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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
11.
Mercoledì 5 novembre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Audizione di rappresentanti della Confindustria:

Saglia Stefano, Presidente ... 2 8 14 17 19
Bellanova Teresa (PD) ... 13 16
Bombassei Alberto, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria ... 2 9 10 14 16 17 18
Cazzola Giuliano (PdL) ... 11 18
Foti Antonino (PdL) ... 11
Miglioli Ivano (PD) ... 9 10
Poli Nedo Lorenzo (UdC) ... 13 18
Santagata Giulio (PD) ... 8 9
Usai Giorgio, Direttore relazioni industriali e affari sociali della Confindustria ... 19
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 5 novembre 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 8,35.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Confindustria.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti di Confindustria.
Sono presenti il vicepresidente di Confindustria e responsabile per le relazioni industriali, Alberto Bombassei, e i suoi collaboratori Giorgio Usai, Patrizia La Monica, Vincenza Alessio e Zeno Tentella.
È nostra intenzione - stiamo ormai arrivando alla conclusione delle nostre audizioni - dare un contributo, come Parlamento, ad uno degli appuntamenti più importanti della politica economica del nostro Paese, che dovrebbe essere, appunto, la riforma della contrattazione.
Cedo volentieri la parola al vicepresidente Bombassei, per spiegarci a che punto siamo e qual è la posizione di Confindustria.

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Grazie, presidente. Io eviterei, per una questione di tempo, sia di illustrarvi nel dettaglio il documento che abbiamo presentato - dandolo per letto e conosciuto - e che è stato fonte delle discussioni di questi mesi passati, sia di darne un'interpretazione autentica, almeno dal nostro punto di vista.
Mi riserverei, invece, dedicandovi tutto il tempo che vorrete, di esaminare gli argomenti che voi ritenete opportuno approfondire; preferirei, quindi, se il presidente me lo consente, entrare nel dettaglio di alcune osservazioni che sono state fatte e commentare, entrando un po' più nel vivo delle questioni, gli argomenti che sono ancora fonte di discussione.
Per essere preciso, preferisco affrontare punto per punto le osservazioni che sono state svolte e le tematiche che sono tuttora aperte, almeno con una parte del sindacato.
Come sapete, il documento che abbiamo presentato è stato lungamente discusso. Abbiamo avuto qualcosa come sedici incontri e abbiamo passato molte ore e molte giornate a cercare di approfondire gli argomenti in discussione. Alla fine, però, non abbiamo trovato un consenso unanime, ma solo da parte di CISL e UIL (non di CGIL, che ha espresso il proprio dissenso, in qualche caso prima ancora di leggere le osservazioni).
Il nostro documento, quindi, è stato condiviso solo da una parte del sindacato. In questo momento ci troviamo, pertanto, in un'impasse procedurale, incerti se procedere comunque o se, invece, cambiare qualche cosa.


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Nella nota che andiamo a depositare viene riassunta la posizione di Confindustria contenuta nel documento e nelle linee guida che, quindi, avrete modo di approfondire.
Occorre fare attenzione, perché questo documento non è, com'è stato detto, una conditio sine qua non: si tratta di linee guida su cui abbiamo aperto la discussione. Abbiamo presentato tale documento il 10 ottobre; esso è stato condiviso, ma non firmato, da CISL e UIL.
È importante e utile rispondere, per favorire la successiva discussione, alle critiche che su quel documento ci vengono rivolte. In particolare, vorrei citare le obiezioni che sono state poste.
Secondo la prima obiezione, l'ipotesi di riforma degli assetti della contrattazione collettiva rappresenterebbe - cito - «un attacco al contratto nazionale», ma è assolutamente inesatto perché, dal nostro punto di vista, dovrebbe valere esattamente il contrario. Confindustria ha scelto di confermare un modello di contrattazione collettiva basato sui due livelli: il contratto nazionale di categoria e la contrattazione di secondo livello.
Tale modello non dovrebbe essere considerato un dato scontato ed acquisito per definizione. Si tratta di una soluzione che, comunque, continua a rappresentare un'anomalia nello scenario delle relazioni industriali europee. Non sono tanti i Paesi che hanno due livelli di contrattazione, né in Europa né altrove. In Europa, le tendenze, più recenti, sono sempre più volte a decentrare la contrattazione, avvicinandola maggiormente alle imprese, e a superare la contrattazione centralizzata.
Questo fenomeno è sostenuto anche dal fatto che, laddove ci sono delle forme di contrattazione collettiva - rare, per la verità - a livello nazionale, esse sono spesso temperate dalla presenza di clausole di opting out, che consentono alle singole imprese di poter uscire dal contratto nazionale e, quindi, di applicare unicamente le discipline concordate in sede aziendale.
Tipici di qualche anno fa sono i casi degli accordi aziendali, fatti in Germania, nel settore dell'automobile, in deroga alle contrattazioni nazionali, da aziende come General Motors e Volkswagen.
Il mantenimento dei due livelli, quindi, non è un fatto dovuto, ma appartiene soltanto alla nostra tradizione passata e corrisponde ad una precisa scelta di politica sindacale, compiuta da Confindustria, sulla base delle indicazioni del nostro sistema delle imprese associate.
Come sapete, noi rappresentiamo circa 123 mila aziende, che impiegano 4 milioni e settecentomila lavoratori e per noi, il contratto nazionale, a differenza di quanto si dice, continua ad essere una garanzia, specialmente per le imprese piccole e piccolissime e per i lavoratori che vi operano.
Come sapete, la tipologia delle imprese presenti nel nostro Paese è abbastanza diversa dagli standard degli altri Paesi: da noi ci sono soprattutto aziende piccole o, addirittura, piccolissime, a difesa delle quali credo che il contratto nazionale svolga un ruolo rilevante.
La novità importante di queste linee guida - sottolineo il fatto che sono state titolate «linee guida» - sta nel fatto che esse specializzano in maniera più chiara, rispetto al protocollo del 1993, le competenze dei due livelli.
In sintesi, il contratto nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore, ovunque impiegati nel territorio nazionale.
Alla contrattazione di secondo livello spetta, invece, di garantire la crescita delle retribuzioni reali, in quanto correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di accordi sindacali aziendali, aventi come obiettivo gli incrementi di produttività, di redditività, di efficienza, di efficacia, che, come tali, vengono decontribuiti e detassati.
Con gli accordi del luglio del 2007, abbiamo sottoscritto impegni proprio in tal senso.
In secondo luogo, ci vengono rivolte delle obiezioni sul nuovo indice previsionale. Come sapete, il salto qualitativo - abbastanza faticoso, almeno da parte nostra - sta nell'aver superato l'indice di


