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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
1.
Martedì 17 maggio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti del Censis:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 8 9 11 12 13
Cazzola Giuliano (PdL) ... 9 12
Gatti Maria Grazia (PD) ... 8 12
Gnecchi Marialuisa (PD) ... 11
Roma Giuseppe, Direttore del Censis ... 3 11 12
Schirru Amalia (PD) ... 9

Audizione di rappresentanti dell'Eurispes:

Moffa Silvano, Presidente ... 13 15 16
Cazzola Giuliano (PdL) ... 15
Gatti Maria Grazia (PD) ... 15
Fara Gian Maria, Presidente dell'Eurispes ... 13 15

ALLEGATI:
Allegato 1:Documentazione presentata dai rappresentanti del Censis ... 18
Allegato 2: Documentazione presentata dai rappresentanti dell'Eurispes ... 47
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 17 maggio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 13,45.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti del Censis.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione dei rappresentanti del Censis.
Sono presenti il direttore generale, dottor Giuseppe Roma, e il responsabile del settore lavoro e rappresentanza, dottoressa Ester Dini, che ringrazio per la loro presenza.
Avverto che il dottor Roma ha messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 1).
Nel ringraziare ancora una volta i nostri ospiti per la loro presenza, do loro la parola.

GIUSEPPE ROMA, Direttore del Censis. Nel testo che abbiamo consegnato troverete, in primo luogo, uno scenario sulla condizione giovanile, un po' fuori dagli schemi, realizzato anche attraverso elaborazioni di dati ufficiali, delle quali non si occupa nemmeno l'Istat, ma che forse possono essere utili per capire i dati obiettivi. In secondo luogo, troverete alcune proposte di risoluzione di questo problema che conosciamo essere fortemente sentito dall'opinione pubblica e che noi riteniamo una delle più gravi tra le condizioni strutturali che nel nostro Paese costituiscono, sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista dello sviluppo e della ripresa della crescita, un elemento molto serio.
Innanzitutto, come è noto, esiste il problema di un fattore strutturale di carattere demografico che ha già portato, negli ultimi dieci anni, a una riduzione dei giovani compresi fra i 15 e i 34 anni. Questo è un fenomeno europeo: infatti, se noi abbiamo 2 milioni di giovani in meno, in Germania sono 2,4 milioni in meno; l'effetto democratico, quindi, sta portando a considerare la risorsa giovanile come relativamente rara.
Naturalmente questo da noi si accompagna con un forte invecchiamento della popolazione, quindi nelle proiezioni a trent'anni noi avremo fondamentalmente una quota di popolazione fra i 15 e i 34 anni pari al 21 per cento nel 2030, a fronte di una popolazione sopra i 65 anni del 26 per cento. Dunque, abbiamo un difficile ricambio generazionale per questioni demografiche.
È necessario distinguere, in questa fascia di età che abbiamo individuato - tra 15 e 34 anni - due condizioni diverse. Quando parliamo di un tasso di disoccupazione del 27, 28, 29 per cento nella fascia 15-24 anni, si tratta di una fascia relativamente anomala, perché la fascia 15-19 è, ormai, quella dell'obbligo formativo o, comunque, dell'apprendistato, mentre tra 19 e 24 c'è un problema di


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prolungamento del ciclo formativo. Dunque, noi abbiamo definito young-young i giovani tra 15 e 24 anni e middle-young quelli tra 25 e 34 anni.
Cosa fanno gli young-young (15-24 anni) italiani? Al 60 per cento sono ancora nel sistema formativo, mentre la percentuale media europea è del 54 per cento; il 20,5 per cento, invece, sono occupati, ed è la percentuale più bassa in Europa, laddove la media è del 34 per cento (ma in Germania è il 46 per cento e così via). Tuttavia, il fenomeno che voi conoscete meglio - se n'è parlato a lungo e ne abbiamo fatto oggetto di un'altra audizione - è che abbiamo la più elevata quota di popolazione giovanile fino a 24 anni che non fa nulla, cioè non studia né lavora: 11,2 per cento, a fronte di una media europea del 3 per cento.
Pensavamo che si trattasse soltanto di donne poco istruite del sud, invece questa è una condizione trasversale in tutte le circoscrizioni geografiche, quindi attiene alla condizione giovanile. Non è solo una questione di mercato del lavoro.
Nell'altra fascia, naturalmente, le proporzioni si invertono e dopo i 25 anni abbiamo, comunque, una quota di occupati (58,8 per cento) che è sempre la più bassa rispetto a quelle europee, che arrivano al 72,2 per cento. Questo aspetto fa ulteriormente innalzare la quota di soggetti che non lavorano né studiano, che arriva addirittura al 17 per cento.
Rispetto alla condizione di lavoro-non lavoro, credo che sia più utile introdurre una sorta di concetto di persone propense all'attività e persone in una condizione di non attività, anche se mi rendo conto che statisticamente questo ha altri significati. Intendo dire che se, dopo i 25 anni, come avviene in Italia, per il 35 per cento si è fuori da un circuito attivo, perché non si ha interesse né per lo studio né per il lavoro, si cerca un lavoro o si è in formazione (abbiamo ancora un 7 per cento della popolazione che dopo i 25 anni è in formazione), si crea una sorta di bolla che comprende quel 35 per cento di persone che non hanno avuto e non hanno raccordo con il lavoro.
Da qui, secondo me, viene una pericolosa deriva anche di carattere culturale e comportamentale, cioè una sorta di distacco dal lavoro. Si devono considerare anche fattori di tipo culturale e antropologico: credo che sia cambiata la motivazione alla base dell'accesso al mercato del lavoro, nel senso che il concetto stesso di lavoro è stato un po' derubricato a favore di una concezione tutta utilitaristica, secondo la quale il lavoro è un posto più o meno precario o garantito, una forma per ottenere reddito. Si è insomma un po' persa, anche nei confronti delle giovani generazioni - forse di questo le istituzioni e il Parlamento dovrebbero tener conto - un'idea di lavoro che invece le generazioni precedenti hanno avuto, cioè il lavoro come realizzazione del sé, non solo come pura sopravvivenza reddituale.
È chiaro che dobbiamo tener conto di questo intreccio, che comprende un lungo ciclo formativo, opportunità di lavoro di un certo tipo e anche un'antropologia del mondo giovanile che, per varie ragioni - io sono assolutamente favorevole ai giovani e ritengo che non sia mai colpa delle generazioni che vengono se sono formate in maniera errata - è cambiata.
Il secondo tema a cui accenno rapidamente è quello del ruolo molto rilevante che in tutte queste fenomenologie ha il sistema formativo. Ebbene, il nostro sistema formativo è ritardato rispetto a quello europeo e, soprattutto, non consente una maggiore accessibilità del lavoro.
A pagina 12, la tabella 4 della documentazione che abbiamo messo a disposizione della Commissione ci dice che in Italia i tassi di occupazione dei diplomati sono superiori ai tassi di occupazione dei laureati: 70 per cento per i diplomati e 67 per cento per i laureati. In più, vediamo che questi sono i tassi più bassi esistenti in Europa e che fra il 2007 e il 2010 sono molto diminuiti, a causa della crisi o per ragioni strutturali.
Nel 2007 il 71 per cento dei giovani - parliamo sempre della fascia 25-34 anni - laureati aveva un lavoro, adesso siamo scesi al 67 per cento.


