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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
3.
Martedì 7 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti dell'ISTAT:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 9
Cazzola Giuliano, Presidente ... 9 10 14 17 18
Bobba Luigi (PD) ... 12
Codurelli Lucia (PD) ... 13
Fedriga Massimiliano (LNP) ... 14
Gatti Maria Grazia (PD) ... 13
Giovannini Enrico, Presidente dell'ISTAT ... 3 15 17
Gnecchi Marialuisa (PD) ... 11
Poli Nedo Lorenzo (UdCpTP) ... 12
Santagata Giulio (PD) ... 9

ALLEGATO: Documentazione presentata dai rappresentanti dell'ISTAT ... 19
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 7 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 10,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'ISTAT.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione dei rappresentanti dell'ISTAT.
Nel ringraziarli ancora una volta per la loro presenza, do la parola al presidente Enrico Giovannini.
Avverto che i nostri ospiti hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Grazie, presidente. Noi abbiamo preparato una relazione con diversi allegati tecnici. Per motivi di tempo, sintetizzerò la mia relazione, omettendone alcuni punti.
In primo luogo, vorrei sottolineare come gli aspetti considerati nell'indagine conoscitiva oggetto della presente audizione siano molto rilevanti, non solo per le prospettive della generazione dei nostri figli, ma anche per le loro ricadute sulla capacità di crescita dell'economia.
Infatti, la disponibilità di manodopera con profili e formazione appropriati rappresenta un elemento essenziale per lo sviluppo del sistema produttivo. Inoltre, la capacità delle imprese di assorbire e contribuire a formare e valorizzare giovani qualificati è un indicatore dell'abilità di un Paese a competere sul terreno dell'economia e della conoscenza, piuttosto che sul costo del lavoro tout court.
Purtroppo, mentre è su questo terreno che si confrontano oggi i nostri partner, l'Italia è da molto tempo in difficoltà, sia per la quantità, sia per la qualità degli sbocchi occupazionali offerti ai giovani. Ciò determina uno spreco notevole di risorse umane e materiali che si è aggravato durante la recente crisi economica.
Noi ci sentiamo particolarmente felici del fatto che l'anno scorso, nel rapporto annuale, abbiamo proprio focalizzato l'attenzione sui giovani. Mi sembra che il Paese da quel momento abbia cominciato davvero a discutere molto seriamente di questi aspetti.
Il nostro Paese presenta strutturalmente tassi di occupazione giovanile inferiore alla media europea e, di riflesso, tassi di occupazione di inattività relativamente elevati. Per la coorte di età compresa tra i 20 e i 29 anni, nel 2000 il tasso di occupazione era del 49,9 per cento in Italia, contro il 58,6 per cento in Spagna, il 63,2 per cento in Francia e nell'insieme dell'area dell'euro e il 70 per cento e oltre in Germania.


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Negli anni successivi lo svantaggio nei tassi di occupazione è stato parzialmente colmato. Tuttavia, occorre notare come il maggior aumento del tasso di occupazione italiano trovi una spiegazione in gran parte di natura demografica: nell'ultimo decennio i residenti tra i 20 e i 29 anni si sono ridotti di 1,5 milioni di unità in Italia e di solo un milione di unità per l'insieme dell'Unione.
Tra gli elementi più vistosi del divario dell'Italia rispetto alle altre economie europee figurano anche i bassi tassi di occupazione femminile. Nonostante i progressi che pure si sono compiuti, il differenziale tra l'Italia e l'Unione monetaria europea per la classe tra i 20 e i 29 anni è, infatti, ancora dell'ordine di dieci punti percentuali per gli uomini e superiore ai quindici punti per le donne, con una differenza di genere nei tassi di occupazione dell'ordine dei 14-15 punti in Italia e dei 6-7 punti nell'area dell'euro.
D'altra parte, la crisi economica ha colpito in maniera drammatica l'occupazione giovanile, portando nel 2010 i tassi di occupazione della coorte tra i 20 e i 29 anni al di sotto del livello del 2000, sia in Italia, sia nel complesso dell'Unione.
Le perdite maggiori in valore assoluto si sono registrate in Spagna, con quasi 1,3 milioni di giovani occupati in meno rispetto al 2007, e in Italia, mentre gli occupati giovani sono rimasti stabili in Francia e sono cresciuti in Germania e nel Regno Unito.
In termini generali, la crisi ha messo in evidenza i nodi di fondo presenti sul mercato del lavoro italiano, dalle forti disparità territoriali alla segmentazione tra italiani e stranieri, all'elevato numero di persone che rinunciano alla ricerca di un'occupazione.
Se nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 530 mila unità, circa il 90 per cento della caduta ha riguardato i giovani fra i 18 e i 29 anni. In termini relativi, la flessione dell'occupazione giovanile è stata di oltre cinque volte più elevata di quella complessiva.
Tra il 2008 e il 2010, pertanto, il tasso di occupazione dei giovani tra i 18 e i 29 anni si è contratto di circa sei punti percentuali, scendendo al 42 per cento.
La riduzione dell'occupazione giovanile è stata più ampia per gli uomini che per le donne, il che ha determinato una leggera convergenza, ma al ribasso, dei tassi di occupazione maschile e femminile.
La riduzione dell'occupazione giovanile è stata particolarmente significativa nella trasformazione industriale, dove, in proporzione, ha toccato soprattutto il Mezzogiorno. La riduzione del terziario, più ampia in assoluto, è stata meno importante in percentuale anche grazie al continuo aumento degli occupati nei servizi alle famiglie e alle persone, che, come sapete, però, presentano un contenuto di qualificazione professionale inferiore, ragion per cui, come abbiamo messo in luce quest'anno nel rapporto annuale, l'occupazione nella fase di ripresa sta crescendo nelle aree a più bassa qualificazione, mentre la perdita è avvenuta soprattutto laddove la qualificazione era più elevata.
Nel caso dei giovani tra i 18 e i 29 anni laureati, che hanno una presenza più consistente nel lavoro temporaneo, i dati longitudinali dell'indagine sulle forze lavoro mostrano una forte diminuzione della permanenza nell'occupazione.
D'altra parte, i laureati presentano una maggiore occupabilità, testimoniata dall'incidenza delle transizioni dalla disoccupazione all'occupazione, del 41 per cento, quasi doppia rispetto ai detentori di licenza media. Da questo punto di vista, una laurea, quindi, fa ancora la differenza.
La caduta dell'occupazione giovanile ha interessato con intensità e tempi differenti le diverse forme contrattuali: se nel 2009 erano stati colpiti dalla crisi soprattutto i giovani lavoratori atipici, nel 2010 sono quelli con contratti standard a mostrare il calo maggiore.
Nel biennio oltre il 70 per cento della caduta complessiva ha riguardato l'occupazione standard. Complessivamente, la quota dei lavoratori con contratti atipici ha raggiunto il 30 per cento del totale dei giovani occupati, mantenendosi oltre il milione di unità.