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inflazione programmata, fissato dal Governo. Spesso si dimentica che tale indice ha lo scopo di raffreddare l'inflazione.
Negli ultimi anni, forse, questo non ha rappresentato una grande difficoltà, ma chi ha vissuto questi problemi nel passato sa quanto importante esso sia e quanto l'inflazione possa erodere i salari.
Abbiamo superato, quindi, l'obiezione relativa al nuovo indice previsionale secondo cui esso, applicato sulla nuova base di calcolo, determinerebbe una perdita nelle retribuzioni derivanti dal contratto nazionale. Questa affermazione non è esatta.
I sindacati, come dicevo prima, avevano posto il problema pregiudiziale di abbandonare il criterio dell'inflazione programmata per un indice di carattere previsionale.
Nel documento unitario varato dai sindacati nel mese di maggio, si parlava di «inflazione realisticamente prevedibile». Non è chiaro cosa ciò voglia dire esattamente e chi dovrebbe individuarla: credo che oggi nessuno sarebbe in grado di indicare l'inflazione realisticamente prevedibile per il 2009.
Dopo un lungo confronto, quindi, abbiamo accettato l'idea di costruire un indice previsionale entro un orizzonte triennale - compiendo un grande salto di qualità - depurato però dall'inflazione energetica importata.
Quest'ultima non ci compete, perché non generiamo né controlliamo i costi dell'energia, che quindi deve rimanere esterna all'accordo che abbiamo proposto.
Abbiamo convenuto, inoltre, che, qualora nel triennio si dovessero registrare degli scostamenti significativi fra l'inflazione prevista e quella reale, si procederà a recuperare tale differenza con il conseguente incremento dei minimi contrattuali relativi al terzo anno di vigenza.
È chiaro che non possiamo legare questo aspetto all'inflazione reale, altrimenti andremmo a reintrodurre quello che abbiamo impiegato molto tempo a superare, ossia la scala mobile, con inflazione che genera inflazione.
Inoltre, prevediamo una diversa definizione della base di calcolo contrattuale utile per determinare la crescita dei minimi tabellari nei singoli contratti nazionali di categoria.
Il nuovo indice previsionale dovrebbe essere applicato ad un valore retributivo medio, assunto quale base di computo, composto dai minimi tabellari, dal valore degli aumenti periodici di anzianità - considerata l'anzianità media del settore - e dalle altre eventuali indennità in cifra fissa stabilite dallo stesso contratto nazionale.
Si tratta, a differenza di quanto viene erroneamente affermato, di un meccanismo che coglie le differenze esistenti fra i diversi settori produttivi, essendo per sua natura differenziato.
Abbiamo tanti contratti (noi ne gestiamo 67) e ognuno di essi ha discipline e caratteristiche molto diverse.
Questo sistema ha il vantaggio di determinare un meccanismo chiaro e, di conseguenza, è in grado di superare il contenzioso che normalmente si determina in occasione della definizione degli aumenti dei minimi tabellari nelle contrattazioni nazionali. Ci siamo posti anche l'obiettivo, infatti, di diminuire il tasso di litigiosità, che vuol dire lungaggini delle discussioni, scioperi, perdite di tempo. Credo che se riuscissimo a fissare un po' di regole condivise, questo aiuterebbe anche a diminuire il tasso di litigiosità.
L'impianto complessivo della riforma garantisce, inoltre - in base alle proiezioni fatte non solo dal nostro Centro studi - una situazione di evidente guadagno per i lavoratori.
Su questo si danno interpretazioni molto diverse. Quelle diffuse - francamente non so a quali numeri faccia riferimento - dalla CGIL non ci trovano assolutamente d'accordo, poiché il nuovo modello di contrattazione delle retribuzioni può far aumentare le buste paga di 766 euro reali annui. A questo aumento si aggiunge anche il vantaggio fiscale di quasi 230 euro annui.
Secondo le stime del nostro Centro studi, nel triennio 2009-2011 le retribuzioni


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effettive aumenterebbero del 9,4 per cento, salendo nella media del sistema economico italiano e portando la retribuzione media lorda annua da 26.768 euro a 29.180, con 2.503 euro di incremento nei tre anni.
L'aumento delle retribuzioni reali, al netto cioè dell'inflazione, sarebbe quindi del 2,9 per cento, pari a 766 euro lordi annui, a prezzi costanti del 2008. Chiaramente questo dato non considera l'elemento dell'eventuale variazione dei prezzi.
Si obietta, poi, che il nuovo modello non favorirebbe l'allargamento della contrattazione di secondo livello. Credo che anche questa osservazione sia sbagliata, almeno dal nostro punto di vista, perché tutta l'impostazione della riforma è basata proprio sull'obiettivo di spostare il baricentro della contrattazione collettiva verso il secondo livello.
Se questo è l'obiettivo che, come Confindustria, abbiamo definito e dichiarato, le soluzioni che abbiamo proposto non possono che essere conseguenti.
Su questo vorrei svolgere alcune considerazioni.
Anzitutto, è stata Confindustria che, sin dal documento varato nel 2005, ha posto la questione dell'incentivazione della contrattazione di secondo livello. La questione è stata condivisa anche dall'allora Governo Prodi, allorché è stato affermato che gli aumenti reali di retribuzione dovevano essere direttamente collegati agli incrementi di produttività.
All'epoca abbiamo fatto più di un incontro e il concetto che lo scambio tra maggiore salario e maggiore produttività dovesse avvenire al secondo livello era stato ribadito a chiare lettere.
Ricordo a tutti che in questi anni il nostro Paese, benché abbia avuto il merito di incrementare l'occupazione, a livello di produttività, invece, purtroppo non è assolutamente cresciuto.
C'è, quindi, un legame, un collegamento fra minori incrementi salariali e minori tassi di incremento di produttività: è lì che dobbiamo cercare di agire, per ottenere questi due obiettivi.
È perciò che, nel protocollo sul welfare sottoscritto fra Governo e parti sociali il 23 luglio 2007, abbiamo condiviso di favorire la contrattazione aziendale sui premi di risultato collegati al raggiungimento di obiettivi, come dicevo prima, di produttività, di efficienza, di efficacia e di redditività.
Questo punto era stato approvato da noi, dalle associazioni, dal Governo e dal sindacato (con qualche dissenso da parte di qualcuno che, poi, alla fine l'ha comunque condiviso). In tal modo si è riattivato quel sistema, già previsto dal protocollo del 23 luglio del 1993, che però, nel tempo, aveva perso d'interesse per imprese e lavoratori, essendo penalizzante in termini di trattamento pensionistico e in quanto gli importi soggetti a decontribuzione erano limitati.
Con l'accordo del luglio 2007 e con la successiva legge di attuazione, invece, era stato previsto: di aumentare dal 3 al 5 per cento la somma del premio di risultato da decontribuire; di aumentare la decontribuzione per le imprese e azzerare ogni contributo a carico del lavoratore; di assicurare la contribuzione figurativa per l'equivalente decontribuito, evitando così ogni perdita pensionistica per il lavoratore; di introdurre una parziale detassazione a favore del lavoratore.
La legge di attuazione non ha, però, poi potuto - per il momento, credo - realizzare integralmente gli impegni sottoscritti tra tutte le parti (senza nessuna eccezione) e il Governo.
Per questo motivo, nelle linee guida si conferma l'importanza di migliorare e rendere strutturali le forme di incentivazione della contrattazione di secondo livello, compresa la detassazione sperimentale introdotta per questa parte del salario, con i recenti provvedimenti del mese di agosto.
La logica del sistema risponde, quindi, al principio in base al quale, tanto più le imprese e i lavoratori sono favoriti, in termini di decontribuzione e di detassazione, nel concludere accordi sui premi di


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risultato, tanto più questi premi si diffonderanno anche nelle piccole e medie imprese.
Da questo emerge la contraddizione nel «no» che è stato pronunciato, perché stiamo cercando di spingere affinché la contrattazione di secondo livello possa allargarsi, perché questi vantaggi per i lavoratori vengano estesi nella maniera più ampia possibile.
Ricordo che, comunque, almeno nel sistema di Confindustria, la contrattazione economica di secondo livello viene esercitata circa nel 30 per cento delle aziende, che occupano il 70 per cento di tutti i dipendenti delle imprese associate. È evidente che questa percentuale, già molto alta, sicuramente è destinata ad aumentare.
Questo è il primo elemento di apparente contraddizione presente nel giudizio negativo che è stato dato.
Ai fini, poi, di una maggiore diffusione della contrattazione aziendale nelle linee guida abbiamo introdotto anche uno strumento assolutamente nuovo.
Si prevede, infatti, che le parti, nei contratti collettivi nazionali di categoria, possano concordare dei modelli di premio di risultato, affinché anche le piccole e piccolissime imprese, che sono prive di strutture e conoscenze specifiche, possano adottare un sistema premiante, collegato al raggiungimento di risultati, comunque concordati con i sindacati.
L'adozione di questo strumento potrebbe favorire una straordinaria diffusione dei premi di risultato se, anche in questo caso, trattandosi comunque di premi concordati, venissero riconosciuti i vantaggi della decontribuzione e della detassazione. Sembra strano che un soggetto, avendo questo tipo di vantaggi, rinunci a far applicare premi di tal genere.
Sempre nella logica di favorire la contrattazione di secondo livello, è però previsto anche un terzo elemento: lo strumento, che parimenti rappresenta una novità, che abbiamo chiamato «garanzia salariale».
Questo nuovo istituto, non previsto negli accordi del 1993, né in quello del 2005, ha la finalità diretta di garantire una crescita salariale a quei lavoratori che operano in aziende dove non si esercita contrattazione di secondo livello e che, per di più, non ricevono altro trattamento economico aggiuntivo rispetto a quello stabilito dal contratto nazionale. Parliamo, quindi, delle situazioni più indifese e più deboli.
È evidente che la finalità indiretta è quella di stimolare, anche in questa situazione, la contrattazione aziendale, attraverso la banale constatazione che, dovendo comunque riconoscere degli aumenti salariali, per l'impresa è meglio corrisponderli beneficiando di decontribuzioni e detassazioni.
Circa la contrattazione di secondo livello di tipo territoriale - anche questo è fonte di grande dibattito e discussione - si conferma la formulazione che è già stata concordata nel protocollo del 1993. Anche questa parte viene contestata, ma non si capisce perché.
A differenza di altri comparti merceologici, nel sistema associativo di Confindustria permane una cautela nei confronti della contrattazione territoriale, non per una contrarietà ideologica, ma per mere valutazioni economiche, come mi sembra abbastanza logico.
La prima di tali valutazioni è che ciascuna impresa risente prevalentemente degli andamenti economici nazionali ed internazionali ed è direttamente correlata agli andamenti del mercato di riferimento, più che alla dislocazione sul territorio.
Detto in parole ancora più povere e semplici, diverse aziende dello stesso settore o operanti nello stesso territorio, possono andare bene, così così o malissimo: non per il fatto di far parte del medesimo territorio si devono applicare gli stessi parametri. Si deve concentrare l'attenzione sulla dimensione aziendale: credo che questo sia per noi un elemento essenziale.
La seconda valutazione riguarda il fatto che la scelta di indicatori di riferimento per misurare eventuali incrementi di produttività, redditività o competitività, registrati in ambito territoriale, risulterebbe impraticabile a motivo della diversa configurazione produttiva delle realtà industriali presenti


