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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
22.
Martedì 29 novembre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Seguito dell'esame e approvazione del documento conclusivo:

Moffa Silvano Presidente ... 3 6 8 12 13
Cazzola Giuliano (PdL) ... 6
Damiano Cesare (PD) ... 4
Fedriga Massimiliano (LNP) ... 8
Muro Luigi (FLpTP) ... 13
Paladini Giovanni (IdV) ... 11
Poli Nedo Lorenzo (UdCpTP) ... 12
Scandroglio Michele (PdL) ... 12

ALLEGATI:
Allegato 1
: Documento conclusivo approvato ... 14
Allegato 2: Considerazioni conclusive della presidenza sulle tematiche oggetto dell'indagine. ... 39
Allegato 3: Nota depositata dai deputati Poli e Muro ... 46
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia (Grande Sud): Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 29 novembre 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 15,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Seguito dell'esame del documento conclusivo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, il seguito dell'esame del documento conclusivo.
Comunico che assistono ai lavori della Commissione, per la seduta odierna, alcuni giovani studenti della LUMSA che stanno svolgendo uno stage di formazione alla Camera. Li ringrazio della loro presenza e mi auguro che dal lavoro della Commissione possano trarre elementi importanti e utili per il loro approfondimento.
Ricordo che nella precedente seduta ha avuto luogo un dibattito sulle modalità di redazione e approvazione della proposta di documento conclusivo che è stata presentata dalla presidenza nella seduta di martedì 8 novembre.
In proposito, faccio notare che per andare incontro alle obiezioni sollevate da diversi gruppi la presidenza ha prospettato, nell'ultima riunione dell'ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi, la possibilità di semplificare il predetto documento conclusivo nel senso di mantenere in vita, con limitate correzioni formali, i primi tre paragrafi ed espungere dal testo il paragrafo 4 che conteneva le conclusioni e le proposte avanzate dalla presidenza. In questo caso tale paragrafo diventerebbe un documento autonomo, non sottoposto dunque alla deliberazione della Commissione, di cui la presidenza intende ovviamente assumere la responsabilità come proprie considerazioni conclusive. Resta inteso che anche gli altri gruppi avrebbero, in tal modo, la facoltà di lasciare agli atti analoghe valutazioni finali di tipo politico.
Di conseguenza, presento una nuova versione della proposta di documento conclusivo che è in distribuzione, con la raccomandazione di non disperdere un lavoro che ha visto tutta la Commissione impegnata in una serie di audizioni che si sono protratte per diversi mesi, anche con soggetti auditi di grande interesse.
Avverto altresì di avere predisposto una ulteriore documentazione, che sarà allegata al resoconto della seduta odierna e non costituirà oggetto di deliberazione parlamentare, in cui sono contenute considerazioni conclusive della presidenza sulle tematiche oggetto dell'indagine (vedi allegato 2).
Non è mai accaduto che una Commissione avviasse un'indagine conoscitiva, anche complessa e delicata come quella che abbiamo svolto noi, e poi non arrivasse alle conclusioni. Specifico meglio, per evitare fraintendimenti e anche il ripetersi di


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una discussione che rischierebbe di essere a questo punto fuorviante, che le conclusioni che ogni gruppo vorrà apportare al documento così come è stato elaborato - come tale semplicemente ricognitivo di quanto ascoltato dai soggetti che sono intervenuti alle audizioni - costituiranno atti di discussione e risulteranno nel resoconto stenografico della seduta odierna.
Oggi si vota soltanto sul documento depurato delle conclusioni che ovviamente, implicando valutazioni di ordine politico, non presumo siano unanimi tra di noi; anzi, ci sono delle differenze anche sostanziali. Il resoconto verrà allegato al documento conclusivo.
Oggi, dunque, approveremo tale documento conclusivo, sul quale apriamo adesso la fase delle dichiarazioni di voto, anche considerato che una proroga sull'indagine è già stata autorizzata dal Presidente della Camera ed oltre i termini previsti non è possibile andare. Ribadisco che eventuali valutazioni politiche potranno essere svolte a margine e verranno allegate al resoconto stenografico della seduta odierna. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire.

CESARE DAMIANO. Signor presidente, le sue precisazioni, con le quali concordo, ci consentono come gruppo del Partito Democratico di votare a favore di questa nuova versione della proposta di documento conclusivo.
La versione precedente conteneva un capitolo di conclusioni sul quale noi abbiamo mosso le nostre critiche. La cancellazione di questo capitolo ci consente di apprezzare un documento che, nella prima parte, è la testuale rappresentazione delle audizioni. Ho avuto modo di leggere attentamente tutto il documento e segnalerò qualche modesto refuso, a meno che l'onorevole Gatti non abbia già provveduto.
La seconda parte del documento costituisce un ulteriore momento di riflessione, riportando la sintesi degli elementi emersi nel corso delle audizioni. Poiché noi giustamente utilizzeremo come utile contributo questo documento, immagino che appena sarà approvato lo faremo arrivare al nuovo Ministro del lavoro e delle politiche sociali, quindi sarà, come si dice, un modo per puntualizzare lo stato dell'arte attorno a una questione fondamentale come quella del mercato del lavoro.
Per quello che mi riguarda, considerando che tutto quello che verrà detto nei vari interventi sarà semplicemente verbalizzato e non farà parte del documento, che in quanto tale è un testo autonomo da queste dichiarazioni, le mie e quelle che seguiranno, faccio queste dichiarazioni per chiarire qual è un punto di vista del Partito democratico sul tema che abbiamo trattato.
Il primo elemento che ritengo molto importante è il seguente: non c'è dubbio che da una lettura attenta di questo documento emerge il lavoro certosino di ascolto di numerosissime parti - associazioni, sindacati, imprese - e la ricchezza del contenuto. Credo che una delle conclusioni alle quali siamo arrivati nella stesura del documento sia, purtroppo, la fotografia di una situazione che vede una parte del mercato del lavoro a forte caratterizzazione di lavoro precario.
Questo era un dato risaputo. Nel documento si mette in luce come questo dato sia cresciuto negli ultimi anni ed è per noi motivo di preoccupazione. Vorrei ricordare che oggi, delle nuove assunzioni, si dice che meno del 20 per cento sono riconducibili al lavoro a tempo indeterminato, mentre tutto il resto è ascrivibile al lavoro precario, ed è fondamentalmente a carico delle nuove generazioni. Questo è sicuramente un punto che la politica ha il dovere di affrontare e che nel documento è bene evidenziato.
Secondo i dati dell'Istat, come recita il documento, le possibilità di transitare da un rapporto di lavoro flessibile verso condizioni di impiego stabile non sono molte e si sono andate riducendo nel corso degli ultimi anni. Di qui partirei per dire che, a mio avviso - naturalmente sostengo una tesi di parte - se noi vogliamo aggredire con forza sufficiente questo fenomeno dobbiamo da una parte disboscare quella che a mio parere è una sorta di giungla,


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di supermercato dei lavori flessibili, esorbitante, non utile per fotografare una condizione reale: non utile al lavoro, disperso in mille modalità di impiego frammentate e flessibili che diventano precarietà, non utile alle imprese che faticano a orientarsi in questa giungla di forme di lavoro.
Credo che questo sia un punto di partenza: disboscare quelle forme di impiego che in qualche modo dovrebbero invece essere riconducibili, oltre a quella che per noi è la stella polare, il lavoro a tempo indeterminato, così come ci viene indicato dall'Unione europea, a qualche forma misurata di lavoro flessibile. Abbiamo l'apprendistato, il contratto a termine, il lavoro a progetto quando c'è un progetto reale, il lavoro interinale. Penso che esaurite queste forme di impiego flessibile non sia necessario andare oltre per soddisfare l'esigenza di una pronta risposta di adeguamento delle ragioni dell'impresa alle richieste del mercato, nel rapporto fra la produzione e la richiesta del mercato.
Un secondo punto di partenza, anche qui evidenziato in una delle tesi che il documento ha messo in luce, è quello dei costi. Io credo che noi su questo dobbiamo lavorare. Dobbiamo cioè convincerci che finché le convenienze nel mercato del lavoro saranno come sono oggi, vale a dire l'impresa si trova ad avere a disposizione rapporti di lavoro flessibili che costano meno dei lavori stabili, è evidente che tutto questo non favorirà la stabilizzazione del lavoro per le nuove generazioni.
Già il Governo Prodi aveva fatto lo sconto di tre punti di costo del lavoro, di cuneo fiscale alle imprese nel caso di lavoro a tempo indeterminato, ma penso che noi dovremmo chiedere al nuovo Governo di procedere in questa direzione.
Accanto a questo, penso che sia anche utile demistificare alcune credenze. Secondo taluni, l'eccesso di rigidità nel mercato del lavoro - riconduco il tutto alla formula dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - sarebbe di impedimento alle assunzioni. Vorrei contestare questo assunto e a tal fine voglio portare un esempio. Se oggi meno del 20 per cento delle assunzioni è stabile e se le assunzioni vengono fatte dalle imprese che possono avere più di quindici dipendenti o meno di sedici dipendenti, e se consideriamo che le aziende che arrivano fino a quindici dipendenti rappresentano il 95 per cento del tessuto industriale di questo Paese, pur considerando il diverso peso delle imprese maggiori, possiamo tracciare una linea di demarcazione e immaginare che la metà di quelle assunzioni nel mercato del lavoro sia da imputare alle aziende al di sotto dei sedici dipendenti. Spiegatemi - mi rivolgo a chi sostiene questa tesi - come mai anche laddove non esiste alcuna protezione dell'articolo 18 si procede per assunzioni precarie: questo vuol dire che il problema non è l'articolo 18, ma la diversa convenienza dei costi offerti alle imprese nel mercato del lavoro. È su questo punto che noi dobbiamo intervenire.
Credo che questo sia un tema molto importante. So che anche nel mio partito c'è una discussione sul contratto unico. A mio parere, l'articolo 18 diventa un falso problema e credo che se vogliamo innovare il mercato del lavoro noi dobbiamo «disboscare» le forme di lavoro flessibile, rendere anche più prolungato il momento dell'ingresso e della prova nel mercato del lavoro affinché l'imprenditore possa assumere consapevolmente una persona che ha formato, che ha contribuito ad istruire per la comunità aziendale, per poi assumerlo stabilmente. Credo che questo sia un dovere verso le giovani generazioni.
Penso che, nel caso di contenzioso che deriva da un licenziamento, noi dobbiamo snellire, anche per via legislativa, con un intervento apposito - una proposta dell'onorevole Bellanova, qui alla Camera, va in questa direzione - il processo del lavoro, renderlo rapido, esigibile, in modo tale che, nel caso di un contenzioso, il pronunciamento del giudice avvenga in tempi brevi e risolva l'incertezza che grava a carico dell'impresa, che non sa come andrà a finire la causa (riprenderò o non riprenderò il lavoratore), e per lo stesso lavoratore che deve anche organizzarsi per