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Infine, è il caso di sottolineare che, anche in relazione alla precarietà dell'impiego, circa otto giovani su dieci che hanno perso il lavoro nell'ultimo biennio vivevano nella famiglia di origine. Questo, come abbiamo messo in evidenza nel rapporto, spiega il ruolo fondamentale che la famiglia ha svolto come ammortizzatore sociale, mentre la cassa integrazione ha protetto soprattutto il lavoro dei genitori.
I dati longitudinali dell'indagine sulle forze di lavoro, inoltre, mostrano che è andata riducendosi la possibilità di transitare verso condizioni di impiego stabile. Nel contempo, il tasso di disoccupazione calcolato, per ragioni comparative, sulla popolazione tra i 20 e i 29 anni è salito in Italia dal 13,8 per cento del 2007 al 19,4 per cento del 2010, contro un valore del 16,4 per cento per la media dell'area dell'euro nel 2010.
È un dato naturalmente più basso rispetto a quello che normalmente si utilizza in Italia, proprio perché in questo caso, per motivi comparativi, ci siamo fermati ai vent'anni e non siamo scesi più in basso.
L'aumento è stato circa triplo rispetto a quello osservato per il totale della popolazione e tra le grandi economie europee è stato superato solo dalla Spagna; mentre in Francia e nel Regno Unito l'incremento è stato più contenuto, in Germania il tasso è addirittura diminuito, scendendo sotto il 10 per cento.
I giovani tra i 18 e i 29 anni hanno contribuito per oltre un terzo all'aumento della disoccupazione complessiva nel biennio 2009-2010, con un incremento più intenso tra gli uomini e i giovani meno qualificati che si è riflesso anche in un aumento della disoccupazione giovanile di lunga durata. Parallelamente, i giovani inattivi sono cresciuti di 253 mila unità.
La prosecuzione degli studi resta il motivo principale per cui i giovani restano fuori dal mercato del lavoro, ma lo scoraggiamento e l'attesa degli esiti di passate azioni di ricerca riguardano ormai mezzo milione di giovani.
Segnali di disagio provengono, infine, dai giovani esclusi dal circuito di formazione-lavoro. La quota di persone tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione (i cosiddetti NEET) è ancora in aumento ed è significativamente superiore alla media europea.
Nel 2010 i giovani in questa condizione sono circa 2,1 milioni, il 22,1 per cento della popolazione corrispondente, con una crescita del 17,8 per cento rispetto al 2008. L'aumento ha riguardato soprattutto gli uomini e i giovani in possesso di un diploma di scuola superiore ed è stato diffuso sul territorio nazionale.
È da notare che la maggioranza dei NEET mostra interesse nella partecipazione al mercato del lavoro, anche se la quota degli inattivi è più elevata in Italia in confronto alla media europea.
La preoccupazione intorno a queste future generazioni si collega soprattutto al rischio di esclusione sociale conseguente alla persistenza nella condizione di NEET che riguarda oltre la metà di questo gruppo. Nel rapporto annuale di quest'anno, che dovreste aver ricevuto, figura un'analisi dettagliata sulle caratteristiche di queste persone.
Per ciò che concerne l'ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, un'indagine condotta dall'ISTAT nel secondo trimestre del 2009 mostra come tra i giovani tra i 15 e i 34 anni solo il 18 per cento ha dichiarato di aver svolto un programma di studio o di lavoro (stage, tirocinio, apprendistato) durante il percorso di formazione scolastica. Si tratta di circa 2,5 milioni di giovani, per i quattro quinti residenti nel Centro-nord. L'incidenza dei giovani coinvolti in esperienze di lavoro durante il percorso formativo cresce al crescere del titolo di studio degli intervistati ed è andata aumentando nel tempo.
Tra i giovani tra i 15 e i 34 anni che sono fuori dal sistema di istruzione regolare circa tre ogni dieci sperimentano la prima esperienza di lavoro significativa, per almeno tre mesi consecutivi, entro un anno dall'uscita dal sistema di istruzione.
Le differenze territoriali, però, sono molto vistose: l'entrata sul mercato del lavoro entro un anno dalla conclusione


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degli studi riguarda il 15,8 per cento dei giovani meridionali contro il 34,9 per cento dei giovani residenti nel Centro e il 38,7 per cento di quelli residenti nel Nord, con un divario simile per entrambi i generi.
Sotto il profilo delle qualifiche circa il 45 per cento dei laureati trova un impiego di durata superiore ai tre mesi entro un anno dal titolo, mentre l'incidenza scende a circa il 34 per cento per i diplomati e appena al 17 per cento per i giovani con al massimo la licenza media.
La maggior parte dei primi ingressi nel mercato del lavoro avviene attraverso il ricorso a forme tradizionali di comunicazione che sfruttano le conoscenze dirette. Circa il 55 per cento dei giovani trova la prima occupazione attraverso la segnalazione di parenti e amici; infatti, si afferma che in Italia l'interpretazione della società della conoscenza sia la conoscenza di chi e non di che cosa.
La scelta di affidarsi alla rete informale si riduce all'aumentare del livello di istruzione. I canali formali non professionali sono praticati da circa un quarto dei giovani non più in istruzione, con quote del 18,1 per cento per i giovani con al massimo la licenza media e del 31,7 per cento per i laureati.
Il ricorso ai centri per l'impiego e alle agenzie per il lavoro interessa meno del 5 per cento del totale dei giovani, nonostante l'ampliamento del ruolo e dei compiti assegnati a tali istituzioni.
Inoltre, il carente raccordo tra sistema di istruzione e formazione e mondo del lavoro emerge dall'esigua quota dei giovani che trovano il primo lavoro grazie a una precedente esperienza di stage o tirocinio presso un'impresa o attraverso la segnalazione di scuole o università.
La frequenza del passaggio da un'occupazione temporanea a un lavoro a carattere permanente cresce all'ampliarsi della distanza con il periodo della rilevazione, salendo dal 12 per cento dei giovani del triennio compreso tra il secondo trimestre 2007 e il secondo trimestre 2009, fino a poco più del 50 per cento per il 2001-2003.
In media, dunque, occorrono oltre cinque anni perché la probabilità di passare da una prima occupazione precaria a una stabile interessi la metà dei giovani. Inoltre, tra i giovani che avevano iniziato più di recente l'attività lavorativa con un impiego temporaneo una parte consistente ha segnalato una condizione più sfavorevole rispetto a quanto rilevato per le coorti precedenti: infatti, nel biennio 2007-2008, a causa della crisi, il 64 per cento degli occupati a termine era poi scivolato nell'area dell'inoccupazione, ripartendosi in parti pressoché uguali tra disoccupati e inattivi.
Infine, va notato come gli esiti dei percorsi verso il lavoro a tempo indeterminato siano fortemente influenzati da variabili di contesto, come l'area di residenza. Nel Nord la quota dei giovani entrata nel mercato del lavoro con un impiego temporaneo e successivamente passata a un'occupazione a tempo indeterminato è doppia rispetto al Mezzogiorno.
Vediamo ora l'offerta di competenze e i fabbisogni del sistema economico. Analizzando la condizione professionale prevalente nel 2007, l'ultimo anno di riferimento per le nostre indagini, essendo quelle per il 2010 ancora in corso, dei 415 mila giovani diplomati nel 2004 circa il 30 per cento era impegnato esclusivamente negli studi universitari e poco più di un terzo risultava attivo.
In particolare, parliamo dei diplomati. Vi ricordo che il 52,6 per cento era occupato e il 14,8 per cento in cerca di un'occupazione. La quota dei disoccupati sul totale di diplomati che si sono dichiarati attivi nel mercato del lavoro era pari al 22 per cento, con rilevanti differenze di genere che si accentuano ulteriormente nell'analisi territoriale. Infatti, i diplomati in cerca di occupazione ammontavano al 9,4 per cento tra i diplomati maschi del Nord e raggiungevano il 42,4 per cento tra le diplomate femmine del Mezzogiorno.
Il tipo di scuola frequentata è uno dei fattori che influenzano maggiormente l'inserimento lavorativo dei giovani diplomati. La quota di occupati è del 75,5 per cento tra