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nel territorio e delle forti diversificazioni esistenti nella gestione economica che contraddistingue le singole imprese.
Anche all'interno del medesimo settore o comparto, come dicevo prima, sarebbe impossibile e impraticabile definire un riferimento uniforme e coerente con le caratteristiche estremamente diverse delle realtà aziendali presenti in un determinato territorio.
La terza valutazione è che, se si volesse veramente ipotizzare un ambito territoriale di contrattazione diversificato per settore, ne deriverebbe l'introduzione di una competizione che noi consideriamo a rischio, dovuta all'inevitabile rincorsa fra settori, e fra contrattazione aziendale e settori, per il raggiungimento di intese economicamente sempre più soddisfacenti, ma a totale discapito dell'altro obiettivo che ci poniamo, quello di avere una maggiore competitività.
La penultima obiezione evidenzia che nelle linee guida si ipotizzerebbe la possibilità di derogare ampiamente ai contratti di lavoro. Credo che anche questa sia un'obiezione francamente infondata. Le ipotesi di derogabilità sono un'esaltazione dell'autonomia collettiva e non un pericolo per i contratti nazionali.
Si prevede, infatti, che solo i contratti nazionali possano disciplinare la propria derogabilità.
Si stabilisce che la derogabilità sia comunque limitata alla gestione di situazioni di crisi aziendali, oppure per favorire l'attrattività del territorio (come regolarmente avviene in quasi tutta l'Europa), che le deroghe possano essere sperimentali, temporanee e parziali, e, soprattutto, che le deroghe siano concordate tra le parti nel territorio e che, per essere efficaci, debbano essere approvate mediante l'accordo tra le parti stipulanti il contratto nazionale, quindi non con una decisione unilaterale.
È difficile prevedere soluzioni meno garantiste di questa che, per altro, riprende un'ipotesi già cara alla commissione Giugni che, nel 1997, aveva indicato quella della derogabilità come una delle strade possibili, anzi, come la strada maestra, per innovare la contrattazione collettiva.
Saltando le questioni meno importanti, vengo ora all'ultima obiezione, secondo cui il modello proposto sarebbe centralizzato e molto proceduralizzato. Credo che anche questa obiezione sia priva di fondamento.
Basti pensare che tutto è affidato all'autonomia collettiva, che si applica tanto a livello interconfederale, a livello nazionale, a livello aziendale o territoriale: con tre livelli di discussione fra le parti, credo che non ci possa essere un modello meno centralizzato di così.
Naturalmente, come è già accaduto col protocollo del 1993, anche quello oggi in discussione dovrebbe essere un accordo di procedure; dovrebbe, cioè, indicare soggetti, tempi, sedi e materie della contrattazione collettiva.
Forse, se negli accordi nel 1993 ci sono alcune lacune, esse riguardano proprio la mancanza di regole, che ha fatto sì che qualcuno potesse ignorare le procedure, creando del contenzioso.
Se poi, invece, l'obiezione è riferita, come io credo, al fatto che, oltre alle procedure, siano stabilite anche delle conseguenze, l'osservazione è impropria: non è pensabile fissare delle regole senza chiarire che tipo di conseguenze debba subire chi non le rispetta.
Anche su questo dirò forse una banalità, ma è chiaro che, se non ci fossero sanzioni per chi passa con i semafori rossi o per chi supera il limite di velocità di 130 chilometri orari, non dico che tutti passerebbero col rosso, perché ci si andrebbe a schiantare, ma tali norme verrebbero rispettate di meno. Sapendo, invece, che superare il limite di velocità comporta la perdita di cinque punti - o non so quanti - della patente, chiaramente si sta molto più attenti.
Noi diciamo, allora, che, se fissiamo delle regole condivise, devono essere stabilite anche le conseguenze per qualunque delle parti che non le rispetti. Darsi delle regole di comportamento e stabilire cosa accade se una delle parti non le rispetta mi sembra un atto rispondente a un principio di civiltà.
Sembra che questa sia stata una delle cose più contestate.


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Questi sono i punti fondamentali di discussione.
Faccio notare - l'ho già detto, ma lo voglio rimarcare - che, da parte nostra, abbiamo accolto molta parte delle osservazioni fatte da tutte e tre le sigle sindacali: il testo attuale rappresenta il compromesso, il limite che noi abbiamo ritenuto di poter accettare.
Francamente facciamo un po' fatica a capire l'atteggiamento di CGIL che, peraltro, ha contestato tutto il documento, nel suo complesso; tuttavia, non ha lasciato il tavolo. Per ben due volte ha detto «no» alle modifiche prima di leggerle, riservandosi di vederle in seguito: che almeno ci dica «no» dopo avere letto!
Faccio un po' fatica - non facendo questo mestiere, ho un po' più di senso pratico - a pensare di dover perdere giornate o tantissime ore su queste vicende, però, francamente, questo è lo stato dell'arte.
Noi vorremmo comunque muoverci: come sapete, abbiamo accordato di allargare questo discorso anche alle altre categorie, cercando di condividerlo con le altre associazioni, così come era stato fatto con gli accordi del 1993.
Credo che anche il Governo sia stato coinvolto, come ha richiesto, solo quale datore di lavoro.
Su questo argomento il Ministro Brunetta ha diffuso una documentazione secondo cui il Governo, come datore di lavoro, in linea di principio condivide il nostro documento.
Quando avremo ottenuto anche la condivisione delle altre associazioni, dovrebbe rimanere un solo soggetto non favorevole all'accordo. Spero che questo faccia modificare l'atteggiamento assunto da questa sigla sindacale.
Ritengo, peraltro, che un momento così drammaticamente negativo dell'economia a livello mondiale dovrebbe far cadere un po' di pregiudiziali, soprattutto concettuali o politiche, e far guardare un po' di più al sodo.
Stiamo discutendo di risorse a disposizione, che andranno ai lavoratori dipendenti e stiamo discutendo di come distribuirle al meglio.
C'è la possibilità, introdotta dal precedente Governo, di decontribuire una parte di questi salari, riconfermata, anzi allargata, dalle norme previste adesso, che stanziano altri soldi per coprire la detassazione delle ore di straordinario e dei premi.
Di fronte a una disponibilità generale, precedente e attuale, non trovare una condivisione delle regole mi sembrerebbe francamente un atto di poca responsabilità.
Credo, quindi, che abbiamo il dovere di accelerare questa riforma, perché mai come in questo momento, c'è bisogno di ridare un po' di fiducia al sistema, di rimettere in circolo un po' di soldi per cercare di far ripartire i consumi che, in questo momento, sono fermi, comportando il vero rischio di perdita di posti di lavoro.

