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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
14.
Giovedì 8 gennaio 2009
INDICE

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ASSETTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SULLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Esame del documento conclusivo:

Saglia Stefano, Presidente ... 2

ALLEGATO: Proposta di documento conclusivo ... 3
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

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COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 8 gennaio 2009


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ALLEGATO

Indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva.
PROPOSTA DI DOCUMENTO CONCLUSIVO

1. Programma e obiettivi dell'indagine.

Nella prospettiva di modernizzazione e adeguamento del complessivo sistema delle relazioni sindacali, la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) ha avviato, in coincidenza con l'inizio della XVI legislatura, una indagine conoscitiva diretta a comprendere - partendo dalla valutazione dei risultati prodotti dal Protocollo tra le parti sociali del 1993 (e delle sue possibili prospettive di revisione) - quale possa essere, alle soglie del secondo decennio del secolo, il nuovo assetto delle relazioni industriali e del sistema della contrattazione nel Paese, anche al fine di rispondere con efficacia alle esigenze delle aziende e dei lavoratori e, più in generale, di un sistema produttivo nazionale che ogni giorno deve confrontarsi con le sfide derivanti dall'apertura dei mercati e dalla globalizzazione. Nel pieno rispetto dell'autonomia delle parti sociali, la Commissione ha quindi inteso compiere un approfondimento su una pluralità di aspetti legati alle dinamiche contrattuali, che - anche a seguito del complesso sviluppo della crisi economica innescatasi, nella parte finale del 2008, a livello mondiale - finiscono per incidere in misura rilevante sulle politiche che l'Italia potrà e dovrà attivare per rispondere con efficacia alla attuale situazione congiunturale.
In particolare, la Commissione si è proposta di comprendere quale possa essere l'evoluzione del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione in Italia e, in questo ambito, quali debbano essere - considerati sia singolarmente, sia in interazione reciproca - gli obiettivi di un possibile nuovo sistema, in termini di tutela dei diritti dei lavoratori, di competitività del sistema produttivo nazionale, di politiche dei redditi e di sviluppo. La stessa Commissione, peraltro, si è riservata di verificare gli strumenti attraverso i quali perseguire tali obiettivi, approfondendo alcune questioni di particolare rilevanza legate al sistema dei contratti collettivi, nell'ottica di acquisire utili elementi per una possibile evoluzione della realtà italiana.
Le audizioni svolte dalla Commissione nel corso dell'indagine, che si sono articolate in un periodo di cinque mesi (dal 25 giugno al 25 novembre 2008), hanno assicurato quindi un confronto molto approfondito con i soggetti coinvolti e hanno consentito di tracciare un quadro piuttosto completo delle problematiche esistenti, mettendo in luce il positivo contributo che le istituzioni rappresentative, in primo luogo il Parlamento, possono dare ad una riforma del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione, in particolare attraverso forme di legislazione di sostegno. In questo senso, il presente documento è strutturato in due parti essenziali: con la prima, si intende illustrare i principali elementi di valutazione e di conoscenza forniti dalle audizioni; con la seconda, invece, ci si propone di evidenziare talune proposte conclusive, anche in vista della possibile adozione di specifiche iniziative in materia.

2. I principali elementi emersi dalle audizioni.

Nel corso dell'indagine sono emersi numerosi spunti di riflessione ed elementi di conoscenza, che hanno fornito alla Commissione un significativo quadro d'insieme della situazione, sicuramente utile all'individuazione di adeguate soluzioni.


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Per tali ragioni, nel rinviare per il dettaglio ai resoconti delle audizioni effettuate, si riportano di seguito le principali questioni analizzate, articolate in una descrizione che si propone di aggregare i punti più qualificanti dei singoli contributi forniti.

2.1. Il protocollo del 23 luglio 1993.

Il fatto che il Protocollo tra le parti sociali del 23 luglio 1993 (di seguito indicato con la semplice dizione di «Protocollo») abbia rappresentato uno spartiacque nell'evoluzione delle relazioni industriali del nostro Paese è stato ampiamente riconosciuto da parte di tutti i soggetti intervenuti. Il Protocollo ha portato alla definizione di nuovi rapporti tra le parti sociali e tra queste e il Governo, segnando l'avvio della stagione della concertazione e della politica dei redditi. Al giudizio unanime sul rilievo di quell'accordo si contrappongono, tuttavia, valutazioni anche assai differenziate sugli sviluppi che ne sono scaturiti e sugli effetti che esso ha prodotto nella sua concreta attuazione.
Un'articolata disamina degli effetti che l'impianto delle relazioni industriali scaturito dal Protocollo del 1993 ha prodotto sulle principali variabili economiche è stato fornito dalla Banca d'Italia. Fino al 1993, l'operare del meccanismo di indicizzazione, la mancanza di coordinamento tra i vari livelli di contrattazione e l'esperienza fortemente conflittuale delle relazioni industriali, avevano reso difficile riformare gli istituti del mercato del lavoro. Le nuove regole di contrattazione, poi, sono state efficaci nel contenere le spinte inflazionistiche. Il tasso d'inflazione programmata (TIP), almeno negli anni novanta, ha concorso ad indirizzare la dinamica salariale lungo un sentiero compatibile con la stabilità dei prezzi, contribuendo a frenarne le aspettative di rialzo. Grazie anche a questo ancoraggio, le pressioni inflazionistiche provenienti dalla svalutazione del 1994-1995 o dal rialzo del prezzo del petrolio nel 2000-2001 non si sono trasferite alla dinamica dei salari e quindi dei costi di produzione, evitando così ulteriori aumenti dei prezzi al consumo (second round effects). Tra il dicembre 1993 e il settembre 2008 nel settore privato si è registrata una sostanziale stazionarietà delle retribuzioni contrattuali reali medie, con un aumento complessivo dell'1,4 per cento. Insoddisfacente è stata, invece, la dinamica della produttività del lavoro, misurata dal valore aggiunto a prezzi costanti per unità di lavoro occupata. Essa è cresciuta nell'industria di appena lo 0,5 per cento all'anno dal 1995 al 2007, contro il 3,3 nel decennio precedente; un andamento analogo si è registrato nel complesso del settore privato, con tassi di crescita, rispettivamente, dello 0,5 e del 2,3 per cento. La stagnazione della produttività ha inciso negativamente sulla produttività. Il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), dato dal rapporto tra il costo unitario e la produttività del lavoro, è aumentato di oltre il 30 per cento tra il 1994 e il 2007 e di oltre il 20 per cento tra il 2000 e il 2007. L'aumento è risultato assai più marcato di quello registrato in Francia e in Germania, soprattutto a causa della dinamica più lenta della produttività del lavoro nel nostro Paese. Non si è diffusa, come invece auspicato dalle parti sociali, la contrattazione integrativa. Secondo dati della Banca d'Italia, infatti, nelle imprese industriali con almeno venti addetti, che nel 2006 rappresentavano il 70 per cento dell'occupazione dipendente nell'industria, nel periodo dal 2002 al 2007 circa la metà dei dipendenti avrebbe ricevuto premi aziendali aggiuntivi, contrattati o concessi unilateralmente. Nelle imprese di servizi privati non finanziari con almeno venti addetti, che rappresentano oltre la metà dell'occupazione dipendente del settore, nel periodo 2002-2007 la copertura dei premi aziendali avrebbe interessato circa un terzo dei dipendenti. Gli incrementi medi corrisposti in azienda avrebbero contribuito per circa 0,5-0,8 punti percentuali alla dinamica annua delle retribuzioni, risultando maggiori nelle imprese dell'industria, in quelle più grandi e in quelle del centro-nord.


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Anche in presenza di un contratto aziendale, l'incidenza delle voci stipendiali legate alla performance dell'impresa è risultata limitata e discontinua.
Il ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Sacconi, dopo aver richiamato le condizioni assai particolari nelle quali maturò l'accordo del 1993, evidenzia come esso ebbe un significato in un certo senso «risarcitorio» per il sindacato rispetto agli accordi precedenti. Osserva, quindi, che si tratta di un accordo caratterizzato da un fortissimo impianto burocratico e da una rigida procedimentalizzazione, tanto del dialogo tripartito, quanto delle relazioni industriali dirette tra le parti, che ha prodotto bassi salari, bassa produttività e scarsa nell'efficienza nelle pubbliche amministrazioni.
Confindustria esprime un giudizio complessivamente positivo sul Protocollo del 1993, che ha risposto in modo efficace ai problemi che intendeva affrontare. Osserva, però, come negli ultimi anni le regole sull'adeguamento dei salari siano state ampiamente disattese dalle organizzazioni sindacali, ove si consideri che buona parte dei rinnovi contrattuali sono stati fatti disconoscendo l'inflazione programmata. Ritiene, quindi, che la principale lacuna dell'accordo del 1993 sia la mancanza di regole chiare rispetto all'osservanza delle procedure codificate, evidenziando come proprio la previsione di meccanismi volti a garantire il rispetto di quanto concordato tra le parti sia uno degli aspetti di maggiore importanza contenuti nelle Linee guida del 12 settembre 2008 («Linee guida»).
La CGIL ritiene che il Protocollo del 1993 abbia funzionato bene per alcuni anni, ma successivamente abbia creato problemi soprattutto nei settori più deboli. A tale riguardo ricorda che nel settore del terziario, del commercio e del turismo, almeno un rinnovo su due non è avvenuto nei tempi previsti; analogo fenomeno ha riguardato la pubblica amministrazione e il rinnovo dei contratti pubblici. Le regole del 1993, inoltre, non hanno permesso una effettiva estensione della contrattazione di secondo livello, che è rimasta confinata a poche imprese e settori. La somma di tali fattori ha determinato la perdita di una significativa copertura delle retribuzioni dei lavoratori, sia sul piano della difesa dall'inflazione, sia sul piano della crescita, anche in rapporto alla produttività dei singoli settori.
La CISL ritiene che i maggiori limiti del Protocollo del 1993 riguardano lo scarso sviluppo della contrattazione decentrata.
La Lega nazionale delle cooperative e delle mutue ritiene che il Protocollo del 1993 è stato il risultato di un grande accordo di scopo, che ha contribuito considerevolmente al raggiungimento di importanti obiettivi per il nostro Paese (come l'ingresso nella moneta unica europea) ed ha fornito alle relazioni industriali un sistema di regole condivise per la contrattazione collettiva.
Confapi ritiene che una revisione del Protocollo del 1993 è non solo auspicabile, ma indispensabile. Tale Protocollo ha avuto un ruolo importante nel controllo dell'inflazione, impedendo la rincorsa perversa tra prezzi e retribuzioni e determinando le condizioni per l'ingresso dell'Italia nell'area dell'euro. Ricorda, tuttavia, che lo stesso Protocollo prevedeva una sua possibile revisione dopo una fase sperimentale, al fine di adeguarlo alle esigenze di un mondo del lavoro e di una economia in costante evoluzione. Essendo ormai trascorsi quindici anni dalla sua adozione, è arrivato il momento di una revisione complessiva delle regole.
Il Partito della rifondazione comunista ritiene che il bilancio sull'accordo del 1993, a quindici anni di distanza, sia assolutamente negativo. Per effetto di quell'accordo, infatti, le retribuzioni da lavoro dipendente hanno perso oltre dieci punti percentuali a favore di profitti e rendite. Inoltre, i propositi redistributivi insiti nella contrattazione aziendale, mai decollata, sono miseramente falliti.