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Un ultimo aspetto riguarda l'articolazione del mercato del lavoro in termini settoriali. Ad esempio, nel confronto che abbiamo effettuato con altri Paesi europei risulta evidente che, sia per i giovani di 15-24 anni sia per i giovani di 25-29 anni, l'Italia ha una relativa maggiore presenza di occupati giovani in settori come quello industriale (32 per cento), perché noi siamo un grande Paese industriale, ma pochi giovani (il 20 per cento) lavorano nell'industria (particolarmente elevato è il dato dell'industria manifatturiera, 19 per cento, contro una media del 15 per cento in Europa).
Come si può vedere, ci sono alcuni settori, ad esempio sanità e istruzione, che hanno una minore incidenza del mondo giovanile. Sanità e istruzione sono anche settori di mercato, non si tratta solo di pubblica amministrazione.
Da un lato il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, dall'altro è evidente che il nostro terziario, per l'assenza di dinamiche di produttività, assorbe meno. Già i nostri giovani che lavorano sono molto pochi, ma se guardate il dato relativo alla sanità vedete che abbiamo, fra i 25 e i 39 anni - quindi stiamo parlando di medici, fondamentalmente - un 6,5 per cento di occupati, contro il 12 della Francia e della Germania, il 13 del Regno Unito. Il tema dei laureati che non lavorano è anche dovuto al fatto che la domanda dei laureati è rivolta soprattutto al terziario, quindi se il terziario non si sblocca, non crea valore, non si sviluppa, è evidente che è difficile che si possa avere la domanda di giovani laureati.
Un aspetto che ci è sembrato molto interessante è che, nonostante tutto, abbiamo una buona quota di giovani che coprono posizioni di tecnici e professionisti (22 per cento contro una media europea del 18 per cento), quindi questa dimensione, anche di tipo tecnico-scientifico ma di tipo professionale, evidentemente ha più successo di una tipicamente dipendente (come ad esempio quella nella sanità).
Prima di chiudere con le proposte, cito il tema del precariato. Noi abbiamo identificato grosso modo i numeri, poiché svolgiamo da tempo un'analisi di dettaglio del precariato giovanile. Dalle nostre valutazioni emerge che fino a 35 anni il numero di occupati con contratti flessibili è pari a 1.568.000, quindi leggermente al di sotto di quella stima di 2,5 milioni di qualche tempo fa.
Questo lavoro atipico è costituito - circa il 25 per cento della fascia di età 15-34 anni - da lavoro autonomo, da 1,3 per cento di Cococo e da 19,4 per cento di lavoro dipendente a tempo determinato. Ora, se vediamo un confronto europeo, emerge abbastanza chiaramente che, per esempio, per quanto riguarda il lavoro dipendente a tempo determinato la nostra quota non è superiore a quella degli altri Paesi europei, ma è abbastanza in linea con la stessa. Ad esempio, nella fascia 25-39 anni, noi siamo al 12 per cento, la Germania è al 14, la Francia al 13, e solo il Regno Unito ha una quota molto più bassa perché lì sostanzialmente non esiste il tempo determinato o indeterminato, ma la licenziabilità, quindi il discorso cambia.
Faccio un'ultima considerazione, prima di sottoporvi alcune idee di possibile soluzione. Il mondo imprenditoriale giovanile è interessante. Ancora oggi, nel 2010, nonostante una certa diminuzione, abbiamo 260.000 imprese fondate da giovani italiani sotto i 29 anni, a cui dobbiamo aggiungere altre 51.000 fondate da stranieri. È una quantità non rilevantissima - 300.000 sui 4,5 milioni di imprese - però è una realtà che noi sostanzialmente rimuoviamo, perché il dibattito sul mondo giovanile ruota attorno a precarietà e tempo indeterminato, dunque si occupa solo del lavoro dipendente, mentre secondo me il lavoro autonomo e, per altri versi, anche il lavoro tecnico manuale, di cui in altra sede abbiamo dato conto, sono realtà che esistono e che potrebbero essere ulteriormente sviluppate.
Passo ora alle proposte o idee che tengo a sottoporvi. Naturalmente nel dettaglio troverete cose inedite, ma che il problema dei giovani esista è noto e non sarebbe stato necessario organizzare questa audizione per sancirlo. Personalmente individuo alcune questioni.


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La prima questione è quella del sistema formativo e, al riguardo, la proposta è quella di anticipare i tempi della formazione e metterla in fase con le opportunità di lavoro. Come? Fondamentalmente attraverso alcuni interventi, nessuno dei quali ha un costo. Si tratta solo di intervenire pesantemente sui meccanismi di processo. Abbiamo detto che tra i 15 e i 24 anni solo il 20 per cento lavora e abbiamo parlato del lavoro tecnico svolto da diplomati, dal meccanico al tecnico di computer. Parlo, dunque, di un lavoro di qualità, in una logica di dignità complessiva del lavoro, che a dire il vero un po' abbiamo perso; infatti, si ritiene che il lavoro di meccanico sia socialmente non adeguato ai nostri figli (sebbene questo in parte sia anche vero, nelle condizioni materiali in cui talvolta quel lavoro si svolge).
Comunque sia, bisogna rafforzare il diploma, con tutte le forme di miglioramento qualitativo, il cosiddetto post-diploma, cioè la specializzazione dopo il diploma. Questo funziona, ma non solo, per le professioni tecniche. Noi continuiamo a essere il sesto Paese manifatturiero del mondo, quindi abbiamo un'industria che ancora, grazie a Dio, funziona (solo la Germania, la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti sono avanti a noi). Pertanto, tutto ciò che attiene al diploma deve essere ulteriormente valorizzato. Non mi intendo di riforme, però bisogna intervenire perché un diplomato abbia un accesso diretto al mercato del lavoro e non sia ritenuto anche socialmente di serie B. Sappiamo che ragionieri sono fior di amministratori delegati di banca, ma oggi tutto questo si è svilito.
Inoltre, si tratta di accorciare i tempi della formazione. Abbiamo introdotto la laurea breve che non serve a nulla. Bisogna trasformare la laurea breve come un obiettivo finale del percorso formativo universitario, come in tutti gli altri Paesi. Non abbiamo citato i tassi di laurea, ma vi dico che i tassi di laurea italiani sono più bassi perché l'apporto della laurea a tre anni è nullo. In Germania i diplomati ingegneri sono la maggioranza degli ingegneri, non una minoranza, come da noi. La laurea breve deve essere messa in linea con il resto del percorso.
Tutto questo può apparire scontato, ma voglio fare un'ulteriore proposta. Anche la laurea specialistica, cioè i due anni successivi ai primi tre, deve essere messa in corsa con il resto. Ad esempio, i magistrati per poter fare il concorso devono essere laureati in giurisprudenza e avere uno studio di secondo livello, quindi devono aver frequentato la scuola dei magistrati, oppure aver ottenuto un dottorato, e così via. Se questo è, facciamo come in Francia, laddove si segue un master di primo livello, che è il quarto anno, e dal quarto anno si segue la scuola per magistrati o il tirocinio per avvocati (o per architetti eccetera) che dura un anno e mezzo. Alla fine, non si devono seguire i cinque anni della laurea a cui si devono aggiungere due anni di tirocinio, che invece viene anticipato come in Francia. Credo che questo sia possibile, se lo è in Francia. A quel punto, diventa una laurea europea.
Noi dobbiamo lavorare sulla dimensione universitaria in modo da mettere in fila il percorso formativo con quello universitario. Inoltre, dobbiamo scrollarci di dosso un complesso che abbiamo da quando eravamo poveri e ignoranti, ossia che la formazione è un fatto puramente culturale. In un Paese che negli anni Cinquanta e Sessanta si sviluppava, ma aveva ancora il 20 per cento di analfabeti, le maggiori culture politiche italiane hanno pensato che la scuola comunque dovesse essere una scuola generalista. Oggi ci sono tante forme di distribuzione delle conoscenze, agenzie formative di tutti i generi, dunque possiamo anche dire che la scuola, pur dovendo dare una formazione generalista perché gli specialisti probabilmente non servono a nulla, deve avere come obiettivo prioritario quello di far accedere il giovane alla vita attiva, non dico alla vita lavorativa, cioè dargli tutti gli strumenti per essere attivo.
Ho citato interventi abbastanza concreti, che non costano nulla e che tuttavia potrebbero aiutare ad anticipare il tempo in cui si arriva nel mercato del lavoro.