PRESIDENTE. Ringrazio il vicepresidente Bombassei.
Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

GIULIO SANTAGATA. Ringrazio il dottor Bombassei per la sua illustrazione.
Vorrei fare delle osservazioni, alcune di carattere generale, altre più specifiche.
Ovviamente, riconfermo la nostra idea di fondo che ci possa e ci debba essere una riorganizzazione del modello contrattuale che tenga maggiormente conto della competitività; parto proprio da qui.
La competitività non è un dono divino, ma il risultato di scelte, prima di tutto di politica economica e industriale e di relazione industriale. Noi viviamo in un Paese strano dove, con una bassa crescita dell'economia complessiva, abbiamo avuto una crescita dell'occupazione.
Il risultato di questa complessa - ma semplice da fare - operazione è che la competitività del lavoro è risultata bassa.
Mi verrebbe da chiedere se questa non sia stata una scelta di politica industriale, probabilmente non molto lungimirante.
Detto questo, ad alimentare questo modello abbiamo 4 milioni di immigrati regolari e non so quanti irregolari.
Adesso non sto parlando di Confindustria in senso stretto: il dottor Bombassei


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mi potrebbe rispondere che le imprese aderenti alla sua organizzazione sono quelle messe meglio, da questo punto di vista; così come mi potrebbe rispondere che sono quelle che meno di altri utilizzano forme di lavoro precario.
È chiaro, però, che il mercato del lavoro italiano è fatto anche di ciò. Questo risultato ci dice che la competitività è bassa. Bisogna che ci mettiamo d'accordo tutti, credo, nel cambiare un certo tipo di modello.
Il Governo precedente aveva investito sull'idea che si potessero trovare le forme per favorire un cambiamento, concernente non solo la contrattazione, ma anche il modello di crescita della nostra impresa.
Detto questo, io non sono tecnicamente in grado di capire la questione - o, perlomeno, non l'ho studiata - della base di calcolo, del modello di calcolo dell'inflazione e dei suoi impatti. Condivido, però, l'esigenza di uscire dal modello dell'inflazione programmata così come l'abbiamo conosciuta.
Prendo per buona la sua affermazione, dottor Bombassei: lei sta dicendo, se ho capito bene, che, al di là di come si fa il calcolo, c'è una disponibilità di Confindustria a redistribuire più di 700 euro all'anno a favore del lavoro...

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Se applichiamo le regole così come abbiamo detto, sì.

GIULIO SANTAGATA. Siccome avete proposto voi le regole, immagino che, avendo fatto i calcoli, questo corrisponda ad una disponibilità.
Mi verrebbe da suggerire, allora, di porre la questione in altri termini: stante la disponibilità a distribuire 730 euro in tre anni a favore del lavoro, legata ad un diverso meccanismo di calcolo dell'inflazione, come lo si farà?
La mia è, certo, una provocazione, ma, se ho capito la sua proposta, e senza voler fare il difensore di nessuno - che non è nelle mie intenzioni né sarebbe in linea con la mia collocazione - si potrebbe dire che, se la questione non viene esplicitata, dietro la vostra disponibilità c'è una «gabola», mi scusi per la parola.
Chiedo di capire se stiamo parlando di una disponibilità di questo tipo - al di là del calcolo: non importa se si tratta di 700, 500 o 110 euro - legata al meccanismo inflattivo.
Infine, vorrei fare riferimento al tema del territorio. Ieri abbiamo approvato un collegato alla legge finanziaria nel quale, di nuovo, si dà un grande peso a modelli organizzativi dell'impresa come la rete, il distretto e via discorrendo.
Non possiamo continuare, da un lato, come economisti, a predicare il valore del distretto e della rete di impresa e, dall'altro, come Governo, come Parlamento e come Stato, a legarci a quest'idea delle norme e delle risorse, per poi non essere mai conseguenti nel capire se davvero la forma organizzativa distrettuale sia una forma specifica e se sia responsabile, in positivo o in negativo, della crescita della competitività complessiva delle imprese che ne fanno parte e della loro produttività.
Se non fosse così, infatti, dovremmo smettere di esercitarci in Parlamento e di stanziare risorse attorno alle forme distrettuali.
Se così fosse, invece, senza arrivare a stabilire tre forme per i tre livelli di contrattazione - posso capire la vostra paura in merito - dovremo pure riconoscere qualcosa a questa modalità di essere delle nostre imprese.

IVANO MIGLIOLI. Ho ascoltato con attenzione l'intervento del dottor Bombassei e, mentre parlava, ho anche cercato di leggere il testo del documento che ci ha consegnato, ma le due cose sono risultate un po' inconciliabili.
Valutare punto per punto le cose che ci sono state dette dalle parti sociali e, in questo caso, i rilievi assai critici che il dottor Bombassei ha espresso nei confronti della CGIL non è compito di questa Commissione, in questa sede di audizioni: naturalmente penserà la CGIL a rispondere a queste argomentazioni.


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Vorrei restare sul merito della questione. Nel documento che lei ci ha consegnato, dottor Bombassei, si dice in premessa che il giudizio sul quadro macro-economico del Paese, è fatto di luci e di ombre: si parla di grande successo e di grande fallimento.
L'espressione «grande successo» si riferisce ai livelli occupazionali che, in questi anni, nel Paese sono cresciuti; l'espressione «grande fallimento», invece, si riferisce alla produttività del Paese, al PIL.
Io faccio valutazioni diverse, sulla parte riguardante il grande successo, ma si tratta di un'opinione personale. Certo è che, al di là di questa analisi, la crisi che tutti siamo chiamati ad affrontare mette in discussione anche la parte inerente al grande successo.
Vengo da una regione, l'Emilia, che del tessuto produttivo conosce grandi pregi, se non altro perché da noi ogni nove persone c'è un'impresa; in queste settimane arrivano i dati preoccupanti sui livelli di ricorso alla cassa integrazione, sulle difficoltà delle imprese, sui problemi dei nostri distretti. Parlo di una regione, l'Emilia, che non è nemmeno la prima a destare queste preoccupazioni. Se, però, questa crisi incide su regioni come la mia, naturalmente incide, in primo luogo, sui livelli di occupazione e di salario.
Mi pare evidente, al di là delle valutazioni che possono fare questa o quell'altra organizzazione, che se analizziamo cosa è successo ai salari italiani in questi ultimi anni, raffrontandoli alla media europea, alcune valutazioni contenute nel suo documento non sono sempre riscontrabili nei dati pubblicati dall'OCSE e da altre associazioni.

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Sono dati ISTAT.

IVANO MIGLIOLI. Così come mi pare evidente e incontestabile che, in questi anni, in questo Paese le disuguaglianze sociali sono aumentate, ma non voglio citare tutti i dati in proposito.
È evidente, allora, che, di fronte a tutto questo, il problema è come intervenire, anche attraverso il sistema della contrattazione, che io credo sia uno degli elementi utili per rispondere a tali questioni, come riequilibrare la perdita del potere d'acquisto a favore dei salari, come agganciare quest'ultima all'aumento della produttività (quel «grande fallimento» che lei individua nella sua relazione).
È ovvio che, per questo, occorre l'intervento non solo delle imprese, ma anche di un altro soggetto, ovvero il Governo che deve attivarsi portando avanti le sue politiche. Infatti, esso determina anzitutto il tasso di inflazione programmato - che, naturalmente, riguarda la contrattazione del pubblico impiego, ma che è indicativa anche per il settore privato - e può intraprendere politiche a sostegno del reddito.
Questo è il primo tema che volevo porre, perché la contrattazione non può non rientrare in questo meccanismo. Secondo me, infatti, come ho già detto altre volte, facciamo bene a svolgere questa indagine conoscitiva e ad esprimere delle valutazioni, ma a un certo punto anche il Governo dovrà dire la sua, rispetto a questo tipo di politiche che, lo ripeto, non sono indifferenti.
Io sono tra chi sostiene, ad esempio, che la scelta della decontribuzione degli straordinari è stata una misura che ha sortito pochissimo effetto. Andremo, poi, a vederne i risultati, che ancora non abbiamo, ma, al di là della sua filosofia, che può essere giusta e corretta, a nostro giudizio quelle risorse potevano forse essere usate diversamente, tanto più in una situazione di crisi in cui il ricorso al lavoro straordinario ha naturalmente subito le conseguenze di cui già si è detto.
Di seguito, le rivolgerò tre domande. Il modello da cui veniamo è stato segnato dalla scelta, nel 1993, della concertazione fra tutte le organizzazioni sindacali e il mondo delle imprese; seppure con luci e ombre, esso ha dato i risultati che conosciamo. Lei, giustamente, ha fatto dei rilievi alla posizione delle organizzazioni sindacali.


