare quello che qui si suggerisce.
Quanto alla pressione fiscale al 45 per cento, nel testo spieghiamo che le aliquote fiscali sono nettamente più alte di quelle della media degli altri Paesi perché influisce l'ampia diffusione dell'attività irregolare dell'evasione fiscale: è su chi paga in Italia che si scarica la pressione fiscale. Questo è punto che abbiamo sottolineato anche in altre occasioni negli stessi modi in cui è stato fatto qui. È difficile perché le imposte sono molte. In Italia, le aliquote d'imposta formali sono sistematicamente, IVA compresa, più alte che negli altri Paesi, lavoro, contributi sociali e così via e questo rappresenta un problema.
Sulla Svizzera, in realtà ho chiesto tempo fa ai miei colleghi di Milano di sentire alcune imprese della zona della Brianza; in effetti, risulta un fenomeno esattamente simile a quello che lei denuncia, che però in questo momento, a detta delle Confindustrie locali, non ha assunto ancora una dimensione rilevantissima, che non significa che non possa assumerla in futuro, un problema c'è. Ovviamente, perdere capacità produttiva rispetto alla Svizzera è, per certi aspetti, paradossale perché il costo del lavoro è, probabilmente, più alto e così via.
Onorevole Pezzotta, è vero che abbiamo un sistema produttivo tradizionale, ma esistono mille eccezioni.

SAVINO PEZZOTTA. Mi riferivo all'orientamento di massima.

DANIELE FRANCO, Direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d'Italia. Colpisce, però, l'estrema differenziazione, in cui vi è


Pag. 19

assolutamente la componente, di cui parla, che soffre di più, ma vi sono altre componenti per fortuna molto più dinamiche.
Sull'energia e sul nucleare il nostro esperto, dottor Faiella, potrebbe aggiungere delle osservazioni, ma rimettere in discussione il nucleare è una scelta complicatissima che non vorrei trattare adesso. Vi sono, tuttavia, altre componenti, di cui si diceva prima, la sovraccapacità, il fatto di scaricare in bolletta alcuni sussidi a certe tipologie. Queste cose possono essere risolte forse più semplicemente. Rimettere in gioco il nucleare, ovviamente, è una scelta complicatissima: intervenire su questi altri aspetti può essere tecnicamente, ma anche forse politicamente, più semplice.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti di Banca d'Italia per la pregevole documentazione consegnata agli atti della Commissione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato) e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,35.

Consulta resoconti delle indagini conoscitive
Consulta gli elenchi delle indagini conoscitive