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la vita futura e se non rientra nell'azienda deve trovare un'alternativa. Le vie ci sono.
Un'altra questione, e concludo, credo che sia quella che si riferisce agli ammortizzatori sociali. Non è possibile pensare al futuro delle nuove generazioni se non pensiamo a una innovazione sugli ammortizzatori sociali.
È evidente che ci possono essere molte strade. Personalmente ho lasciato in eredità, quando ero ministro, una delega che il Governo precedente non ha attuato per la riforma degli ammortizzatori sociali. Credo che l'unificazione di cassa ordinaria e straordinaria nella nuova situazione, da un lato, e l'unificazione dell'indennità di mobilità e dell'indennità di disoccupazione dall'altro, possano in qualche modo descrivere un architrave utile per dare le protezioni necessarie nel passaggio da un lavoro, perdita di lavoro, ricerca di nuovo lavoro.
Ultima notazione molto importante che è emersa nel corso di questa indagine è il tema del rapporto fra studio e lavoro, l'orientamento professionale, la rivalutazione dello studio tecnico, non esclusivo, e soprattutto la rivalutazione del lavoro manuale. Questo significa che se noi vogliamo rendere il lavoro manuale appetibile dobbiamo sapere che è necessario rovesciare da un punto di vista culturale il rilievo simbolico che il lavoro manuale deve acquisire nella società. Oggi questo rilievo non c'è.
In secondo luogo, dobbiamo attribuire al lavoro manuale una possibilità di remunerazione che sia adeguata e una possibilità di protezione e sicurezza del lavoro che in qualche modo renda il tutto socialmente positivo, valutabile come un tratto di crescita per la persona, nel rapporto fra lo studio e l'applicazione nel mercato del lavoro. I fattori di orientamento dello studio verso il mercato del lavoro, come si evince da questa indagine, assumono quindi un rilievo del tutto particolare che io credo facciamo bene a inserire con la forza necessaria all'interno del documento.
Infine, ci sono delle note molto interessanti sulle quali varrebbe la pena lavorare nel futuro. Cito, ad esempio, la valutazione opportuna del lavoro di apprendistato, che è stato frutto di un accordo fra le parti sociali e di un recepimento legislativo. Inoltre, penso al superamento dell'attuale situazione per quanto riguarda tirocini e stage, che dovrebbero diventare una forma di avvicinamento al lavoro, con un riconoscimento di rimborso anche per queste persone. Non si tratta di uno stipendio, né di una paga o di una retribuzione, ma comunque di un riconoscimento, un principio di formazione che introduca le giovani generazioni effettivamente verso la possibilità di svolgere un lavoro, una professione, e di concepire il rapporto fra lo studio e lavoro come un continuum. Oggi, purtroppo, anche secondo l'indagine conoscitiva, questo non esiste nella misura sufficiente.
Per questi motivi, credo che sia giusto concludere come abbiamo fatto questa indagine conoscitiva. Naturalmente, come in tutte le opere collettive, possono esserci parti più convincenti o meno convincenti, però mi pare che l'indirizzo complessivo dell'indagine e il rilievo che abbiamo dato ai fenomeni che caratterizzano il mercato del lavoro possono costituire perlomeno una base di studio, una base di analisi, non dico di proposta o di soluzione condivisa, ma una piattaforma di analisi di partenza che, nel caso in cui si dovessero verificare delle convergenze anche per quanto riguarda le soluzioni, direbbe che non abbiamo lavorato invano nel corso di questi mesi.
Ribadisco il fatto che come Partito Democratico noi voteremo a favore della nuova versione della proposta di documento conclusivo che abbiamo attentamente analizzato e contribuito ad emendare nelle parti che non ritenevamo condivisibili.

PRESIDENTE. Questa sera avrò un incontro con il neo-ministro, anche per programmare il calendario per le prossime settimane. Sarà quindi mia cura fornirgli il documento che approveremo fra poco.

GIULIANO CAZZOLA. Signor presidente, me la caverò con poche parole


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poiché, riconoscendomi nelle conclusioni a cui lei è pervenuto sul piano dell'indirizzo politico, non ho molte cose da aggiungere. Credo che fosse giusto riconoscere all'onorevole Damiano l'esigenza di depositare un punto di vista del suo gruppo. Nella procedura che abbiamo intrapreso era ovvio e anche corretto e opportuno.
Non voglio dare all'onorevole Fedriga l'opportunità di dire che ci siamo messi insieme, abbiamo fatto un'ammucchiata, ma su una materia così delicata diciamo cose diverse. Ovviamente su queste vicende, sulle questioni del mercato del lavoro le opinioni sono differenti e lo sono state in questi tre anni. Probabilmente se mi prendessi la briga di dire più cose di quelle che dirò le differenze emergerebbero anche in questa sede. Tuttavia, credo che questo documento che opportunamente il presidente ha voluto emendare dell'ultima parte possa rappresentare una sorta di viatico per quello che questa Commissione dovrà fare fin dai prossimi giorni, se non dalle prossime settimane. Non c'è dubbio che questa è una materia nella quale il Governo dovrà intervenire, e dovrà farlo con rigore, con equilibrio, come ha dichiarato di fare su tutte le altre materie, ma tenendo conto che si tratta di un impegno che il Paese ha preso nei confronti dell'Unione europea.
Credo che noi dobbiamo anche attrezzarci, politicamente e culturalmente, ad affrontare una materia sulla quale le opinioni sono abbastanza diverse, così come le terapie e le proposte, in modo da poter trovare delle soluzioni equilibrate e da poter dare a un Governo che dovrà intervenire in questo campo delle risposte costruttive, che vedano un contributo e una convergenza di posizioni che magari partono da lontano.
Credo che il punto contenuto nella lettera della BCE contenga questo equilibrio ed è opportuno che ci sforziamo tutti di parlare di quel punto tenendo presente l'equilibrio che esiste, senza tirare l'acqua al mulino da una parte o dall'altra. La lettera della BCE dice tre cose assolutamente precise, seppure in maniera sintetica e con parole limitate all'indicazione di un concetto e non di soluzioni pratiche e tecniche. La lettera sostiene che debba essere accuratamente rivista la disciplina delle assunzioni, nella quale ovviamente rientrano anche le tipologie dei rapporti contrattuali, e la disciplina del licenziamento, nella quale rientrano le regole che sono indicate nell'articolo 18 dello Statuto.
Il documento della Banca centrale raccomanda altresì al Paese di darsi una forma più compiuta e più organica per quanto riguarda il trattamento della disoccupazione; infine, dà una chiara indicazione in direzione di una politica attiva del lavoro, parla di riallocazione delle risorse nei settori che queste risorse possono assorbire, il che contiene implicitamente un discorso di flexsecurity.
Credo che ci siano le condizioni per ragionare insieme al Governo su questo terreno. Sono convinto - aggiungo solo questo rispetto al ragionamento di Damiano - che un disincentivo normativo non può essere colmato né compensato da alcun incentivo economico, almeno nel lungo periodo. Pertanto, credo si debba agire anche sui disincentivi normativi per arrivare a un'unificazione reale del mercato del lavoro.
Ritengo che, da questo punto di vista, alcune cose siano state fatte in questa legislatura. Voglio ricordare, ad esempio, che al di là delle proposte presentate per quanto riguarda la disciplina del processo del lavoro, credo che andrebbe riconosciuta la validità di alcune norme che sono contenute nel collegato lavoro (al di là delle polemiche sollevate in quel momento), laddove esse organizzano in maniera unitaria - peraltro con una correzione apportata dopo rispetto a un punto che aveva suscitato polemiche, relativamente ai contratti a tempo determinato stipulati prima dell'entrata in vigore della legge - l'impugnativa del licenziamento e il ricorso contro il licenziamento, rispetto a situazioni affidate al decorrere dei termini della prescrizione ordinaria che erano in effetti assolutamente punitivi nei confronti della normalità dei rapporti tra aziende e lavoratori.