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La prima domanda che mi pongo, anche rispetto al protocollo del 23 luglio, è se si pensa che il mancato ricorso alla concertazione o la possibile esclusione di una delle parti sociali possa contribuire a risolvere meglio questi problemi. Lo dico per tutti noi.
La seconda questione, legata a questo primo aspetto, è che non si fa alcun riferimento a un tema che pure noi abbiamo affrontato in sede di Commissione, ossia quello della rappresentanza sindacale e, quindi, delle normative introdotte, nel pubblico e nel privato, rispetto alla contrattazione, per legittimarne gli esiti e per dare valore e valenza alle parti sociali. A ciò si ritrova solo un accenno generico, nella parte del vostro documento che ho letto.
Questi due aspetti sono, in qualche modo, propedeutici al merito della mia terza domanda. Lei, giustamente, dice che non volete mettere in discussione la contrattazione di carattere nazionale, a cui affidate i compiti che sono noti; nonostante ci siano, certamente, anche modelli contrattuali diversi, voi volete accentuare l'aspetto del secondo livello della contrattazione, a cui affidate, in modo particolare, i premi di risultato e di produttività, che vanno attribuiti, in gran parte, ai salari.
Il sistema produttivo del nostro Paese, e torno di nuovo alla mia regione, è quello che conosciamo: nelle piccole e medie imprese non associate alla Confindustria - di cui lei ha citato la rappresentanza, ma naturalmente noi potremmo citare quella delle associazioni dell'artigianato e delle piccole e medie imprese - il tema dei rapporti a livello territoriale, che ha avuto anche evoluzioni diverse in tutto il territorio, pone un problema, perché tende, o può tendere, ad escludere da quei premi una parte significativa dei lavoratori. Ciò propone un tema che ho solamente sentito accennare.

ANTONINO FOTI. Dottor Bombassei, ho letto nelle prime pagine del documento che l'83 per cento delle imprese associate ha meno di cinquanta dipendenti e che il 60 per cento di esse ne ha meno di quindici.
Considerando che, nel sistema complessivo produttivo nazionale, il 97,5 per cento delle aziende ha un numero di dipendenti che va da zero a quindici, non pensa che gli imprenditori (soprattutto i piccoli imprenditori, che vedo in gran numero anche in Confindustria) siano impegnati, più che altro, a rispondere alle esigenze imposte dai burocratismi, avendo un freno a mano permanentemente tirato, rappresentato dalle nostre troppe leggi (benché in questa legislatura esse siano già state ridotte del 30 per cento, passando da 21.700 a 14.700)?
Confindustria stessa non dovrebbe differenziare fra la rappresentanza della grande industria - che penso sia intorno all'1,5 per cento - e quella delle piccole imprese, che non possono non essere considerate in modo diverso, per quanto concerne lo svolgimento di tutte le attività imposte da queste leggi, spesso vessatorie?
Pensiamo alla legge n. 626/94, ad esempio: la grande industria può sostenerne gli oneri, ma la piccola industria, la micro-industria non può farlo. Penso a un artigiano delle Marche che, pur avendo un solo bagno in casa, è stato costretto ad avere due bagni nell'azienda gestita con la moglie, dovendo, quindi, rispettare tutta una serie di norme che frenano la produttività.
Non pensa che sia il momento, anche per Confindustria, al cui interno c'è un numero così elevato di piccole industrie, di fare una proposta di delegificazione e di proporre al Parlamento una differenziazione tra piccola e micro-impresa, da un lato, e grande impresa, dall'altro?

GIULIANO CAZZOLA. Interverrò molto brevemente, per ringraziare il vicepresidente Bombassei e la delegazione della Confindustria di avere aderito alla nostra richiesta e per svolgere delle osservazioni seguite da alcune domande.
Parto dalle considerazioni dell'onorevole Santagata, che metteva in evidenza la relazione esistente - o, quantomeno, esistita - tra la ridotta crescita economica


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avuta negli ultimi anni (anche andando parecchio indietro nel tempo e non solo limitandoci alle considerazioni sulla situazione abbastanza depressa presente oggi) e l'incremento dell'occupazione. Come si è detto, un incremento dell'occupazione, a fronte di una crescita modesta, è stato pagato dalla produttività.
Credo, infatti, che le nostre valutazioni sull'andamento della produttività - a parte le considerazioni che potremmo fare sulla situazione di oggi, che sarebbero assolutamente diverse - derivino proprio dall'analisi dei cambiamenti verificatisi, sul terreno delle politiche dell'occupazione, a partire dagli ultimi anni '90 e dai primi anni 2000.
Noi abbiamo avuto una diminuzione della produttività rispetto agli anni precedenti: non so se mi spiego.
Se analizziamo gli indicatori degli investimenti a risparmio di lavoro, negli anni precedenti - per esempio, la legislazione che va dal 1997 al 2003: dal pacchetto Treu alla legge Biagi - possiamo riscontrare che il nostro Paese aveva un'altissima quota di tali investimenti. La maggior parte degli investimenti aziendali era, cioè, sostanzialmente sui processi, più che sui prodotti.
Credo, quindi, che, tutto sommato, se in qualche modo l'occupazione è aumentata, questo sia stato un merito della legislazione introdotta dal 1997 in poi, anche a fronte di una crescita economica ridotta; ritengo inoltre che il crollo di produttività che abbiamo registrato sia stato invece un fattore contingente.
Questo proprio perché le politiche del lavoro hanno consentito alle imprese di fare assunzioni, magari anche non stabili, ma a termine, mentre in precedenza avevano la preoccupazione di dover fare il possibile per risparmiare forza lavoro. Io non credo, quindi, che questo sia un fattore negativo.
Vengo ora alle conclusioni. Tutti noi abbiamo scritto e detto che il protocollo del 1993 era superato e che bisognava fare delle altre cose, che occorreva cambiare, innovare. Tra l'altro, abbiamo sentito più volte, in questa stessa aula, il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, rivolgere al protocollo del 1993 delle critiche molto severe.
Io, invece, mi sono domandato se in fondo, di fronte al protocollo del 1993, non facciamo come quelli che assistono, nella poesia, alla quercia caduta e dicono: «Or vedo: era pur grande! Or vedo: era pur buona!».
Dico questo perché, in realtà, questo protocollo ha sostanzialmente consentito all'industria e ai settori che lo hanno applicato, di rinnovare i contratti in maniera fisiologica; non mi risulta, infatti, che ci siano stati particolari agitazioni sindacali o particolari scioperi, nella generalità delle categorie, eccetto una.
Capisco che Confindustria potrebbe rispondermi che questo le è stato chiesto dai sindacati, con la strana formulazione di un'«inflazione realisticamente prevedibile», però io mi domando se non sia più sano un meccanismo che si muova sui due livelli di contrattazione - fra l'inflazione programmata posta dal Governo e l'inflazione reale, così come dice il protocollo del 1993 - piuttosto che inventarsi un livello di inflazione assolutamente privato.
Mi domando, quindi, se non sia il caso di porci un problema politico. C'è una categoria, nel Paese, che in questi anni non è stata in grado di stare alle regole, alle prassi, nella necessità di trovare spazi anche laddove non ci sono e, ovviamente, di adeguarsi alle forzature e a un certo modo di intendersi, in generale, essa non ha seguito le dinamiche della contrattazione collettiva.
Mi domando se questo non sia un problema politico, da gestire politicamente, piuttosto che un problema di regole.
Sono convinto, infatti - glielo dico in amicizia - che leggendo in controluce la vostra proposta, si possa trovare la ragione per cui la CGIL vi dice di «no».
Voi, in buona sostanza, avete un problema da risolvere con la Federmeccanica: portare al tavolo la FIOM, che ne sta fuori. Se volete la mia opinione, sono in gioco motivi politici; non si capisce, altrimenti, perché la FIOM dovrebbe fare dei ragionamenti


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diversi da quelli che fanno le altre categorie, comprese quelle della CGIL. Se l'obiettivo è portare la FIOM all'interno di una situazione di normalità, la CGIL non potrà mai darvi ragione.
Mi domando, pertanto, se, tutto sommato, non stiamo cercando di costruire una specie di soluzione normativa, contrattuale e giuridica, ad un problema che dovrebbe essere risolto, purtroppo, in altro modo.