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chi ha studiato in un istituto professionale e del 62,7 per cento tra chi proviene da un istituto tecnico. Tra i liceali, invece, solo il 26,8 per cento è impegnato in un'attività lavorativa retribuita e ben il 58,9 per cento è impegnato in maniera esclusiva con l'università.
Le giovani diplomate presentano un tasso di attività di circa dieci punti inferiore rispetto ai ragazzi. Nel 2007, dopo tre anni dal diploma, circa l'80 per cento dei diplomati inseriti professionalmente aveva un'occupazione continuativa, anche se a termine. Nei quattro quinti dei casi si trattava di un lavoro alle dipendenze, nel 10 per cento di un lavoro autonomo e nel restante 10 per cento di un lavoro a progetto.
La quota di chi aveva un lavoro occasionale, il 20 per cento in media, è del 44,1 per cento tra gli studenti e i lavoratori e dell'11,2 per cento tra i lavoratori puri. Il differenziale territoriale è di alcuni punti a svantaggio del Mezzogiorno.
Non sempre il lavoro trovato dai giovani diplomati è adeguato al percorso scolastico effettuato. Una completa coerenza tra lavoro svolto e livello di istruzione conseguito viene dichiarata da quasi il 45 per cento dei ragazzi, mentre il 30 per cento dichiara di utilizzare nel proprio lavoro la formazione ricevuta, nonostante il titolo non abbia costituito requisito di accesso. Infine, il 15 per cento di diplomati dichiara di essere inquadrato in una posizione per cui non è stato richiesto il diploma e un altro 7,7 per cento, pur avendo ottenuto il lavoro in quanto diplomato, non utilizza le competenze acquisite. Vi è, quindi, un'utilizzazione del capitale umano formato relativamente basso.
Nell'ambito delle analisi sulla corrispondenza tra competenze individuali e fabbisogni delle imprese riveste particolare importanza il confronto tra l'offerta e la domanda dei diplomati in ambito tecnico e professionale. I dati disponibili mostrano un mismatch di natura qualitativa tra offerta e domanda di lavoro.
In molti casi, infatti, l'offerta di diplomati tecnici sul mercato del lavoro non sarebbe adeguata ai reali fabbisogni manifestati dal mondo produttivo. In base alle informazioni relative ai bisogni occupazionali delle imprese, dell'industria e dei servizi per il 2010, a fronte di una domanda di lavoro complessiva pari a circa 550 mila unità, il 35,8 per cento riguarda i diplomati in discipline tecnico-professionali, il 31,9 per cento soggetti che hanno completato al massimo la scuola dell'obbligo, l'11,7 per cento quelli che hanno frequentato un corso di istruzione e formazione professionale, il 12,5 per cento i laureati e l'8,1 per cento gli altri diplomi secondari superiori.
Mentre dall'esame della domanda di lavoro emerge un evidente interesse per il segmento dell'offerta proveniente da percorsi formativi di natura tecnico-professionale, i dati disponibili sui diplomati tecnici delle scuole italiane mostrano un andamento declinante. Ciò ha creato un divario rispetto alla domanda potenziale, che negli ultimi anni è oscillata da un minimo di circa 24 mila unità nel 2005 a un massimo di oltre 127 mila diplomati tecnici nel 2007, anno che, ve lo ricordo, era quello di espansione massima prima della crisi economica.
I dati più recenti, il che è alquanto interessante, indicano che per il 60,9 per cento delle assunzioni dei diplomati tecnici programmate per il 2010 le imprese intendevano rivolgersi a lavoratori che avessero già maturato un'esperienza specifica. Vi è, quindi, un cane che si morde la coda.
Inoltre, nell'opinione delle imprese intervistate, poco meno del 75 per cento dei diplomati tecnici reclutati avrebbe dovuto comunque essere sottoposto dopo l'assunzione a un ulteriore periodo di formazione per allineare le competenze possedute dal lavoratore alle effettive esigenze delle imprese.
Infine, per ciò che concerne l'inserimento dei giovani laureati e dei giovani dottori di ricerca, vorrei citare alcuni dati, visto il poco tempo residuo, e rinviare alla relazione per gli altri.
Nel 2007, a circa tre anni dal conseguimento del titolo, i laureati in corsi di durata da quattro a sei anni e i laureati nei


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corsi di durata triennale svolgono un'attività lavorativa nel 73,2 per cento dei casi. In poco più del 40 per cento dei casi, essa consiste in un lavoro alle dipendenze a tempo determinato, ma l'attività di chi ha iniziato un lavoro dopo il titolo ha natura continuativa in oltre il 90 per cento dei casi.
Naturalmente, esistono differenze tra i diversi settori. Considerando congiuntamente le diverse tipologie di titolo, si osserva come i laureati con indirizzo di tipo tecnico abbiano possibilità molto maggiori di essere occupati in modo continuativo e con contratti a tempo indeterminato rispetto ai laureati in discipline umanistiche, politico-sociali o di educazione fisica.
Il lavoro che si riesce a ottenere con un titolo di studio elevato, però, non sempre corrisponde a un percorso formativo intrapreso. La coerenza tra il titolo posseduto e quello richiesto per lavorare è più elevata tra i laureati in corsi lunghi piuttosto che tra coloro che hanno concluso corsi di durata triennale. D'altra parte, valutano la formazione universitaria ricevuta effettivamente necessaria all'attività lavorativa svolta circa il 69 per cento dei laureati.
Il grado di coerenza tra formazione ricevuta e lavoro svolto varia, naturalmente, in relazione ai diversi indirizzi di studio e alla durata dei corsi. Una completa coerenza tra titolo posseduto e lavoro svolto è dichiarata solo dal 58,1 per cento dei laureati nei corsi lunghi e dal 56,1 per cento dei laureati triennali. All'opposto, affermano di essere inquadrati in posizioni che non richiedono la laurea, né sotto il profilo formale, né sotto quello sostanziale, il 20 per cento dei laureati in corsi lunghi e il 21,4 per cento di quelli triennali.
La situazione cambia radicalmente in meglio per l'inserimento dei dottori di ricerca. Infatti, tra l'anno accademico 2000-2001 e l'anno accademico 2007-2008, gli iscritti ai corsi di dottorato sono cresciuti dell'81 per cento e i laureati che nel 2007 hanno acquisito il titolo di dottore di ricerca sono più del doppio di quelli che lo avevano conseguito nel 2000.
Su circa 19 mila laureati che hanno conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2006 e nel 2004, intervistati gli uni a tre anni e gli altri a cinque anni dal conseguimento, emerge un tasso di occupazione rispettivamente pari al 92,8 e al 94,2 per cento. Risultava in cerca di occupazione il 4,4 per cento della coorte del 2004 e il 5,4 per cento di quella del 2008. Si tratta di tassi di occupazione di quasi quindici punti percentuali superiori rispetto a quelli dei laureati.
I tassi di occupazione variano, sia pure in misura minore, con gli ambiti disciplinari e spaziano da oltre il 97 per cento di ingegneria industriale e dell'informazione a un livello inferiore al 90 per cento nei corsi afferenti alle scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche, alle scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, alle scienze politico- sociali.
Il matching tra titolo e tipologia di attività è piuttosto consistente. Per entrambe le leve una quota del 48 per cento svolge effettivamente attività di ricerca e sviluppo in maniera prevalente e il 27 per cento in modo non prevalente, mentre solo un quarto circa non svolge attività connesse alla ricerca e sviluppo. Ciò vale soprattutto per i laureati in discipline umanistiche o pratiche, come la veterinaria e l'ingegneria.
Infine, concludo con alcuni dati sulla formazione. In base alle informazioni disponibili pubblicate dall'Eurostat a partire dall'indagine sulle forze di lavoro, la quota di giovani tra i 15 e i 24 anni che nel 2009 ha dichiarato di svolgere, nelle quattro settimane precedenti l'intervista, un'attività di studio e di formazione è in Italia del 62,8 per cento, molto vicina a quella dei Paesi europei, con il 63 per cento. I risultati riferiti all'insieme della popolazione scontano, però, la forte presenza di questi giovani tra gli inattivi.
La situazione si presenta, invece, estremamente differenziata con riguardo ai giovani attivi. In particolare, si segnala la