2.2. Il ruolo delle istituzioni pubbliche.

Numerosi soggetti intervenuti si sono soffermati sul possibile ruolo delle istituzioni


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pubbliche nel sistema delle relazioni industriali.
Il ministro Sacconi ritiene che il confronto tra le parti sociali debba svolgersi all'interno di un quadro fondato su libertà e responsabilità, non burocratizzato o irrigidito da discipline pubblicistiche. Nel dichiararsi contrario all'introduzione di una legislazione sulla rappresentatività degli attori sociali, osserva che l'unico ruolo che le istituzioni potrebbero utilmente svolgere per favorire la dialettica tra le parti è di tipo informativo. Si dichiara, quindi, contrario anche ad un obbligo legislativo di presentazione dei bilanci, in quanto ciò contrasterebbe con la dimensione privatistica che deve caratterizzare attori sociali liberi e responsabili. Ciò non toglie, tuttavia, che sarebbe opportuno prevedere un obbligo di contabilità separata in relazione alle funzioni di pubblico interesse svolte per conto dello Stato (si pensi ai patronati, ai centri di assistenza fiscale e all'attività formativa finanziata con risorse pubbliche). Ripercorrendo brevemente la storia delle relazioni industriali degli ultimi decenni, passate dalla fase della «conflittualità» (fino al 1993) a quella della «apatia» (dal 1993 ad oggi), ritiene che occorra passare a una nuova stagione di «complicità» tra capitale e lavoro, imperniata sulla dimensione aziendale e territoriale. A tal fine, a livello aziendale occorre una condivisione degli obiettivi, dei risultati e, quindi, degli utili, da realizzare anche attraverso piani finanziari partecipativi. A livello territoriale è urgente invece rinforzare le forme di cogestione di tutti i servizi che promuovano la persona nel lavoro e nella società. Richiama, quindi, le recenti misure legislative di detassazione e decontribuzione di parte del salario, che non sono funzionali solo all'incremento delle ore lavorate, ma devono invece servire proprio a promuovere una maggiore connessione tra salari e utili. Ritiene, infine, che le poche funzioni che sarebbe utile assegnare alle istituzioni pubbliche potrebbero essere devolute ad una autorità pubblica indipendente per le relazioni industriali, da innestare eventualmente sulla già esistente Commissione di garanzia per il diritto di sciopero nei servizi di pubblica utilità.
Confindustria sottolinea l'importanza di incrementare e rendere strutturali le misure di decontribuzione e detassazione stabilite con il Protocollo per il Welfare del luglio 2007, nonché le analoghe misure sperimentali volte a incentivare la contrattazione di secondo livello introdotte dal decreto-legge n. 93 del 2008.
La CGIL ritiene essenziale che continui ad esserci un rapporto assai stretto tra modello contrattuale e politica dei redditi, secondo i principi che stanno all'origine del Protocollo del 1993. Dopo aver ricordato che tale accordo non si limitava a definire un quadro di regole per le relazioni industriali, ma estendeva il proprio ambito di intervento alle politiche del lavoro e al sostegno del sistema produttivo, definendo una cornice complessiva entro la quale era chiamata a svolgersi la politica dei redditi, osserva che l'attuale Governo non ha purtroppo ritenuto di aprire un serio tavolo di discussione e confronto sulle misure indispensabili per la gestione della grave crisi attuale per il rilancio dell'economia. Riguardo alle recenti misure legislative sulla detassazione di alcune componenti del salario, ritiene errato considerare lo straordinario uno strumento di redistribuzione del reddito; inoltre, sarebbe stato opportuno distinguere tra premi unilaterali e premi contrattati, nonché estendere la portata delle misure anche alla contrattazione territoriale.
La CISL, al pari della Lega delle cooperative e delle mutue, di Confcooperative e di Confapi, ritiene essenziale, in linea generale, il ruolo del Governo, a partire dalla disciplina generale dei premi di produttività, che costituisce uno strumento irrinunciabile per promuovere lo sviluppo della contrattazione di secondo livello. Occorre, tuttavia, anche affrontare i problemi delle tariffe e dei prezzi, in una logica coerente ed unitaria.
Analoghe considerazioni sono avanzate dalla UIL e dalla CIDA, che ritengono in particolare urgente ampliare la platea dei beneficiari delle recenti misure di detassazione.


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L'Unione Generale del Lavoro (UGL), intervenendo sui provvedimenti di detassazione adottati dal Governo, riterrebbe opportuno legare in qualche modo le misure relative alla parte variabile del salario con la partecipazione dei lavoratori agli utili e alle decisioni aziendali. Inoltre, andrebbero studiati meccanismi per estenderne l'operatività anche ai lavoratori atipici.
La Confederazione Nazionale dell'Artigianato (CNA) ha sottolineato il ruolo essenziale che può svolgere il Governo nel sostegno e nella promozione della bilateralità, anche mediante interventi legislativi volti a conferire formale veste giuridica agli accordi raggiunti dalle parti.
La Banca d'Italia ritiene che una riduzione del prelievo fiscale sul lavoro evita distorsioni e incentiva la crescita, ma andrebbe applicata alla platea più vasta possibile. Misure selettive che stimolino la contrattazione integrativa potrebbero favorire un riequilibrio tra il livello nazionale e quello aziendale. La loro introduzione, tuttavia, poiché avverrebbe in deroga ai principi di neutralità del prelievo, si giustificherebbe solo se contribuissero ad innalzare la produttività. Rimane, peraltro, il rischio che parte significativa delle agevolazioni vada a beneficio di imprese che avrebbero comunque registrato guadagni di produttività, con effetti redistributivi regressivi. Per il buon funzionamento del mercato del lavoro appare essenziale, inoltre, perseguire una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali, volta soprattutto ad affermare l'universalità della copertura assicurativa, che ora varia tra settori e tipi di occupazione, escludendo ampie fasce di lavoratori. Una struttura adeguata può consentire non solo di attutire i costi sociali del processo di ristrutturazione delle imprese e di riallocazione del lavoro, ma può anche migliorarne gli esiti in termini di efficienza, prevedendo per le persone che perdono il lavoro strumenti di riqualificazione e per l'impiego, volti ad accompagnarle nella ricerca di una nuova occupazione.
Il CNEL, infine, ha rimarcato il ruolo fondamentale che può avere il Governo, attraverso la leva fiscale, nella definizione del nuovo modello contrattuale.

2.3. La tutela del potere d'acquisto.

La questione della tutela del potere d'acquisto dei salari e quella degli strumenti più idonei a garantirla in un quadro di sostenibilità economica sono stati temi ampiamente affrontati da parte di tutti i soggetti auditi. Gli interventi si sono soffermati, in particolare, sui pregi e sui difetti dei meccanismi attuali, discendenti dal Protocollo del 1993, nonché sull'ipotesi contenuta nelle Linee guida del 12 settembre 2008 («Linee guida»).
Il Protocollo del 1993 prevede, come è noto, che la dinamica degli effetti economici dei contratti sia coerente con il tasso di inflazione programmata (TIP), assunto come obiettivo comune del Governo e delle parti sociali. Riguardo al funzionamento di tale sistema e agli effetti che ne sono derivati sulle dinamiche salariali, alcuni tra i soggetti auditi hanno evidenziato lo scostamento frequente tra inflazione programmata e inflazione reale e la perdita di potere d'acquisto dei salari, cumulata nel tempo, che ne è derivata.
Confindustria rileva preliminarmente che nel contesto dell'Unione monetaria europea l'indice di riferimento non può prescindere tal tasso di inflazione desumibile dall'obiettivo di stabilità dei prezzi perseguito dalla Banca centrale europea, che negli ultimi 10 anni ha mostrato una grande credibilità. Fa presente, quindi, che il nuovo indice previsionale ha il vantaggio di determinare un meccanismo chiaro, prevenendo il contenzioso. Ribadita l'importanza di tenere fuori la componente inflattiva importata per i beni energetici, osserva che il sistema, in caso di scostamenti significativi tra inflazione prevista e inflazione reale, contempla, a beneficio dei lavoratori, il recupero del differenziale con l'incremento dei minimi contrattuali relativi al terzo anno di vigenza del contratto. Quanto alla base di calcolo, il nuovo indice