NEDO LORENZO POLI. Con riferimento a quanto detto dal dottor Bombassei nella sua relazione, credo che alcune questioni andrebbero affrontate in modo diverso.
Quello che mi preoccupa è quando si fa riferimento a 67 contratti nazionali. Diventa dunque complesso, in questo Paese, andare al livello della seconda contrattazione con 67 contratti nazionali, diversi l'uno dall'altro. Si parte, quindi, da una base che è difficile riequilibrare sul secondo livello anche negli stessi settori, a volte, o in settori simili.
Sarebbe importante operare una semplificazione sul livello del contratto nazionale e arrivare a sinergie tali da ridurre il numero dei contratti - mi verrebbe da dire - da 67 a 7. In questo modo si potrebbe gestire più facilmente la seconda fase.
Tutti, fino ad oggi, abbiamo complicato la vita di questo sistema in cui diventa difficile gestire le posizioni.
Vi è un altro aspetto da mettere a fuoco. Come lei ha detto, il 60 per cento delle imprese ha meno di 15 dipendenti. Si parla, quindi, di modelli di impresa a carattere e a gestione familiare. Anche in questo caso bisogna capire come applicare le contrattazioni di secondo livello; altrimenti si lascia scoperta gran parte della realtà dei dipendenti e non si risolve il problema.
Quando si parla di imprese a carattere familiare è diversa anche la gestione del rapporto con il personale. Anche questo è un punto da focalizzare in una trattazione complessiva. Evidentemente oggi alcune misure - per esempio, la detassazione degli straordinari, che riguarda anche altre voci della retribuzione inerenti alla maggiore produttività - stanno portando risultati positivi e speriamo che il Governo abbia la possibilità di prorogarle anche nel 2009. A mio avviso, è importante che con questa contrattazione si riesca a recuperare, se è possibile, un rapporto con tutte le sigle sindacali, oltre che con le associazioni.
Si sta cercando di risolvere un problema rilevante in un momento di crisi nazionale e internazionale. Credo che sia importante, per questo Paese, riuscire a dare ai salari un maggior valore e la possibilità di essere più competitivi in funzione anche della svalutazione del potere d'acquisto.
Organizzate, dunque, incontri con tutte le altre associazioni, ma non lasciate fuori una sigla sindacale che ha un certo peso in questo Paese.

TERESA BELLANOVA. Signor presidente, intervengo brevemente perché molte cose sono state già dette dai colleghi.
Dottor Bombassei, credo che lei abbia fatto una riflessione più politica che sul merito della questione quando ci ha detto che la sua organizzazione fatica a capire l'atteggiamento della CGIL. Successivamente ha detto che avete raggiunto un'intesa e avete convenuto di allargare il tavolo a tutte le organizzazioni datoriali, compreso il Governo, precisando che a questo punto l'isolamento risulterà chiaro: sarà uno contro tutti.
Non voglio discutere il merito di questa affermazione che considero politica - altre sono le sedi in cui bisognerà confrontarsi su questi temi -, ma pongo una domanda: voi ritenete che si possa produrre una lacerazione sulle regole della contrattazione, escludendo la più grande organizzazione sindacale, con un atto politico riferito alla riforma della contrattazione, in un momento in cui il nostro Paese (non sono affermazioni mie, lo hanno dichiarato in questi giorni anche autorevoli istituzioni europee) è in una fase di recessione, e il nostro sistema di imprese risulta inevitabilmente impegnato


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in una fase di organizzazione o di ristrutturazione (con tutto ciò che questo comporta)? Sarà pure uno contro tutti, ma a quale livello di tensione e di conflittualità sarà portato il nostro sistema di imprese nei prossimi mesi se si produce uno strappo su un atto fondamentale che regola le relazioni tra le parti?
Inoltre, sono tornata indietro con la memoria a un'altra audizione molto significativa che abbiamo fatto in questa Commissione: mi riferisco all'audizione non di rappresentanti di CGIL, CISL e UIL, ma della dottoressa Polverini in rappresentanza dell'UGL.
Dottor Bombassei, lei prima ci ha detto che avete raggiunto un'intesa, partendo quindi dal dato della chiusura di un accordo. La dottoressa Polverini ci ha detto chiaramente che, pur avendo riscontrato alcuni punti di convergenza, permangono sulla contrattazione, almeno sulla parte economica, tre forti punti di criticità: il primo, il metodo di calcolo dell'inflazione, in quanto Confindustria vuole depurare l'inflazione importata; il secondo, la riduzione delle voci stipendiali sulle quali si misura l'incremento delle retribuzioni; il terzo, l'individuazione del soggetto che deve determinare i criteri di misurazione della produttività all'interno delle imprese per la ricchezza da redistribuire. Su questo, sempre secondo la dottoressa Polverini, c'è vacuità nella posizione di Confindustria.
Di fronte a queste affermazioni, avrei qualche difficoltà a credere che si sia chiusa un'intesa tecnica; piuttosto, sarei portata a ritenere che, nel momento in cui si afferma che si è chiuso l'accordo, si sia fatto un annuncio politico.
Le chiederei, dunque, un chiarimento in merito a queste affermazioni di un'autorevole rappresentante sindacale, nonché vostra interlocutrice in questa fase del confronto.
Vengo alla seconda questione. Se su temi così fondamentali alla fine non si avrà la volontà o la possibilità di raggiungere un'intesa, così come è stato per l'accordo di luglio del 1993, con tutte le parti sociali - e avendo al di fuori di questa intesa, lo ripeto, la più grande organizzazione sindacale di questo Paese - non si pone anche per Confindustria in modo dirimente il tema della misurazione della rappresentatività?
Io presumo che, per il ruolo che la vostra organizzazione svolge, abbiate interesse a non mettere le imprese di fronte a un conflitto permanente. La misurazione della tenuta di un'intesa si lega fortemente con la rappresentatività delle organizzazioni. Pertanto, a mio avviso dovrebbe essere data una disponibilità a regolamentare per legge la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e, credo, anche delle organizzazioni datoriali. Di deroga in deroga, forse si pone, se non a livello nazionale sicuramente a livello decentrato, il tema della rappresentatività delle organizzazioni datoriali che stipulano le intese.
Mi fermo qui per una questione di tempo.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola al dottor Bombassei per la replica, permettetemi di svolgere una breve considerazione. Stiamo assistendo - alcuni colleghi ne hanno parlato - al trasferimento della crisi da un ambito economico-finanziario all'economia reale.
Volevo chiedere al dottor Bombassei se dal suo osservatorio appaia che il prossimo anno, che è da tutti annunciato come un anno di difficoltà, possa portare qualche problema di carattere sociale, considerato che gli strumenti oggi in vigore sulle ammortizzazioni sociali non prevedono coperture per coloro che prestano un'opera a tempo determinato o interinale.
Do la parola al dottor Bombassei per la replica.

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Spero di riuscire a rispondere a tutte le domande che mi avete posto. Parto dal primo intervento, quello dell'onorevole Santagata, a proposito di economia industriale. Credo che il dato relativo al fattore di produttività,