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Quando nel mercato del lavoro non si trova nulla - come dice mio figlio, il laureato non sa cosa fare - ecco la seconda proposta. Non possiamo pensare che i 2,5 milioni di giovani che oggi non lavorano possano diventare tutti dipendenti. In tal caso, dovremmo avere una previsione di sviluppo del nostro PIL a livelli tedeschi, cioè del 4-5 per cento, e allora si creerebbero tante occasioni di lavoro. Se questo non è, dobbiamo considerare anche altri segmenti di potenziale domanda di lavoro o, comunque, di opportunità di lavoro. Io mi riferisco sostanzialmente al lavoro imprenditoriale, autonomo e professionale.
Ovviamente oggi abbiamo già esempi di giovani che fondano delle aziende, che magari falliscono perché non si danno le giuste opportunità. Oggi stesso (o ieri) è stata pubblicata un'indagine dell'OCSE in cui i giovani italiani, per il 21 per cento, affermano di non mettersi in proprio perché in Italia questo è impossibile, a causa ad esempio della burocrazia. È la percentuale massima in tutti i Paesi OCSE, compresa la Turchia e gli altri Paesi.
Noi dobbiamo dare la sponda certamente al tema lavoro dipendente, ma anche al lavoro autonomo. Propongo da tempo che, poiché queste aziende che nascono e muoiono non fanno base fiscale, in quanto morendo non danno nulla allo Stato, sia allora quest'ultimo a dire che per tre anni non vengono pagate imposte - bisogna verificare dal punto di vista tecnico con Bruxelles, ma è possibile perché avviene già in altri Paesi - da parte delle imprese che sono nate da almeno un anno. In tal modo, evitiamo che, in considerazione dell'incentivo, si crei la falsa impresa giovanile.
Per chi ha già messo in piedi un'azienda, si definisca un provvedimento temporaneo in base al quale quell'azienda per tre anni non deve pagare alcuna imposta. Del resto, comunque, queste aziende sono destinate a non pagarle, ma in più diamo un segnale positivo di incentivo.
Questo potrebbe anche voler dire, ad esempio, usare le risorse del PON ricerca, che sono ingenti, anche al fine di erogare piccoli contributi (300-400 mila euro) che possono servire al giovane per creare la piccola webfarm, il portale sulla scuola, e così via.
Realtà come queste esistono - noi le verifichiamo quotidianamente - in tutte le parti d'Italia: i giovani mettono in piedi piccole imprese e se va bene riescono a vendere alla multinazionale americana, ma tante muoiono.
Bisogna dare al lavoro professionale, imprenditoriale e autonomo degli strumenti per dire ai giovani che il lavoro è possibile trovarlo anche in questo modo.
Infine, cito un ultimo aspetto, forse quello più strutturalmente legato anche alla regolazione del mercato del lavoro. Sostanzialmente io non credo al contratto unico come risolutivo. È una proposta che viene da lontano e tanti illustri esperti, anche recentemente, hanno proposto la forma del contratto unico, che io, lo ripeto, non penso sia assolutamente risolutiva. Il problema dell'assunzione a tempo indeterminato non è legato a una questione regolativa (se dopo tre anni lo conosco lo assumo a tempo indeterminato). Ci possono essere ragioni negative (per esempio, pagare meno, considerare la precarietà vicina alla irregolarità, cioè una forma che io ritengo molto minoritaria), ma nella gran parte dei casi ciò è dovuto a due ragioni: il tappo presente nelle aziende rispetto alle uscite e la forte variabilità del mercato, quindi del fatturato delle imprese.
Se assumo una persona con un contratto a termine, di uno o due anni, questo rientra nell'arco delle previsioni possibili. Assumerla, invece, a tempo indeterminato, con impossibilità di una flessibilità in uscita, è una responsabilità che spesso non posso prendere, perché non so quali possano essere le previsioni.
Avanzo, allora, un'altra proposta, da valutare naturalmente cum grano salis, ma in alternativa al contratto unico, che secondo me non avrà alcun effetto concreto. L'unica flessibilità che funziona è quella mobile, come avviene negli altri Paesi, dove i giovani lavorano sempre, ma non nello stesso posto, perché riescono a cambiare lavoro. I nostri figli all'estero stanno


