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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
13.
Martedì 25 novembre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Saglia Stefano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Audizione di rappresentanti della Banca d'Italia:

Saglia Stefano, Presidente ... 2 7 9 12
Bobba Luigi (PD) ... 8
Cazzola Giuliano (PdL) ... 9
Codurelli Lucia (PD) ... 8
Delfino Teresio (UdC) ... 8
Fedriga Massimiliano (LNP) ... 8
Gatti Maria Grazia (PD) ... 9
Madia Maria Anna (PD) ... 7
Visco Ignazio, Vicedirettore generale della Banca d'Italia ... 2 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 25 novembre 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 14,15.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Banca d'Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti della Banca d'Italia.
L'audizione di oggi conclude il percorso che abbiamo avviato all'inizio della legislatura ed è quindi particolarmente rilevante. Ringrazio pertanto il Governatore Draghi, che ha ritenuto di inviare alla nostra attenzione un documento e di darne testimonianza attraverso la presenza del vicedirettore generale della Banca d'Italia, Ignazio Visco, che è accompagnato dai collaboratori Andrea Brandolini, Alfonso Rosolia e Paola Ansuini.
Do immediatamente la parola al vicedirettore generale della Banca d'Italia, Ignazio Visco.

IGNAZIO VISCO, Vicedirettore generale della Banca d'Italia. Grazie, presidente. Non leggerò tutta la relazione, ma cercherò di illustrarne le linee fondamentali, approfondendo alcuni punti, che appaiono importanti in prospettiva.
Da oltre dieci anni, l'economia italiana ha rilevanti difficoltà di crescita, per cui cresce molto meno degli altri Paesi europei. Il sintomo più evidente di questo è la stagnazione della produttività, nelle diverse dimensioni in cui possiamo misurarla, dal lavoro al totale dei fattori. Questa si è riflessa in una modesta dinamica dei salari, non tale da impedire però una perdita di competitività dei nostri prodotti, che ha ulteriormente accentuato le difficoltà di crescita.
Negli ultimi anni, abbiamo avuto segnali di miglioramento, come testimoniano le indagini condotte dalla Banca d'Italia, ma oggi questi sono resi ben più incerti dalla crisi finanziaria in cui ci troviamo, che ha carattere globale. Tali sviluppi rendono ancora più pressante la necessità di una ristrutturazione profonda dell'apparato produttivo italiano. Nonostante che il quadro sia difficile, dalla metà degli anni Novanta si sono registrate una crescita sostenuta dell'occupazione e una forte riduzione della disoccupazione. Riteniamo che un importante contributo all'occupazione sia derivato dal sistema di relazioni industriali definito con l'accordo tra le parti sociali del luglio 1993, che ha consentito di superare una serie di difficoltà dovute alla conflittualità tra le parti sociali, all'operare automatico del meccanismo di indicizzazione e all'assenza di coordinamento a diversi livelli di contrattazione.
Dopo quindici anni, una revisione degli assetti allora definiti potrebbe aiutare il


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processo di ristrutturazione dell'apparato produttivo e recepire la novità per cui l'Italia appartiene ormai all'Unione monetaria europea.
Per quanto riguarda il nuovo sistema di relazioni industriali, oggetto della mia relazione, è importante garantire il principio fondamentale dell'accordo del 1993, secondo cui la contrattazione non può prescindere dalle compatibilità macroeconomiche. Questo è il punto che abbiamo ereditato dagli anni Settanta e Ottanta, in cui c'è stata una grave difficoltà sul piano delle compatibilità.
L'accordo del 23 luglio 1993 modificò profondamente il sistema delle relazioni industriali e pose le basi per la politica dei redditi, in cui coinvolgere non soltanto le parti sociali, ma anche il Governo. Questo definiva un sistema di contrattazione su due livelli, il livello nazionale, che, per mantenere un solido potere di acquisto per le retribuzioni contrattuali, aveva come riferimento un indice rivolto al futuro, il tasso programmato di inflazione, con meccanismi non automatici di adeguamento in caso di eventuali errori o differenze tra inflazione effettiva e inflazione programmata, e un secondo livello decentrato di contrattazione aziendale, integrativa.
Questo tasso di inflazione programmato introduceva un valore esplicito di riferimento, al quale ancorare gli incrementi contrattuali di primo livello. Sebbene non fosse esplicitamente previsto, nella definizione di questo indice si teneva conto delle variazioni riconducibili a cambiamenti nelle regioni di scambio, dovute all'aumento dei prezzi di materie prime o del petrolio o a una svalutazione. Veniva fissata una durata biennale per gli accordi economici e quadriennale per quelli normativi.
Queste regole sono state efficaci per contenere le spinte inflazionistiche. Hanno concorso a indirizzare la dinamica salariale lungo un sentiero compatibile con la stabilità dei prezzi, hanno frenato le aspettative di un rialzo dei prezzi. Grazie a questo ancoraggio, inoltre, le forti pressioni inflazionistiche del 1994-1995 in seguito alla svalutazione della lira o del 2000-2001 per il rialzo del prezzo del petrolio non si sono trasferite alla dinamica dei salari e quindi dei costi di produzione, evitando ulteriori aumenti dei prezzi al consumo, spesso indicati nei documenti della Banca centrale europea come second round effects. Se la Banca centrale europea dichiara di voler impedire i second round effects, vuole infatti sostanzialmente impedire che, oltre all'aumento dei prezzi legato all'aumento delle materie prime o del prezzo del petrolio, vi sia un ulteriore trasferimento su costi e prezzi. L'aumento delle materie prime e del petrolio può essere assimilato a una tassa, sulla quale non si può indicizzare e a cui si può rispondere solo accrescendo la capacità di aumento della produttività di un Paese.
Questa capacità di evitare il propagarsi di spinte inflazionistiche ha contribuito inoltre a farci entrare nell'Unione monetaria, perché ha contenuto i costi della disinflazione. Se l'inflazione fosse infatti cresciuta per la svalutazione di allora, avremmo probabilmente avuto una politica monetaria più restrittiva, una caduta dell'attività economica e difficoltà più forti nella convergenza.
Negli ultimi quindici anni, è notevolmente aumentata l'occupazione. Tra il 1995 e il 2007, il numero di occupati è aumentato del 15 per cento, ovvero oltre 3 milioni di persone. In un periodo di modesta crescita dell'economia italiana, tale positivo andamento è stato reso possibile dalla moderazione salariale e dalla maggiore flessibilità introdotta nell'organizzazione e nei rapporti di lavoro. Una parte di questa occupazione è infatti a tempo determinato, non solo part-time, ma anche con contratti cosiddetti «atipici».
Tra il dicembre 1993 e il settembre del 2008, nel settore privato si è registrata una sostanziale stazionarietà delle retribuzioni contrattuali reali medie, aumentate di poco più dell'1 per cento, e anche per effetto di incrementi contrattuali integrativi abbiamo avuto un contenuto aumento delle retribuzioni di fatto di circa il 7 per cento.