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previsionale dovrebbe essere applicato ad un valore retributivo medio, assunto quale base di computo, composto dai minimi tabellari, dal valore degli aumenti periodi di anzianità (considerata l'anzianità media del settore) e dalle altre eventuali indennità in cifra fissa stabilite dal contratto nazionale. Si tratta, a differenza di quanto viene erroneamente affermato, di un meccanismo che coglie le diversità esistenti fra i vari settori produttivi, essendo per sua natura differenziate. Richiamando, infine, i risultati di una elaborazione del proprio centro studi, fa presente che le nuove disposizioni configurerebbero una situazione di sicuro guadagno per i lavoratori. Nel triennio 2009-2011 le retribuzioni effettive aumenterebbero del 9,4 per cento, salendo nella media del sistema economico italiano e portando la retribuzione media lorda annua da 26.768 euro a 29.180 euro, con un incremento di 2.503 euro nei tre anni. L'aumento delle retribuzioni reali, al netto cioè dell'inflazione, sarebbe quindi del 2,9 per cento, pari a 766 euro lordi annui, a prezzi costanti del 2008.
Sul meccanismo di adeguamento retributivo proposto da Confindustria nelle Linee guida si è espressa, in termini assai critici, la CGIL, la quale ha evidenziato, in particolare, che l'idea di utilizzare un indicatore che depuri l'inflazione da quella importata per i beni energetici determina un abbassamento della copertura rispetto all'inflazione reale. Nell'ipotesi contenute nelle linee guida, inoltre, viene prospettata una base di calcolo su cui esercitare l'aumento che è quantificabile, per una categoria come quella dei metalmeccanici, in una diminuzione di quello che viene definito «valore punto» pari a 2,20 euro, ciò da cui discenderebbe una perdita reale intorno al 10 per cento.
L'UGL sottolinea che depurare l'indice previsionale, come ipotizzato nelle linee guida, dall'inflazione importata, significa disconoscere la dinamica effettiva dei prezzi di molti beni di largo consumo, con gravi ripercussioni dei bilanci familiari.
Considerazioni analoghe sono state avanzate da Confedir-MIT, la quale si è peraltro dichiarata favorevole a individuare nell'IPCA il nuovo indicatore al quale fare riferimento nella contrattazione.
L'UGL ha sottolineato, inoltre, l'esigenza di un'azione strutturale sulla rilevazione del costo della vita, al fine di costruire un paniere effettivamente rappresentativo dei consumi familiari. A tale riguardo ha ricordato la positiva esperienza, troppo precocemente abbandonata, della partecipazione delle parti sociali ad una apposita commissione presso l'ISTAT. Quanto al meccanismo di adeguamento delle retribuzioni previsto dalle linee guida, osserva che esso si basa (contrariamente al tasso di inflazione programmato) su modalità quasi automatiche di definizione degli incrementi retributivi stabiliti dal contratto nazionale di settore. Gli aumenti retributivi stabiliti dal contratto nazionale, a cadenza triennale, sarebbero commisurati a una previsione di un tasso di variazione dei prezzi depurato dalle voci di inflazione importata relative ai beni energetici. Questa sarebbe applicata ad una retribuzione convenzionale comprendente le componenti salariali stabilite a livello nazionale (minimi retributivi, valore medio degli scatti di anzianità e altre componenti in cifra fissa stabiliti nei contratti di categoria). La previsione dell'indice sarebbe affidata ad un istituto terzo e basata su metodologie certe e condivise. Non sarebbero previsti meccanismi automatici per il recupero di eventuali scostamenti tra la dinamica anticipata dell'indice di riferimento e quella effettivamente realizzata. Il sistema, in particolare, si fonda su un indice previsionale triennale basato sul IPCA, ossia l'indice dei prezzi al consumo armonizzato elaborato dall'Eurostat per l'Italia, depurato della componente di inflazione importata dall'Europa relativamente ai beni energetici.
La CISL ritiene che il nuovo meccanismo di indicizzazione sia, nel suo complesso, apprezzabile, soprattutto per quanto concerne l'affidamento ad un soggetto terzo del compito di individuare l'indice previsionale sulla base di uno stesso modello matematico e la previsione di un elemento di garanzia per cui, durante


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la vigenza del contratto, ma con una valutazione ex post, l'eventuale scostamento (al netto dell'inflazione importata per i beni energetici) potrà essere recuperato nei minimi contrattuali. Meritevole di ulteriori approfondimenti appare, invece, la questione della base di calcolo, essendo preferibile applicare quella esistente nei contratti nazionali che la prevedono e, in mancanza, una base omogenea costituita dai minimi tabellari, dalla contingenza conglobata e da eventuali scatti medi di settore.
La Lega nazionale delle Cooperative e delle mutue ritiene che l'indicatore deve continuare a rappresentare un riferimento programmatico, posto che il controllo dell'inflazione rimane un obiettivo fondamentale per la stessa salvaguardia del potere d'acquisto dei lavoratori. Occorre, però, che il riferimento venga individuato in termini più realistici di quanto non sia avvenuto in alcune occasioni del recente passato (e per ovviare a ciò può essere utile fare riferimento a valori europei) e che si addivenga alla definizione di un insieme di principi e criteri tali da rendere meno problematico e conflittuale il recupero di eventuali significativi scostamenti rispetto alla dinamica reale dei prezzi.
Il partito della Rifondazione comunista esprime una valutazione fortemente negativa del meccanismo basato sul tasso di inflazione programmata, evidenziando che dalla sua applicazione è derivata una perdita di 10 punti percentuali, dal 1993 ad oggi, delle retribuzioni da lavoro dipendente, a favore di profitti e rendite.
La Banca d'Italia osserva che la proposta in discussione tra le parti sociali (Linee guida) eliminerebbe i margini di incertezza circa l'indice di riferimento e rafforzerebbe il principio, presente in modo solo generico nell'accordo del 1993, secondo il quale l'indice deve essere depurato dall'inflazione importata. Il fatto di isolare le dinamiche salariali da shock di origine esterna rappresenta un aspetto assolutamente significativo e necessario di ogni ipotesi di accordo. L'utilizzo di un indice previsivo triennale affidato ad un istituto terzo permetterebbe di superare i contrasti che sorgono nella definizione del tasso di inflazione programmata, ma predetermina la crescita delle retribuzioni contrattuali per un triennio alla dinamica di un indice che, come ogni previsione, è incerto e può variare anche considerevolmente. Un'àncora per le aspettative di inflazione è costituita dall'obiettivo implicito della Banca centrale europea, quale si desume dalla definizione di stabilità monetaria, coerente con una variazione dell'indice armonizzato dei prezzi al consumo nell'area dell'euro intorno al 2 per cento annuo nel medio termine. L'obiettivo di legare gli aumenti nominali delle retribuzioni contrattuali con quelli di un indice dei prezzi che non includa fattori esterni indipendenti dalle scelte degli attori nazionali, che non risenta della inevitabile incertezza e variabilità delle previsioni economiche, che preservi il perseguimento della competitività media del sistema produttivo nel confronto con i principali paesi concorrenti, suggerirebbe quindi di orientare l'adeguamento nominale verso l'obiettivo implicito della Banca centrale europea.
A favore di una soluzione di tale tipo si è espresso, peraltro, anche il CNEL.
Infine, gli esperti intervenuti sul tema hanno evidenziato, tra l'altro, i rischi dell'abbandono del tasso di inflazione programmato in un periodo di inflazione crescente. È stata, altresì, sottolineata l'esigenza che l'indice sia «realistico», in quanto solo in questo modo si stempera il problema del recupero successivo in caso di scostamento. Inoltre, è stata ribadita l'importanza del fatto che l'eventuale recupero non sia automatico ma oggetto di negoziato tra le parti.

2.4. La contrattazione di secondo livello.

La questione dei livelli di contrattazione è stata oggetto di grande attenzione da parte di tutti i soggetti intervenuti.
In primo luogo, dall'audizione di rappresentanti della Confederazione europea dei sindacati è stato possibile acquisire un inquadramento di carattere generale delle principali tendenze in atto nei paesi europei: vi sono, infatti, grandi diversità nei


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27 Paesi che compongono l'Unione europea, se è vero che ogni storia economica e sociale di un Paese produce una struttura di contrattazione diversa. Come emerso dall'audizione citata, non esiste un tratto comune europeo di contrattazione; si può rinvenire, piuttosto, un aspetto molto specifico e dettagliato nelle storie dei diversi Paesi che compongono la comunità europea, sebbene, ovviamente, vi siano dei elementi comuni. Ad esempio, è emerso che nei 12 Paesi che sono entrati a partire dal 2003 - ad eccezione della Slovenia - a seguito del loro specifico percorso storico, la contrattazione avviene essenzialmente a un solo livello, molto ridotto da un punto di vista aziendale, ed è praticata nelle filiali dei gruppi multinazionali. Per il resto, il tasso di copertura contrattuale nei nuovi Stati membri è assolutamente insufficiente. I contratti di categoria praticamente non esistono, se non in alcune strutture che derivano dalla storia di questi Paesi.
Esistono, invece, precisi tratti che si riferiscono ai punti fondamentali della contrattazione nella vecchia Europa, dove tale struttura è più solida e più continua, con l'eccezione dei Paesi anglosassoni: infatti, in Inghilterra esiste soltanto il livello aziendale di contrattazione come livello fondamentale in cui si esplicano le relazioni industriali e i rinnovi contrattuali.
Dati particolarmente interessanti sull'evoluzione del fenomeno - in particolare nella realtà italiana - sono quindi stati forniti dal CNEL, il quale ha evidenziato una generale flessione del ricorso alla contrattazione di secondo livello negli ultimi anni. Nel periodo 1998-2006, in particolare, si è passati da una frequenza del 40-60 per cento del biennio 1999-2000, ad una frequenza del solo 10 per cento nel 2006. La contrattazione aziendale ha riguardato soltanto alcuni settori e soprattutto le grandi imprese.
Le ragioni di tale tendenza sono da ricercare nella difficoltà di definire, in molti casi, la controparte sindacale a livello aziendale, nonché nella sfavorevole dinamica della produttività negli ultimi anni; inoltre, occorre tenere conto anche del fatto che molte imprese sono entrate nel mercato successivamente al 1993, quindi con vincoli più limitati dal punto di vista della contrattazione.
La necessità di sviluppare il secondo livello di contrattazione è stata condivisa, sebbene con accenni e toni in parte diversi, praticamente da tutti i soggetti intervenuti. In particolare, da più parti è stato sottolineato che solo un maggiore ricorso alla contrattazione decentrata potrà consentire di ottenere significativi aumenti retributivi, in base alla produttività specifica dei diversi contesti produttivi, nonché di sostenere e sviluppare la competitività delle imprese e l'occupazione complessiva.
Un aspetto critico ampiamente rilevato è stato quello dell'eccessivo numero dei contratti collettivi, sul quale occorrerebbe intervenire - pur nella consapevolezza delle difficoltà e delle resistenze che un tale processo inevitabilmente incontrerebbe - per realizzare una reale semplificazione. Sempre secondo dati del CNEL (cui è affidato il compito di censire e classificare i contratti collettivi) i contratti esistenti sono circa 400 (di cui 67 nazionali), alcuni dei quali riguardano solo poche migliaia di lavoratori. Tale dato rappresenta un formidabile elemento di appesantimento burocratico, che rende difficile la gestione delle relazioni industriali e lo sviluppo di una organica contrattazione di secondo livello.
Posizioni anche molto diversificate si sono registrate sul problema del livello al quale collocare la contrattazione decentrata.
Il ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali - nei suoi interventi - ha evidenziato, in primo luogo, che il Governo non può entrare nel merito della dimensione territoriale dei contratti collettivi, trattandosi di una questione di esclusiva pertinenza delle parti sociali. Ciò nondimeno, il Governo ritiene che nella definizione dei livelli salariali il tradizionale rapporto tra contrattazione nazionale e contrattazione decentrata andrebbe invertito a vantaggio di quest'ultima. Al riguardo fa presente, in particolare, che