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Sarei curioso, anche sul piano culturale, che l'onorevole Damiano mi fornisse dei dati, una documentazione convincente sulla effettiva sussistenza di un maggior numero di rapporti precari nella piccola impresa. Sinceramente non ho trovato dati - forse sono stato un cattivo lettore - che me lo dimostrino. Se questo venisse dimostrato probabilmente sarei disponibile anche a maturare certe convinzioni rispetto all'influenza che ha l'articolo 18 sul nanismo della piccola impresa in Italia.
Concludo dichiarando il voto favorevole non solo mio, ma del mio gruppo, ricordando che abbiamo davanti a noi un anno per dare attuazione alla delega - la stessa della legge Damiano - contenuta nel collegato lavoro e augurandomi che possa definirsi con il nuovo Governo e con il nuovo ministro, quando presenterà in Commissione le linee programmatiche sulla sua attività, anche un percorso su questi problemi.

PRESIDENTE. Colleghi, sospendo i lavori su questo punto per consentire lo svolgimento della prevista seduta delle Commissioni riunite X e XI. Per quanto riguarda i lavori dell'Aula, abbiamo tempo fino alle 16,30.

La seduta, sospesa alle 15,40, è ripresa alle 15,45.

PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori, ringraziando i colleghi della X Commissione.
Do la parola all'onorevole Fedriga.

MASSIMILIANO FEDRIGA. Signor presidente, intanto devo ringraziare lei che ha avuto la sensibilità di espungere dalla proposta di documento conclusivo l'ultimo punto nel quale c'erano oggettivamente delle parti che come gruppo non condividevamo.
È altrettanto vero che noi voteremo favorevolmente a questo documento consci del fatto che esso rappresenta una fotografia di quanto hanno detto i soggetti auditi durante l'indagine che abbiamo portato avanti. Il voto favorevole non è dovuto, quindi, a una condivisione in toto del documento, che in parte condividiamo e in parte no, rispetto ovviamente alle tesi sostenute dai soggetti auditi.
Ringrazio anche, sebbene adesso non sia presente, il vicepresidente Cazzola perché mi ha anticipato su alcune tesi (che non intendo ovviamente ripercorrere perché le ha già richiamate lui) relativamente alle discrasie tra le componenti della nuova maggioranza che si è creata.
Entrando nel merito, seguirei un criterio temporale rispetto al documento stesso, dunque inizierei dalla parte della formazione. Come ho avuto modo di dire anche durante le audizioni, esiste un serio problema di formazione che si ripercuote ovviamente sull'entrata dei giovani nel mondo del lavoro. Non a caso, sono stati palesati degli esempi dove la formazione viene istituita e ricercata più per soddisfare l'esigenza di qualche istituto di formazione che per rispondere alle necessità lavorative e di manodopera delle imprese stesse. È chiaro, quindi, che il successo dell'inserimento o del reinserimento lavorativo delle persone che svolgono la formazione stessa diventa difficoltoso se non impossibile.
Un esempio che avevo citato anch'io è quello della formazione che avviene all'interno del percorso universitario tramite lo stage. Si vede come lo stage sia un'esperienza in molti casi fine a se stessa, mentre non viene coinvolto il soggetto privato che dopo dovrà inserire all'interno della propria attività la persona che ha concluso il ciclo di studi. Questo sconfessa la tesi per la quale abbiamo bisogno di una manodopera straniera di importazione perché i cittadini del nostro Paese non vogliono fare determinati lavori.
Credo che ci siano diverse ipotesi, da questo punto di vista. La prima è che i cittadini del nostro Paese non vogliano fare determinati lavori a determinati stipendi. Si è creato un dumping sociale - con una manodopera straniera in molti casi anche clandestina, quindi fuori dalle regole, ma anche regolare - per cui si sta pretendendo di far svolgere determinate attività lavorative con stipendi molto bassi.


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Credo che non possiamo chiedere ai giovani che vogliono costruirsi una famiglia di vivere in un monolocale con i materassi per terra come fanno i clandestini. Quindi un dumping sociale esiste - e mi dispiace per i clandestini stessi, non voglio dire che loro possono farlo, sia chiaro - e la risposta non può essere che i nostri lavoratori non vogliono fare determinati lavori. È necessario garantire un reddito necessario per avere un'aspettativa di qualità della vita perlomeno dignitosa.
Se il problema effettivamente lo vogliamo considerare semplicemente dal primo punto di vista, ovvero che i nostri giovani non intendono svolgere determinati lavori, il pubblico, lo Stato, il Governo devono affrontare il problema nel senso di incentivare i nostri giovani a fare determinati lavori, non di importare manodopera, altrimenti il risultato finale sarà quello di avere i nostri giovani disoccupati e di importare manodopera straniera.
Mi sembra una follia sociale permettere che i nostri giovani continuino a fare le esperienze formative che più prediligono senza assicurare quella guida necessaria per dire che quell'esperienza deve essere spendibile nel mondo del lavoro.
È chiaro che tutto deve partire da una formazione e un orientamento iniziale anche precoce, che possa però indirizzare verso un futuro lavorativo non dico certo ma perlomeno probabile.
Questo, signor presidente, risponde anche a talune considerazioni che ho letto nel documento conclusivo per quanto riguarda il cosiddetto «lavoro rifiutato». Il lavoro rifiutato, se esiste, è un problema che bisogna affrontare nel senso di farlo accettare, non di rivolgersi ad altra manodopera. Diversamente, lo ripeto, si creano sacche di disoccupazione di cittadini del nostro Paese molto gravi e mi chiedo allora come si possa affrontare questa situazione. Si pensa forse di investire in ammortizzatori sociali o in ammortizzatori passivi? O forse si creano dal nulla posti di lavoro che non servono? Evidentemente bisogna indirizzare tutti a svolgere determinati lavori che a volte sono più qualificanti e anche meglio retribuiti. Dico più qualificanti poiché credo nella eguale dignità di tutti i lavoratori e di tutte le categorie di lavoro. Al riguardo, posso condividere le osservazioni fatte dall'onorevole Damiano circa la valorizzazione del lavoro manuale, ma sicuramente questo tipo di impostazione mentale di approccio al lavoro è andata scemando all'interno del nostro Paese.
A mio parere, un tema che è stato tralasciato nel documento conclusivo (giustamente, in quanto non lo condividevamo) ma anche negli interventi dei colleghi - forse appunto perché persistono visioni totalmente diverse non soltanto tra le componenti della maggioranza, ma anche all'interno degli stessi partiti che la compongono - è quello del contrasto generazionale. Esso viene solamente accennato per quanto riguarda il tipo di contratti di lavoro, ma non è stato affrontato dal punto di vista della previdenza. Penso che sia importante ricordarlo in una dichiarazione di voto sul documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sull'accesso al mondo del lavoro.
Lo dico perché da troppo tempo e su troppi mezzi continua a passare il messaggio che aumentando l'età pensionabile o incidendo sulle pensioni si aiuteranno i giovani. Vorrei che qualcuno mi spiegasse come si aiuteranno i giovani. Se qualcuno è convinto che aumentando l'età pensionabile, quindi facendo uscire più tardi le persone dal mondo del lavoro, si creano posti di lavoro (ma non so come), io credo che sia l'esatto contrario. I giovani non avranno accesso a determinate professioni perché le stesse saranno sature di lavoratori che saranno costretti a rimanere per diversi anni in più all'interno della professione stessa o dell'impiego.
Oltretutto, si consideri che già i precedenti Governi, sia quello che ha concluso la sua esistenza poche settimane fa, sia tutti i Governi dal 1996 in poi hanno già inciso nel mondo della previdenza, tanto che la Commissione europea - quindi non la Lega, non Fedriga - dice che il sistema previdenziale italiano è tra i più sostenibili e tra quelli messi meglio in tutta Europa, a differenza di partner europei che mandano