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La modesta dinamica dei salari reali ha riflesso quella della produttività, che si rivela insoddisfacente. La produttività del lavoro, misurata nel rapporto tra valore aggiunto e numero delle unità di lavoro occupate, è cresciuta nell'industria di mezzo punto percentuale l'anno, mentre nei dieci anni precedenti era cresciuta di oltre il 3 per cento l'anno. Lo stesso è avvenuto nel settore privato.
La stagnazione della produttività ha inciso sulla competitività con una serie di effetti. Il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre il 30 per cento tra il 1994 e il 2007, e del 20 per cento tra il 2000 e il 2007. In Francia e Germania, questo è invece risultato fermo o addirittura in diminuzione.
La contrattazione integrativa non si è diffusa, come invece auspicato dalle parti sociali, a causa della difficoltà di definire la controparte sindacale a livello aziendale, specialmente nelle piccole imprese, e della sfavorevole dinamica della produttività.
Si stima che nel 2002, ultimo anno in cui era possibile effettuare questa valutazione, circa due terzi degli occupati dipendenti nelle imprese private non fossero coperti da un contratto aziendale.
Dopo l'accordo del 1993, il clima più disteso ha facilitato l'introduzione di più ampi margini di flessibilità nell'utilizzo del lavoro da parte delle imprese, con le riforme normative e gli accordi contrattuali. L'occupazione è salita, ma è fortemente aumentato il ricorso a rapporti di lavoro temporaneo e a tempo parziale, in alcuni casi anche non coperti da istituti di protezione. Alla maggiore flessibilità nel mercato del lavoro non si è associata un'estensione della copertura degli ammortizzatori sociali ai nuovi profili contrattuali, più esposti che in passato all'interruzione dei rapporti di lavoro, nonostante che l'accordo del 1993 ne prevedesse un riordino.
Tra le ragioni che possono indurre a rivedere il sistema di relazioni industriali stabilito con l'accordo del 1993 è opportuno annoverare una serie di obiettivi mancati ritenuti importanti dalle parti sociali, tra cui la mancanza di un forte ricorso alla contrattazione aziendale di secondo livello e l'eccessivo prolungarsi della fase negoziale.
Con l'ingresso dell'Italia nell'Unione monetaria, è mutato il contesto di riferimento. La partecipazione all'euro ha reso più dirette le ripercussioni dei salari sulla competitività e ha ridotto l'opportunità di ancorare le dinamiche nominali dei salari a un obiettivo di inflazione a livello nazionale, come il tasso di inflazione programmato.
Le pressioni concorrenziali provenienti da Paesi a basso costo di lavoro rendono cruciale legare le dinamiche delle retribuzioni non agli andamenti nominali, ma alla capacità di far crescere la produttività e di individuare meccanismi in grado di stimolarla.
Anche sui giornali è in atto un dibattito sul possibile assetto delle relazioni industriali. Siamo consapevoli dell'assenza di una visione unanime e delle divisioni profonde all'interno di alcune parti sociali; tuttavia è evidente come le linee guida su cui verte la discussione condividano la logica sottostante l'accordo del 1993, confermando l'impianto su due livelli di contrattazione con obiettivi chiari e complementari. Contrariamente a quanto previsto dall'accordo, però, nelle varie modalità in cui è stata avanzata la proposta attuale prevede modi di definizione quasi automatici degli incrementi retributivi fissati dal contratto nazionale di settore.
Insieme all'introduzione di regole e sanzioni precise, che disciplinano le procedure di rinnovo, tali automatismi mirano ad attenuare le occasioni di conflitto. Il contratto nazionale avrebbe durata triennale sia nella parte economica che in quella normativa, che verrebbero rinnovate contemporaneamente. Gli aumenti retributivi stabiliti dal contratto nazionale sarebbero commisurati a una previsione di un tasso di variazione dei prezzi depurato dalle voci di inflazione importata, relative ai beni energetici. Anche su questo è in corso un dibattito, ma credo sia un'opinione condivisa da importanti parti sociali. Questa sarebbe applicata a una retribuzione