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bassa incidenza rilevata in Italia per i giovani tra i 15 e i 24 anni occupati o in cerca di lavoro che contestualmente partecipano a un corso di studio o di formazione professionale.
Peraltro, nel corso della fase ciclica negativa, il numero dei lavoratori coinvolti nei corsi di formazione professionale organizzati dalle aziende italiane è sceso bruscamente. Per gli occupati tra i 15 e i 64 anni si è passati da 491 mila unità del 2008 a 380 mila nel 2009, per quelli tra i 15 e i 34 anni da 114 mila a 79 mila unità.
Infine, chiudo segnalando come un'indagine riferita all'anno 2005, essendo quella riferita al 2010 in corso, segnala come siano le imprese, quelle piccole in particolare, a investire molto poco in formazione. Infatti, le imprese con più di dieci addetti che nel 2005 avevano svolto attività formativa sono solo il 32 per cento del totale, contro il 60 per cento della media europea.
Poiché la quota di imprese formatrici varia sensibilmente in relazione alla dimensione del settore di attività e visto che in Italia abbiamo molte piccole imprese e siamo attivi in settori a relativamente più bassa formazione, è evidente che la presenza di molte piccole imprese e il modello di specializzazione produttiva tipico dell'economia italiana spiegano gran parte del differenziale rilevato con la media europea, che presenta, quindi, caratteristiche di natura strutturale.
L'ultima parola, presidente, se mi è consentito, riguarda gli enti di ricerca. Io presiedo uno degli enti di ricerca e devo rilevare che, da questo punto di vista, la manovra che è stata varata l'anno scorso ha colpito fortemente la possibilità di reclutare nuovi ricercatori, perché, mentre fino a quest'anno, cioè fino al 2010, potevamo utilizzare il 100 per cento del turnover dovuto all'uscita di lavoratori per nuove assunzioni, ora, a partire dal 2011, possiamo sfruttare solo il 20 per cento.
L'aspetto particolarmente negativo è che accanto a questo blocco si è verificato il taglio del 50 per cento delle spese di formazione del personale già esistente, ragion per cui non possiamo reclutare persone nuove, né formare quelle che abbiamo. Il rischio è, evidentemente, un depauperamento della qualità della ricerca degli enti di ricerca in un momento in cui Parlamento e Governo hanno, invece, scelto di accrescere le spese in ricerca e sviluppo nel Piano nazionale di riforma.
Spero, quindi, che, in occasione delle prossime manovre finanziarie, essendo stato sollecitato il Governo da parte dei presidenti degli enti di ricerca, possa essere, da un lato, rimosso il blocco alla formazione, e, dall'altro, aumentato, almeno come per l'università, al 50 per cento il blocco del turnover, se non riportato al livello precedente. Vi ringrazio molto.

PRESIDENTE. Grazie a lei, presidente, per il contributo prezioso che sta fornendo e che ha fornito alla nostra indagine conoscitiva.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIULIANO CAZZOLA

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIULIO SANTAGATA. Ringrazio innanzitutto il dottor Giovannini e l'ISTAT per questa puntuale e vasta analisi della documentazione, che cercheremo di studiare. Mi limito a una domanda e a un'osservazione.
La domanda è tesa a vedere se ho capito bene: il dottor Giovannini affermava, se ho capito bene, che la coorte dei giovani occupabili in Italia è demograficamente calata di 1,5 milioni, mentre nel resto dell'Europa è calata complessivamente di un milione.
Io sono sufficientemente vecchio per ricordarmi il problema dell'occupazione giovanile affrontato da questo Paese quando arrivò l'ondata del baby boom post-bellico.
Se non ci fosse stato il calo demografico dei nostri giovani, saremmo a parlare di dati che sono altro che una Caporetto.


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Sarebbero un disastro assoluto, perché noi riusciamo ad avere tassi di disoccupazione di questo livello di fronte a un calo demografico tanto consistente. Oggettivamente, quindi, rispetto a una tendenza media europea la nostra capacità di costruire posti di lavoro per i nostri giovani può essere definita nulla, a questo punto.
La seconda questione riguarda, più in generale, il mercato del lavoro, non solo i giovani, ma in particolare i giovani.
Noi stiamo uscendo dalla crisi - io prendo i vostri dati dell'ultimo comunicato del 31 maggio - e voi segnalate un calo degli occupati, un quasi analogo calo dei disoccupati e un conseguente aumento molto significativo degli inattivi.
Mi sembra che soprattutto sul versante dell'occupazione giovanile ciò stia avvenendo. Ormai una quantità di italiani ha accantonato la speranza di trovare un posto di lavoro e non lo cerca più; questa mi sembra sia la situazione. Corriamo il rischio, quindi, di avere perennemente e strutturalmente fuori dal circuito del lavoro una quota significativa di risorse umane nel nostro Paese.
Mi chiedevo se voi siate in grado di avere anche alcuni dati qualitativi su questo fenomeno: è un fenomeno generalizzato su tutta l'area del Paese, un fenomeno fortemente meridionale, come in parte appare? Mi interesserebbe capire soprattutto se lo ritenete un fenomeno che crea un buco non più sanabile o, invece, una questione temporanea che un'eventuale ripresa potrebbe colmare.
In altri termini, e forse più puntualmente, una ripresa economica che non possa contare su nuove forze di lavoro mi sembra quanto meno complicata. Tra i diversi cani che si mordono la coda che erano presenti nella relazione del presidente forse anche questo rischia di diventare uno di essi: non si presenta più sul mercato del lavoro una quantità significativa di persone e forse ci dovremmo adattare a una crescita inferiore con un mercato del lavoro stagnante.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Santagata. Pongo alcune domande anch'io, avendo chiesto al presidente di intervenire prima che mi chiedesse di sostituirlo.
Innanzitutto, ringrazio il dottor Giovannini per il materiale che ci ha fornito, per la relazione che ha svolto, per il contributo che l'ISTAT dà anche con il recente rapporto presentato.
Vorrei capire anch'io, però, perché nella sua relazione, da un esame veloce che ho svolto su dati e tavole statistiche, sia completamente assente la componente di lavoro straniero, che, a mio avviso, ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nel determinare la tenuta del mercato del lavoro nel nostro Paese. Non sono stato attento e chiedo scusa, però mi pare che comunque non abbia avuto la rilevanza che, secondo me, meritava.
Probabilmente la componente di lavoro straniero si deve incrociare con la disoccupazione dell'Italia, se è vero, e cito in merito un rapporto del CNEL, che la nuova occupazione si sta sempre più qualificando come straniera e la nuova disoccupazione come italiana.
Il CENSIS è venuto a riferirci, nell'audizione che abbiamo svolto, che negli ultimi cinque anni sono stati circa 850 mila i posti di lavoro manuale persi dagli italiani, soprattutto per pensionamento, che sono stati parzialmente sostituti da 718 mila lavoratori stranieri.
Credo che la componente di domanda e offerta di lavoro che non si incontrano sul piano qualitativo, anche se questa è una caratteristica un po' di tutti i Paesi europei, in Italia abbia un andamento piuttosto marcato. Questa è la considerazione che volevo svolgere.
Passo ora ad altre domande. La prima domanda va nella direzione indicata dall'onorevole Santagata, ma la considero nel futuro. Noi abbiamo uno scenario demografico drammatico davanti a noi. Cito sempre l'ultimo rapporto del CNEL sull'occupazione, laddove si afferma che usciranno dal mercato del lavoro mediamente poco meno di 800 mila lavoratori l'anno per pensionamento. Si parla addirittura di 8 milioni da oggi al 2020.
Abbiamo già un andamento squilibrato per quanto riguarda l'aspetto demografico; se