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lettere al nostro Paese dimenticando che la loro situazione è sicuramente molto negativa rispetto alla nostra, in quanto c'è un trend peggiorativo da qui al 2060, mentre il nostro Paese è uno dei pochi, se non l'unico, che ha un trend negativo della spesa previdenziale.
Visto il dibattito politico che si è acceso nel Paese su questo argomento bisogna sottolineare anche questo aspetto. Lo ritengo fondamentale anche perché se si dovesse far cassa dal sistema previdenziale, pensando di investire dal sistema previdenziale per legittime e doverose nuove forme di ammortizzatori sociali e per le nuove forme di contratto di lavoro, non si risolverebbe il problema. Significherebbe investire non su una crescita di lavoro stabile e quindi sulla certezza del futuro lavorativo dei giovani, ma su misure tampone che, per quanto virtuose possano essere, rimangono tali. Non si tratta di garanzia di lavoro per i giovani.
Durante le audizioni ho affermato anche che il problema del lavoro giovanile non si può affrontare pensando, nella situazione globale in cui siamo, di agire autonomamente come Paese. Bisogna pensare a un'opera a livello europeo, internazionale - penso anche al WTO - dove finalmente le istanze di tutela dell'impresa, del lavoro e di chi produce nel nostro Paese (ma penso in tutto l'Occidente) siano tutelate, nel senso che non possiamo competere con Paesi dove c'è un costo del lavoro bassissimo e dove non viene rispettata alcuna norma sull'ambiente, sul lavoro minorile, sul diritto del lavoratore, sul lavoro femminile e quant'altro, mentre le nostre imprese devono giustamente soddisfare tutti questi parametri.
Inoltre, non possiamo pensare di continuare a illudere il Paese di incidere sulle produzioni di grande qualità e di alta tecnologia perché come ho voluto ricordare - lo voglio dire anche adesso, affinché sia inserito nel documento allegato - lo scorso anno in Cina ci sono stati 600.000 laureati in ingegneria. Mi domando se non troveranno un ingegnere che disegni una sedia più bella di quelle del distretto della sedia del Friuli e a un centesimo del prezzo di quella; mi domando se non troveranno un ingegnere che progetti meglio di quello che facciamo, superando tutte le capacità tecnologiche innovative che abbiamo nel nostro Paese. Forse non adesso, ma fra un paio di anni ci sarà. Pertanto, o entriamo nell'ordine delle idee che dobbiamo competere tutti sullo stesso piano oppure - ma rispetto a questi Paesi emergenti questa non è un'imposizione fattibile - dobbiamo difendere il nostro mercato, le nostre produzioni, e dire che se un Paese e delle aziende di quel Paese producono senza rispettare una serie di norme devono avere una calmierazione nei prezzi quando vendono nei nostri territori. Questo la Lega lo dice da tempo e speriamo che qualcuno lo recepisca, anche a livello sovranazionale. Forse i livelli sovranazionali dovrebbero difendere un po' meno le banche e un po' più la piccola produzione che costituisce il 93 per cento del tessuto produttivo del nostro Paese.
Ovviamente, con la compagine di governo che si è venuta a creare, l'ottimismo non è dalla nostra, perché lo stesso mondo che nel 2007 ha creato la crisi finanziaria, che ha voluto aprire i mercati e deregolamentare tutto è lo stesso che abbiamo chiamato a risolvere la crisi.
Tuttavia, non voglio dilungarmi. Avremo modo di sottolineare questi temi come opposizione, sia nell'attività in Commissione sia nell'attività in Aula.
Per non rubare troppo tempo ai colleghi della Commissione, concludo sottolineando che la disponibilità, malgrado il ruolo di opposizione della Lega, a rivedere discipline su assunzioni e licenziamenti, sugli ammortizzatori sociali (ricordo quello che ha detto l'onorevole Cazzola), sulla politica attiva nell'inserimento lavorativo ci sarà tutta. È altrettanto chiaro, però, che questo deve mettere al centro non soltanto la garanzia, che riteniamo fondamentale, di competitività delle nostre imprese, ma anche il lavoratore stesso. Credo che un Paese non possa svilupparsi se si danno penalizzazioni forti a chi consuma, vive e fa crescere questo Paese.


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Quando parliamo di giovani, e prima ho citato l'esempio delle garanzie che si possono loro indirizzare, questo non comporta solo la doverosa dignità lavorativa che bisogna dare a chi entra nel mondo del lavoro, ma comporta anche che un giovane sia predisposto a comprare la casa facendo un mutuo, a fare acquisti, quindi a far crescere l'economia nel nostro Paese. Una politica diversa, solamente unidirezionale, non garantirebbe dal nostro punto di vista lo sviluppo dell'economia del Paese stesso.
Con queste considerazioni e con la dovuta sottolineatura che noi votiamo un documento come fotografia di quanto è stato detto nelle audizioni, quindi senza alcun tipo di indirizzo e di impegno politico in tal senso, non possiamo fare altro che votare favorevolmente.

GIOVANNI PALADINI. Signor presidente, anche noi voteremo a favore delle considerazioni conclusive della presidenza sulle tematiche oggetto dell'indagine.
Nell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra le dinamiche di accesso e i fattori di sviluppo sono stati auditi il Censis, l'ISTAT, i sindacati, l'Isfol, il CNEL, tutte istituzioni molto importanti che hanno evidenziato molti problemi. Tra questi, i problemi che riguardano il mondo del lavoro dei giovani, delle donne, di coloro che a cinquant'anni perdono il lavoro, il problema degli stage. Secondo noi gli stage devono essere compensati - non si può pensare di andare avanti con stage organizzati a livello aziendale senza assunzione di responsabilità da parte dell'azienda - ma soprattutto devono essere finalizzati alle assunzioni.
Lo stage nasce come modello finalizzato all'inserimento di giovani attraverso percorsi che devono essere sia compensati sia finalizzati all'assunzione.
Abbiamo visto, attraverso le audizioni, che il sistema formativo produce un effetto ritardante rispetto a quello europeo. Questo è un tema che va assolutamente affrontato sotto il punto di vista europeistico, perché i nostri giovani non possono essere lontani dal sistema formativo europeo e soprattutto essere inseriti in un sistema che ha addirittura un effetto ritardante rispetto ai giovani dell'Europa.
Circa il tasso di occupazione dei diplomati, che è superiore a quello dei laureati, credo che ultimamente questo possa aver inciso. Bisogna valorizzare e aumentare il processo di revisione dei corsi di laurea «3 2»; il percorso era stato avviato ma è stato bloccato. A mio parere, questo può incidere fortemente sulla valorizzazione dei titoli di studio e credo che sia un tema essenziale che questa Commissione deve portare avanti.
È necessario operare un'efficace integrazione tra i sistemi di istruzione, formazione professionale e mercato del lavoro: questo è l'altro elemento emerso dalle audizioni in questa Commissione che deve essere naturalmente improntato su schemi diversi, con riferimento a tempi, luoghi e modelli diversi. Mi riferisco soprattutto ai tempi lunghi per il pubblico impiego. Credo che i concorsi rappresentino per i giovani una corsa ad ostacoli per la lungaggine dei tempi, che in questi anni si sono addirittura allungati fino a dieci anni. Ci sono concorsi pubblici che durano quindici anni e assunzioni allungate nel tempo per dieci anni. Credo che si tratti di un problema essenziale da valutare e soprattutto di un fenomeno da debellare.
Ugualmente, sono da debellare le forme di precariato e la convenienza dei costi di tali forme. Inoltre, noi abbiamo sempre parlato della necessità di condurre una forte lotta al lavoro nero. Credo che questo sia un tema di tutti i partiti e di tutte le formazioni politiche, perché il lavoro nero incide fortemente sul modello del nostro Paese. Pertanto, dobbiamo impegnarci fortemente su questo.
Si deve passare attraverso percorsi ben delineati e soprattutto è necessario colpire fortemente le aziende che ricorrono al lavoro nero. Si deve passare dalla riforma degli ammortizzatori sociali alla valorizzazione dei dottorati di ricerca, che mi sembra siano stati poco evidenziati in questa sede. I dottorati di ricerca sono uno strumento essenziale per valorizzare persone che sono veramente capaci di innovazioni


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tecniche e scientifiche, ma queste persone non sono valorizzate nel nostro Paese. Credo che i dottorati di ricerca debbano essere la punta di diamante del nostro Paese, quindi devono essere valorizzati non solamente attraverso l'aspetto economico ma anche attraverso un riconoscimento specifico di coloro che danno molto lustro al nostro Paese. A mio parere, questo tema non può essere sottovalutato.
Ugualmente, non possiamo sottovalutare il tema dei giovani, delle donne, di chi perde il lavoro a cinquant'anni e della differenza tra nord e sud.
In conclusione, voterò favorevolmente sulla nuova versione della proposta di documento conclusivo, ma dovremo lavorare fortemente sui temi che ho evidenziato. Grazie.

PRESIDENTE. Avverto i colleghi che sono iniziati i lavori d'Aula, quindi vi sarei grato se limitassimo la durata degli interventi.