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convenzionale comprendente le componenti salariali stabilite a livello nazionale. La previsione di questo indice sarebbe affidata a un istituto terzo e basata su metodologie condivise. Non vi sarebbero meccanismi automatici per il recupero di eventuali scostamenti tra la dinamica anticipata dell'indice di riferimento e quella effettivamente realizzata, che sarebbe oggetto di contrattazione.
Si introdurrebbe inoltre un «elemento di garanzia retributiva» da corrispondere alla fine della vigenza del contratto nazionale ai lavoratori dipendenti di aziende nelle quali non ci sia la contrattazione di secondo livello e che non percepiscano altri trattamenti economici individuali o collettivi oltre i minimi.
La contrattazione di secondo livello verterebbe su aspetti economici, su materie e istituti delegati dal contratto nazionale o dalla legge e non disciplinati altrove; si propone di introdurre incentivi fiscali miranti a utilizzare di più questo strumento e quindi a favorire un aumento della produttività.
L'introduzione di aumenti contrattuali, determinati sulla base della dinamica prevista dei prezzi, formalizzerebbe la prassi che si è affermata nelle ultime tornate contrattuali nel settore privato, in cui si è fatto riferimento a un indice dell'inflazione prevista, anziché al tasso di inflazione programmato - eccetto che nel pubblico impiego - per definire l'entità degli incrementi a tutela del potere d'acquisto.
La proposta in discussione eliminerebbe margini di incertezza circa gli indici di riferimento e precisandone la definizione rafforzerebbe il principio secondo il quale l'indice debba essere depurato dall'inflazione importata. Tale principio di isolare le dinamiche salariali da shock alla dinamica dei prezzi di origine esterna è un aspetto significativo, che riteniamo necessario in ogni ipotesi di accordo. Questo è oggetto di studio da moltissimi anni. Ho cominciato il mio lavoro in Banca d'Italia lavorando sulla scala mobile, con lo scopo di valutarne le proprietà essenziali. Il punto di fondo è che un'indicizzazione automatica a uno shock di origine esterna tende a propagarlo nel tempo. Tale shock deve restare nell'economia, perché un'imposta deve essere contrastata da un aumento della capacità di crescita dell'economia.
Indicizzare i salari, o anche i margini di profitto a uno shock esterno tende a mantenerlo nel tempo e causa una forte perdita di competitività dell'economia nei confronti degli altri Paesi. Negli anni Settanta, i tedeschi non hanno reagito a questi shock e si sono affermati allora come l'economia maggiormente in grado di crescere.
Questo principio ha un aspetto significativo e essenziale: le variazioni del livello interno dei prezzi che derivino da aumenti di quelli dei beni importati riflettono cambiamenti nei valori relativi di beni e servizi determinati da mutamenti strutturali del sistema economico e riflettono i differenziali di potere di mercato (l'OPEC) e di competitività, scarsità di materie prime, fattori di offerta e domanda.
La variazione del potere d'acquisto che ne consegue discende dall'incapacità del sistema economico di produrre risorse sufficienti a sostenere un dato livello di domanda. Incorporare queste variazioni nelle retribuzioni, o nei margini di profitto, non ripristina il potere di acquisto iniziale, ma introduce pressioni sui prezzi interni e induce l'autorità monetaria a intraprendere azioni restrittive, che ristabiliscano la stabilità dei prezzi con conseguenti costi per l'andamento dell'economia reale. La soluzione deve quindi essere cercata nell'aumento della produttività.
Ci chiediamo quale indice di riferimento avere nella contrattazione. L'utilizzo di un indice previsivo triennale affidato a un istituto terzo permette di superare i contrasti che sorgono nella definizione del tasso di inflazione programmata, ma predetermina la crescita delle retribuzioni contrattuali per un triennio alla dinamica di un indice che, come ogni previsione, è incerto e può variare, anche considerevolmente, man mano che nuove informazioni si rendono disponibili.