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benissimo se hanno un lavoro per tre anni, poi per altri tre, e nessuno è impressionato dal fatto di non avere un lavoro a tempo indeterminato. Ora, la mobilità si crea con la ricchezza. Tenete conto che nel decennio 2000-2010 il PIL italiano è cresciuto in termini reali dell'1 per cento, l'occupazione del 15 per cento, quindi la torta è sempre quella. Se si allarga la torta, tutti questi problemi si risolvono da sé, ma se non si allarga dobbiamo contribuire a rendere la flessibilità mobilità, quindi il lavoro dei giovani non più precario, difficile, e così via.
Ora, per far sì che i giovani entrino in azienda con maggiore stabilità bisogna togliere qualche tappo. Se in azienda, ad esempio, c'è personale con professionalità non adeguate, l'azienda può chiedere per queste persone forme simili all'outplacement, cioè una ricollocazione in altri contesti. Può chiedere questo se, a fronte di una persona da accompagnare in altre direzioni (naturalmente non per strada), cercando comunque di rendere meno bloccata la parte oggi protetta, si impegna ad assumere due giovani. Prendetela come una sorta di provocazione, ma intendo dire che uno dei dati fondamentali di tipo regolativo è che deve esserci una maggiore circolarità.
Può darsi che non sia questa la proposta più adeguata, ma la riferisco, ripeto, da ricercatore: quello che io considero importante è che si ricrei una condizione di mobilità, che non può essere data tramite un nuovo contratto, che non risolve il problema dell'imprenditore onesto. Gli imprenditori che vogliono sfruttare i giovani, che usano in maniera impropria i contratti a progetto e via dicendo sono da perseguire a norma di legge, ma tutti gli altri che, invece, devono utilizzare quelle forme di lavoro per la incertezza del loro mercato o anche per la impossibilità a governare complessivamente le proprie risorse di lavoro, devono trovare una forma attraverso la quale, con maggiore circolarità e mobilità, possano inserire dei giovani che magari hanno nuove competenze, voglia di lavoro eccetera.
Scusate se mi sono dilungato.

PRESIDENTE. La ringrazio. La sua relazione è stata estremamente interessante. Tra l'altro, ho colto nelle ultime proposte anche qualche indirizzo che stiamo cercando di inserire all'interno di qualche proposta di legge che si muove in quella direzione.
Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre domande o formulare osservazioni.

MARIA GRAZIA GATTI. Vorrei ringraziare il dottor Roma per l'esposizione e soprattutto per il materiale che ha consegnato, che leggeremo con moltissima attenzione. Mi rendo conto che bisognerebbe approfondire molto di più gli elementi riportati, mentre finora ho dato solo una scorsa velocissima.
Vorrei chiedere al dottor Roma se può commentare la tabella a pagina 13, relativamente all'incidenza, fra gli studenti nell'istruzione secondaria superiore, degli iscritti a istituti di formazione professionale nei principali Paesi europei. Sembrerebbe che in Italia ci fosse una buona percentuale - la più alta - di studenti iscritti alla formazione professionale. In relazione ad alcune sue riflessioni, questo mi sembra leggermente contraddittorio. Chiedo, innanzitutto, se ho letto bene la tabella.
In secondo luogo, vorrei svolgere alcune osservazioni. In relazione alla formazione tecnica e professionale, ho la sensazione che in Italia ci sia stato uno svilimento della scuola tecnica. Nella scuola professionale, in particolare, gli ultimi interventi hanno comportato un taglio delle ore di laboratorio, e questa mi è sempre sembrata la scelta peggiore in queste situazioni.
Per quel che riguarda un elemento che lei richiamava all'inizio, se si parla di giovani che devono adattarsi a fare «lavoretti», è molto difficile ridare entusiasmo anche per il lavoro manuale, tecnico, che tanto ha contato nello sviluppo del nostro Paese.
Infine, con riferimento alle sue ultime osservazioni, che considero molto interessanti, sicuramente lei ha ragione quando afferma che il punto è la crescita. Se


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riattiviamo la crescita, il mercato del lavoro in qualche modo riparte. Tuttavia, sul mercato del lavoro, sul contratto unico, sul quale anche io nutro moltissime perplessità - anzi, secondo me, è un grande esercizio di stile di tipo teorico, che con il mondo reale ha poco a che fare - credo che bisognerebbe riflettere sul mercato del lavoro in relazione all'apparato produttivo che abbiamo. Se, dunque, la maggior parte delle aziende ha meno di quindici dipendenti e ne abbiamo una percentuale molto alta con meno di nove dipendenti, la riflessione che lei faceva sul blocco nelle uscite non funziona. Devo dirlo, perché continuamente viene avanzata questa proposta. Per queste aziende, infatti, l'articolo 18 non si applica e l'uscita è determinata da ragioni produttive. C'è, quindi, la possibilità assoluta per l'impresa di cambiare.
Vorrei approfondire questo punto perché, secondo me, alcune riflessioni che si fanno sul mercato del lavoro ci aiuterebbero molto nell'azione che stiamo provando a portare avanti. Penso che la sua riflessione sull'imprenditoria sia di grande interesse. Tuttavia, per quel che riguarda il circolo virtuoso da restaurare con il lavoro dipendente, mi veniva in mente che noi abbiamo una serie di ingressi al lavoro per cui viene incentivata la prima fase, quella relativa alla formazione, mentre forse bisognerebbe passare all'incentivazione alla stabilizzazione successiva.

AMALIA SCHIRRU. Intervengo per chiederle come si possa trovare una soluzione con riferimento alla fascia di giovani che non studiano e non lavorano. Tra l'altro, il dato che emerge anche dalla vostra relazione mi risulta in controtendenza rispetto a quello che si afferma.
In questi ultimi mesi, svolgendo un'indagine nella mia regione sulla dispersione scolastica negli istituti superiori, abbiamo registrato che la maggiore dispersione si registra nella fascia di età 16-17 anni, che corrispondono agli ultimi due anni della scuola superiore, e soprattutto negli istituti tecnici e professionali.
Ho sempre pensato che questo dato derivi soprattutto dal fatto che la scuola professionale, così come oggi è organizzata, in quanto staccata dal mondo del lavoro e dall'impresa, crea nel giovane una scarsa motivazione a proseguire nello studio fino al quinto anno, senza avere la speranza di rapportarsi al mondo produttivo.
Si registra anche un altro elemento: soprattutto per le professioni tecniche che riguardano anche l'area del sociale, della sanità (infermieri, fisioterapisti), guarda caso il nostro Paese ormai dipende dall'estero. Se la Romania, ad esempio, ci manda tanta professionalità, probabilmente questo è legato anche al fatto che ha un sistema formativo diverso dal nostro, che invece prevede, ormai, anche per queste professioni, il passaggio attraverso le aule universitarie (e addirittura in molti casi c'è il numero chiuso).
Quello che mi interessa maggiormente è capire come costruire un processo tra scuola e lavoro, soprattutto facendo riferimento all'esigenza di rivalutare quel lavoro manuale che sembra oggi fuori dalla considerazione dei nostri giovani, in quanto dietro c'è un percorso culturale e sociale che lo mette ai margini.

PRESIDENTE. Cerchiamo di contenere la durata delle domande perché abbiamo anche altre audizioni.