MICHELE SCANDROGLIO. Signor presidente, colleghi, ringrazio innanzitutto tutti coloro che hanno voluto aderire a questa iniziativa che ricordo essere stata presa in un momento in cui ci sembrava di dover approfondire questo tema e non ci era ancora chiaro quale fosse l'orizzonte del lavoro che, ahimè, si è oggi delineato.
Abbiamo iniziato questa indagine sul presupposto che l'accesso al lavoro fosse una sorta di inizio di un approccio giusto rispetto al percorso anche scolastico. Non a caso, abbiamo audito tra gli altri il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, proprio perché la domanda che ci ponevamo all'inizio era quanto fosse corretta l'indicazione che proviene dalla scuola e dalle famiglie, nel momento in cui si spingono i ragazzi verso un tipo di formazione piuttosto che un'altra. Qui si era innestata la domanda di quanto sia compatibile questa spinta culturale che viene dalle famiglie all'effettiva richiesta del mondo del lavoro di avere dell'occupazione.
La dinamica della indagine si è svolta in un percorso assolutamente proficuo, ma temo che non abbia voluto entrare nel merito più crudo di quella che era la ragione iniziale della nostra preoccupazione. Si sono, quindi, rivelati veri tutti i problemi e le contraddizioni che portano ad avere una platea di ragazzi pronti ad accedere al mondo del lavoro senza che questo abbia pronto per i ragazzi un posto adeguato alla loro formazione. Partendo da questo bisticcio si è tentato di portare la nostra indagine ad un livello ulteriore, andando oltre il suo carattere conoscitivo (ovvero di indagine capace di realizzare una fotografia, che io condivido e approverò), al fine di capire come si può evitare di arrivare ad avere questa fotografia. Noi abbiamo questa fotografia dei fatti in quanto all'origine noi non abbiamo sostenuto con forza la necessità di spingere alcune fasce dei nostri ragazzi - in qualche maniera la mia osservazione si coniuga con quella del collega Fedriga - verso attività che non sono le più gradite ai genitori o ai ragazzi stessi.
Se oggi siamo a conoscenza che nel mondo della panificazione esistono 250.000 posti di lavoro che non sono occupati - e non sono sottopagati, ma sovrapagati - noi dobbiamo porci un problema culturale, non chiederci se il lavoro esiste. Era questo l'inizio della nostra riflessione.
Senza riempirmi la bocca di slogan che riguardano il lavoro per i giovani, gli anziani, le donne, quelli che escono ed entrano nel mondo del lavoro, vorrei riportare questo lavoro come punto conclusivo per quanto concerne la fotografia dell'esistente, ma come punto di inizio per una nuova riflessione - non so se è questa la sede opportuna, forse la Commissione VII (Cultura) può assieme a noi svolgere questo secondo lavoro - su come suggerire il percorso che si adegui al posto di lavoro reale e non a quello virtuale di cui oggi, ahimè, non c'è più traccia.

NEDO LORENZO POLI. Mi sembra che la riflessione sia stata pressoché unanime per quanto riguarda l'approvazione del documento conclusivo che rispecchia le audizioni che abbiamo svolto. Al riguardo, credo che non ci siano posizioni diverse.


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Certamente si tratta di affrontare una situazione di difficoltà di cui tutti siamo consapevoli. Questo è un punto sul quale il nuovo Governo dovrà varare dei provvedimenti, non appena sarà possibile iniziare i lavori, speriamo nei prossimi giorni.
Io e il collega Muro abbiamo presentato una nota contenente le nostre osservazioni conclusive sui punti più importanti che sono emersi dalle audizioni, che chiediamo sia allegato al resoconto di oggi.

LUIGI MURO. Annuncio il voto favorevole di Futuro e Libertà, soprattutto perché, come già è stato fatto rilevare, il documento rappresenta una fotografia della situazione. Tuttavia, come avviene per tutte le fotografie, è ovvio che questa rappresenta lo stato attuale, fino ad oggi, in un mondo che è in velocissima evoluzione. Il nostro compito, quindi, sarà quello di mettersi immediatamente in moto per adeguarci ai tempi che cambiano. Non è questo il tempo di schierarsi su posizioni ideologiche - sarebbe dannoso per il nostro lavoro - però è evidente che le differenze in campo ci sono.
Vorrei solamente rilevare che il patto generazionale tra chi ha avuto tanto negli anni passati e chi oggi ha difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro è fondamentale per lo sviluppo del lavoro. Se oggi chiediamo alle persone che devono andare in pensione di rimanere qualche anno in più per utilizzare i risparmi per questioni non chiarite è complicato convincerle; se, invece, chiediamo a queste persone di prolungare la loro attività lavorativa per vincolare quello che si riesce ad avere in fondi per favorire l'occupazione, credo che avremo sicuramente risorse da impiegare.
A questo riguardo, credo che da oggi potremo approfondire i nostri lavori anche con l'aiuto del nuovo Governo.

PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della nota presentata dai deputati Poli e Muro, ad integrazione dei nostri lavori (vedi allegato 3).
Prima di passare alla votazione del documento conclusivo vorrei esprimere un ringraziamento non formale a tutta la Commissione per aver compiuto un percorso molto impegnativo su un tema di estrema attualità, rispetto al quale è evidente che nelle fasi conclusive possono esserci anche differenti interpretazioni. Tuttavia, voglio sottolineare che ci sono alcuni aspetti sui quali c'è anche una concordanza e mi auguro che questa possa essere un buon viatico per iniziative legislative in un settore in cui occorre intervenire con grande tempestività.
Pongo in votazione la proposta di documento conclusivo nel testo riformulato (vedi allegato 1).
(È approvata).

La Commissione ha approvato il documento conclusivo all'unanimità.

La seduta termina alle 16,10.


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ALLEGATO 1

Indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo.
DOCUMENTO CONCLUSIVO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

1. Programma e finalità dell'indagine.

La XI Commissione, nell'ambito della propria attività, ha ritenuto opportuno svolgere una approfondita indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, analizzando, in particolare, i fattori che concorrono all'incremento delle condizioni di occupabilità dei lavoratori e alla promozione dell'inserimento lavorativo, anche attraverso forme di gradualità della tutela contrattuale. La Commissione ha, quindi, deliberato il programma dell'indagine, nella consapevolezza che un approccio moderno alle politiche del lavoro richiede di muoversi in ambiti più ampi rispetto a quelli tradizionali, che investono appieno anche i settori della formazione professionale, dell'educazione e dell'istruzione.
In particolare, la Commissione si è proposta di concentrarsi su tre aspetti fondamentali: la verifica dell'ampiezza dei fenomeni di non rispondenza della forza lavoro alle professionalità richieste dal mercato e di obsolescenza professionale della forza lavoro, anche analizzando la capacità del sistema formativo ed educativo di rispondere alle esigenze del mondo produttivo; la valutazione degli assetti della formazione professionale, settore in rapida trasformazione che sempre più assume un ruolo centrale nelle politiche attive del lavoro; l'analisi delle problematiche legate all'inserimento lavorativo dei giovani, con particolare attenzione alle forme contrattuali flessibili introdotte nel nostro ordinamento negli ultimi anni.
L'indagine, originariamente deliberata il 12 aprile 2011 e il cui termine di conclusione è stato fissato al 15 luglio, si è concretamente avviata nel maggio 2011 ed è stata successivamente prorogata sino al 31 ottobre 2011, in modo da consentire la conclusione delle principali audizioni incluse nel programma e favorire un approfondito esame del documento conclusivo.
Nell'ambito dell'indagine, la XI Commissione ha svolto un articolato e interessante ciclo di audizioni, che ha coinvolto non solo i consueti interlocutori e i soggetti istituzionali, ma anche nuove forme autonome di rappresentanza di interessi nell'ambito della complessità del mercato del lavoro: sono intervenuti rappresentanti dell'ISTAT, del CNEL, dell'UPI (province), degli enti istituzionalmente preposti alla politica della formazione (Formez e ISFOL), dei principali centri di studio e ricerca (CENSIS, EURISPES, SVIMEZ, oltre che il Consorzio interuniversitario Almalaurea), delle parti datoriali (ABI, R.ETE. Imprese Italia, Confindustria e Confapi), delle organizzazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL e UGL), di associazioni rappresentative degli intermediari del lavoro (Assolavoro) e del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, di associazioni e comitati esponenziali del mondo giovanile e del precariato (Forum Nazionale Giovani, Comitato 9 aprile e Repubblica degli stagisti). Il programma si è, quindi, esaurito con lo svolgimento delle audizioni del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, e del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Mariastella Gelmini.
Le audizioni sono state caratterizzate da un confronto costruttivo con i soggetti coinvolti, che ha consentito di acquisire i


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principali dati sulla materia, ponendo in luce anche un positivo contributo propositivo, in termini di idee e di interventi operativi per il futuro. Al contempo, è stata molto importante anche l'acquisizione - da parte dei soggetti che, per vari motivi, non sono direttamente intervenuti nell'ambito delle audizioni programmate (tra cui la Conferenza delle regioni e delle province autonome, che ha approvato e trasmesso ufficialmente alla Commissione un apposito documento in materia) - della documentazione prodotta sui temi oggetto dell'indagine, documentazione che ha rappresentato anch'essa un utile strumento di lavoro, ai fini della redazione del presente documento.
Per le ragioni esposte, il documento è stato, quindi, elaborato in termini riassuntivi e schematici, in modo da fornire una chiave di lettura complessiva rispetto agli obiettivi posti dalla stessa Commissione al momento della definizione del programma dell'indagine conoscitiva, ferma restando la facoltà per ogni gruppo di individuare proprie soluzioni e proposte conclusive: nel paragrafo 2 sono, dunque, riassunti in forma sintetica i contributi dei partecipanti alle audizioni, mentre nel paragrafo 3 sono illustrati i principali elementi emersi nel corso dell'indagine.