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L'incertezza e la variabilità tendono ad accentuarsi nei periodi di rapidi mutamenti dei valori relativi dovuti a shock esogeni, come la variazione dei prezzi delle materie prime. Un'ancora per le aspettative di inflazione è costituita dall'obiettivo implicito della Banca Centrale Europea, quale si desume dalla definizione di stabilità monetaria, coerente con una variazione dell'indice armonizzato dei prezzi al consumo nell'area dell'euro prossima al 2 per cento annuo nel medio termine.
I primi dieci anni dell'Unione monetaria confermano la credibilità di questo obiettivo. Nell'area dell'euro, l'inflazione è stata in media del 2,2 per cento. Al netto della componente energetica è risultata pari all'1, 8 per cento. Il differenziale tra l'Italia e l'area nel suo complesso è stato in media di 0,4 punti percentuali, accumulati soprattutto nella fase di avvio della moneta unica, mentre nel corso dell'ultimo quinquennio si è registrata un'evidente convergenza, come evidenziato dai grafici.
L'obiettivo di legare gli aumenti nominali delle retribuzioni contrattuali con quelli di un indice dei prezzi che non includa fattori esterni indipendenti dalle scelte di attori nazionali, non risenta della inevitabile incertezza e variabilità delle previsioni economiche e preservi il perseguimento della competitività media del sistema produttivo nel confronto con i principali Paesi concorrenti suggerirebbe di orientare l'adeguamento nominale verso l'obiettivo implicito della BCE.
Il collegamento diretto con la previsione dell'inflazione, che non è molto diversa nella media, anche se affidata a un istituto terzo e depurata della variazione dei prezzi dell'energia, introdurrebbe un elemento di automatismo nella definizione degli incrementi retributivi fissati nel contratto nazionale. L'allungamento del periodo contrattuale da due a tre anni ridurrebbe la possibilità che shock temporanei che determinano un rialzo del tasso di inflazione si trasferiscano ai salari già negoziati e verrebbe contenuta la probabilità che si inneschino spirali inflazionistiche. Esso potrebbe però prolungare l'effetto di shock inflazionistici, se le previsioni di inflazione tardassero a rifletterne il ritorno sui valori di più lungo periodo. Se infatti avessimo fatto previsioni con un petrolio a 150 e poi improvvisamente il petrolio fosse sceso a 50, avremmo mantenuto nella nostra economia una spinta inflazionistica con conseguente aumento della disoccupazione.
L'obiettivo condivisibile di ridurre la conflittualità sugli aspetti economici potrebbe però andare a discapito degli spazi di negoziazione nell'ambito del contratto nazionale, rendere più difficile lo scambio tra aumenti retributivi e innovazione normativa nell'organizzazione del lavoro, ridurre la capacità di agire sui livelli retributivi, se vi fossero situazioni settoriali particolarmente gravi e inattese.
L'effetto degli automatismi di fatto sarebbe temperato dal fatto che i tassi di incremento sono applicati solo alla parte delle retribuzioni di fatto definita dal contratto nazionale. La parte di contrattazione aziendale non sarebbe automaticamente mossa dalla variazione di un indice di riferimento. Questo implica che le retribuzioni di fatto crescerebbero meno del tasso di inflazione previsto e si amplierebbero i margini a disposizione della contrattazione integrativa.
Sotto questo profilo, il modello approssimerebbe quello presente in alcuni Paesi europei, in cui un esplicito meccanismo di indicizzazione è assente, ma la struttura retributiva determinata dalle parti risente della presenza di un salario minimo stabilito per legge, il cui potere di acquisto è periodicamente adeguato dal Governo.
Per quanto riguarda la differenza tra salario minimo e retribuzioni contrattuali minime previste nel nostro ordinamento, nella maggior parte dei Paesi vi sono un salario minimo o pochi salari minimi adeguati all'inflazione non automaticamente e anche eventualmente all'obiettivo di stabilità monetaria, ma da noi - questo è il punto importante - il numero di settori e di livelli con proprie retribuzioni contrattuali tende a limitare la capacità