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occorre abbandonare l'idea che il salario definito a livello nazionale svolga una funzione di solidarietà, ricordando come in molti Paesi la componente salariale finalizzata a tale obiettivo (peraltro definita per legge) non superi il 40-50 per cento del salario complessivo. A giudizio del Governo, infatti, la definizione del salario dovrebbe avvenire, assai più di quanto non si registri attualmente, a livello aziendale e - per le piccole imprese operanti nei settori economicamente più polverizzati (artigianato, edilizia, agricoltura) - nella dimensione territoriale.
Per quanto concerne le parti sociali, numerosi interventi hanno preso a riferimento i contenuti delle Linee guida del 12 settembre 2008. Tale documento, su cui hanno espresso un orientamento di massima favorevole CISL e UIL, tiene fermo il sistema contrattuale sostanzialmente centralizzato risalente al Protocollo del 1993, ma vi introduce alcuni correttivi volti a valorizzare la contrattazione di secondo livello, partendo dal presupposto che il conseguimento di retribuzioni più elevate è possibile solo dal collegamento con livelli di maggiore efficienza e con la redditività, produttività e competitività dell'impresa (con un chiaro favor, quindi, per la contrattazione aziendale in luogo di quella territoriale, che dovrebbe restare limitata ai settori che tradizionalmente se ne avvalgono).
In primo luogo, le parti stipulanti i contratti nazionali sono chiamate a fissare le linee guida a cui devono attenersi i contratti aziendali. Inoltre, viene introdotto - mutuando il meccanismo previsto dal CCNL dei metalmeccanici - un elemento di garanzia retributiva, in base al quale i contratti nazionali possono riconoscere un importo a favore dei lavoratori che in sede aziendale non percepiscano nessun trattamento economico in aggiunta a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria. Tale meccanismo dovrebbe indurre, nelle intenzioni dei proponenti, allo sviluppo della contrattazione aziendale, poiché svolgerebbe una importante funzione di stimolo per il datore di lavoro. Inoltre, viene introdotto il principio della derogabilità del contratto collettivo nazionale, nei soli casi da questo espressamente previsti, da parte della contrattazione territoriale. Tale derogabilità è peraltro prevista al solo scopo di favorire condizioni idonee allo sviluppo economico ed occupazionale, o per governare situazioni di crisi aziendale e può essere disposta, anche in via sperimentale e temporanea, solo nel caso in cui vi sia l'accordo tra le parti sociali operanti sul territorio.
La CGIL ha espresso una posizione complessivamente critica sui contenuti delle linee guida in materia di contrattazione decentrata. In primo luogo, la CGIL non condivide l'ipotesi di un'ampia derogabilità del contratto nazionale; inoltre, ritiene che la contrattazione di secondo livello dovrebbe valorizzare non solo la dimensione aziendale, ma debba estendersi in misure significativa anche ai territori e alle filiere. Infine, evidenzia che il sistema di relazioni industriali che emerge dal documento pecca di eccessiva rigidità e centralismo, contrastando di fatto con il proclamato obiettivo di valorizzare il livello decentrato e con le esigenze di flessibilità proprie di un periodo di grave crisi economica come quella attuale.
Perplessità sul modello di contrattazione decentrata definite dalle linee guida sono state espresse anche dall'UGL, la quale ha insistito, in particolare, sull'opportunità di collocare la contrattazione al livello di filiera per le realtà produttive ove non si svolge la contrattazione decentrata.
La Lega nazionale delle cooperative e delle mutue, nel dichiararsi convintamente favorevole allo sviluppo del secondo livello di contrattazione, osserva che incentivi in tal senso dovrebbero venire dagli stessi contratti nazionali in un quadro di regole contrattuali preciso ma allo stesso tempo flessibile. Quanto al livello al quale collocare tale contrattazione, ritiene fondamentale la capacità di adattamento ai diversi contesti economici soprattutto al fine di includervi (con contratti territoriali o di filiera) le piccole e medie imprese.
Il partito della Rifondazione comunista ha evidenziato la necessità che la contrattazione


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aziendale sia effettivamente esigibile, richiamando la positiva esperienza del CCNL dei metalmeccanici, ove è previsto un incremento retributivo definito a livello nazionale nelle aziende ove non si attua la contrattazione collettiva.
La Banca d'Italia ha evidenziato i positivi effetti che una riduzione degli automatismi degli incrementi retributivi fissati dal contratto nazionale potrebbe avere nell'ampliamento dei margini di intervento della contrattazione integrativa.
Il CNEL ritiene che la contrattazione debba prendere a riferimento, in via generale, il livello aziendale, evidenziando come la contrattazione territoriale finirebbe per penalizzare le aree dove la produttività e i prezzi dei beni sono più bassi (come nel Mezzogiorno) mentre la contrattazione settoriale danneggerebbe le imprese più efficienti a beneficio di quelle che, all'interno di un medesimo settore, abbiano realizzato incrementi di produttività inferiori alla media.
Un discorso a parte merita il contributo delle organizzazioni dell'artigianato (CNA e Confartigianato), le cui proposte si inseriscono nel solco dell'esperienza - assai significativa nella sua peculiarità - consolidatasi nel settore artigiano nel corso degli ultimi anni. La contrattazione del settore artigiano si caratterizza per una marcata territorialità, discendente dal fatto che tale settore si compone di un elevato numero di piccole e piccolissime imprese ampiamente diffuse nel territorio. Si tratta di un modello di «federalismo contrattuale» ove il secondo livello, negli spazi delegati dal livello nazionale (ma non solo), ha la caratteristica di essere cogente. È stata sottolineata, quindi, l'importanza di poter disporre di indicatori di produttività su base regionale (che l'ISTAT starebbe approntando), nonché evidenziato lo stretto legame esistente tra il secondo livello territoriale e l'ampio sviluppo della bilateralità che tradizionalmente caratterizza il settore artigiano.
Importanti contributi di riflessione sul tema dei livelli di contrattazione sono stati forniti dagli esperti auditi dalla Commissione. In particolare, sono stati rilevati gli aspetti problematici connessi alla misurazione degli incrementi di produttività ai quali agganciare gli incrementi retributivi a livello aziendale, soprattutto al fine di individuare la componente ascrivibile al fattore lavoro. Al fine di accrescere la capacità della contrattazione aziendale di premiare effettivamente gli incrementi di produttività, traducendosi in benefici economici per i lavoratori, è stata profilata la possibilità di un intervento legislativo volto a definire adeguati incentivi. È stato sottolineato, poi, lo stretto legame tra il problema della rappresentanza sindacale aziendale e lo sviluppo della contrattazione a tale livello. In alcuni interventi, inoltre, è stato evidenziato lo stretto legame esistente tra la struttura distrettuale di ampia parte del tessuto produttivo del nostro paese (ricordando che nel nostro ordinamento è presente una legislazione specifica, che prevede vari benefici a favore dei distretti) e la contrattazione a livello territoriale.
Tutti gli auditi hanno concordato, infine, sull'importanza della leva fiscale per la promozione della contrattazione aziendale. In tale ottica, un giudizio sostanzialmente positivo è stato espresso sulle recenti misure di detassazione e decontribuzione introdotte dal Governo, sebbene non siano mancati spunti critici sulla limitata portata complessiva degli interventi (in termini sia di platea di fruitori, sia dei entità dei benefici), sull'opportunità di estendere i benefici al lavoro straordinario (considerando che il lavoro straordinario è fruibile a discrezione del datore di lavoro, è meno accessibile alle donne ed è scarsamente significativo in un periodo di contrazione dell'attività produttiva come quello attuale), sulla necessità di distinguere tra le elargizioni unilaterali (modello Della Valle) e aumenti retributivi concordati dalle parti (modello Marchionne) e sull'esiguità delle risorse disponibili.

2.5. Rappresentanza e rappresentatività sindacale.

La questione delle regole per la misurazione della rappresentanza delle parti


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sociali è stata oggetto di vari interventi, soprattutto da parte sindacale. In particolare, è stato ampiamente sottolineato come il tema assuma nuova pregnanza nella prospettiva di un ampliamento della contrattazione decentrata, il cui buon funzionamento, soprattutto a livello aziendale, richiede regole chiare per la misurazione del peso dei vari soggetti rappresentativi dei lavoratori.
Una posizione assai netta nel senso della contrarietà a una legge sulla rappresentanza degli attori sociali è stata espressa dal ministro Sacconi, il quale ritiene necessario che il tema venga definito attraverso criteri determinati pattiziamente. Nulla esclude, peraltro, che la soluzione concordata dalle parti possa essere successivamente assunta da un soggetto istituzionale terzo, con compiti di pubblicità e certificazione.
La CISL ricorda che nella piattaforma messa a punto con CGIL e UIL è stato raggiunto un accordo sulla rappresentanza e sulla rappresentatività che si ispira al modello già utilizzato con successo nel settore pubblico e che un analogo sistema è tuttora oggetto del confronto con le organizzazioni datoriali. A tale ultimo riguardo ritiene essenziale il consenso prestato da Confindustria a rilevare i lavoratori iscritti ai sindacati e a trasferire i relativi dati a soggetti in possesso dei requisiti tecnici per trattarli e gestirli, come potrebbero essere l'INPS (con il quale potrebbe essere attivata un'apposita convenzione) o, nei settori ove esistono e sono sufficientemente strutturati, gli enti bilaterali.
L'UGL sottolinea che meccanismi certi di verifica della rappresentatività, fondati su indicatori inequivocabili e condivisi, costituiscono uno strumento essenziale per garantire la democrazia dei luoghi di lavoro. Al riguardo non esclude che tali indicatori, una volta definiti dalle parti, possano successivamente essere recepiti attraverso una legge. Ritiene, quindi, che occorra superare l'accordo del 1993 nella parte in cui, per la costituzione delle R.S.U. a livello aziendale, riserva un terzo dei seggi disponibili alle organizzazioni firmatarie del CCNL. Nel sostenere che l'unico indicatore da considerare dovrebbe essere il voto, osserva, infine, che la normativa che attualmente disciplina le elezioni dei rappresentanti sindacali non garantisce condizioni di parità per tutte le organizzazioni sindacali.
La Lega nazionale delle Cooperative e delle mutue ritiene che la definizione di sistemi di misurazione della rappresentatività delle parti sociali è essenziale per contrastare il fenomeno dei contratti-pirata.
Confcooperative sottolinea che le regole sulla rappresentanza costituiscono la premessa indispensabile per qualsiasi processo di semplificazione contrattuale.
La CIDA giudica essenziale che i parametri da applicare per la rappresentatività, certificati sulla base di dati verificabili, vengano definiti non soltanto con il criterio quantitativo, ovvero in base alla consistenza numerica degli iscritti, ma anche con criteri qualitativi, desumibili dai modi, dagli strumenti, dagli spazi occupati, dai livelli e dalla significatività concreta degli atti dell'agire sindacale.
Richiamando le competenze costituzionalmente definite del CNEL, il presidente Marzano ritiene che l'organo da lui presieduto rappresenti la sede ideale per la raccolta e la documentazione dei dati associativi e di consenso elettorale dei sindacati nonché, per la certificazione ufficiale della rappresentanza degli attori sociali.
Tra gli esperti auditi, il professor Olivelli osserva che è il pluralismo delle organizzazioni sindacali a porre il problema della rappresentatività. Il professor Carrieri ritiene opportuno che il legislatore intervenga con norme di legge solo una volta che le regole della rappresentanza siano state definite in modo concordato tra le parti.