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abbiamo scenari di questo tipo, che non vengono compensati assolutamente sul piano naturale, perché non abbiamo sufficienti nati per colmare i buchi di coloro che escono né sufficienti immigrati, anche immaginando, come giustamente fa il Governo, un incremento dell'immigrazione, nei prossimi anni, soprattutto se ci sarà una ripresa, in particolare in alcune zone del Paese, credo che faremo fatica a trovare un'offerta di lavoro che soddisfi la domanda, al di là degli squilibri qualitativi esistenti.
Anche se mi rendo conto che stiamo attraversando una lunga fase di transizione e non posso comunicare ai giovani disoccupati di oggi che nel 2020 troveranno lavoro, indubbiamente è desumibile un'inversione di tendenza dovuta essenzialmente a un divario demografico che fino adesso ha realizzato gli effetti correttivi di un andamento più grave, quello cui faceva riferimento l'onorevole Santagata.
Noi, però, abbiamo davanti un futuro nel quale dobbiamo immaginare che faremo fatica ad avere un'offerta, soprattutto in alcune zone del Paese, che soddisfi la domanda.
Inoltre, a mio avviso dobbiamo smettere di calcolare medie nazionali, perché non sono rappresentative della realtà. Io ho visto i dati della mia città, Bologna, in cui si registra, in piena crisi, un tasso di occupazione maschile di oltre il 75 per cento. Diventa veramente difficile continuare a ragionare di media nazionale quando abbiamo a che fare con realtà economiche sociali assolutamente diverse, che richiedono anche politiche diverse.
D'altro canto, nella sua relazione i dati del Mezzogiorno sono stati evidenziati e credo che questo sia un elemento di policy che va tenuto in considerazione.
L'ultima domanda che volevo porre riguarda la Banca d'Italia. Nella relazione di un recente convegno ho trovato un'affermazione che mi ha colpito, laddove si dice, che, per quanto riguarda l'occupazione delle donne adulte, in Italia l'andamento è molto simile a quello degli altri Paesi europei.
La differenza in Italia è data dalla scarsa diffusione del part time, nel senso che, dove noi abbiamo alti tassi di occupazione femminile, abbiamo anche alti tassi di diffusione del part time. Credo sia una questione che non possiamo nasconderci, visto che spesso si rappresenta il part time come un elemento negativo, quando in realtà in altri Paesi molto più ricchi e sviluppati di noi per quanto riguarda l'occupazione, il part time è una risorsa soprattutto per l'occupazione femminile.

MARIALUISA GNECCHI. Anch'io ringrazio molto l'ISTAT, in particolare il presidente Giovannini, per questa relazione.
Mi verrebbe da porre una domanda facile da esprimere, ma che penso sia difficile in termini di risposta: se la situazione dei giovani è così drammatica, come viene evidenziato dalla sua relazione, e quindi per noi la sofferenza è elevata, l'aver procrastinato di un anno la decorrenza delle pensioni, avendo bloccato tutti, sia nel pubblico, sia nel privato, di dodici mesi e di diciotto mesi i lavoratori autonomi e coloro che hanno utilizzato la totalizzazione o i parasubordinati, con situazioni di questo tipo, crea una situazione di maggiore difficoltà oppure no? Gliela pongo in termini di domanda, ovviamente.
Mi allineo a quanto affermato dal collega Santagata e sottolineo anche le considerazioni del collega Cazzola: se noi siamo preoccupati, e queste preoccupazioni vengono confermate dall'ISTAT, che non si trovi forza lavoro sufficiente per sostituire tutti coloro che lasceranno il lavoro nei prossimi anni - oltre al fatto che sarebbe giusto riuscire a elaborare una programmazione molto più lunga - è legittimo ipotizzare che permettere agli attuali giovani di avere un lavoro, magari un lavoro con contratto a tempo indeterminato o comunque un lavoro che dia garanzie, aumenterebbe anche la natalità.
Il problema è che noi ci stiamo veramente avvitando in una situazione per la quale e nella quale pretendiamo che gli anziani


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rimangano al lavoro per far risparmiare le casse previdenziali, nello stesso tempo non entra nuova gente e i giovani non trovano lavoro, non potendo così fare figli. La situazione diventa veramente drammatica, in particolare per quella fascia di giovani di cui si parla e di cui lei ha trattato nella relazione.
Mi sembrerebbe veramente importante riuscire a quantificare il danno, dal mio punto di vista - probabilmente altri si esprimerebbero in termini di vantaggio - di aver bloccato tutto per dodici o diciotto mesi con la manovra di luglio del 2010.
Inoltre, sul discorso dell'occupazione femminile, dal momento che abbiamo un tasso di occupazione talmente basso, speriamo almeno che, quando non si troveranno più lavoratori maschi, si pensi a un incremento dell'occupazione femminile. Questa potrebbe essere una speranza.
Anche, da questo punto di vista, l'aver pensato ai 65 anni nel pubblico impiego è un'altra situazione significativa ai danni delle donne, ragion per cui bisognerebbe capire come creare posti di lavoro favorendo il turnover.
Questa è la mia domanda: mi piacerebbe che si riuscisse a svolgere un lavoro di indagine proprio su quanto l'aver spostato di un anno o di un anno e mezzo le decorrenze delle pensioni abbia inciso sulla situazione di oggettiva difficoltà - per non dire di sofferenza - dei giovani.

LUIGI BOBBA. Anch'io ringrazio per il quadro accurato e insieme desolante. Svolgo solo tre brevissimi approfondimenti.
Ne traggo due da una recente affermazione dell'onorevole Letta, quando in un seminario ha affermato che il tasso di persone diplomate o laureate, su cui c'è stato un forte investimento di capitale umano da parte del Paese, in Italia è di cinque volte superiore rispetto a coloro che vanno a lavorare all'estero e di cinque volte superiore rispetto a ciò che accade negli altri grandi Paesi con cui ci confrontiamo, ossia Francia, Germania e Inghilterra.
Non so se ci sia un approfondimento su questo tema, perché anche questo fatto produce un oggettivo impoverimento dei talenti del Paese.
Il secondo approfondimento è un altro dato che ricavo dal citato seminario con Enrico Letta. Lei ha parlato di un dato di stock e ha riferito che il 30 per cento dei giovani di tale coorte ha contratti di lavoro atipici.
Sempre Letta ha affermato che l'anno scorso, secondo dati INPS, dati in questo caso di flusso, il 90 per cento di coloro che si sono inseriti nel mondo del lavoro lo scorso anno avrebbe contratti di natura atipica.
Ricavo, invece, l'ultimo punto da una recente esperienza nel mio territorio. Il mismatch, che lei ha indicato in modo particolarmente forte nell'area dell'istruzione tecnica, nel vercellese, da dove io provengo, sarebbe più marcato, invece, nell'area professionale, ossia in quel tipo di mestieri che richiedono qualità e capacità professionali che oggi non si trovano nel sistema di formazione professionale regionale.
La domanda è se tale mismatch sia differenziato a seconda dei territori e se il dato generale che lei ha citato vada poi articolato a seconda delle realtà territoriali.