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delle imprese di differenziare le retribuzioni all'interno della loro compagine e limita il processo di aggiustamento.
Anche nel caso in cui si adeguassero le retribuzioni contrattuali sulla base dell'obiettivo di inflazione fissato dalla BCE, è importante che il recupero dell'eventuale perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni contrattuali che deriva da un tasso effettivo più elevato di inflazione, sempre al netto della componente energetica, sia non automatico e oggetto di confronto tra le parti. Questo consentirebbe di evitare una rigida dipendenza nella formazione dei salari e dei prezzi dalla dinamica passata dell'inflazione originata all'interno del Paese.
La previsione di incrementi retributivi stabiliti a livello nazionale per lavoratori dipendenti di imprese prive di contratto aziendale costituisce un elemento positivo, che può sostenere i redditi nelle realtà produttive, anche in presenza di ostacoli per il raggiungimento di accordi aziendali. Gli effetti finali dipendono però dalla precisa definizione dei meccanismi. Sembra opportuno prevedere che le regole che definiscono gli «elementi di garanzia salariale» siano in funzione di specifici parametri aziendali, anziché essere uguali per tutti in termini di ammontare, in modo da attenuare le distorsioni derivanti da comportamenti strategici degli attori coinvolti.
Al fine di massimizzare gli incentivi a una contrattazione di secondo livello, considerata importante dalle parti sociali, si potrebbe prevedere che l'attivazione dell'«elemento di garanzia» sia condizionata alla mancanza di un accordo a livello di impresa tale da collegare esplicitamente la parte in eccesso dei minimi tabellari a obiettivi aziendali predefiniti, piuttosto che al fatto che le retribuzioni corrisposte non superino i minimi previsti dal contratto nazionale.
Una riduzione del prelievo fiscale sul lavoro evita distorsioni, incentiva la crescita e dovrebbe quindi essere applicata a una vasta platea. Misure selettive di riduzione del prelievo fiscale che stimolino la contrattazione integrativa potrebbero favorire un riequilibrio tra il livello nazionale e quello aziendale. La loro introduzione, in deroga però ai princìpi di neutralità del prelievo, si giustificherebbe solo se questi contribuissero a innalzare la produttività. Rimane il rischio che parte significativa delle agevolazioni vada a beneficio di imprese, che avrebbero comunque registrato guadagni di produttività.
Per il buon funzionamento del mercato del lavoro, appare infine essenziale perseguire una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali, volta soprattutto ad affermare l'universalità della copertura assicurativa, che ora varia tra settori e tipi di occupazione ed esclude ampie fasce di lavoratori. Una struttura adeguata può non solo consentire di attutire i costi sociali del processo di ristrutturazione delle imprese e di riallocazione del lavoro con una ben disegnata indennità economica, ma anche migliorarne gli esiti in termini di efficienza, prevedendo che le persone che perdono il lavoro possano avere efficaci strumenti di riqualificazione per l'impiego, che li accompagnino nella ricerca di una nuova occupazione.
L'esperienza di molti Paesi europei dimostra come una riforma in questa direzione sia il necessario complemento di un mercato del lavoro flessibile, contribuisca a svilupparne i benefici e favorisca la ricollocazione dei lavoratori in attività, settori e imprese maggiormente produttive. In questa congiuntura, essa costituisce un'esigenza ancor più pressante per il concreto rischio che la crisi finanziaria globale si traduca in una recessione grave e prolungata.

PRESIDENTE. Ringrazio il vicedirettore Visco. Soprattutto l'ultima parte della sua relazione fornisce uno spunto molto significativo per il nostro documento conclusivo.
Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIA ANNA MADIA. Innanzitutto, ringrazio il nostro ospite per la sua presenza. Desidero chiederle un giudizio sull'aggettivo


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utilizzato a pagina 4 del testo, ove si legge: «Questo buon andamento dell'occupazione (...)». Capisco che l'aggettivo venga usato in base a un giudizio quantitativo dell'andamento dell'occupazione, ma, poiché l'aggettivo buono reca in sé anche un giudizio di valore qualitativo, vorrei sapere se, non essendo stati rilevati un aumento della crescita né una confortante dinamica della produttività, si possa formulare un giudizio qualitativo positivo dell'andamento dell'occupazione.
Condivido pienamente l'ultimo punto riguardante gli ammortizzatori sociali e il fatto che in altri Paesi europei sia stata realizzata una loro riforma in grado di tutelare i più deboli, connessa a misure di attivazione in base a meccanismi congiunturali. Ritengo che oggi in Italia l'anomalia non risieda solo nell'entità delle risorse destinate agli ammortizzatori sociali, ma anche nel fatto che questi non vengano legati alla congiuntura né orientati a misure di attivazione né orientati alla copertura dei soggetti deboli della società.

TERESIO DELFINO. Mi unisco ai ringraziamenti del presidente per la vostra presenza e per il documento interessante e puntuale.
Desidero rivolgerle una domanda articolata. Dall'ascolto della sua relazione ho tratto la convinzione che le parti sociali, in particolare i lavoratori, abbiano fatto la loro parte soprattutto grazie alla disponibilità dimostrata con l'accordo del 1993 in relazione al mercato del lavoro e a tutti gli strumenti operativi messi in atto per la flessibilità.
Mi domando quindi quale correzione sia opportuno introdurre per evitare il fenomeno largamente diffuso del consistente ampliamento dei lavoratori temporanei e della fascia di precari ormai dilagante nel pubblico e nel privato, che crea riflessi sociali molto gravi per la stabilità dei nostri giovani e la loro possibilità di crearsi una famiglia.
La seconda domanda attiene alla puntualizzazione sui minimi contrattuali, laddove a pagina 11 della sua relazione viene rilevato come i salari minimi stabiliti per legge in Italia siano sufficientemente coerenti, pur avendo una posizione più articolata.
Per quanto riguarda la valutazione sul salario complessivo, che i nostri lavoratori percepiscono nei vari settori pubblici e privati, ritengo che il salario netto percepito in busta (non per i costi indiretti) del nostro mondo del lavoro dipendente sia ancora inferiore. Volevo quindi sapere se su questo sia possibile avere un conforto o una smentita, di cui sarei ben lieto.