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che è tra i più bassi o il più basso in Europa, sia assolutamente incontestabile. Tuttavia, se sacrificato in qualche modo sull'altare della maggiore occupazione, francamente non la ritengo una circostanza così deleteria.
Ricordiamoci che sono stati creati 3,3 milioni di posti di lavoro, ma i nuclei familiari più o meno sono rimasti gli stessi. Ciò significa che le maggiori entrate legate alla maggiore occupazione hanno creato comunque una maggiore ricchezza. Credo che possiamo condividere che questo sia un dato positivo. Il sistema, dunque, ha creato più posti di lavoro: su questo ritengo che il giudizio sia unanime. Il fatto che ciò sia stato pagato con una minore produttività è soltanto in parte vero. È vero anche, però, che la produttività non viene fuori soltanto dai lavoratori, ma è la somma di tanti fattori: in parte è data da alcune regole, secondo me sbagliate, che la politica ha dettato; in parte è data dalla circostanza che alcuni imprenditori - non tutti fortunatamente - non hanno continuato a investire in maniera coerente nelle proprie imprese e si sono fatti distrarre da altro, ad esempio dalle bolle finanziare piuttosto che immobiliari.
A mio avviso, il fatto che, da un po' di anni, le imprese o gli imprenditori siano tornati sui fondamentali ha fatto sì che si risalisse di nuovo nella classifica della competitività. Basta guardare un indicatore che non riguarda la materia che stiamo discutendo: le esportazioni, in quantità e in qualità. Ciò significa che abbiamo migliorato i nostri prodotti dal punto di vista qualitativo e, quindi, a parità di prodotto fatturiamo di più; significa anche che vendiamo meno manodopera e un po' più di cervello - questo lo determinano soltanto le strategie delle aziende - e vendiamo di più anche in maniera quantitativa. Questa è la parte positiva.
È chiaro, però, che la produttività deriva anche da altre cose. Non possiamo nasconderci che oggi il sistema di competitività non è territoriale e - sfortunatamente o fortunatamente - non riguarda più neanche la competitività solo del Paese. Ormai la vera globalizzazione vede una guerra, seppur commerciale, tra continenti. L'Europa combatte contro l'America o contro l'Asia: questi sono i blocchi commerciali che competono. È chiaro che, sebbene l'Europa abbia avuto risultati sociali chiaramente molto positivi, si pone una domanda: in un mondo globale potremo ancora permetterci, per esempio, di lavorare 250 o 300 ore meno della media degli americani? E non parlo del cinese o dell'indiano, la cui media di ore lavorate è ancora più alta.
Oggi è un lusso il fatto di lavorare mediamente 1700 ore all'anno - del resto, l'unico metro è quello delle ore lavorate in un anno - contro le 1900-1950 della media degli Stati Uniti. Insomma, dobbiamo dire che probabilmente noi lavoriamo meno rispetto ai nostri tradizionali competitori (mi viene in mente, ad esempio, il Giappone). La produttività e la competitività derivano anche da questo.
In secondo luogo, devo dire che la legge Biagi è stata molto utile, perché ha incrementato il nostro tasso di occupazione, negli ultimi dieci anni, in maniera notevole. Siamo passati da una disoccupazione che, soltanto dieci anni fa, era dell'11,3 per cento al 6,1 per cento. Insomma, abbiamo quasi dimezzato il nostro tasso di disoccupazione. Certo, sappiamo che ci sono lavoratori in nero e tanti altri fattori che dobbiamo considerare, ma alla fine oggi abbiamo un tasso di disoccupazione che, nelle medie europee, è fra quelli tutto sommato buoni. Qualche anno fa avevamo meno disoccupati della Germania, che tre anni fa ne aveva circa 5 milioni.
C'è, quindi, una questione di ore di lavoro, che ho richiamato, ma anche la necessità che lavori un numero maggiore di persone. Va bene, dunque, qualsiasi regola, purché la gente possa accedere al lavoro. Ricordiamoci però - lo abbiamo forse detto in qualche altra riunione in questa sede - la differenza che esiste tra lavoro maschile e lavoro femminile, tra il nord e il sud. Se pensiamo che al sud la disoccupazione femminile è oltre il 55 per cento, capiamo quante disarmonie abbiamo nel nostro Paese.


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Bisogna fare di tutto per cercare di incrementare il numero di persone che lavorano. Inoltre, dobbiamo certamente guardarci allo specchio, come imprenditori, e chiederci se siamo sicuri di aver fatto tutti il nostro dovere. Forse bisogna ricominciare - lo abbiamo fatto in parte per le ragioni che dicevo prima - ad investire e innovare di più. Tuttavia, poiché per il mio lavoro viaggio tanto e vedo le industrie di tutto il mondo, credo di poter dire - e lo faccio con grande tranquillità e serenità d'animo - che noi italiani non siamo messi così male dal punto di vista dell'organizzazione, dei processi produttivi o dei prodotti. È chiaro che abbiamo una serie di sovracosti che rende il nostro sistema poco competitivo.
Cito problemi che non si fermano soltanto nell'ambito della sede aziendale, ma vanno oltre. Basti pensare che paghiamo l'energia elettrica il 30 per cento in più dei nostri concorrenti europei e che abbiamo un sistema di tassazione molto più pesante di altri Paesi europei.
Per quanto riguarda la logistica, abbiamo 5-6 punti in più rispetto ai nostri concorrenti perché manchiamo di infrastrutture. Tutto questo penalizza il nostro sistema Paese, ma soprattutto il nostro sistema industriale. È chiaro, quindi, che quando le cose si fanno più difficili - come sta succedendo adesso e succederà, purtroppo, nel 2009 - si devono affrontare problematiche particolarmente pesanti.
Credo che, proprio per questa delicatezza del momento, abbiamo l'obbligo e la responsabilità - noi e il sindacato - di trovare un accordo per cercare di risolvere le questioni fondamentali. Francamente non mi sento di dire che quel documento è un documento politico; si tratta, anzi, di un documento molto pratico. La CGIL l'aveva bollato come un documento sovietico, adesso viene definito politico, ma tutto è, francamente, meno che politico...

TERESA BELLANOVA. Mi riferivo alle sue affermazioni! Con riferimento al suo documento ho rivolto solo delle domande.

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Poi ci arrivo.
Questo è quello che dobbiamo fare, ed era quello che avevamo visto nel protocollo dell'anno scorso: cercare di diminuire o di ridimensionare la precarietà. Tra l'altro, questa parola non mi piace affatto, perché sembra che il nostro sia un Paese soltanto di precari. Qualcuno ha detto che siamo i più virtuosi, ma i nostri dipendenti, per oltre il 93 per cento, sono assunti con contratti a tempo indeterminato. Da noi, dunque, la precarietà - il termine, comunque, è tecnicamente sbagliato - non esiste. Coloro che hanno un contratto a termine o gli interinali sono veramente una minoranza.
Questo fenomeno, pertanto, va riferito ad altri settori, soprattutto del pubblico. Basta guardare sul vocabolario della lingua italiana cosa è riportato alla voce «precarietà»: è una condizione tipica del lavoratore dipendente del pubblico impiego. Quindi, francamente, questa etichetta non ci riguarda.
Questo è quello che stiamo facendo e quello che vogliamo fare. Lei parla della nostra disponibilità, ma - attenzione - non è un meccanismo matematico. Semmai c'è da dire - l'ha detto anche Susanna Camusso nel suo intervento in questa sede - che quando si spiega la prima parte dell'applicazione del contratto nazionale non ci si può fermare al primo capitolo. È chiaro che, nell'applicazione del contratto nazionale, ci sono alcune limitazioni rispetto al vecchio, ma sono ampiamente recuperate se la regola viene applicata nella sua interezza.
In questo caso, applicando la regola per intero, se dovessimo fare l'esempio del presente uscirebbero le cifre che abbiamo indicato. Siamo pronti a confrontarci con chiunque sui numeri. Non possiamo ora metterci a fare gli esercizi alla lavagna, ma credetemi, l'abbiamo fatto più volte e il nostro ufficio studi è a disposizione di chiunque voglia fare i conti.
Considerato che per un salariato classico da 1000 o 1300 euro al mese anche


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100 euro fanno una bella differenza, continuare a discutere sul sesso degli angeli lo trovo francamente poco responsabile. Questo è il rammarico con cui esprimo oggi le nostre riserve.
Con riferimento al discorso dei territori e dei distretti, è vero che ci sono territori e distretti che vengono comunque omogeneizzati in alcune problematiche. Nella parte di concorrenza c'è un assestamento automatico fra le aziende. Chi vive in zone fortemente industriali sa benissimo che, senza tante regole, sulla parte salariale ci sono assestamenti quasi automatici. È difficile, invece, poter fare una contrattazione. Mi dispiace che non sia presente l'onorevole Damiano, che è di Cuneo, e potrebbe apprezzare l'esempio che sto per fare, che riguarda il settore automobilistico. In Italia ci sono tre fornitori, che non cito, che, sebbene facciano esattamente lo stesso lavoro, abbiano le stesse identiche applicazioni, siano nello stesso territorio, raggiungono risultati diversi (un'azienda va molto bene, un'altra così così, un'altra va malissimo). Se applicassimo gli stessi aumenti, sulla base del fatto che le aziende sono nello stesso territorio, il risultato sulle tre situazioni sarebbe completamente diverso.
Se dovessimo parlare di territorio - non parlo di distretti, che già rappresentano un'anomalia del territorio in questo senso - al limite potremmo discutere in alternativa al contratto nazionale. Il territorio è l'alternativa al nazionale, ma non certo l'alternativa all'aziendale, perché nell'aziendale, e soltanto lì, c'è la specificità della parte di contrattazione e della creazione di valore. Quindi, l'azienda più fortunata ha la possibilità di pagare meglio. Perché non farlo?
Credetemi, anche per noi non è stato facile, in questi anni, far capire a una serie di imprenditori, piccoli soprattutto, che oggi i collaboratori devono essere considerati tali: lo dico spesso, non c'è più la catena di montaggio con l'omino in tuta e la chiave inglese in mano delle vignette di Altan, ma oggi c'è corresponsabilità e condivisione in qualsiasi azienda, piccola, media o grande. Pertanto, se vogliamo condividere con i nostri collaboratori...

PRESIDENTE. Mi scusi, dottor Bombassei, poiché stanno iniziando i lavori in aula, le chiedo di concludere la sua replica in cinque minuti.