2. Gli interventi dei soggetti auditi.

I rappresentanti del Censis, nell'esaminare le questioni dell'accesso e dello sviluppo al mercato del lavoro, si sono soffermati, in particolare, sulle problematiche formative ed occupazionali dei giovani. Si è analizzato, in primo luogo, un fattore demografico importante - presente in tutta Europa, ma in Italia caratterizzato da un impatto più significativo - rappresentato da un forte invecchiamento della popolazione e da una riduzione dei giovani compresi fra i 15 e i 34 anni, suscettibile di dar luogo ad un difficile ricambio generazionale.
Il Censis ha quindi evidenziato che dopo i 25 anni, in Italia, circa il 35 per cento di persone non ha avuto e non ha raccordo con il lavoro ed è fuori dal circuito attivo, o perché non si ha interesse né per lo studio né per il lavoro o perché si sta cercando un lavoro e si è in formazione. Evidenziata la scarsa propensione dei giovani a lavorare mentre si studia (il 7 per cento della popolazione dopo i 25 anni è in formazione), il Censis ha fatto presente che tale situazione induce a rappresentare le problematiche occupazionali e formative in termini concettuali differenti, che sembrano aver a che fare più che altro con la propensione o meno all'attività, piuttosto che con la condizione di occupazione o disoccupazione. Tale elemento, pertanto, farebbe pensare ad una pericolosa deriva anche di carattere culturale e comportamentale, cioè ad una sorta di distacco dal lavoro.
Soffermandosi più dettagliatamente sugli aspetti connessi ai processi di formazione, il Censis ha posto in evidenza come il nostro sistema formativo produca un effetto ritardante rispetto a quello europeo e, soprattutto, non consenta una maggiore accessibilità del lavoro.
In tal senso, nel sottolineare come in Italia i tassi di occupazione dei diplomati siano superiori ai tassi di occupazione dei laureati (70 per cento per i diplomati e 67 per cento per i laureati), si è evidenziata una relativa maggiore presenza di occupati giovani in alcuni settori (come quello industriale, al 32 per cento), nonché una buona quota di giovani che coprono posizioni tecniche (22 per cento contro una media europea del 18 per cento). Tutto ciò si verifica a fronte di una domanda di laureati non sufficientemente assorbita, sia a causa del blocco delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni sia per l'assenza di dinamiche di produttività nel settore terziario (ci sono alcuni settori, ad esempio sanità e istruzione, nei quali minore è l'incidenza del mondo giovanile). In sostanza, sembrerebbe che i giovani restino ai margini nella fascia più alta del mercato del lavoro, nell'ambito delle figure apicali, dirigenziali e professionali.
Nel formulare idee e proposte utili a migliorare l'andamento dei processi occupazionali, il Censis ha evidenziato la necessità


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di anticipare i tempi della formazione e di metterla in raccordo con le opportunità di lavoro, sia per quanto riguarda i diplomati che i laureati, al fine di contrastare il problema dello scarso raccordo tra percorsi formativi e mondo produttivo.
Si è quindi sottolineata l'esigenza di valorizzare, anche dal punto di vista culturale, il diploma di scuola secondaria di secondo grado e la successiva specializzazione, favorendo un accesso diretto al mercato del lavoro e l'esercizio di professioni tecniche che siano considerate dalla collettività dignitose e socialmente apprezzabili (considerato l'elevato grado di dispersione scolastica tuttora esistente).
Per quanto concerne la formazione universitaria, il Censis sottolinea come il tasso di laureati in Italia sia molto basso rispetto a quello degli altri Paesi (il 30 per cento di venticinquenni ha solo il titolo di studio della scuola media inferiore). Si pone con forza, pertanto, la questione di accorciare i tempi della formazione, tentando di riqualificare l'esperienza della laurea breve, trasformandola in un obiettivo finale del percorso formativo universitario (come in tutti gli altri Paesi europei). Si è osservato, in proposito, che occorre incanalare gli ultimi due anni di formazione universitaria in un percorso di specializzazione che favorisca un primo accesso al mondo del lavoro dei giovani, in continuità con le forme di tirocinio professionale o concorsuale (soprattutto per determinate professioni, come ad esempio avvocati, medici e magistrati). Ad avviso del Censis, si tratta, quindi, di passare da una formazione di tipo generalista ad una che abbia come obiettivo prioritario quello di far accedere il giovane alla vita attiva.
Secondo il Censis, oltre ad agire al fine di incrementare i fattori di sviluppo e di crescita della produttività - che tuttavia, anche secondo le previsioni più ottimistiche, non potrebbero portare ad assorbire, a breve, la gran parte della disoccupazione giovanile attualmente esistente - occorre creare condizioni e opportunità professionali diversificate, non solo nell'ambito del lavoro dipendente, ma anche sul versante del lavoro autonomo (nonostante negli ultimi anni ci sia stata una progressiva regressione, l'Italia è uno dei Paesi con la più alta propensione al lavoro autonomo). Relativamente al lavoro dipendente, il Censis ritiene importante concentrare l'attenzione, più che sulla flessibilità in entrata, su quella in uscita, favorendo condizioni di mobilità e circolarità all'interno delle aziende. In tal senso, si ritiene importante prevedere, in relazione a talune competenze obsolete, la possibilità di ricollocare i dipendenti in altri contesti - purché incanalati lungo un percorso di sostegno professionalizzante - in cambio dell'assunzione di giovani.
Il Censis ritiene certamente importante la flessibilità in entrata per il sostegno della partecipazione giovanile al lavoro, ma non così decisiva nell'incremento dei livelli occupazionali, considerato che i giovani con meno di 35 anni titolari di contratti flessibili rappresentano il 25,1 per cento del totale degli occupati appartenenti a questa fascia di età. Il Censis, pertanto, rileva una difficoltà delle imprese ad assumere lavoratori a tempo indeterminato, non tanto legata ad una questione regolativa, quanto a fattori di rigidità nel governare complessivamente le proprie risorse di lavoro e alla forte variabilità del mercato delle imprese stesse.
Sul versante del lavoro autonomo, si giudica utile valutare la possibilità di prevedere esenzioni fiscali ed incentivi economici in favore delle imprese giovanili per un periodo di tre anni - purché operanti da almeno un anno - eventualmente utilizzando le risorse del PON ricerca.
I rappresentanti di Eurispes hanno innanzitutto sollevato una questione di ordine concettuale, secondo la quale nel Paese si è attribuita maggior enfasi al posto più che alla cultura del lavoro: si è così conferita particolare importanza ai titoli di studio, senza che a questi corrispondano effettive competenze e concrete opportunità di lavoro.


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L'Eurispes si è poi soffermato sul tema della sovraqualificazione, in ordine al quale va detto che ulteriori approfondimenti verranno svolti nei paragrafi successivi, soprattutto in collegamento con i dati forniti al riguardo da Almalaurea. Secondo Eurispes, la «sovra-qualificazione» (la svalutazione del proprio titolo di studio e delle proprie competenze) rispetto all'impiego riguarda circa il 20 per cento dei laureati a tre anni dal conseguimento del titolo ed è un fenomeno in continua crescita - soprattutto tra i precari - che provoca sia mobilità sociale discendente sia immobilità sociale.
L'altra importante questione richiamata dai rappresentanti Eurispes è legata alla problematica della flessibilità, che, a loro avviso, è stata interpretata spesso in chiave di precarietà, producendo forti disagi per i giovani, tra cui l'impossibilità di realizzare un progetto di vita. Eurispes ha così segnalato, tra gli elementi di criticità del mercato del lavoro, l'uso improprio delle nuove tipologie contrattuali nonché l'assenza di ammortizzatori sociali per i lavoratori atipici.
Un'altra questione richiamata da Eurispes riguarda il tema della eccessiva tutela dei lavoratori dipendenti, che ha portato ad una mortificazione del merito, in particolare nel settore della pubblica amministrazione: occorre, pertanto, tornare a valorizzare e a esaltare chi si impegna di più, senza per questo produrre un indebolimento delle tutele di carattere generale.
Pur ritenendo sostanzialmente condivisibile l'idea di incidere sui costi del lavoro flessibile, rendendoli maggiormente onerosi, al fine di prevedere migliori tutele in favore di lavoratori esposti al rischio della precarietà, Eurispes ritiene che una delle chiavi vere del mercato del lavoro sia rappresentata dal tema dell'accesso: occorre, pertanto, individuare forme di avvio soft al mondo del lavoro che diano all'azienda la possibilità di investire sul soggetto e sulla sua formazione, aiutandolo a consolidare una professionalità in vista di una futura ricollocazione a livelli più alti (eventualmente prevedendo degli incentivi in tal senso).
Sul versante della formazione del settore pubblico Eurispes rileva - come elemento di criticità - la molteplicità dei soggetti erogatori dei centri di spesa e di competenza, sia pubblici che privati, che incide negativamente sull'offerta formativa.
I rappresentanti del Formez hanno evidenziato l'esigenza di operare una efficace integrazione tra sistemi - istruzione, formazione professionale e mercato del lavoro - coniugando adeguatamente politiche attive e passive del lavoro, al fine di far fronte agli inevitabili effetti della crisi in atto. Ci si è soffermati, soprattutto, sul versante dell'attività di formazione dei lavoratori, ravvisando la necessità di procedere ad una riorganizzazione dei servizi per l'impiego e all'attivazione di sinergie tra questi e altri soggetti del mercato del lavoro: le politiche per il lavoro devono così saper filtrare le istanze di flessibilità in uscita ed in entrata attraverso la previsione di processi di formazione in grado di controbilanciare i possibili effetti negativi indotti dal modificarsi della stabilità dei rapporti di lavoro.
Concentrando l'attenzione sul versante del settore pubblico, i rappresentanti di Formez hanno evidenziato l'importanza di monitorare il ciclo delle performance delle pubbliche amministrazioni al fine di migliorare la qualità dei servizi resi alla collettività e agli utenti. Ci si è soffermati, quindi, sulle problematiche dell'accesso e della mobilità in tale ambito, rilevando come i tempi lunghi necessari per l'espletamento dei concorsi pubblici, unitamente all'applicazione di procedure onerose e dispendiose, costituiscano un serio ostacolo alla selezione dei «cervelli» migliori e ad una corretta distribuzione delle risorse umane: si attribuirebbe, in sostanza, maggiore importanza ai titoli e agli aspetti formali a scapito di quelli più sostanziali legati al concreto possesso di competenze e motivazioni. In tal senso, i rappresentanti di Formez ritengono auspicabili sinergie tra le amministrazioni nell'organizzazione delle procedure concorsuali, al