GIULIANO CAZZOLA. Innanzitutto voglio ringraziare il dottor Roma e la sua collaboratrice per l'apporto di qualità che il Censis ci offre, come ha fatto in altre circostanze e come, in generale, fa con l'attività che svolge rispetto all'interpretazione della società italiana.
Parto da un dato che ho letto nell'ultimo rapporto del CNEL, laddove si afferma che da qui al 2020, vale a dire nel periodo di Europa 2020, in Italia otto milioni di lavoratori usciranno dal mercato del lavoro - per pensionamento o a vario titolo, non per perdita del posto di lavoro - e non sapranno assolutamente compensati dagli andamenti demografici. Lei ha ricordato che il numero dei giovani è dimezzato; oggi abbiamo la metà dei giovani di venti anni or sono.
Peraltro, il rapporto del CNEL dice che noi non saremo in grado di compensare


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questa situazione nemmeno con gli immigrati, anche se il CNEL ritiene che in questo decennio avremo 1,2 milioni di lavoratori stranieri in più.
Con questa prospettiva demografica, lo scenario dell'occupazione, e anche dell'occupazione giovanile, non dico che è destinato a trovare una soluzione, ma dovrà pur misurarsi con questi problemi e con questi scenari.
Inoltre, ho letto in un vostro recente studio, di cui ha parlato anche la stampa, un dato sul quale sarei lieto di ricevere una spiegazione: dal 2005 al 2010 in Italia si sono persi, nel lavoro manuale, 848 mila posti di lavoratori italiani (non si tratta di licenziati, ma di persone che sono uscite dal mercato del lavoro per ragioni loro, sebbene magari possano anche esserci licenziati) e c'è stata una sostituzione di 718 mila lavoratori stranieri. C'è, dunque, un effetto sostitutivo di cui noi dobbiamo tenere conto.
Oggi non è presente nessun collega della Lega e io non voglio fare il loro mestiere. Sono assolutamente convinto che se non avessimo avuto questi 718 mila lavoratori stranieri, probabilmente avremmo avuto difficoltà a far funzionare alcune imprese. Tuttavia, questo è un problema che dobbiamo porci: c'è in Italia una dissociazione tra domanda e offerta di lavoro, soprattutto in attività manifatturiere importanti come quelle che lei ha indicato. Per citare delle cifre, abbiamo l'11 per cento in meno, in questi cinque anni, di lavoratori italiani, e l'84 per cento in più di lavoratori stranieri nel lavoro manuale. È vero che in gran parte si tratta di colf e badanti, ma in un'economia che deve svilupparsi nei servizi, anche i servizi alla persona, ancorché un po' rudimentali come questi, sono importanti.
Abbiamo avuto, nel 2010, lo 0,6 per cento di posti vacanti; forse non ha molto significato, ma si tratta di 60 mila posti. Anche qui vi è una dissociazione dei servizi per l'impiego fra domanda e offerta di lavoro.
È da notare, altresì, a difesa della legislazione sulla flessibilità del lavoro, se noi facciamo un confronto fra i dati dell'occupazione dal 1997 al 2009, troviamo un picco nel 2007, poi un crollo nel 2009, ma non perdiamo tutto quello che abbiamo conquistato dal 1997 al 2007. È bene dirlo. Abbiamo perso 3,5 milioni di posti di lavoro in più dal 1997 al 2007, ne abbiamo persi circa 500 mila. Tuttavia, rispetto al 1997, si registra ancora un dato di crescita.
In primo luogo, cosa pensa il Censis dello schema di decreto legislativo sull'apprendistato e, in generale, di tutto il «can-can» che si fa sull'apprendistato? Io nutro qualche perplessità rispetto alla rivitalizzazione di strade che sono fallite, come quella delle lauree brevi. Mi domandavo, invece, anche in seguito alla lettura recente di un libro di Giuseppe Bertagna su giovani e formazione, se non fosse il caso di ripensare a quella proposta che aveva fatto il Ministro Moratti a suo tempo di trovare dei passaggi tra i diversi tipi di scuola secondaria superiore e se trovare il modo di entrare e uscire tra gli istituti tecnici professionali e il liceo e viceversa non fosse un modo per valorizzare di più gli istituti tecnici professionali.
Peraltro, teniamo conto del fatto che nel 2010 abbiamo avuto 81.000 iscritti in più agli albi professionali. In realtà, oggi il lavoro professionale è un lavoro precario e peraltro abbiamo situazioni, in questo ambito, che probabilmente faticano anche a tenersi, in una prospettiva di allargamento del settore alle professioni europee. Abbiamo dati relativamente ad alcune professioni e dati che si annunciano per altre che dimostrano che anche in questo campo gli sbocchi lavorativi non sono così importanti.
Attualmente abbiamo una disoccupazione intellettuale che non trova - né troverà, se non limitatamente - più sbocco nella pubblica amministrazione e che, peraltro, non riesce nemmeno a presentarsi come offerta di lavoro nel mercato del lavoro privato. In Germania, ad esempio, vi è un'altissima percentuale di lavoratori che svolgono un lavoro manuale che hanno almeno un diploma, circostanza che noi riteniamo non congrua.
Questo è, sostanzialmente, un problema anche di valori che dobbiamo cercare di ripristinare in questa società.


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MARIALUISA GNECCHI. Stupirò il presidente, poiché porrò una domanda vera, prima di fare alcune brevi considerazioni sulle pensioni.
A pagina 3 della relazione si legge che non c'è corrispondenza tra livelli occupazionali dei giovani e flessibilità nell'ingresso del mercato del lavoro. Mi piacerebbe avere una spiegazione ulteriore in merito al discorso della corrispondenza tra livelli occupazionali e flessibilità, per capire qual è la differenza tra i livelli occupazionali.
Nella parte relativa alle proposte, laddove si parla non solo di lavoro dipendente, ma soprattutto di iniziativa imprenditoriale, professionale e autonoma, viene sottolineato il fatto che l'Italia comunque si è caratterizzata normalmente per una presenza significativa nel lavoro autonomo. Quello che noi pensiamo di fare e che abbiamo cercato di portare avanti in questa legislatura, ma ancora non ce l'abbiamo fatta, è riuscire a varare una legge sulle professioni non regolamentate, che è all'attenzione della Commissione attività produttive e, per quanto riguarda la nostra Commissione, sulla previdenza per le professioni non regolamentate.
Dobbiamo considerare che il lavoro autonomo e le partite IVA in generale hanno un carico del 27 per cento solo per il contributo previdenziale, ed è tutto a carico loro, mentre per il lavoro dipendente la quota a carico del lavoratore è l'8,9 per cento, per le collaborazioni coordinate e continuative è di un terzo, mentre due terzi sono a carico del committente. Il fatto che sul lavoro autonomo ci sia un carico previdenziale così forte a carico del soggetto imprenditore costituisce evidentemente un disincentivo significativo.
Nell'analisi del Censis mi sembrerebbe importante, proprio perché il famoso legislatore dovrebbe anche cercare di seguire i suggerimenti, che si valutasse questo diverso carico previdenziale nei diversi lavori, perché questo è chiaramente un disincentivo, dal momento che il carico per il lavoro autonomo è tre volte quello che paga un lavoratore dipendente o comunque un collaboratore a progetto e nel lavoro parasubordinato in generale.
Pertanto, su tutte le professioni non regolamentate o si riesce a fare un lavoro legislativo serio in termini di garanzia, oppure è evidente che per i giovani non è uno sbocco reale, a parte la costrizione all'apertura della partita IVA quando non c'è la possibilità di un lavoro di tipo dipendente. Diventa veramente una seconda scelta, e molto onerosa, solo se si è realmente obbligati.