2.6. Il fenomeno degli enti bilaterali.

Il ruolo cruciale che gli enti bilaterali possono volgere nel processo di modernizzazione delle relazioni industriali nel nostro


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Paese è stato ampiamente riconosciuto nel corso delle audizioni.
Il Ministro competente ritiene che gli enti bilaterali costituiscono uno strumento essenziale per il passaggio a una stagione fondata su una nuova «complicità» tra capitale e lavoro, nonché una delle forme più significative attraverso le quali si concretizza l'idea del welfare complementare. Osserva che alla condivisione, nella dimensione aziendale, degli obiettivi e dei risultati dell'impresa da parte dei lavoratori (che potrebbe spingersi fino alla partecipazione agli utili), dovrebbe corrispondere, a livello territoriale, la cogestione di tutti i servizi di promozione e sostegno della persona nel lavoro e nella società. In particolare, i settori nei quali gli enti bilaterali potrebbero agire - e in certa misura già agiscono - sono quelli della salute e della sicurezza, del collocamento, del sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria o di sospensione dal lavoro, della formazione professionale e della cosiddetta long term care (ossia il sostegno nel caso di non autosufficienza del lavoratore o di persone del suo nucleo familiare). A tale ultimo riguardo ricorda l'esperienza dei dipendenti delle compagnie di assicurazione, i quali, sulla base di un accordo fra ANIA (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici) e organizzazioni sindacali, beneficiano di una forma assicurativa per cui al formarsi, a qualunque età, di una condizione di non autosufficienza, i lavoratori ricevono dall'assicurazione un'indennità di mille euro al mese. Gli organismi bilaterali possono inoltre trattare la sanità complementare (che non è più riservata soltanto ai dirigenti, ma la si trova anche nel contratto dei metalmeccanici), la previdenza complementare e persino la risoluzione delle controversie di lavoro. Ferma restando la natura privatistica degli enti bilaterali - il che esclude forme invasive di intervento normativo pubblico - auspica tuttavia che si possa giungere, per via contrattuale, ad una efficacia erga omnes di fatto delle prestazioni fornite a beneficio dei lavoratori, attraverso strumenti che incentivino le imprese ad aderire (ad esempio prevedendo che il lavoratore il quale non può beneficiare delle prestazioni dell'ente debba essere ristorato con una quota aggiuntiva di salario da parte del datore).
Com'è noto il fenomeno degli enti bilaterali ha trovato particolare sviluppo, nel nostro Paese, nel settore dell'artigianato, che vanta una ventennale tradizione in materia. Di grande interesse, pertanto, è stato il contributo dei rappresentanti delle maggiori organizzazioni artigianali.
La Confartigianato, ricorda che il fenomeno della bilateralità si è inserito all'interno di un modello di relazioni industriali autonomo e differenziato rispetto agli altri comparti, in quanto caratterizzato da atteggiamenti più partecipativi e meno conflittuali, nonché dalla marcata dimensione territoriale delle dinamiche contrattuali. La bilateralità nel settore artigianale si è sviluppata, in particolare, nel settore della formazione professionale, ove opera un Fondo che vanta un elevatissimo numero di aderenti. Nel settore della sicurezza del lavoro, grazie agli accordi bilaterali risalenti al 1996, si è riusciti - come testimoniano i dati INAIL relativi al 2007 - a contenere considerevolmente la dinamica degli infortuni (ridotti nel 2007 del 4,2 per cento, a fronte di una media di tutti i settori dell'industria dell'1,2 per cento). A livello locale, grazie agli enti bilaterali (diffusi soprattutto nelle regioni del Centro-nord) è stato possibile fare fronte autonomamente e in modo efficace a situazioni di crisi e sospensione dell'attività. Sono da tempo in corso trattative, anche con i sindacati confederali, per estendere il metodo bilaterale al settore sanitario e previdenziale.
La Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa (CNA), evidenzia che la bilateralità e la territorialità sono aspetti essenziali di una realtà economica - quale quella artigiana - caratterizzata da imprese di piccole e piccolissime dimensioni (con una media di 3,4 dipendenti per impresa).
Entrambe le organizzazioni del settore artigiano evidenziano, poi, l'importanza di un sostegno legislativo della bilateralità, che si è sviluppato nel corso degli anni '90


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ma non ha ancora trovato una piena ed adeguata sistemazione dal punto di vita normativo. Ciò che viene sollecitato, in particolare, non è un intervento legislativo volto a prevedere l'efficacia erga omnes dei contratti, bensì la loro applicazione integrale. Esperienze positive a cui fare riferimento sono, ad esempio, quella del Fondo per la formazione continua, la quale trova fondamento in una normativa che impone un costo anche alle imprese che decidono di non aderire al sistema bilaterale, imponendogli un corrispondente versamento all'INPS da devolvere successivamente al finanziamento dell'attività formativa delle regioni. Un aspetto da non sottovalutare, in tale contesto, è anche quello della riconduzione di simili meccanismi di contribuzione alternativa (a carico dei datori non aderenti agli enti) all'interno della parte economica dei contratti, ciò che faciliterebbe anche la successiva redistribuzione su base regionale delle adesioni. Infine, altro profilo di grande rilievo è quello relativo alla disciplina dei controlli sull'erogazione delle prestazioni.
CONFAPI ritiene che tutte le politiche attive e passive del lavoro possano trovare nella bilateralità una risposta efficace. Ricorda, poi, che nel settore delle piccole e medie imprese (oltre 50.000) che fanno capo a Confapi, sono state realizzate numerose esperienze positive di bilateralità, in particolare nel settore della sicurezza, della formazione permanente continua e della previdenza integrativa. È in fase di valutazione, inoltre, l'ipotesi di istituire un ente bilaterale per la regolazione del rapporto di lavoro, che si estenda fino alla gestione del contenzioso.
L'UGL lamenta come la partecipazione al sistema della bilateralità sia di fatto preclusa ad alcune categorie di lavoratori, posto che questa si sviluppa prevalentemente a livello territoriale, dove l'accesso di alcune organizzazioni sindacali non sempre è garantito.
La CLAAI osserva innanzitutto che gli enti bilaterali, in quanto prodotto della società civile ed espressione di democrazia, devono essere garantiti nella loro autonomia. L'ammontare spesso enorme delle risorse che gli enti bilaterali gestiscono e il rilievo pubblicistico delle funzioni da essi svolte, tuttavia, non escludono a priori la possibilità di un intervento pubblico, volto a valorizzare il ruolo di tali organismi e a garantirne - anche attraverso puntuali regole gestionali e deontologiche - trasparenza ed efficienza. Ovviamente tale regolamentazione deve essere demandata, in prima battuta, alla contrattazione collettiva; tuttavia, laddove il sistema non sia in grado di darsi autonomamente regole condivise ed efficaci, l'intervento del legislatore sarebbe giustificato ed opportuno. Al riguardo fa presente che manca, ad esempio, una normativa che regoli incompatibilità e possibili conflitti di interesse tra amministratori e funzionari. Richiamando l'esigenza di introdurre regole per la gestione dei bilanci, ricorda che attualmente la legge detta norme chiare ed efficaci per la gestione delle risorse del Fondo interprofessionale per la formazione continua (istituito nel 2001, il Fondo si alimenta con una trattenuta dello 0,30 per cento), prevedendo che le spese di funzionamento non possano superare l'8 per cento del totale.

3. Conclusioni e proposte.

Come anticipato in precedenza, con il presente documento conclusivo si è ritenuto opportuno far seguire, ad una prima parte ricognitiva (sufficiente ad offrire una sintesi delle posizioni emerse nel corso delle audizioni), una seconda parte di natura più direttamente propositiva, che si pone l'obiettivo di verificare ed orientare le eventuali iniziative che possono provenire dal versante parlamentare.
Prima di avviarsi in questa riflessione, peraltro, appare opportuno svolgere compiutamente una premessa, che fa riferimento alla piena e incondizionata accettazione di quel diritto sindacale «vivente», emerso nel vuoto attuativo dell'articolo 39, secondo comma e seguenti, della Costituzione, e che risulta consolidato da tutto un


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coerente indirizzo legislativo a partire dallo Statuto dei diritti dei lavoratori e consacrato dalla stessa giurisprudenza costituzionale: diritto sindacale fondato sul primato dell'autonomia collettiva, riconosciuta come capace di organizzarsi e di agire liberamente. Si tratta di un dato da tenere presente nell'analisi degli argomenti oggetto dell'indagine svolta dalla Commissione, anche perché esso può valorizzare un importante ruolo del Parlamento, non solo rendendo possibile, ma anche auspicabile una politica di affiancamento e indirizzo, del tipo di quella contenuta nel Titolo III dello Statuto e nella successiva legislazione sulla contrattazione delegata, favorendo altresì l'apertura di significativi spazi per una politica regolativa, giustificabile in ragione di una urgenza pubblica, non risolvibile soltanto in sede sindacale, come nel caso della disciplina in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali: disciplina, per di più, imperniata sulla stessa contrattazione collettiva.
In questo senso, non vi sono dubbi sul fatto che dall'indagine conoscitiva emerga un'effettiva volontà di «auto-riforma», nonché una tendenziale convergenza di posizioni, all'insegna di una sostanziale continuità rispetto al passato: non un rovesciamento, ma un aggiornamento del sistema esistente, che tenga conto al tempo stesso del cambio avvenuto nel contesto socio-economico e di qualche «difetto» o, addirittura, «effetto perverso» venuto alla luce nel corso di oltre un quindicennio, da 1993 ad oggi. Ma, fermo restando che è necessario attendere l'auspicata conclusione di un'intesa fra le parti sociali, esistono importanti margini per osservazioni e proposte, utili fin d'ora per una migliore messa a fuoco della materia in discussione. Nessuno dubita, infatti, che nell'attuale fase di crisi economico-produttiva (che nel 2009 genererà, con ogni probabilità, i suoi maggiori e più pericolosi effetti) le priorità assolute siano quelle della difesa dei posti di lavoro e del sostegno ai redditi. In questo ambito, tocca al sistema delle relazioni industriali (in primis, imprese e sindacati) lavorare ad una riforma condivisa dei meccanismi contrattuali, puntando con forza su modelli partecipativi che partano dall'assunzione di idonee responsabilità nelle scelte strategiche di sviluppo.
Nei paragrafi seguenti si tenterà, quindi, di esporre tali osservazioni e proposte in modo organico, partendo da quanto acquisito nel corso dell'indagine e immaginando come dar vita - attraverso un'azione sui punti centrali del problema e trattando anche argomenti sviluppati in misura più marginale dagli stessi soggetti auditi - alle prospettive di riforma del sistema vigente.