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fine di ridurre i tempi e i costi di espletamento delle stesse. Ad avviso del Formez, occorre quindi prevedere lo svolgimento di pre-selezioni generiche, che accertino il possesso di requisiti fondamentali nei candidati, nell'ottica di conseguire una iniziale scrematura delle domande. Si ritiene necessario, inoltre, realizzare un adeguato sistema informatizzato capace di gestire sia le procedure concorsuali che quelle di mobilità.
I rappresentanti dell'ISTAT hanno evidenziato che il Paese presenta strutturalmente tassi di occupazione giovanile inferiore alla media europea ed elevati tassi di inattività, osservando, peraltro, che nell'ultimo decennio i residenti tra i 20 e i 29 anni si sono ridotti di 1,5 milioni di unità. Si è quindi sottolineato che, tra gli elementi più vistosi del divario tra l'Italia e le altre economie europee, figurano anche i bassi tassi di occupazione femminile, le forti disparità territoriali, la segmentazione tra italiani e stranieri, l'elevato numero di persone che rinunciano alla ricerca di un'occupazione.
Si è poi evidenziato che la famiglia ha svolto il ruolo di ammortizzatore sociale, mentre la cassa integrazione ha protetto soprattutto il lavoro dei genitori.
Si è segnalato, quindi, l'incremento del numero dei giovani esclusi dal circuito di formazione-lavoro, i cosiddetti NEET, ovvero coloro che, nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni, non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. Nel 2010, i giovani in questa condizione erano circa 2,1 milioni, il 22,1 per cento della popolazione corrispondente, con una crescita del 17,8 per cento rispetto al 2008.
È stato poi sottolineato che la quota dei lavoratori con contratti atipici ha raggiunto il 30 per cento del totale dei giovani occupati, mantenendosi oltre il milione di unità.
Analizzando tematiche che saranno più dettagliatamente approfondite, insieme ad altri importanti dati di riferimento, nel prosieguo di tale documento, i rappresentanti dell'ISTAT hanno poi segnalato che la maggior parte dei primi ingressi nel mercato del lavoro avviene attraverso il ricorso a forme tradizionali di comunicazione che sfruttano le conoscenze dirette, osservando che il ricorso ai centri per l'impiego e alle agenzie per il lavoro ha interessato meno del 5 per cento del totale dei giovani (nonostante l'ampliamento del ruolo e dei compiti assegnati a tali istituzioni). Inoltre, a conferma del carente raccordo tra sistema di istruzione e formazione e mondo del lavoro, è stata rappresentata l'esigua quota di giovani che trovano il primo lavoro grazie a una precedente esperienza di stage o tirocinio presso un'impresa o attraverso la segnalazione di scuole o università. È stato quindi evidenziato che la presenza di imprese molto piccole e il modello di specializzazione produttiva tipico dell'economia italiana spiegano in gran parte il mancato investimento delle stesse aziende nel campo della formazione.
Si è segnalato poi che i dati disponibili mostrano un mismatch di natura qualitativa tra offerta e domanda di lavoro: in molti casi, infatti, l'offerta di diplomati tecnici sul mercato del lavoro non sarebbe adeguata ai reali fabbisogni manifestati dal mondo produttivo, soprattutto a causa della mancanza di un efficiente sistema di orientamento formativo dei giovani.
I rappresentanti dell'ISTAT, poi, hanno poi posto in evidenza l'esigenza di promuovere e sostenere la ricerca attraverso la previsione di risorse adeguate, sottolineando lo stato di crisi in cui versa al momento tale settore. Infine, l'ISTAT ha sollevato il tema dell'accompagnamento all'avvio di nuove imprese come un elemento culturale e politico da valorizzare, coinvolgendo non solo il mondo economico, ma anche il sistema bancario, istituzionale e culturale.
Il CNEL, attraverso i suoi rappresentanti, ha fatto notare come la ripresa dello sviluppo rappresenti la condizione necessaria per un rilancio serio dell'occupazione giovanile, osservando che a tal fine appare importante rapportare i salari alla produttività, nel contesto di una contrattazione decentrata che conferisca centralità al merito.


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Il CNEL ha quindi messo in evidenza i recenti dati pubblicati dall'OCSE nel 2010 sull'occupazione giovanile, che parlano di circa 17 milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano: di questi 17 milioni, solamente 7 sono in cerca di un impiego, dal momento che i restanti 10 hanno smesso di cercare un lavoro. Si è sottolineato che in Italia la quota dei cosiddetti NEET, rispetto a quella che si registra negli altri Paesi dell'area OCSE, risulta particolarmente elevata e, comunque, in forte crescita proprio negli anni 2008-2009 (al sud del Paese la quota è più che doppia rispetto al centro nord)
Si è quindi osservato che nell'Unione europea intesa a 27 la probabilità di rimanere NEET, né occupati né sugli studi, è inversamente correlata al grado di istruzione (più è elevato il grado di istruzione, maggiore è il rischio di essere NEET): ciò induce a ritenere che alla base di tale fenomeno vi sia una difformità tra quanto proposto dal mondo dell'istruzione e quanto richiesto dal mercato del lavoro.
Ci si è soffermati, dunque, sulla promozione dell'istruzione, della formazione e dell'apprendimento non formale, in modo da rendere adeguate alle esigenze del mondo del lavoro le competenze dei lavoratori. Si tratterebbe di promuovere, quindi, l'apprendimento lungo tutto l'arco della vita, favorendo la transizione tra i sistemi educativi e il mercato del lavoro, attraverso l'erogazione di servizi di orientamento di qualità e la valorizzazione di strumenti utili all'acquisizione di esperienze lavorative durante il ciclo scolastico (come l'apprendistato e i tirocini).
Inoltre, il CNEL ha posto in evidenza l'esigenza di valorizzare i Fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua al fine di far crescere la propensione delle imprese a investire nella formazione.
Il consorzio interuniversitario Almalaurea, attraverso i suoi rappresentanti, ha osservato che, a fronte di un miglioramento degli indicatori che dovrebbero riflettere la qualità dell'offerta di capitale umano da parte del sistema universitario, il mercato del lavoro ha mostrato una minore capacità di assorbimento.
Almalaurea fa notare come il disallineamento tra competenze possedute e competenze richieste dalle aziende - presente in misura non inferiore anche fra i laureati al primo livello, non risultando più acuto in Italia rispetto alla media degli altri Paesi - non è riconducibile specificamente all'inadeguatezza dei percorsi formativi e non rappresenta la principale causa delle difficoltà di inserimento occupazionale dei laureati. Piuttosto, Almalaurea fornisce una particolare interpretazione del legame tra livello di istruzione degli imprenditori e assunzione di laureati (argomento che sarà ripreso più diffusamente in un'altra parte del documento), al fine di giustificare la bassa percentuale di posti di lavoro che le imprese propongono ai laureati. Almalaurea ritiene pertanto che il disallineamento presente nel nostro mercato del lavoro sia fortemente collegato all'assenza di formazione in ingresso, facendo notare che tale formazione di tipo specialistico non dovrebbe essere fornita direttamente dalla scuola e dall'università, ma dalle stesse imprese.
Almalaurea ritiene inoltre non rispondente al vero l'idea secondo la quale ci sarebbe una grande carenza di diplomati in circolazione, facendo presente che esiste un numero rilevante di disoccupati - lavoratori espulsi dalle imprese - a cui probabilmente le imprese stesse non si rivolgono più, dal momento che preferiscono rivolgersi soltanto ai neodiplomati, che costano meno e possono essere utilizzati per un minor tempo.
Almalaurea ritiene, infine, che la flessibilità in ingresso non debba essere vista dalle imprese come un'alternativa a basso costo alle forme contrattuali tipiche, ma come uno strumento in grado di migliorare la qualità del reclutamento e, più in generale, della gestione del personale.
Tra le diverse proposte indicate per far fronte alle problematiche del mercato del lavoro giovanile, Almalaurea, ha citato l'estensione a tutto il sistema universitario della raccolta ed elaborazione dei dati