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Per quanto riguarda la CGIL, francamente non siamo noi che dobbiamo darle risposte. Al contrario, credo che sia la CGIL a dover dare delle risposte a noi.
Noi abbiamo presentato un documento che, in realtà, contiene delle linee guida. Quindi siamo aperti a discutere. Del resto, abbiamo fatto delle grosse variazioni. Tuttavia, non è neanche accettabile che un solo sindacato - io guardo quello che noi rappresentiamo, l'industria italiana e la stragrande maggioranza delle aziende piccole e medie - condizioni tutti gli altri sindacati e quindi il Paese.
Se c'è la buona volontà di cambiare le cose, discutiamo. Non è accettabile, però, che qualcuno si sieda al tavolo a contestare concettualmente il documento, salvo poi mostrare un certo imbarazzo nel rispondere quando abbiamo chiesto esattamente, punto per punto, cosa non andasse bene.
Non è accettabile, in democrazia, che una minoranza - perché tale è - possa condizionare tutti gli altri. In democrazia si procede a maggioranza.
Per quanto riguarda la rappresentanza, nel nostro documento c'è un capitolo - forse è sfuggito, visto che la domanda su questo argomento è stata posta da almeno tre persone - nel quale abbiamo detto che siamo disposti ad esaminare la parte della rappresentanza, ma naturalmente è un problema che dovranno risolvere loro, non certo noi. Da parte nostra non c'è nessuna pregiudiziale che in qualche modo siano cambiate le regole sulla rappresentanza, quindi non capisco le osservazioni che vengono mosse in questa direzione.
Quanto agli accordi del 1993, onorevole Cazzola, da parte nostra il giudizio su


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quegli accordi è sempre stato molto positivo. È chiaro, però, che ogni iniziativa va inquadrata nel suo tempo. In quel momento, credo che sia stata una scelta giusta, dunque va riconosciuto il merito di chi l'ha concepita. Essa ha saputo gestire bene, per un certo periodo, alcune problematiche. Non voglio disconoscere nulla.
È chiaro che i tempi sono cambiati. Tuttavia, nel momento in cui, a regole vigenti - ed è una delle ragioni della nostra puntualizzazione - negli ultimi 4-5 anni tutti o buona parte dei rinnovi contrattuali sono stati fatti disconoscendo l'inflazione programmata (almeno al doppio dell'inflazione e, in qualche caso, più dell'inflazione reale), la domanda è che senso abbia tenere delle regole che dal sindacato vengono sistematicamente disattese.
A questo punto, se siamo persone serie, è meglio che cambiamo le regole. Continuare ad applicare regole che vengono continuamente disattese credo sia inutile.
Da parte nostra c'è una fortissima incentivazione a ridurre il numero dei contratti. Lo stiamo facendo in maniera forzata, ma siamo già tra i fortunati, perché i signori che citavamo prima credo che ne gestiscano circa quattrocento. Questo per dire come non sia facile far andare bene un Paese con 400 rappresentanze, sindacali o aziendali che siano.
Una semplificazione da parte nostra è assolutamente necessaria.

GIULIANO CAZZOLA. Una battuta di De Gaulle dice: «Come può andar bene un Paese con più di 400 formaggi?».

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Se trasferiamo questa battuta alle questioni sindacali, meglio avere 400 formaggi che 400 contratti.
Quanto alla produttività, ho detto che questa deriva anche da nuovi investimenti, quindi le aziende devono investire di più e ammodernarsi. Il Governo, in qualche modo, deve aiutare in questa direzione.
Quanto alla CGIL, non siamo noi a dover dire cosa deve fare. Capisco che la FIOM abbia sempre dissentito su tutti gli accordi, su quello del luglio 2007 e su questo. È strano che Rinaldini e Cremaschi, che l'anno scorso erano stati indicati come dei dissidenti, quest'anno plaudano alla presa di posizione di Epifani. Ho qualche sospetto che ci sia stato un cambiamento, anzi più di un sospetto.
Noi guardiamo a tutte le categorie, non solo a quella dei metalmeccanici. Per noi questa è una categoria importante, ma non ci sono solo i metalmeccanici. Non possiamo neppure essere prigionieri di una minoranza della CGIL, anche se questo è un sindacato di tutto rispetto, magari il più grande. Io ho grande rispetto per tutti, ma non si può neanche pensare che la CGIL possa condizionare qualsiasi tipo di relazioni industriali.
Sul fatto di differenziare le aziende piccole, francamente andiamo esattamente nella direzione opposta. Abbiamo visto quale polverizzazione di rappresentanza ci sia e mancherebbe solo che da parte nostra si facesse una differenziazione tra piccole e medie aziende.

NEDO LORENZO POLI. Non differenziare, ma tenere conto delle realtà. I numeri poi li fanno le piccole aziende. Occorre contemplare le diverse esigenze che il Paese ha.

ALBERTO BOMBASSEI, Vicepresidente per le relazioni industriali, affari sociali e previdenza della Confindustria. Sono la stragrande maggioranza dei nostri iscritti. Immagini, quindi, se non abbiamo una grande attenzione.
Sulle osservazioni espresse dalla signora Polverini, devo dire francamente, pur con tutta la simpatia che ho nei suoi confronti, che alle nostre sedici riunioni ella non aveva partecipato. Noi abbiamo inviato il documento a posteriori e, sebbene le sue osservazioni siano di assoluta importanza, dobbiamo sottolineare che non abbiamo avuto un contraddittorio.
Per quanto riguarda la domanda posta dal presidente, credo che su questo argomento dovremo svolgere un approfondimento. Parlo senza una preparazione specifica,


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quindi potrei anche dire delle imprecisioni, delle quali mi scuso in anticipo. Credo che, soprattutto in aree molto industriali, in questo momento in cui cresce il numero dei cassaintegrati o di chi aveva un contratto a termine e rimane fuori dal sistema lavoro per una contrazione del mercato, sarebbe giusto rivolgere una certa attenzione a queste persone.
A questo proposito, devo rilevare un'imprecisione di una certa gravità fatta passare in una comunicazione televisiva, sempre dalla CGIL. Si è detto, infatti, che avevamo una copertura di due mesi della cassa integrazione, creando un panico francamente ingiustificato. Sapete benissimo, innanzitutto, che la cassa integrazione è molto capiente e, inoltre, c'è una legge dello Stato che comunque la garantisce. Diffondere notizie del genere, dunque, significa creare panico gratuito. Di tutto abbiamo bisogno, fuorché di questo.
Da questo punto di vista, condivido lo stimolo di Epifani nella direzione di esaminare questa tipologia di lavoratori che possono perdere il posto di lavoro. Considerato che questi lavoratori cominciano a essere veramente tanti, sarebbe opportuno dare una risposta in termini di maggiore assistenza o attraverso ammortizzatori sociali o con qualche altra misura. Al momento non sono in grado di individuare soluzioni precise, ma comunque l'argomento merita un approfondimento. Credo che, se il fenomeno dovesse ampliarsi, potrebbe crearsi un problema sociale non indifferente, che è bene prevedere prima che esploda.

GIORGIO USAI, Direttore relazioni industriali e affari sociali della Confindustria. Già oggi sono coperti con l'indennità di disoccupazione tutti i contratti a termine, sia a requisiti ordinari che a requisiti ridotti.
Per di più, il lavoro interinale costa alle imprese che lo utilizzano il 4 per cento in più rispetto al lavoro ordinario, per il semplice fatto che c'è un fondo che potrebbe assicurare un sostegno adeguato. Anche su queste materie, è sbagliato diffondere la preoccupazione di un esercito di persone senza reddito. Infatti, proprio in virtù del protocollo welfare fatto con il Governo Prodi, sono stati rafforzati nella misura e nella durata gli strumenti di sostegno al reddito sia per i lavoratori ordinari, sia per i soggetti con requisiti ridotti, ossia per tutte le persone che hanno la cosiddetta carriera discontinua, passando da rapporti di lavoro a termine a fasi di disoccupazione.
Lo ripeto, per gli interinali il tema è già stato affrontato dalla legge Treu.
Ciò non toglie - lo si diceva poco fa con l'onorevole Cazzola - che si possa intervenire insieme al Governo, con i sindacati e con Confindustria stessa, per la parte che ci concerne, per esaminare il tema e per vedere se c'è bisogno di rafforzare gli strumenti, che però già esistono. Non dobbiamo dare al Paese l'idea che non esiste nulla, altrimenti tutto il lavoro che abbiamo svolto fino ad oggi sembrerebbe sprecato.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per il contributo offerto e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10,05.

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