LUIGI BOBBA. Ringrazio per la relazione e i dati offerti. Vorrei solo porre una domanda. Nell'ultima parte del paragrafo dedicato alla riduzione del prelievo fiscale, alcune righe in corsivo, che lei non ha letto, indicano gli effetti redistributivi regressivi per quanto riguarda una riduzione del prelievo fiscale sui premi aziendali. Vorrei sapere se questo giudizio sia estensibile anche a provvedimenti del Governo sui temi della detassazione degli straordinari, se produca quindi effetti redistributivi regressivi, come voi indicate.

LUCIA CODURELLI. Ringrazio il vicedirettore Visco. Mi unisco alla sottolineatura di questo capitolo, in particolare sulla riduzione del prelievo fiscale. Mi associo quindi alle considerazioni del collega Bobba, pur volendo porre un ulteriore quesito. All'inizio del capitolo, partendo dalla considerazione di come una riduzione del prelievo fiscale sul lavoro eviterebbe distorsioni, non ha citato il problema delle distorsioni già esistenti rispetto all'evasione o ad altre questioni, capitolo molto importante, dal quale discendono le entrate e il modo in cui esse si distribuiscono. Considero questo un punto fondamentale.
Rispetto alla buona occupazione citata dall'onorevole Madia, non si cita l'altro limite, dei talenti fuori dal mondo del lavoro, tema poco richiamato di fronte a questa crisi.

MASSIMILIANO FEDRIGA. All'inizio della relazione, che poi leggeremo in modo più approfondito, questa crescita occupazionale


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viene anche considerata per quanto riguarda l'afflusso di lavoratori stranieri. Dalle tabelle conclusive si evince come il tasso di irregolarità del mondo del lavoro nel nostro Paese superi abbondantemente la quota del 10 per cento.
Le chiedo dunque se questo ingresso di lavoro straniero in forte espansione incida sul lavoro irregolare e sui salari dei nostri lavoratori, se esista quindi un nesso tra l'offerta di lavoro a basso costo formulata a chi è disposto a lavorare irregolarmente e i salari offerti ai nostri lavoratori.

GIULIANO CAZZOLA. Anche io ringrazio il nostro interlocutore per la relazione che ci ha esposto e che sarà opportuno leggere con molta attenzione, perché molto densa di contenuti e di considerazioni meritevoli di un esame più approfondito rispetto all'illustrazione «prigioniera» del tempo a disposizione, come del resto tutti i nostri lavori.
So che lei è assolutamente capace di rispondere all'onorevole Madia, che le chiede il significato dell'aggettivo buono. Se fossi al suo posto risponderei che è difficile negare che l'andamento sia buono, perché i dati dimostrano dal 2007 una crescita complessiva dell'occupazione anche a tempo indeterminato.
Sebbene ci sia un notevole scarto rispetto alla percentuale di lavoro a termine, ancorché inserito negli andamenti europei, facendo un confronto dei valori assoluti si rileva come dal 1993 al 2007 la variazione resti identica, nonostante nel 2001 sia intervenuta una riforma del settore, che non ha inciso molto sulla situazione del lavoro a termine.
L'aggettivo «buono» o «cattivo» potrebbe dunque essere accostato al termine «occupazione», per definire l'andamento della buona o cattiva occupazione, anche se oggi la perdita di questa «cattiva» occupazione suscita fondate e acute preoccupazioni, causando anche la diffusione di numeri non dimostrati, come sta succedendo in questi giorni.
Chiedo scusa per essere intervenuto nel dibattito di questa Commissione anche strumentalizzando la sua partecipazione.
Emerge un forte allarme o comunque una forte preoccupazione rispetto alla scelta di parametri di rivalutazione salariale connotati da un automatismo fisso, ovvero da una fissità del parametro adottato cui fare riferimento rispetto al vecchio gioco virtuoso del 1993 tra inflazione programmata indicata nel contratto nazionale e inflazione reale, di cui si teneva conto dopo due anni. Si rileva dunque una preoccupazione rispetto all'adozione di parametri fissi. Lei ha ricordato di aver cominciato la sua attività in Banca d'Italia studiando gli effetti della scala mobile, facendo capire che non avrebbe intenzione di occuparsi di un suo surrogato. Si rileva anche una forte preoccupazione rispetto alla scarsa considerazione degli effetti dell'inflazione importata nel determinare queste variazioni salariali, valutazioni che prendono spazio nel dibattito aperto sul tavolo della riforma sulla contrattazione.

MARIA GRAZIA GATTI. Intervengo rapidamente, perché mi interessa molto la risposta del vicedirettore, solo per evidenziare come la cattiva occupazione talvolta sia tale anche quando non c'è più, perché mancano gli ammortizzatori sociali per sostenerla.
Abbiamo avviato questa indagine della Commissione prima di quanto è successo. Vorrei sapere se una riflessione e una modifica delle regole per la contrattazione nazionale abbiano senso in una fase di timore per quanto può succedere.