PRESIDENTE. Do la parola al direttore Roma per la replica.

GIUSEPPE ROMA, Direttore del Censis. Innanzitutto ringrazio i presenti per gli interventi e le domande che mi hanno rivolto. Fa piacere stare in una sede istituzionale con persone che hanno a cuore gli interessi del Paese e che, peraltro, aiutano il relatore. Devo ringraziare, infatti, l'onorevole Schirru per aver risposto all'onorevole Gatti. È chiaro che noi parliamo di iscritti agli istituti professionali, ma questi istituti sono anche quelli in cui c'è la maggiore dispersione, quindi questi iscritti non si tramutano in diplomati.
Sul tema dei tecnici professionali, di cui ha parlato anche l'onorevole Cazzola, penso che questi siano stati il nerbo dell'imprenditorialità italiana. Per la gran parte quei piccoli imprenditori vengono da istituti tecnici professionali. Con questo rispondo anche a tutti i discorsi sul lavoro manuale: diciamolo francamente, se il lavoro manuale è una cosa abbrutente, faticosa, difficile e vale poco, è difficile che un giovane lo prenda come obiettivo della sua vita, ma è diverso se il lavoro manuale è un lavoro in camice o un lavoro agricolo in tuta. Io giro l'Europa e vedo tanti giovani diplomati che lavorano nelle officine meccaniche, fanno gli idraulici e via dicendo.
Secondo me, non basta dire ai giovani di lavorare anche con fatica, perché questo è un messaggio che finisce per essere debole. Dobbiamo intervenire con programmi che non sono legislativi, ma sono anche programmi di accompagnamento.
Voglio dire all'onorevole Gatti che è vero che le piccole e medie imprese sono la maggioranza, ma l'occupazione non si


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distribuisce in funzione di questo (Commenti del deputato Gatti). L'occupazione si trova nella media-grande impresa. Non dobbiamo confondere le piccole imprese con le imprese individuali. Noi diciamo che abbiamo 4,5 milioni di imprese, ma circa un milione e mezzo è fatto di una persona, che non solo non assume nessuno ma non è neanche un'impresa. Il problema, secondo noi, un po' esiste. Ha ragione lei a dire che le piccole imprese si arrangiano, ma sono anche quelle che poi utilizzano regolarmente o irregolarmente anche questi strumenti.
Onorevole Cazzola, sono d'accordo che misure come l'apprendistato aiutano il processo che dicevamo prima, quindi l'inserimento immediato nel lavoro. Terrei, onestamente, a fare una riflessione sull'università che, in queste condizioni, non ci aiuta. Siccome la laurea breve esiste - se non esistesse potremmo farne a meno - io la riconsidererei con attenzione, altrimenti oggi costringiamo a perdere un anno per la laurea breve, un anno per la laurea vera e via dicendo. Questa è un'aberrazione che non ha nulla a che vedere né con la qualità del capitale umano né con la qualità dell'istruzione.
Per quanto riguarda l'intervento dell'onorevole Gnecchi, richiamo la figura 8 di pagina 21, dove abbiamo messo insieme non tutta la flessibilità, ma solo il lavoro a termine e i tassi di occupazione. Sembrerebbe che in Europa la flessibilità non necessariamente aiuta l'incremento dell'occupazione perché ci sono Paesi, ad esempio la Germania, nei quali c'è un'alta incidenza di lavoro temporaneo e un alto tasso di occupazione giovanile, ma anche Paesi come l'Italia nei quali invece c'è un'alta percentuale di lavoro temporaneo (40 per cento) e un tasso di occupazione relativamente basso. In questo senso si invitava a riflettere sulla non immediatezza dell'assunto che la flessibilità in entrata produce più occupazione. Magari produrrebbe più occupazione la flessibilità in uscita, non lo sappiamo.
In merito a quello che diceva l'onorevole Cazzola, da un lato è vero e l'ho detto subito, ma dobbiamo fare attenzione perché noi continuiamo a essere un Paese che ha il 59 per cento di tasso di occupazione. Abbiamo fatto uno studio al 2020, anche noi per la mostra «Stazione Futuro» in occasione dei 150 anni dell'Unità, da cui derivava che se non portiamo nel 2020 il tasso di occupazione al 65 per cento rischiamo di non mantenere i livelli di benessere attuali. Questo significa che, da qui al 2020 dobbiamo creare ulteriori 2,5 milioni di occasioni di lavoro. Se cristallizziamo la situazione a oggi, noi siamo un Paese che, secondo Lisbona nel 2010, secondo Europa 2020 tra dieci anni, dobbiamo raggiungere il 70 per cento, ma siamo ancora al 59 per cento.

GIULIANO CAZZOLA. Sì, però abbiamo un divario, un dualismo economico che non ci consente di fare una media.

GIUSEPPE ROMA, Direttore del Censis. È chiaro che, se entriamo nel merito, è giusto il discorso che si faceva prima, anche a proposito delle tassazioni, della fiscalità e via dicendo, ma io ho voluto concentrare l'attenzione sul tema della Commissione: scuola, università, lavoro, tipologie di lavori. Non facciamoci prendere dagli slogan sulla precarietà, del tipo «stabilizziamo tutti», che finora purtroppo non hanno portato a nulla.

PRESIDENTE. Ha ragione anche sulla laurea breve: il problema non è la laurea breve, ma come la si organizza. Se, infatti, viene collegata ai processi produttivi e si fa in modo che almeno nell'ultima parte possa essere direttamente connessa all'impresa, costituisce uno sbocco immediato. Così, invece, a volte non accade.

MARIA GRAZIA GATTI. Vorrei fare soltanto un'ultima annotazione. Nella presentazione è mancato ogni riferimento - a dire il vero, non ho letto tutto il documento, quindi non so se c'è - al dato, secondo me estremamente preoccupante, del livello occupazionale femminile, che è quello che ci fa sprofondare e che forse avrebbe bisogno di interventi specifici e mirati.