NEDO LORENZO POLI. Volevo sollevare solo una questione per capire meglio. Sono arrivato alla fine della sua relazione; non ho potuto esaminarla con attenzione, però ho sentito citare alcune date, come il 2007: i dati che lei ha citato si riferiscono solo a quel passaggio? Gli altri sono 2010 e 2011, quindi piuttosto aggiornati
In riferimento al 2007 e al 2011, però, le situazioni non confrontabili. Volevo capire questo punto.
Il problema che si dovrebbe capire, come ha affermato prima il presidente Cazzola, è che la maggior parte dei lavori che nessuno vuol svolgere cominciano a essere tanti. Esistono attività per cui c'è richiesta e che nessuno vuol compiere.
Occorrerebbe uno studio anche per capire meglio quali sono le posizioni richieste,


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che cominciano a essere tante. Partiamo da tutti i lavori che riguardano l'ambiente, l'edilizia, le cartiere, tutti lavori poco amati e faticosi.
In questo caso, per capire perché ci sono tante persone che non cercano lavoro, a parte i problemi della formazione di cui ha parlato lei e tutto ciò su cui siamo d'accordo - purtroppo su uno Stato che non investe nella formazione e nella ricerca credo che ci sia poco da dire - occorre uno studio.
Occorre uno studio per vedere perché tanti tipi di attività non vengono svolti e si preferisce a volte rimanere iscritti nelle liste di disoccupazione. Occorre capire se tali persone sono 100, 200, 300 o 800 mila, perché chi vive sul territorio, come noi parlamentari, sa che, se a una persona che cerca lavoro si prospetta che debba lavorare anche il sabato e la domenica, si ottiene una risposta perplessa.
Occorre capire questi elementi, che poi servono anche per dare un indirizzo ai figli su ciò che devono studiare. Se un ragazzo finisce le medie, invece che fare il geometra o l'ingegnere, forse potrebbe fare l'imbianchino, perché manca l'imbianchino. Forse è bene che qualcuno si dedichi anche alla formazione professionale e scelga altre strade.
Queste informazioni si possono avere? L'ISTAT le verifica? Oppure sono dati che non conosceremo mai? Per sopperire alla mancanza di manodopera ed evitare che le aziende, per difficoltà, vadano a investire in altri Paesi, continueremo a fare affidamento solo sugli immigrati?

MARIA GRAZIA GATTI. Desidero solo ringraziare il presidente Giovannini. I materiali che ci ha portato oggi e soprattutto quelli che abbiamo ricevuto nella casella di posta meritano un approfondimento certamente più lungo di quello che possiamo svolgere adesso, però mi pongo una domanda: vorrei sapere se nei materiali ci sia un dato che mette in relazione la qualità dell'apparato produttivo e la qualità delle modalità di accesso al lavoro.
In particolare, mi chiedo se esista una rappresentazione di tipo statistico degli addensamenti del lavoro atipico, dato che gli accessi sono otto su dieci, come mi sembra di capire, in relazione alla dimensione dell'impresa e se riusciamo ad avere un quadro generale della distribuzione del lavoro atipico fra lavoro pubblico e lavoro privato nella divisione per settori e per dimensioni.
I dati empirici mi indicano, per esempio, che c'è una presenza molto addensata di lavoro atipico nelle piccole e piccolissime imprese. Il lavoro atipico decresce con la crescita dimensionale delle imprese. Vorrei capire se questo dato è vero e se ha una fondatezza, perché, secondo me, questo modifica anche il tipo di intervento che si può ipotizzare. Non è un elemento banale.

LUCIA CODURELLI. Sono arrivata tardi e mi scuso. Leggerò poi con attenzione tutta la documentazione che ci è stata fornita.
È vero che l'analisi si ferma ad un momento precedente allo stravolgimento che è avvenuto nell'ultimo periodo, ma credo che emerga una tendenza, forse da diverso tempo, che ci deve assolutamente aiutare a ragionare.
Si auspicherebbe, come viene affermato più volte, che anche i provvedimenti presi ne tenessero conto, perché in questi periodi abbiamo vissuto momenti di schizofrenia totale fra ciò che è e ciò che si fa, e credo che anche da questi dati ciò emerga con molta forza.
Il vicepresidente Cazzola ha appena citato il discorso del part-time, ma non possiamo dimenticarci che, a seguito dell'approvazione del cosiddetto «collegato lavoro», si sta verificando un pandemonio sui territori, perché si stanno bloccando tutti i part time. Si pone, dunque, un problema di come si regolamenta il tutto.
Rispetto alla professionalità, all'accesso al lavoro e alle giovani generazioni, noi assistiamo ormai a un dilemma: allungamento dell'età lavorativa e disoccupazione totale dei giovani laureati, che è soprattutto l'aspetto su cui lei si è soffermato. Credo che questo sia un problema.


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Ciò che poi cercherò di capire meglio, forse separando le questioni, è il problema di giovani e donne, perché anche fra i giovani esiste una differenza in questo senso. Non so se si troveranno tutti i dati, ma esiste una differenza anche da questo punto di vista.
Da quanto sembra di capire, emerge da questa indagine che il nostro sistema non regge più. Negli anni Ottanta, in cui la manodopera operaia in quel momento era diminuita drasticamente per le ristrutturazioni effettuate, ci fu un aumento dell'istruzione, mentre oggi siamo al punto in cui non sappiamo come impiegare questa istruzione, questo livello di formazione molto alta, che non trova spazio.
È proprio il fatto del nostro cambiamento che non si prefigurava, perché gli anni Ottanta sono stati uno stravolgimento: su 1000-2000-3000 operai la ristrutturazione è avvenuta con un taglio netto.
Oggi accade l'opposto, ma si pone un problema: la formazione e anche il riconoscimento del tipo di lavoro. Credo che il problema più grosso, che non so se sia stato indagato in questo senso, non è tanto la mancanza di lavoro, ma l'idea per cui il lavoro manuale non sembra possedere più un minimo di dignità. Credo che questo sia un problema politico serio che ci dobbiamo porre più in Italia che altrove.
Leggerò con attenzione i dati e poi vedremo come richiedere ulteriori spiegazioni, perché credo che oggi lo spartiacque sia questo.
Si pone il discorso della formazione che non viene svolta contro la richiesta - che, invece, viene avanzata in più occasioni, per difficoltà delle imprese e dell'industria - di togliere lacci in continuazione. C'è un elemento che stride, che ormai è saltato e non si riesce più a mettere assieme i diversi tasselli. Io credo che dai dati emerga questo aspetto.

MASSIMILIANO FEDRIGA. Sarò veloce e porrò due domande.
La questione che risulta interessante, ovviamente, come ricordava l'onorevole Poli, è che su un periodo storico estemporaneo rispetto alla situazione attuale, quello del 2007-2008, si vede dai vostri atti uno scostamento tra i nuovi diplomati tecnici e la domanda degli stessi.
Chiedo a voi, non da un punto di vista statistico, ma rispetto alle rilevazioni che avete compiuto, se il problema si possa configurare in un deficit dell'orientamento della popolazione, in particolar modo giovanile, per indirizzarla meglio nella futura preparazione e professionalità nell'accesso al mondo del lavoro.
In secondo luogo, per quanto riguarda il tasso di inattività nei diversi Paesi dell'Europa, a differenza, per esempio, del tasso di disoccupazione, su cui si vede chiaramente, per quanto riguarda quella giovanile, che il nostro Paese è in difficoltà rispetto agli altri grandi Paesi europei, c'è un peggioramento, dove più e dove meno, ma comunque costante in tutti i Paesi europei.
A che cosa è dovuto questo scostamento, per il quale io presupponevo che con un minor tasso di disoccupazione si prefigurasse una situazione in cui diminuisse anche il tasso di inattività?
Infine, svolgo una considerazione in particolare solo per ricordare, per dovere verso il lavoro che ha svolto questa Commissione, che con le cosiddette finestre mobili, su cui sono stato anch'io critico in alcuni casi, non si è aumentato l'accesso alla pensione di un anno o un anno e mezzo, perché prima con le finestre precedenti non avveniva che il lavoratore andasse in pensione il giorno dopo, appena maturati i requisiti pensionistici.
Passavano da tre a sei mesi d'attesa prima di accedere alla finestra, ragion per cui, lo ripeto, con tutte le criticità che anch'io ho sollevato, non parliamo di aumentare ancora di più i tempi, perché sono già stati dilatati: non aumentiamoli ancora di più del vero.