3.1. Il raffronto tra modelli.

Se è stato chiarito, anche nella precedente sezione ricostruttiva, quali siano i principali punti di interesse nell'odierno dibattito sulle prospettive di riforma del sistema, è altrettanto essenziale ricordare che - per il passato - dato che il punto di partenza è costituito dal Protocollo del 23 luglio 1993, da questo è necessario partire, prendendo a riferimento non tanto il testo considerato in sé, quanto piuttosto quello valutato, a pochi anni di distanza, dalla Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993, presieduta dal prof. Gino Giugni, che ha visto nel 1997 la produzione di una importante relazione finale.
A prima vista, anche dagli atti dell'indagine emerge un duplice elemento di discontinuità del citato documento rispetto al confronto attuale, che attiene al contesto istituzionale complessivo in cui si collocava il sistema di contrattazione collettiva: dato, il primo, dallo stretto ed inscindibile collegamento - allora previsto - fra l'obiettivo del contenimento della crescita dei prezzi, cui era finalizzata una politica dei redditi costruita su un'inflazione programmata e attuata per via della concertazione e di una contrattazione altamente centralizzata; costituito, il secondo, dal tentativo - allora effettuato - di una regolamentazione retributiva tendenzialmente comune dell'intero universo del lavoro subordinato - privato o pubblico


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che fosse il datore - cui era funzionale la cosiddetta «privatizzazione del pubblico impiego».
Ciò che, invece, è in vista nel confronto attuale non è un Protocollo, cioè un «patto triangolare» che trovi come parti firmatarie Governo e parti sociali, ma un vero e proprio accordo interconfederale, che non coinvolge direttamente, ma solo indirettamente, il Governo, nella misura in cui le stesse parti sociali ritengono necessari (e sollecitano) interventi di defiscalizzazione e di decontribuzione a favore della contrattazione aziendale. Ma questo è l'aspetto formale, perché quello sostanziale, che vi corrisponde pienamente, è dato dal cambio di obiettivo e di meccanismo: non più il contenimento della crescita dei prezzi, perseguito per mezzo di un tasso di inflazione programmato, definito in sede «politica» come quello «auspicato» e consegnato alla concertazione e ad una contrattazione fortemente centralizzata e sovraccaricata; bensì il mantenimento del potere d'acquisto, per il tramite di un tasso di inflazione atteso, individuato in sede «tecnica» come quello «prevedibile» e rimesso ad una contrattazione decentrata e alleggerita.
Tale circostanza, che risulta chiaramente dagli elementi acquisiti nel corso dell'indagine e rappresenta uno dei principali punti di difformità rispetto al passato, sembrerebbe aprire la via ad una diversa dinamica fra un'azione di Governo che resterebbe ancorata ad un tasso di inflazione programmata e una contrattazione collettiva che sarebbe condotta all'insegna di un tasso di inflazione «attesa», con una relativa autonomia reciproca. Ne conseguirebbe un duplice effetto critico, perché, da un lato, il Governo, in quanto tale, a fronte di uno scostamento significativo fra l'uno e l'altro tasso, si troverebbe tentato - se non costretto - ad utilizzare in funzione anti-inflattiva anche le misure di defiscalizzazione e decontribuzione delle voci retributive aziendali correlate alla crescita della produttività, che così ne risulterebbe disincentivata; dall'altro, lo stesso Governo, in quanto datore di lavoro pubblico, si vedrebbe tenuto a rispettare il tasso di inflazione programmata, esponendosi ad un quasi inevitabile insuccesso a fronte del più elevato tasso tenuto presente nel settore privato.
In questo senso, occorre anche considerare che il problema è esploso per il sensibile divario fra tasso di inflazione programmata - fissato unilateralmente dal Governo - e tasso di inflazione «attesa», ritenuto condivisibile dalle parti sociali, sia pure con qualche essenziale distinguo. Tale problema dovrebbe, dunque, essere destinato a ridimensionarsi, perché lo stesso Governo pare pienamente consapevole del fatto che, nel tempo presente di recessione internazionale ed interna, la preoccupazione anti-inflattiva cede necessariamente il passo alla difesa e alla crescita del potere d'acquisto, innescando una politica capace di coniugare solidarietà e ripresa economica trainata dalla domanda.
Di fatto, è apparso a molti prevedibile che la rigidità del nuovo modello risulterà piuttosto attenuata nella pratica, perché non è pensabile vi sia una totale assenza di dialogo fra Governo e parti sociali; né, d'altronde, un qualsiasi tasso di inflazione assunto a referente della contrattazione collettiva, fosse anche quello dell'inflazione «attesa» determinata in sede «tecnica» ad iniziativa delle stesse parti sociali, troverebbe una traduzione automatica. Non occorre, infatti, ricordare che l'adeguamento rimane affidato ad una contrattazione, che rinvia inevitabilmente di volta in volta alla valutazione delle parti trattanti, resa certo più complessa dal sovraccarico derivante dalla riunificazione della parte normativa ed economica e dalla concentrazione di entrambe secondo una cadenza triennale.
Sotto questo profilo, peraltro, occorre affermare con chiarezza l'esigenza di una durata triennale dei contratti, considerato che quella biennale - come emerso da parte di numerosi interlocutori della Commissione - è sostanzialmente fallita o, quanto meno, superata.
Passando, poi, al secondo elemento di discontinuità rispetto al passato, si osserva


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che esso è costituito dal significativo rallentamento del processo di omogeneizzazione tra lavoro pubblico e lavoro privato, inaugurato dalla legge n. 422 del 1992 e sancito nel Protocollo del 1993. In questo ambito, anche per le dinamiche che sottostanno alla definizione di un nuovo Protocollo, risulta quanto mai opportuno evitare che l'attenzione sia di necessità limitata al settore privato, semmai lavorando affinché sia possibile continuamente guardarsi dal rischio di una nuova divaricazione fra settore privato e pubblico privatizzato. Visto che il Governo, su delega del Parlamento, dovrebbe ora correggere ampiamente il testo unico n. 165 del 2001, appare opportuno che l'eventuale aggiornamento di quel sistema contrattuale inaugurato dal Protocollo del 1993, come condiviso dal settore privato e dal settore pubblico privatizzato, venga tenuto ben presente nella decretazione delegata destinata alla riforma della legislazione vigente. A tal fine, peraltro, potrebbe essere utile fare anche riferimento a quanto contenuto - sul versante dei rapporti tra lavoro pubblico e privato - nella relazione finale di valutazione del Protocollo del 1993, prodotta dalla cosiddetta «Commissione Giugni» alla fine del 1997.
In termini riassuntivi, non può non rilevarsi che da un raffronto con il passato emerge l'opportunità - nel contesto di una complessiva riforma del sistema e nel un quadro di crisi economica come quella attuale - di affrontare i problemi esistenti con un approccio innovativo.
Per un verso, infatti, è importante tornare a richiedere alle parti sociali di valutare la revisione degli assetti delle relazioni sindacali considerando anche nuovi strumenti operativi, mirati in primo luogo alla salvaguardia dei posti di lavoro: si tratta, in questa direzione, di capire come favorire l'assunzione collettiva di responsabilità, ridistribuire i carichi di lavoro anche al fine di scongiurare la delocalizzazione delle imprese, verificare i margini per una riduzione contrattata degli orari, spostare il «centro» delle relazioni sindacali e dei contratti verso territori e aziende, secondo un principio che potrebbe definirsi di «sussidiarietà sociale».
Ugualmente, al fine di conseguire risultati positivi in termini di creazione e/o difesa dell'occupazione, si potrebbero prevedere - come già sperimentato in Germania e raccomandato dalla «Commissione Giugni» nel 1997 - delle cosiddette «clausole d'uscita», che consentano, entro certi limiti e a precise condizioni definite nel contratto collettivo nazionale di lavoro (si vedano, a tal fine, le soluzioni individuate nella contrattazione del settore chimico), di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale. Tali clausole comporterebbero, comunque, sempre la consensualità della deroga, verificata e validata dalle stesse organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi derogati. Ad esse, peraltro, spetterebbe il potere di autorizzare le suddette clausole, sia per le materie oggetto della deroga, sia per i limiti di contenuto e di operatività temporale della deroga stessa.
Al contempo, occorre consolidare - forse con ancora più coraggio di quanto fatto sinora - le misure che fanno riferimento agli ammortizzatori sociali, che possono essere riformate partendo, ad esempio, dalle proposte e dalle indicazioni del «Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia» del 2001, considerando, tra l'altro, la possibilità di un sostegno al reddito anche per i lavoratori atipici.
Si tratta, in sostanza, di individuare una nozione più articolata di relazioni sindacali, che ponga in essere ogni possibile intervento finalizzato a dotare il Paese di un sistema moderno e utile ad affrontare con più certezza anche il futuro sviluppo sociale.

3.2. La natura dei contratti collettivi e il problema della rappresentanza (ragionare su una Authority per le relazioni collettive).