PRESIDENTE. Do la parola al nostro ospite per la replica.

IGNAZIO VISCO, Vicedirettore generale della Banca d'Italia. La modifica delle regole ha senso, se esse vengono modificate in modo positivo, non qualora peggiorino la situazione attuale. Si tratta quindi di una decisione politica delle parti sociali. Credo che siano due piani diversi, laddove il piano unificatore, che ho messo in luce alla fine, riguarda gli ammortizzatori sociali. Se la crisi causa una forte riduzione dell'occupazione, magari anche di quella cattiva, emerge il problema di


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sospendere le persone coinvolte, che prima consumavano. È necessario dunque mantenere la domanda e optare per interventi mirati. In questa logica ho osato legare le due cose, ma non oserei di più.
Sulla buona occupazione parlerò in conclusione, procedendo in ordine inverso.
Con riferimento all'osservazione dell'onorevole Cazzola, appare sconsigliabile l'automatismo di una revisione contrattuale legata a un indice previsto, basato sugli andamenti correnti, che, pur riassorbendo eventuali shock nel medio periodo, potrebbe prolungare un andamento ciclico sfavorevole.
Come Banca centrale, abbiamo ormai capito che la stabilità monetaria è un valore, perché consente di pulire gli andamenti dei prezzi da questa base di opacità e di effettuare scelte sulla base di contenuti reali.
L'indice deve essere depurato dall'energia, se si considera giorno per giorno, mentre, se si prende a riferimento un obiettivo medio, quale quello della BCE di quasi il 2 per cento all'anno, non si deve depurare né, qualora l'inflazione aumentasse, temere un forte effetto negativo.
Ritengo opportuni un ancoraggio a un indice non opaco, non nelle mani di terzi, che ho difficoltà a individuare, e la capacità di recuperare gli scostamenti rispetto a questo, quando siano di origine interna, non esterna, nell'ambito della contrattazione legata agli andamenti dell'attività industriale produttiva.
Sui lavoratori stranieri, noto che l'alto tasso di irregolarità è sceso quando sono stati regolarizzati i lavoratori immigrati irregolarmente, come indica la tavola allegata.
Ho svolto alcune riflessioni sull'immigrazione e sul capitale umano, ma ritengo che non vi sia una sostituzione tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali, e che siano complementari o leggermente complementari.
La Banca d'Italia sta realizzando una serie di lavori che usciranno l'anno prossimo e che ho anticipato in una lezione (di cui posso inviarvi la documentazione). Credo che il punto importante sia quello delle irregolarità, che causa distorsioni e problemi di concorrenza non leale, rende squilibrata la crescita dell'economia, mantenendo in vita aziende che magari sarebbe meglio chiudere a favore della crescita di aziende più competitive. Non legherei quindi direttamente le irregolarità e i lavoratori immigrati, anche se nello studio citato evidenziavo come i lavoratori immigrati come i nostri lavoratori non presentino un capitale umano molto alto. Ribadisco quindi in questa sede l'esigenza di investire nel capitale umano del nostro Paese, chiave di volta per accrescere la produttività e poter affrontare più serenamente la concorrenza con altri Paesi.
Per quanto riguarda la riduzione del prelievo fiscale, sono consapevole di queste distorsioni. L'idea di ridurre la tassazione ha un contenuto sia di offerta, sia di domanda, laddove l'offerta di lavoro può chiaramente beneficiare di un'imposta minore sui redditi, la domanda da parte delle imprese del cuneo fiscale inferiore.
In questo Paese, si devono rispettare alcune compatibilità, per cui non si può scegliere di abbassare le tasse avendo difficoltà a diminuire l'accresciuto debito pubblico costruitosi tra gli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta. Oltre che per l'inflazione, le compatibilità macroeconomiche valgono anche per le entrate e le uscite dello Stato. Rilevavo quindi non tanto l'opportunità di una tassazione generale, quanto l'esigenza di essere certi che, se la riduzione delle imposte si applica soltanto a livello selettivo sulla parte integrativa, questa contribuisca a far crescere la produttività.
Per quanto riguarda l'osservazione dell'onorevole Delfino, sono convinto che le parti sociali abbiano svolto il loro ruolo. Sono cresciuto quando era Governatore il Presidente Ciampi, quindi non posso parlare male di un accordo che ricordo chiaramente. La moderazione salariale è stata essenziale per la disinflazione dell'economia italiana. La flessibilità è stata resa possibile dalle varie leggi che si sono succedute, compresa la legge Biagi, grazie