GIUSEPPE ROMA, Direttore del Censis. È vero, ma c'è anche una ragione. Noi


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pensavamo a una specificità, come c'è sempre stata, delle donne e persino del territorio (le donne e il sud). Abbiamo notato, invece (lo dico in punta di piedi perché è un'intuizione) che sembrano esserci dei fattori strutturali, forse di tipo persino culturale - il lavoro manuale, l'università, la laurea breve, i giovani scoraggiati - che fanno pensare che non si tratti più di una questione ad esempio solo di lavoro femminile, ma che si stia creando nel Paese una sorta di bolla che comprende quel 25-30 per cento di persone che finiscono per stare fuori dal tutto.
Noi abbiamo - oggi, nel 2011 - una quantità enorme di giovani venticinquenni (circa il 30 per cento) che hanno solo il titolo di studio della scuola media inferiore. Magari in questo caso si tratta di uomini più che di donne, quindi alla fine i dati si compensano. Per questo il lavoro che è stato svolto insieme alla dottoressa Dini è stato quello di disegnare - forse non ci siamo riusciti totalmente - un quadro completo.
Consiglierei, in definitiva, di guardare i dati con estrema cautela perché, come ho detto, si compensano. È chiaro che il tasso di occupazione femminile è più basso, ma magari oggi abbiamo donne diplomate e laureate che accedono meglio al lavoro rispetto a giovani che hanno frequentato per un periodo un istituto professionale e poi girano sbandati per Napoli.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Roma e i suoi collaboratori e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'Eurispes.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione di rappresentanti dell'Eurispes.
Sono presenti, e li ringrazio, Gian Maria Fara, presidente dell'Eurispes, e il dottor Carlo Romagnoli.
Avverto che è stata messa a disposizione della Commissione una documentazione presentata dai rappresentanti dell'Eurispes, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 2).
Nel ringraziarlo ancora una volta per la presenza, do la parola al dottor Fara, presidente dell'Eurispes.

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'Eurispes. Grazie per l'accoglienza. Ringrazio tutti i membri della Commissione per la pazienza che dimostreranno nell'ascoltarmi.
Noi abbiamo preparato un piccolo documento - tre pagine, ma abbastanza dense - nel quale si riportano una serie di dati e di informazioni che penso possano essere utili. Non vi annoierò, quindi, con l'esposizione del documento, né con disquisizioni più o meno dotte. Vorrei limitarmi ad alcune breve riflessioni che sono integrative del documento e che lo precedono (o lo seguono, come preferite). Abbiamo letto il programma dell'indagine conoscitiva, un documento molto puntuale, che rappresenta in maniera seria ed efficace le problematiche, le difficoltà e gli ostacoli del mondo del lavoro.
Vorrei soffermarmi, in sostanza, su quattro questioni che ritengo decisive se si vogliono affrontare seriamente i temi posti dal lavoro e dalle politiche del lavoro.
La prima questione è di carattere culturale. Questo è un Paese nel quale si è affermata, nel corso degli anni, una cultura del posto e si è, invece, progressivamente indebolita una cultura del lavoro. Tutti i nostri giovani cercano e ambiscono a un posto, molti meno puntano al lavoro. Penso alla differenza, per esempio, tra la mia generazione e le generazioni attuali: noi cercavamo un lavoro perché pensavamo che attraverso il lavoro si potesse anche trovare il posto; oggi i ragazzi escono dall'università e pensano di aver diritto a un posto più che a un lavoro. Naturalmente, il fatto che il numero dei nostri laureati aumenti progressivamente porta con sé, evidentemente, l'aspettativa di trovare il posto e non il lavoro.
Noi siamo diventati, per certi aspetti, anche una fabbrica di titoli di studio. Alla fine accade quello che diceva Carlo V, cioè


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«todos caballeros», ma i cavalli disponibili non ci sono, quindi bisogna adeguarsi. Il problema è che i nostri giovani non hanno la voglia e spesso neanche la capacità di adeguarsi perché preferiscono, magari, restare disoccupati piuttosto che assoggettarsi a lavori o a mansioni che non sono corrispondenti al titolo di studio che hanno, anche faticosamente in alcuni casi, conquistato. Questo è un primo problema di carattere culturale che in qualche maniera va superato: il passaggio dalla cultura del posto alla cultura del lavoro.
L'altra grande questione che ha animato il dibattito nel corso di questi ultimi anni è legata al problema del rapporto tra flessibilità e precarietà. Noi sappiamo perfettamente che il mercato del lavoro, per molti aspetti, presentava una eccessiva rigidità; eravamo tutti consapevoli del fatto che questo mercato dovesse essere reso più flessibile e che, all'interno dello stesso posto di lavoro, vi dovesse essere la possibilità di utilizzare la prestazione d'opera in forme diverse, con modalità diverse, in occasioni diverse. Purtroppo, però, ci siamo trovati di fronte all'affermazione di un grande equivoco. La flessibilità è stata interpretata in chiave di precarietà, dunque flessibile oggi vuol dire precario. Evidentemente sono due concetti completamente diversi: un conto è la flessibilità, un conto è la precarietà.
La precarizzazione del lavoro ha portato con sé i disagi che tutti conosciamo, l'impossibilità per i giovani di costruire o di immaginare un progetto di vita, a contrarre matrimonio e via dicendo, ma ha portato, secondo me, un altro grave risultato. Attraverso la precarizzazione, abbiamo sempre più aziende senza lavoratori e lavoratori senza aziende. È saltato il rapporto che legava il prestatore d'opera all'azienda, nel senso che il lavoratore non si riconosce più nell'azienda, che ha con lui evidentemente un rapporto di carattere fortemente strumentale e spesso occasionale, e l'azienda sa di non poter contare sulla lealtà, sulla fedeltà, sulla partecipazione del dipendente ai processi e ai programmi di crescita.
La terza grande questione, a nostro parere, è legata al tema della eccessiva tutela. L'eccessiva tutela dei lavoratori dipendenti - in realtà, sono fenomeni anche contraddittori - ha portato a un progressivo appiattimento e a una mortificazione del merito. Se all'interno dell'azienda siamo tutti uguali, indipendentemente dalle nostre capacità, dal nostro impegno, dalla nostra volontà, si finisce per mortificare il merito e premiare spesso anche il demerito. Questo è ancora più vero - ho vicino a me un ex grande esponente del mondo sindacale - nel settore della pubblica amministrazione. Io credo che si debba ritornare a valorizzare e ad esaltare il merito. Certamente le tutele devono essere di carattere generale, ma non possono mortificare chi fa di più, chi fa meglio, chi si impegna di più.
L'ultimo tema che vorrei segnalare alla vostra attenzione - ho finito, spero di non avervi annoiato - è quello del costo del lavoro. Il nostro Paese ha un costo del lavoro altissimo, oserei dire insopportabile, al di sopra di ogni media europea. È un costo del lavoro che scoraggia la creazione di nuovi posti di lavoro, che mortifica anche la proiezione delle stesse imprese. Si tratta, peraltro, di un costo del lavoro alto che, tuttavia, non va direttamente a beneficio del lavoratore, in quanto il dipendente deve comunque cercare faticosamente di arrivare a fine mese, pur nella consapevolezza di pesare sull'azienda per cifre abbastanza ragguardevoli.
Penso, per esempio, al nostro settore, quello della ricerca. Un ricercatore bravo troverà in busta 1.300, 1.400, 1.500 euro, sapendo però di costare all'azienda almeno 3.000-3.200 euro. Questo è un onere evidentemente eccessivo. Forse occorrerebbe lavorare in direzione - mi rendo conto che forse è una chimera - di un riequilibrio tra ciò che finisce nelle tasche del lavoratore e ciò che evidentemente va considerato in contributi e oneri sociali. Il problema vero del datore di lavoro è che ha un costo altissimo per singolo addetto e un livello altissimo di scontentezza per singolo addetto. Il dipendente o il collaboratore costa molto ma è scarsamente soddisfatto e spesso mortificato nelle sue aspettative.