La continuità fra vecchio e nuovo sistema contrattuale è data in primis dalla


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riconferma del principio del reciproco riconoscimento, quale unico titolo di ammissione al tavolo contrattuale. Il che è assolutamente in linea con un ordinamento intersindacale che si ritiene legittimato ad una libera auto-organizzazione ed auto-gestione, ma ripropone inevitabilmente gli stessi problemi già anticipati nel Protocollo e considerati nella relazione finale della «Commissione Giugni» del 1997.
Il primo è (e rimane) quello dell'efficacia del contratto collettivo, con una differenza di fondo: per il contratto categoriale, la via diretta ed automatica di un'estensione erga omnes resta bloccata dalla mancata attuazione dell'articolo 39 della Costituzione, secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale, che ha conosciuto due sole eccezioni sostanziali (peraltro argomentate in maniera da non sembrare tali), cioè la contrattazione di comparto nel pubblico impiego privatizzato e la contrattazione relativa all'individuazione delle prestazioni indispensabili e delle misure idonee a garantirle in caso di scioperi nei servizi pubblici essenziali.
Pertanto, la sola via rimasta aperta è stata quella, indiretta e mediata emblematicamente, rappresentata - da un lato - dall'articolo 36 della Costituzione, che la giurisprudenza ha utilizzato per definire la retribuzione proporzionata e, comunque, sufficiente, facendo riferimento proprio alla contrattazione collettiva di categoria; e, dall'altro, dall'articolo 36 dello Statuto dei lavoratori, che rappresenta l'esempio classico di una legislazione che promuove l'estensione dell'efficacia della stessa contrattazione collettiva, subordinando alla sua osservanza la percezione di benefici fiscali e contributivi o l'instaurazione di rapporti di concessione e di appalto con le pubbliche amministrazioni.
Allo stato, si può solo prendere atto che l'articolo 36 della Costituzione giustificherebbe certamente l'introduzione di un salario minimo, sull'esempio di molti paesi comparabili, fermo restando che, per l'indubbio impatto esercitato sul sistema contrattuale, tale introduzione richiederebbe d'essere condivisa con le parti sociali. Al contempo, si può anche prendere atto che la legislazione, costruita a misura dell'articolo 36 dello Statuto dei lavoratori, dovrebbe essere rivisitata, restituendole al tempo stesso coerenza e flessibilità applicativa.
Per il contratto aziendale, invece, non pare porsi il problema costituzionale rappresentato dall'articolo 39, quarto comma, della Costituzione, in quanto esplicitamente riferito al solo contratto categoriale; sicché rimarrebbe nel potere del legislatore ordinario un eventuale intervento che gli conferisse quell'efficacia generalizzata di cui la giurisprudenza lo ritiene attualmente privo.
Se questi sono i punti dirimenti della natura dei contratti, va peraltro rilevato che, sia pure in termini e modi diversi, il problema dell'efficacia rinvia a quello della rappresentanza/rappresentatività degli agenti contrattuali; cioè ad un ulteriore problema che rileva particolarmente nella sempre più frequente casistica di contrattazione delegata, cioè prevista dalla legge, in deroga, sostituzione, integrazione della disciplina legale, nella prospettiva di una gestione consensuale del mercato del lavoro. Rinviata sine die una modifica dell'articolo 39, quarto comma, che restituisca al legislatore una discrezionalità oggi preclusagli in materia di estensione dell'efficacia della contrattazione collettiva condotta da associazioni sindacali legittimate in base ad una data rappresentanza/rappresentatività (e svuotata dal referendum abrogativo la portata dell'articolo 19 dello Statuto con riguardo alla maggiore rappresentatività), non resta ora che confidare sulla capacità di auto-regolamentazione delle stesse parti sociali, cui potrebbe essere offerta una sponda istituzionale, eventualmente per via di una apposita authority, cioè di un'Autorità indipendente per le relazioni collettive. Tale Autorità dovrebbe essere composta da figure di alta professionalità ed effettiva indipendenza - anche con riguardo alle organizzazioni espresse dalle parti sociali - e dotate di curricula di elevatissimo profilo, in modo da escludere i rischi di una composizione non propriamente adeguata,


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che talvolta si sono verificati in occasione della nomina di altri organismi indipendenti. Si pensa, dunque, ad un'Autorità non di stretta emanazione governativa, caratterizzata da forti profili di garanzia per le parti, che potrebbe farsi carico, direttamente od indirettamente:
a) di costruire una «banca dati» delle deleghe sindacali e delle consultazioni per la nomina delle r.s.u., la quale serva da referente nella selezione degli agenti contrattuali;
b) di indire e gestire una consultazione fra i lavoratori interessati, nel caso di una perdurante divisione fra le stesse organizzazioni sindacali, tale da poter portare o aver già portato ad accordi separati, che siano di per sé applicabili solo ad una parte della forza lavoro sindacalizzata.

3.3. Le ipotesi di un nuovo modello per il «doppio livello» di contrattazione.

Sulla base di una riflessione come quella sviluppata nei paragrafi precedenti, è evidente che il punto qualificante del nuovo sistema contrattuale, sempre costruito su un doppio livello, dovrebbe essere dato da uno spostamento di peso dal centro alla periferia: un contratto categoriale più «leggero» nella parte normativa, ristretta quantitativamente (istituti essenziali) e qualitativamente (principi e criteri a scapito dei dettagli) e più «asciutto» nella parte economica (difesa del potere d'acquisto). Questo, però, sempre nell'ambito di un sistema fortemente articolato, secondo quanto previsto al centro, con il coordinamento affidato ad elementi soggettivi (l'esistenza di una relazione fra gli agenti negoziali dell'uno e dell'altro livello) ed oggettivi (la presenza di clausole di rinvio dall'uno all'altro livello).
Il grado di un tale spostamento - che, come detto in precedenza, evoca una transizione delle relazioni sindacali e dei contratti verso territorio ed azienda, secondo un principio che è stato definito di «sussidiarietà sociale» - è evidentemente condizionato dal fatto che il contratto nazionale ha un ambito di applicazione assai più ampio, essendo la contrattazione aziendale svolta in non più di un terzo delle aziende interessate, anche se, poi, trattandosi di quelle grandi e medio-grandi, in quel «terzo» è occupato qualcosa come i due terzi dei lavoratori. Anche ammesso che Confindustria fosse disposta ad inserire nel contratto di categoria un obbligo a trattare a livello aziendale esteso a tutte le aziende associate, e non solo a quelle che già riconoscano tale livello, si tratterebbe pur sempre di un mero obbligo a «sedersi al tavolo», ma non a concludere un accordo. Il che dà ragione del progetto sindacale di valorizzare la contrattazione territoriale, che potrebbe essere superato solo praticando la contrattazione aziendale (la quale, tuttavia, contrasta con l'esperienza a tutt'oggi fatta dalla stessa contrattazione territoriale, destinata a trovare fortuna solo con riguardo a particolari e specifici settori, come quelli agricolo, dell'edilizia e dell'artigianato).
In questo senso, il punto d'approdo che appare allo stato possibile è dato dall'esempio del contratto dei metalmeccanici di prevedere a livello nazionale un elemento retributivo da liquidare a favore di coloro che non avranno beneficiato del livello aziendale: meccanismo facilmente praticabile e apprezzabile dal punto di vista perequativo, ma sul quale solo il corso degli eventi potrà confermare se sia destinato a produrre un effetto propulsivo o, viceversa, dissuasivo rispetto allo sviluppo della contrattazione aziendale.
Va, peraltro, rilevato che lo spostamento di peso verso il livello decentrato, in particolare aziendale, richiede non solo il mantenimento, ma anche il rafforzamento, di un sistema fortemente coordinato, specie in materia retributiva. È bene ricordare che già il modello previsto dal Protocollo del '93 contemplava una divisione di ruoli fra un contratto categoriale preposto alla difesa del potere d'acquisto ed un contratto aziendale centrato sulla distribuzione della maggiore produttività o redditività. Eppure, come è emerso da numerosi interventi svolti nel corso delle


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audizioni, l'esperienza è stata tutt'altro che esaltante, a conferma di una tendenza quasi invincibile a privilegiare aumenti «a pioggia» ed a consolidare tali aumenti una volta acquisiti.
Deve essere sottolineato, peraltro, come concorrano diversi fattori a facilitare la «fuga» da una variabile retributiva collegata alla produttività: la tradizionale tendenza anti-partecipativa ed egualitaria di parte rilevante del movimento sindacale italiano; la scarsa presenza e, comunque, incidenza, delle istanze territoriali delle organizzazioni sindacali; la base elettiva universale delle r.s.u.; la modestia della busta paga media; e, non ultima, la carenza di una cultura tecnica in materia. È evidente che la questione riguarda in primis le organizzazioni sindacali, da cui ci si deve aspettare una più dettagliata regolamentazione della contrattazione aziendale con riguardo: alla necessità di una presenza congiunta istanze territoriali-r.s.u., alla procedura decisionale interna delle stesse r.s.u., alla composizione di eventuali divergenze fra le diverse istanze territoriali, fra queste e le r.s.u., e fra diverse componenti delle r.s.u.
Ma, detto questo, resta fondamentale che sia promossa una grande campagna formativa ed orientativa - di cui si potrebbe affidare la regia alla stessa Autorità per le relazioni collettive, evocata in precedenza - da condurre su un piano concordato con le parti sociali e con le istituzioni aventi competenze in materia, a cominciare dalle regioni.
E, tuttavia, occorre non dimenticare che decisivo resta anche l'atteggiamento dei datori di lavoro. Aver previsto incentivi fiscali e contributivi vuol dire aver titolo e modo per creare una «banca dati» ed esercitare una vigilanza, che potrebbe anch'essa avere alla regia l'Autorità per le relazioni collettive.

3.4. Un campo da esplorare: la revisione dei meccanismi partecipativi.

Per quanto sostanzialmente ignorato nelle audizioni, occorre ricordare in questa sede che è venuto prendendo piede un momento «partecipativo» che investe il livello aziendale, creando un problema di rapporto con le stesse r.s.a./r.s.u. Al riguardo c'è, anzitutto, da considerare il nuovo testo unico sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, che, agli articoli 47-49, prevede una gestione decentrata della prevenzione, tramite il rappresentante della sicurezza, eletto o designato a livello aziendale, territoriale, di comparto e di sito: un recupero potenziato dell'articolo 9 dello Statuto dei lavoratori, con un significativo tratto differenziale e cioè che, là, le «rappresentanze» erano previste come possibili, rimesse ad una non meglio precisata iniziativa dei lavoratori, mentre qui sono necessarie, promosse dallo stesso potere pubblico, se pur sempre nel contesto di un sistema imperniato su un'ampia valorizzazione delle contrattazione collettiva condotta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Ma non è affatto chiaro se il rappresentante della sicurezza aziendale - che può essere individuale o collettivo, variando da uno a sei in ragione delle dimensioni dell'azienda - debba essere articolazione interna delle r.s.a.-r.s.u. ovvero, come sembra preferibile, dati i compiti ed i poteri riconosciutegli, una struttura esterna, sia pur sempre raccordata alle r.s.a.-r.s.u.
Più chiaro sembrerebbe il testo del decreto legislativo 6 febbraio 1997, n. 25, attuativo della Direttiva 2002/14/CE in materia di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori, perché i «rappresentanti dei lavoratori» titolari dei diritti relativi sono individuati esplicitamente nelle r.s.a. e r.s.u., con ampio rinvio alla contrattazione collettiva svolta sempre dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Come si vede, una riconferma di una politica legislativa di promozione senza regolamentazione, che, peraltro, sconta qui più che altrove la debolezza intrinseca della contrattazione collettiva rispetto alla legge; si tratta, altresì, di una riconferma dell'assoluta continuità nell'opzione, tutta italiana, a favore di un canale unico di