PRESIDENTE. Mi pare che la Commissione le abbia dato soddisfazione, presidente Giovannini.
Do la parola al presidente Giovannini per la replica.


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ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. In realtà, per soddisfare tutte le richieste credo che dovremmo svolgere un po' di lavoro a casa e poi vi manderemo alcuni dati in più.
Procedo con ordine. La domanda sulla demografia e il tasso di occupazione è una domanda chiave. Io ricordo che il mio primo lavoretto, appena laureato, fu con il CENSIS: mi chiesero le proiezioni al 2000 per capire dove saremmo andati. Io ricordo, quindi, che il tema della demografia e del tasso di occupazione e disoccupazione era già presente nell'analisi del 1980.
Quando mi riferisco, in alcuni casi, come nell'ultimo rapporto annuale, alla difficoltà di questo Paese di guardare avanti nel medio termine e non solo nel brevissimo, mi riferisco esattamente a questi aspetti. È vero che la demografia tenderà ad asciugare il numero di giovani, ma è altrettanto vero che, se li teniamo in panchina per molti anni finché verrà il loro turno, il capitale umano incorporato in queste persone, a meno che non venga rinfrescato continuamente, si perderà. Il fattore tempo, da questo punto di vista, è cruciale.
Non è lo stesso avere un giovane che oggi esce dall'università, da un liceo o da una scuola professionale, pronto per entrare nel mondo del lavoro, e farlo entrare dopo dieci anni. L'investimento in capitale umano, nel secondo caso, non va ricominciato da zero, ma è comunque molto più alto.
In questo senso, credo che il problema sia di medio termine e ci tornerò in corrispondenza delle domande relative.
Sull'andamento congiunturale è vero che ad aprile c'è stato un fenomeno di abbassamento dell'occupazione e un aumento dell'inattività, però ricordo che questi sono dati mensili, sono stime provvisorie. Il dato di aprile fa seguito a un aumento di marzo, che era stato particolarmente forte. Sono dati caratterizzati anche da un'irregolarità piuttosto elevata.
Se andiamo a guardare le medie mobili su tre termini, vediamo che in realtà negli ultimi mesi l'occupazione sta salendo, la disoccupazione sta scendendo e l'inattività si è fondamentalmente fermata, ossia è stabile.
D'altra parte, ciò è coerente con una ripresa del ciclo e in merito mi si consente anche di fornire una risposta a un'altra domanda successiva: è vero che l'occupazione atipica sta ricominciando a crescere, ma ciò avveniva anche prima, nella prima fase della crisi.
In tempo di crisi, quindi, abbiamo visto che diminuiscono gli orari pro capite, aumenta la cassa integrazione e diminuiscono gli atipici, mentre in tempi di ripresa, come in questa fase, aumentano nuovamente gli orari pro capite, diminuisce la cassa integrazione, aumentano gli atipici e solo dopo l'occupazione non atipica si muove, sia in un senso, sia nell'altro.
Si tratta di un elemento ciclico. È vero, però, che ci sono circa 1,5 milioni di persone scoraggiate, che non ricercano attivamente, ma questi scoraggiati sono in un'area che definiamo area grigia dell'occupazione, ossia sarebbero pronti a entrare in campo non appena se ne presentasse l'occasione. È vero che è uno scoraggiamento, ma non strutturale, bensì ciclico.
È vero, però, che l'Italia registra una quota di inattivi scoraggiati molto più alta rispetto agli altri Paesi europei, anche per rispondere all'ultima osservazione che è stata svolta: è vero che lo scoraggiamento aumenta anche in altri Paesi, ma in Italia è cresciuto molto di più rispetto a quanto è avvenuto in Europa.
Per quanto riguarda, invece, le domande dell'onorevole Cazzola, non abbiamo parlato del lavoro straniero in questa sede perché ne abbiamo parlato recentemente in un'altra audizione, ma soprattutto perché ne abbiamo parlato molto nel rapporto annuale. Farò avere alla Commissione questa integrazione.
Qual è la situazione? L'occupazione straniera in termini assoluti è aumentata anche nella fase della crisi e, quindi, l'occupazione italiana è diminuita.
L'occupazione straniera è aumentata, ma è interessante notare che il tasso di


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occupazione è diminuito anche tra gli stranieri e il tasso di disoccupazione è aumentato anche tra gli stranieri. È vero, quindi che numericamente c'è stata una compensazione, ma rispetto alla popolazione per gli stranieri si registrano esattamente le stesse tendenze degli italiani.
In questo senso, la preoccupazione che noi abbiamo segnalato nel rapporto annuale è un problema di qualificazione della forza lavoro straniera. Abbiamo fatto presente che il tasso di abbandono scolastico dei giovani stranieri è di oltre il 40 per cento, mentre quello degli italiani è di circa il 16 per cento.
È vero che gli stranieri si muovono molto di più, ragion per cui c'è una mobilità più forte anche verso altri Paesi, ma l'interruzione della scuola in Italia non significa necessariamente l'interruzione di un percorso formativo.
È evidente che ciò può determinare non solo una segmentazione del mercato del lavoro in cui gran parte degli stranieri finisce per svolgere solo un dato tipo di lavoro, ma in generale si tratta di un problema di qualità della forza lavoro, del capitale umano dei lavoratori stranieri.
In questo senso, nel rapporto annuale, quest'anno abbiamo condotto un'analisi anche delle diverse comunità straniere. Si vede, per esempio, che la crisi non ha colpito la comunità filippina, quella moldava e quella romena, perché in particolare le donne, che svolgono molti servizi alla persona e alla famiglia, sono cresciute, mentre invece ha colpito pesantemente le comunità marocchina e albanese, perché composte soprattutto di maschi operanti nell'industria e nelle costruzioni.
Anche in questo caso, come ricordava il presidente, non solo non possiamo vedere soltanto la media nazionale, ragion per cui noi forniamo tutti i dati anche a livello territoriale, ma tra gli stranieri bisogna distinguere tra le diverse comunità.
Rispetto al tema delle prospettive demografiche, come ho affermato poco fa, l'elemento tempo non è irrilevante. In merito mi sento di segnalare un tema che naturalmente comporta un costo economico non trascurabile: parlo dell'assenza di un forte programma in Italia di servizio civile obbligatorio, che potrebbe essere un sistema certamente costoso, ma meno rispetto al non fare nulla, per tenere impegnata una fascia di popolazione giovanile che altrimenti permane in una condizione di inattività.
Può essere un modo, a costi elevati, ma comunque inferiori rispetto al fattore costo-opportunità, di tenere un capitale umano impegnato e che soprattutto fornisca servizi che mancano alla nostra società.
Questo punto mi consente di far presente un aspetto a proposito dei bassi tassi di occupazione femminile che certamente caratterizzano il nostro Paese e che sono dovuti anche ai bassi tassi di diffusione del part time.
Va sottolineato come dai nostri dati emerga chiaramente che circa il 50 per cento del part time attualmente praticato, dal punto di vista della donna, è involontario, ossia è una soluzione sub ottimale. È una soluzione dovuta a vincoli nell'organizzazione familiare.
Nel rapporto annuale di quest'anno abbiamo molto enfatizzato il carico che grava sulle donne e che è dovuto al lavoro di cura, ma anche legato alla carenza di servizi sociali, in particolare per l'infanzia, soprattutto nel Mezzogiorno, anche se la situazione sta migliorando.
In questo senso, quindi, molto lavoro part time è involontario, al contrario di ciò che si ritrova in altri Paesi europei, dove il part time è una scelta. Non si tratta solo del problema di regolamentazione del part time, ma della capacità complessiva di un Paese di fornire servizi all'infanzia e per le famiglie che possano spingere più donne a entrare nel mercato del lavoro con condizione di part time.
Noi non abbiamo svolto, onorevole Gnecchi, alcuna simulazione sull'impatto del ritardo dell'uscita dal mercato del lavoro. È possibile farlo, anche se l'INPS possiede dati molto più dettagliati dei nostri in merito. Essendo parte del Sistema statistico nazionale, produce molti dati anche su questo tema. Speriamo che con il Rapporto sulla coesione sociale che