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Questi sono i punti che mi sembrano centrali. Per il resto, vi affido la nota di riflessione che è stata distribuita e vi ringrazio per l'attenzione e per la cortesia che avete voluto dimostrare ascoltandomi.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il professor Fara, do la parola ai deputati che intendano porre domande o formulare osservazioni.

MARIA GRAZIA GATTI. Intervengo per ringraziare il professor Fara per la relazione che ha esposto e per la documentazione che ci ha consegnato. Inoltre, vorrei fare insieme a lui una riflessione, prendendo in esame l'ultima parte del documento che ho rapidamente scorso. Mi riferisco alla parte relativa alla precarietà e al rapporto tra flessibilità e precarietà, che ha rappresentato un degrado del mercato del lavoro, in questo momento.
Affrontando la crisi degli ultimi anni, abbiamo avuto una sorta di rappresentazione plastica di quello che lei ci ha riferito allorché ci siamo resi conto, ad esempio, del fatto che i lavoratori temporanei o con contratti atipici erano i primi a scomparire dal mercato del lavoro, a perdere il lavoro, e avevano poche o nulle protezioni.
È chiaro che ogni forza politica ha la sua idea e noi avevamo ipotizzato, proprio per evitare che la flessibilità si trasformasse immediatamente in precarietà, che un'ora di lavoro flessibile dovesse costare di più di un'ora di lavoro a tempo indeterminato. Questo perché il rischio insito di perdere l'occupazione per un lavoratore flessibile è molto più alto che per un lavoratore a tempo indeterminato e per poter permettere anche un'organizzazione minima di un sistema di supporto.
Riflettendo anche sulle questioni che lei ha posto relative al costo del lavoro, alla differenza fra salario netto e quanto invece viene corrisposto, forse andrebbero affrontate anche le questioni relative alla fiscalità generale, agli interventi di questa in termini di protezione e interventi più specifici legati alla tipologia del rapporto di lavoro.
Ringraziandola ancora per le sue osservazioni, mi piacerebbe conoscere il suo parere rispetto all'ipotesi che un'ora di lavoro flessibile costi più di un'ora di lavoro stabile, proprio per le caratteristiche che lei richiamava.

GIULIANO CAZZOLA. Ringrazio il professor Fara per la relazione esauriente e per l'appunto che ci ha lasciato e che leggeremo con più calma.
Secondo lei, professore, le prospettive demografiche che si annunciano non contribuiranno non dico a risolvere, ma in qualche modo a compensare gli attuali squilibri del mercato del lavoro? Ho davanti una tabella relativa alla stima dell'offerta di lavoro nello scenario strutturale per età e area geografica, nel periodo 2010-2020. Lasciando stare il 2020, che è troppo lontano, i dati che mettono a confronto il 2015 e il 2010 dicono che l'offerta di lavoro nella fascia compresa fra 15 e 24 anni calerà del 13,3 per cento, nella fascia tra 25 e 34 anni calerà del 3,3 per cento, mentre aumenterà del 20,7 per cento nella fascia tra 54 e 64 anni. Le chiedo se questi dati non debbano essere presi in considerazione, ovviamente a fronte di una ripresa dell'economia che sia un pochino più sostenuta di quella odierna o, comunque, che non abbia un segno negativo davanti. Non dobbiamo introdurre anche questa variabile nel considerare i problemi dell'occupazione negli anni a venire?

PRESIDENTE. Do la parola al professor Fara per la replica.

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'Eurispes. Per quanto riguarda la prima domanda, sono abbastanza d'accordo sull'ipotesi che un'ora di lavoro flessibile debba essere remunerata diversamente da un'ora di lavoro a tempo determinato o a tempo indeterminato. Spesso le aziende si trovano nella necessità di dover rispondere in maniera rapida alle esigenze e alle richieste del mercato e questo le porta a cooptare la manodopera - chiamiamola così, anche se spesso si tratta di manodopera intellettuale - o i lavoratori dall'esterno. Si tratta di lavoratori, evidentemente,


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che non hanno un posto di lavoro fisso, sono certamente più esposti e andrebbero tutelati meglio.
Tuttavia, se potessi aggiungere qualcosa all'idea, direi che una delle chiavi vere del mondo del lavoro sia il tema dell'accesso allo stesso. Bisognerebbe individuare forme - non penso al vecchio apprendistato, sebbene avesse una sua logica e una sua razionalità - di accesso soft al mondo del lavoro che diano all'azienda la possibilità di investire sul soggetto, sulla sua formazione, di aiutarlo a consolidare una professionalità per poi poterlo utilizzare a livelli più alti nel futuro.
Oggi, purtroppo, l'accesso è uguale per tutti, è generalizzato. Noi siamo un istituto di ricerca e quando arriva da noi il ricercatore che ha già cinque anni di esperienza o il giovane che è uscito dall'università e ancora ha qualche problema a mettere insieme le cose, rivolgiamo loro la stessa offerta. È chiaro che noi preferiamo rivolgerci a un ricercatore già esperto, sacrificando magari anche le vocazioni o le possibilità del giovane ricercatore uscito dall'università e potenzialmente bravissimo, che però non si riesce ad accogliere all'interno dell'azienda perché il suo costo è tale e quale quello del ricercatore più anziano.
Io cercherei - se dipendesse da me, naturalmente, ma non è così - di muovermi nella direzione di rendere più semplice l'accesso in azienda, a un costo evidentemente più basso per l'azienda stessa, sapendo che comunque questa deve investire nella sua formazione.
A noi capita tutti i giorni di portare a casa un giovane ricercatore, per il quale i ricercatori più anziani diventano dei veri e propri formatori, lo assistono, naturalmente sottraendo tempo a quella che possiamo definire, magari impropriamente, la produzione. Mi sembra che questo sia uno degli elementi essenziali.
Onorevole Cazzola, certamente le prospettive demografiche porteranno modifiche all'interno del mondo del lavoro, in termini sia qualitativi sia quantitativi. Questo è fuori di ogni discussione. Immaginare una proiezione anche economica del Paese o del sistema del mondo del lavoro e delle politiche del lavoro senza riferirsi ai cambiamenti demografici è come pretendere di fare il pane senza la farina.
L'onorevole Cazzola segnalava il problema, che ormai sta diventando anche di un certo impegno, delle generazioni meno giovani (non dico anziane perché ormai siamo tutti lì), quelle tra i 45 e i 55 anni. Credo che, in una prospettiva peraltro non lontanissima, lo scenario complessivo del mercato del lavoro sarà fortemente modificato, anche a causa dei fenomeni demografici.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Fara e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,05.

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