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a un clima tra le parti sociali che, nonostante confronti accesi, ha portato a rivedere favorevolmente alcune regole.
Sono evidenti distorsioni o rischi quali il precariato, ma le parti sociali hanno svolto il loro compito.
La produttività però non è cresciuta e questa è una responsabilità anche delle parti sociali. La produttività infatti cresce se si lavora di più, se ci sono più investimenti ai quali applicare le proprie capacità e conoscenze. Si tratta quindi di un gioco comune. Se le parti sociali hanno avuto un buon risultato in un caso, non lo hanno avuto nell'altro. È difficile che imprese molto piccole realizzino importanti investimenti e che lavoratori privi di un grande capitale umano possano applicarsi a tecniche di produzione più sofisticate che in passato, quali quelle diffuse con la nuova economia e con la rivoluzione tecnologica.
Il nostro Paese è stato colpito da questa rivoluzione tecnologica, perché impreparato e caratterizzato da una piccola struttura produttiva, specializzata in produzioni con molto lavoro non qualificato e con imprenditori non particolarmente qualificati, molti dei quali privi di un elevato titolo di studio e non in grado di reagire al grande cambiamento. Il capitale fisico e il capitale umano sono congiunti. Nella sintesi all'inizio di questa relazione si sono messi in evidenza il capitale fisico e quello umano, laddove quello fisico è costituito dai materiali e beni di investimento, ma anche dal software e dai programmi di gestione, mentre il capitale umano consiste nelle possibilità di utilizzare il capitale fisico a livello più elevato.
La questione dei minimi contrattuali è complessa. Nel preparare queste relazioni, ne discutiamo a lungo con il servizio studi, gli economisti, i miei collaboratori, e questa è stata una mia idea. Per vari anni, infatti, sono stato il Capo economista dell'OCSE e ho prodotto testimonianze per i Parlamenti inglese e irlandese in occasione dell'introduzione dei minimi contrattuali. Loro considerano l'OCSE un'istituzione molto rigorosa, secondo gli Stati Uniti era «socialista», secondo i francesi «ultraliberista». Se il salario minimo viene collocato a un livello troppo alto genera disoccupazione, perché non si riesce a far lavorare quelli che hanno una bassa produttività, mentre, se collocato a un livello basso, è inutile. Deve quindi essere messo a un livello in grado di stimolare e aiutare la capacità di acquisto di chi è occupato e contemporaneamente di evitare che un eventuale sussidio venga ottenuto non da coloro cui è diretto.
Ho voluto quindi verificare se in Italia esistesse qualcosa di simile. Quando ero giovane e mi occupavo di relazioni industriali, c'erano i minimi contrattuali, che adesso si chiamano minimi tabellari (ma sono diversi). Erano e sono ancora tanti sia per settori, sia per livelli all'interno dei settori (operaio di prima o di seconda e via elencando). Si tratta di un reticolato che può costruire rigidità, motivo che mi ha indotto a metterlo in luce. Sono cosciente dell'impossibilità di introdurre ex abrupto cambiamenti, ma ritengo che questo rappresenti un elemento di rigidità su cui riflettere.
Questa relazione mira ad evidenziare come la flessibilità sia positiva, se accompagnata dagli ammortizzatori sociali e dallo sviluppo del capitale umano, e come le rigidità siano dannose, qualora inducano a prolungare uno stato dell'economia che non riesce ad aggiustarsi.
Desidero concludere il mio intervento affrontando il tema dell'occupazione. Il buon andamento dell'occupazione si confronta con un controfattuale. Non sappiamo cosa sarebbe successo se non ci fossero stati quegli accordi e quella flessibilità, però probabilmente ci sarebbero stati meno lavoro e meno posti, che hanno garantito ad alcuni giovani livelli di vita magari precari ma sufficienti per stare nella nostra società.
Non è bene che chi è precario resti tale per tutta la vita, che chi è impiegato in un processo produttivo debba chiedersi continuamente se lo sarà il giorno dopo, però occorrono delle condizioni. La flessibilità è una condizione necessaria, cui devono affiancarsi altri fattori, quali la possibilità di avere ammortizzatori sociali tali da agevolare


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l'uscita dall'impresa e da consentire la riallocazione del lavoro e la ristrutturazione delle imprese, evitando l'instaurarsi di un circolo vizioso tra l'insieme di conoscenze dei lavoratori giudicate basse dalle imprese, che quindi non riconoscono loro un'alta retribuzione, pur avendo «studiato», e il fatto che questa bassa retribuzione non spinga i lavoratori a effettuare l'investimento necessario per ottenere lavori più soddisfacenti. Tale paradosso deve essere eliminato.
Per quanto riguarda il tempo determinato o indeterminato, abbiamo avuto nonostante tutto una sufficiente difesa di posizioni a tempo indeterminato. Ritengo che la società debba impegnarsi per eliminare i casi di sfruttamento o le condizioni disagiate perpetue imposte alle stesse persone.
In questo Paese, purtroppo, il citato paradosso ha indotto a diminuire non solo i salari di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma anche le loro capacità di farli crescere nel tempo. Ritengo invece doveroso contare su tale crescita nel tempo, legata alla produttività e alle scelte di investimento delle imprese.

PRESIDENTE. Ringrazio il vicedirettore generale della Banca d'Italia, Ignazio Visco.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,05.

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