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rappresentanza a livello di base, cioè titolato a svolgere sia il ruolo rivendicativo sia quello partecipativo. È, con tutta chiarezza, un dato che espone al rischio di un prevalere del ruolo rivendicativo su quello partecipativo, curvando e distorcendo all'uopo i diritti di informazione, consultazione e partecipazione funzionali ad un coinvolgimento cooperativo.
Nel corso degli anni '70 si era parlato di un prolungamento dello Statuto dei lavoratori, con la legificazione dei diritti sindacali di seconda generazione, cosa che la Direttiva avrebbe non solo permesso ma anche implicitamente preferito, con un indubbio ritorno in termini di chiarezza, trasparenza e, soprattutto, effettività. Una volta che la «lezione dei fatti» dimostrasse che l'alternativa della via contrattuale è scarsamente effettiva, ben potrebbe il legislatore riprendere in mano l'iniziativa; ed in tale occasione riconsiderare la possibilità di introdurre quel doppio canale (uno sindacale, l'altro rappresentativo della comunità dei lavoratori), che è privilegiato a livello europeo, in quanto più rispondente al prevedibile sviluppo delle relazioni collettive in azienda.
Contestualmente a tali interventi, si dovrebbe altresì valutare il rafforzamento degli strumenti diretti alla partecipazione dei lavoratori ai risultati di impresa, anche attraverso la partecipazione ad appositi fondi. L'idea di base è quella contenuta in diverse proposte di legge pendenti alla Camera, che - nel prendere atto che le esperienze di azionariato dei dipendenti in Italia si risolvono attraverso strumenti ordinari del diritto societario, che risultano piuttosto inadeguati - promuovono un modello evoluto di relazioni industriali: un modello in cui si possano conciliare collaborazione, partecipazione e rappresentanza dei lavoratori al fianco degli imprenditori, nel comune obiettivo di porre al centro la persona, in una logica di fidelizzazione e di promozione dell'occupabilità.
L'obiettivo è, in particolare, favorire l'adozione di piani di partecipazione azionaria dei dipendenti, anche sulla base di contratti e accordi collettivi stipulati a livello aziendale, diretti a conferire le risorse azionarie ad un fondo comune d'impresa appositamente costituito in forma di società d'investimento a capitale variabile, che emetterebbe in contropartita quote da assegnare agli aderenti ai piani, in proporzione alla loro partecipazione al fondo medesimo.

3.5. Contrattazione collettiva e diritto di sciopero.

Assai delicato rimane il problema del rapporto fra contrattazione collettiva e sciopero, perché mentre la titolarità della contrattazione collettiva è riservata, a livello nazionale, alle organizzazioni sindacali categoriali - nelle ipotesi di contrattazione delegata spesso, se pur non sempre, a quelle maggiormente rappresentative - nonché, a livello aziendale, alle istanze territoriali delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi di categoria congiuntamente alle r.s.u.; viceversa, la titolarità del diritto di sciopero è attribuita a ciascun singolo lavoratore, seppure a condizione di un suo esercizio a tutela di un interesse collettivo, fatto che, di per sé, richiede che tale esercizio sia effettuato non da uno solo, ma da più soggetti. È vero che la contrattazione collettiva può prevedere clausole di raffreddamento e di tregua, ma per consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, esse vincolano solo le organizzazioni sindacali stipulanti, tenute, quindi, a non proclamare, patrocinare, favorire astensioni dal lavoro nei periodi esclusi, ma non i singoli scioperanti. Sicché, nell'ipotesi di inosservanza di tali clausole, nei confronti delle organizzazioni sindacali è ipotizzabile una responsabilità, peraltro ben difficilmente praticabile con successo; ma nei rispetti dei singoli lavoratori è solo configurabile una inadempienza vis-à-vis delle loro organizzazioni sindacali, cioè di quelle e solo di quelle di cui siano soci.
Così stando le cose, l'eventuale previsione di periodi dedicati ai rinnovi contrattuali o ai procedimenti conciliativi,


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articolati per gradi ascendenti, nel corso dei quali sia vietato prendere iniziative unilaterali, è destinata a rimanere priva di qualsiasi effettiva sanzione: per esser più precisi, se è la parte datoriale a modificare la situazione, c'è la possibilità di far ricorso all'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori per comportamento anti-sindacale; ma se è la parte sindacale a far ricorso allo sciopero, allora vale quanto già detto sopra. Un intervento radicale, ripreso dall'esperienza statunitense, sarebbe quello di duplicare il citato articolo 28, prevedendo anche delle unfair practices a capo e a carico dei sindacati; ma uno meno radicale, e più praticabile, potrebbe essere quello di mutuare dalla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali le sanzioni previste per le organizzazioni sindacali, particolarmente quelle economiche relative al mancato versamento dei contributi raccolti in base alle deleghe, affidandone la gestione all'Autorità per le relazioni collettive, che avrebbe in tal modo anche un ruolo - per così dire - di affiancamento (se non assorbente) rispetto alla vigente Commissione di garanzia.
Certo, un tale intervento riguarderebbe solo le organizzazioni sindacali «interne» al sistema, che, cioè, contano su contributi raccolti in base alle deleghe; ma per andar oltre bisognerebbe affrontare il problema di una regolamentazione generale dell'esercizio del diritto di sciopero, che l'articolo 40 della Costituzione, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, permetterebbe entro determinati limiti, ma che a tutt'oggi non c'è stata, perché l'unica disciplina in proposito rimane quella dell'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

3.6. Relazioni industriali e federalismo.

L'avvio del federalismo quale profondo riordino dell'ordinamento dello Stato repubblicano è destinato ad incidere anche sugli assetti delle relazioni industriali. Il problema si porrà non solo sul piano istituzionale, dal momento che le istanze regionali saranno dotate di poteri propri, concorrenti o delegati anche in materia di lavoro. Saranno soprattutto gli aspetti di carattere politico e sociale ad imporre la ricerca di ruoli e di iniziative a livello regionale, perché nessun soggetto istituzionale potrà mai esercitare in maniera adeguata le sue funzioni di governo, se non sarà in grado di confrontarsi e di dialogare con le organizzazioni della società civile e con i protagonisti dell'economia e del lavoro. Soprattutto nelle materie in cui la competenza dei nuovi governi regionali sarà esclusiva si porrà il problema di una più marcata autonomia regionale.
Se questa nuova configurazione comporterà delle modifiche anche per quanto riguarda gli assetti della contrattazione collettiva saranno i processi reali a porlo in evidenza. Fin d'ora, però, appare evidente che, soprattutto nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, aumenterà il ruolo delle istanze decentrate, in primis delle regioni, nella definizione di parte delle regole contrattuali riferite al personale, a partire dalle quote di retribuzione accessorie, variabili o collegate agli andamenti produttivi. È una tendenza, questa, in larga misura già in atto e sempre più rivendicata dalle regioni, che sembra destinata ad ampliarsi nel nuovo contesto istituzionale.

3.7. Una proposta operativa per la semplificazione e la razionalizzazione degli organismi.

Nelle precedenti parti del documento si è accennato all'ipotesi di costituire un'Autorità per le relazioni collettive, attribuendole di volta in volta alcune competenze informative, amministrative, conciliative, para-giurisdizionali. Si tratta di una proposta importante, con la quale potrebbe prendere forma quel contributo che anche il legislatore statale potrebbe portare alla costruzione di un nuovo modello di relazioni sindacali.
Ora, questa ipotesi deve anzitutto scontare l'esistenza di una convergenza sui compiti e poteri che si intenderebbe affidarle, perché, se il tutto dovesse risolversi


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nella mera tenuta di «banche dati» e nella fornitura di consulenza alle parti sociali, non ne varrebbe di certo la pena; essa deve, poi, tener conto dell'esistenza di altre strutture operanti nell'area, a cominciare dalla Commissione di garanzia prevista dalla legge sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Sicché, per una ovvia ragione di economicità, andrebbe anzitutto verificata la possibilità di ampliare le competenze di tale Commissione, sì da estenderle ad ogni regolazione dell'astensione del lavoro, non solo di origine legale ma anche pattizia, se ed in quanto così esplicitamente previsto e convenuto dalle stesse parti sociali; così, come visto, in presenza di clausole di tregua o di cooling period, alla loro inosservanza da parte delle organizzazioni sindacali, con possibili sanzioni collettive consistenti nella perdita dei contributi su delega.
È difficile pensare, tuttavia, che la Commissione di garanzia possa essere trasformata in modo automatico in un'Autorità per le relazioni collettive con competenze relative al funzionamento della contrattazione collettiva, perché questo significherebbe, da un lato, sovraccaricarla e soprattutto snaturarla, e, dall'altro, mescolare fra loro competenze che richiedono gestioni differenziate. Qui, però, si tratterebbe di affrontare un secondo passaggio, evocato nei precedenti paragrafi, cioè quello relativo all'universo di riferimento: se, cioè, riguardante solo il settore dell'impiego privato o anche il settore dell'impiego pubblico privatizzato. Tutto sembrerebbe giocare nel senso di un ambito limitato al settore dell'impiego privato, dato il persistente divario rispetto all'altro; ma non dovrebbe essere scartato a priori un allargamento del tutto coerente, non solo rispetto allo spirito della cosiddetta «privatizzazione», ma anche e soprattutto al bisogno, sempre attuale, di una capacità di governo quanto più omogenea possibile dell'intero universo del lavoro subordinato, a prescindere - nei limiti del possibile - dal carattere privato o pubblico del datore di lavoro. Se quest'ultimo fosse il cammino prescelto, sarebbe possibile alleggerire l'Aran, a vantaggio dell'Autorità per le relazioni collettive, di tutte le competenze che non la riguardino strettamente come agente fornito della rappresentanza legale di tutte le pubbliche amministrazioni assoggettate alla privatizzazione dei loro rapporti di impiego.
Come si vede, quindi, esistono ampi spazi di intervento del legislatore per contribuire - pur nel pieno rispetto delle volontà delle parti - ad un nuovo assetto delle relazioni industriali e del sistema della contrattazione in Italia: è da questi dati, quindi, che appare utile partire per affrontare con determinazione non soltanto l'attuale fase congiunturale dell'economia, ma anche le prospettive future di sviluppo sociale del Paese.

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