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abbiamo realizzato in via sperimentale l'anno scorso e che abbiamo ripetuto quest'anno per la seconda volta questi dati possano essere più dettagliati.

PRESIDENTE. Il rapporto INPS comunque fornirà numerosi dati.

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. La capacità statistica dell'INPS è migliorata notevolmente da questo punto di vista.
Sul tema della precarietà, essa incide in molti casi anche sulla scelta di avere figli. Anni fa l'ISTAT ha stabilizzato diversi ricercatori ed elementi di personale assunto a tempo determinato e il tasso di natalità al suo interno è esploso. Abbiamo, quindi, un'esperienza diretta, ma ognuno di noi conosce persone in queste condizioni.
Io segnalerei un punto culturale su questi aspetti, che poi mi consente anche di tornare su ciò che asserivano l'onorevole Bobba e altri.
Ho l'impressione che in Italia vada perdendosi l'idea del valore e dell'attrattività del ruolo dell'imprenditore a favore del ruolo del manager. Ho l'impressione che molte persone sostengono di voler diventare manager da grandi, perché hanno l'impressione che il rischio da correre sia minore.
Il tema dell'accompagnamento all'avvio di nuove imprese è un elemento culturale e di politica che non riguarda solo un pezzetto del mondo economico, evidentemente, ma anche il sistema bancario, le norme, la cultura.
La parola «fallimento», come ripeto spesso, in Italia significa fallire, sbagliare, essere marchiati. In altri Paesi, come negli Stati Uniti, fallire è un modo per imparare a fare impresa, soprattutto tra i giovani. Segnalo questo elemento culturale, che potrebbe essere forse, anche con un uso di parole diverso, cambiato proprio per incentivare i giovani verso l'imprenditorialità.
Quanto al mismatch a livello locale, i dati Excelsior che noi abbiamo usato per la presente relazione sono a livello provinciale, ragion per cui è possibile svolgere questa analisi di mismatch anche a livello locale.
Ciò mi porta ad affermare quanto hanno rilevato sia l'onorevole Poli, sia l'onorevole Fedriga, ossia il problema del deficit di orientamento dei giovani.
Ho appreso con molto ho piacere il fatto che il 25 maggio, proprio in occasione della presentazione del Rapporto INPS in Parlamento, sia stata la giornata del futuro e della previdenza nelle scuole.
Io credo che si debba mettere in campo un'informazione, un orientamento molto diverso rispetto ai giovani e ho proposto sia al Ministero della gioventù, sia al Ministero del lavoro e delle politiche sociali alcune iniziative per mettere a disposizione sulle nostre piattaforme, che adesso sono molto friendly da un punto di vista Internet, informazioni per i giovani, affinché essi possano capire meglio come funziona la provincia, la regione in cui vivono, nonché quelle limitrofe, in modo da identificare esattamente le opportunità esistenti. Personalmente credo che nella società dell'informazione, l'informazione sull'orientamento sia uno degli elementi cardine per aiutare a prendere decisioni.
Non entro, naturalmente, sul fatto che poi i padri, me compreso, orientino i figli in determinate direzioni; questo va lasciato alla libertà di ognuno. Credo, però, come affermavo prima, che un'informazione maggiore, che oggi è disponibile ai giovani nelle scuole, non attraverso la classica lezione frontale, ma attraverso piattaforme che interagiscono col gioco, potrebbe essere estremamente utile.
Sulla qualità dell'apparato produttivo e sul tipo di lavoro, onorevole Gatti, possiamo svolgere un approfondimento, anche se l'indagine sulle forze di lavoro, che pure presenta dati sulla caratteristica dell'impresa presso la quale le persone sono impiegate, è un po' debole da questo punto di vista.
Se si chiede a una persona quanti dipendenti ha la sua impresa, in modo da classificarla, non è una informazione di cui un dipendente necessariamente dispone. L'identificazione delle caratteristiche


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dimensionali e della propensione delle persone si può svolgere, ma con un termine di approssimazione piuttosto rilevante.
Con i dati INPS è più facile, ma non vi figurano tutti gli elementi motivazionali che, invece, sono nella rilevazione sulle forze del lavoro. Comunque, realizzeremo un'elaborazione specifica e la invieremo alla Commissione.
Infine, per quanto riguarda il riconoscimento della formazione e del lavoro manuale, ma anche della formazione avanzata, ricordiamo che l'Italia è uno dei Paesi in cui il pay-off, il rendimento della laurea, è più basso rispetto ad altri Paesi europei. Il fatto di aver passato altri tre, quattro, sei anni per prendere una laurea in termini di stipendio rende meno che in altri Paesi.
D'altra parte, come abbiamo visto, rende molto in termini di possibilità di trovare un lavoro, ragion per cui sarebbe sbagliato mandare il messaggio che non vale la pena di laurearsi, perché sarebbe assolutamente contraddittorio rispetto ai dati.
Devo, però, informarvi che il livello dei salari d'ingresso è particolarmente basso: in generale, i salari italiani sono bassi, il salario d'ingresso è particolarmente basso.
Noi non abbiamo i dati, ma è uno dei temi su cui investiremo quest'anno per l'anno prossimo, del cosiddetto brain drain, cioè dell'emigrazione di laureati. I dati che abbiamo sono piuttosto frammentari, ma mio figlio, che in questa fase sta svolgendo uno stage all'estero, mi ha mandato una tabellina tratta da The Economist relativa a una piccola indagine che è stata condotta sui salari attesi da parte di un gruppo di italiani, francesi, tedeschi, e via elencando.
Il suo commento era: «E poi dicono che uno va all'estero!». Infatti, i salari di ingresso in altri Paesi sono molto più elevati. Da questo punto di vista credo che la responsabilità delle imprese sia molto forte in termini di capacità di attrarre il capitale umano migliore.
Credo di aver risposto alle diverse domande, ma naturalmente restiamo a disposizione della Commissione per ulteriori approfondimenti.

PRESIDENTE. Presidente Giovannini, ringrazio molto lei e anche ai suoi collaboratori.
Penso che sia stato un dibattito proficuo per tutti. Eventualmente, in una fase successiva, quando avremo cominciato ad elaborare il documento conclusivo, sarà il caso di continuare a confrontarci.
Grazie anche per il materiale che ci ha fornito e per quello che ci ha promesso.
Nel ringraziare nuovamente gli intervenuti per la disponibilità manifestata, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11,55.

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