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sulle carriere degli studenti e dei laureati, la valorizzazione dell'insegnamento tecnico e professionale, la previsione di interventi a sostegno dell'auto-impiego.
I rappresentanti dell'UPI - nel fornire un quadro delle principali problematiche relative al ruolo giocato in materia dal sistema delle province - giudicano necessario intervenire completando le riforme dei servizi per l'impiego e degli ammortizzatori sociali, aumentando le risorse umane e finanziarie a sostegno dei servizi per il lavoro e realizzando modelli regionali più omogenei. Rilevato, infatti, che, allo stato, su tale versante, si registra un quadro complessivo frammentato e a macchia di leopardo, con sovrapposizione di competenze, si ritiene opportuno assicurare standard minimi condivisi, coordinando il sistema di orientamento scolastico e formativo attraverso la regia provinciale dei servizi pubblici e privati.
Si ritiene che, in assenza di un'azione di riforma, in molte parti del Paese si possa determinare una limitata tenuta dell'economia, a cui non corrisponde una crescita occupazionale.
Secondo l'UPI, il centro per l'impiego dovrebbe rappresentare il riferimento centrale all'interno di una rete sistematizzata - nella quale operino diversi soggetti pubblici e privati -, ovvero il punto di coordinamento e di trasmissione, non soltanto in termini di attuazione, ma anche in termini di elaborazione delle strategie nelle politiche attive.
L'Associazione Bancaria Italiana (ABI) ritiene importante favorire una cooperazione tra sistema pubblico e sistema delle imprese, al fine di perseguire una maggiore congruenza tra istruzione, formazione professionale ed esigenze della produzione.
In relazione poi al problema dell'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, ABI sottolinea la necessità della creazione di percorsi preferenziali per l'attuazione delle norme di origine contrattuale o l'introduzione di forme di defiscalizzazione a vantaggio di forme contrattuali di secondo livello adeguate ai diversi contesti produttivi.
Ricollegandosi a tali linee di tendenza, i rappresentanti di ABI hanno quindi testimoniato l'efficacia degli interventi posti in essere dalle aziende del settore bancario, anche in un'ottica di riqualificazione e formazione del personale nonché di sostegno al reddito. Tali interventi si sono sostanziati in un proficuo impiego dei Fondi interprofessionali e del Fondo di solidarietà, nonché nell'utilizzo di tipologie di contratto a stabilizzazione progressiva, attraverso forme di sottoinquadramento e di retribuzione ridotta che hanno condotto successivamente alla stipula di un contratto a tempo indeterminato. In tal senso, ABI ha posto in evidenza l'efficacia prodotta nel settore bancario dal contratto di apprendistato, di durata generalmente quadriennale, dal momento che esso ha permesso lo svolgimento di attività di formazione effettiva, garantendo una conclusiva stabilizzazione dei rapporti di lavoro (in buona parte donne lavoratrici). Si è quindi formulato l'auspicio che la disciplina di legge sull'apprendistato garantisca la massima flessibilità alle aziende sia per la durata del rapporto sia per la relativa formazione, in direzione di un sempre più efficace inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.
ABI ha altresì sottolineato l'importanza del ricorso ai contratti di solidarietà difensivi ed espansivi, suggerendo forme di riduzione di orario per il personale più avanti negli anni, in favore di ore convertite in un rapporto di lavoro per i più giovani. In questa logica ABI ritiene che le parti sociali non debbano essere lasciate sole nella ricerca di forme contrattuali che riducano i costi del lavoro, nell'ottica di favorire l'ingresso e l'uscita del personale, osservando l'esigenza che tali politiche siano sostenute da congrui finanziamenti pubblici.
L'ISFOL ha posto in evidenza una decisa correlazione tra la forma di lavoro e l'età, laddove alle fasce più mature vengono garantiti livelli di stabilità lavorativa sensibilmente superiori rispetto alla componente giovanile, che si caratterizza per un'elevata incidenza di lavori considerati


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non standard e per la carenza di un sistema di ammortizzatori sociali strutturato e universalistico.
Relativamente all'occupazione giovanile, si è sostenuto che gli investimenti in istruzione nel nostro Paese premiano chi sceglie di proseguire gli studi fino alla laurea e oltre (nel 2010 il tasso di occupazione specifico secondo il titolo di studio risulta crescente al crescere del titolo, con la sola eccezione del diploma di scuola secondaria superiore), anche se il peso percentuale degli occupati in possesso di titolo di studio terziario è sensibilmente inferiore alla media comunitaria, così come risulta inferiore il livello delle retribuzioni.
Il non elevato rendimento dell'investimento in istruzione e formazione, secondo l'ISFOL, è dovuto all'assenza nel nostro Paese di un sistema di formazione professionale terziaria di durata triennale, e all'aumento, soprattutto nel Mezzogiorno, delle lauree in discipline umanistiche e storico-sociali.
Si è quindi evidenziato che nell'ultimo decennio è in crescita un processo di sottoinquadramento contrattuale per i giovani in possesso di diplomi o cosiddette lauree deboli, fattori che hanno determinato dinamiche che segnalano una forte contrazione delle immatricolazioni all'università sia in termini assoluti che percentuali. Quanto al contratto di apprendistato, è stato evidenziato che nel corso dell'anno 2008 è stata coinvolta in attività formative - soprattutto quelle programmate dalle regioni e province autonome - una platea di lavoratori pari al 26,5 per cento, su un numero complessivo di 169.000 giovani apprendisti occupati. Dei giovani inseriti nei percorsi dell'alto apprendistato, pressoché integralmente apprendisti assunti con contratto professionalizzante, il 69 per cento ha completato il percorso formativo relativo all'anno considerato. È quindi stato sottolineata la limitata quantità di formazione presente nell'apprendistato, circoscritta perlopiù a quello professionalizzante, considerato che le altre tipologie si trovano ancora in una fase embrionale. La trasformazione dei contratti di apprendistato in contratti a tempo indeterminato coinvolge soprattutto coloro che sono laureati e coloro che seguono percorsi specialistici triennali di qualifiche professionali, meno i diplomati e i laureati triennali.
A fronte dei limiti nelle politiche attive del lavoro l'ISFOL ha documentato l'efficacia delle politiche passive nella difesa dei livelli di occupazione durante la fase più acuta della crisi. Secondo l'Istituto la strategia basata sulla riduzione dell'orario di lavoro (anche con i provvedimenti in deroga) ha permesso di mantenere il legame tra lavoratore e azienda contenendo la flessione dell'occupazione e limitando i costi della spesa pubblica. Per comprendere la dimensione del fenomeno - secondo l'ISFOL - è sufficiente considerare che tra il quarto trimestre del 2007 e il primo trimestre del 2011, a fronte di una riduzione dell'intensità di lavoro equivalente a poco meno di 1,3 milioni di unità di lavoro full time, l'occupazione si è contratta di circa 530 mila unità; ovvero con gli schemi di riduzione d'orario si sono salvaguardati circa 700mila posti di lavoro. Nei primi anni '90 per ogni punto di Pil perso, il tasso di occupazione subiva una flessione media dell'1,1 per cento. Nel 2009, per ogni punto di Pil perso, la flessione è stata pari allo 0,48 per cento. L'impatto occupazionale del periodo 2008-2009 per ogni punto di Pil perso è stato pertanto inferiore di oltre la metà rispetto al periodo 1992-1993. Tra gli elementi che - secondo l'ISFOL - hanno concorso a limitare la flessione occupazionale a fronte del calo del Pil, il più importante è stato il ricorso a strumenti di rimodulazione sistematiche degli orari di lavoro i sostituzione di misure di riduzione del personale (esuberi e prepensionamenti).
I rappresentanti del Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro hanno evidenziato rilevanti difficoltà di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, sottolineando il paradosso italiano di un mercato del lavoro in cui le aziende hanno problemi nel ricercare determinati profili professionali, a fronte di circa 2.300.000 disoccupati (prevalentemente donne e giovani).


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A tale proposito, è stato messo in rilievo il malfunzionamento del sistema del collocamento pubblico, che spinge le aziende a reperire manodopera prevalentemente attraverso il canale delle conoscenze personali.
È stato altresì evidenziata la difficoltà ad individuare manodopera disposta a lavorare nelle cosiddette attività faticosa e manuali, per le quali si ricorre a lavoratori extracomunitari, facendosi notare che fattori di ordine sociale e culturale, connessi alla lunga permanenza in famiglia dei giovani e all'eccessiva scolarizzazione, possono incidere su tale tipo di comportamento.
Si è quindi sottolineato il fallimento del sistema di formazione professionale - che, ad avviso dei rappresentanti auditi, ha permesso di creare lavoro per i formatori piuttosto che assolvere al compito di creare il matching tra offerta e domanda di lavoro - e del sistema universitario, che nella sua articolazione attuale (il cosiddetto «3 2») ha finito per generare una proliferazione di diplomi di laurea, determinando uno scollamento tra mondo del sapere e del lavoro.
I rappresentanti del Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro hanno poi prospettato la necessità di trasferire in azienda i momenti formativi, favorendo la diffusione dei tirocini, considerati dei validi sistemi di collegamento tra scuola, mondo universitario e aziende, incentivando la creazione di sistemi di banche dati in cui far confluire i curricula e consentendo alle aziende di intercettare i profili professionali richiesti.
Con riferimento al grado di flessibilità del mercato del lavoro, gli auditi hanno posto in rilievo la grande diffusione del rapporto a termine, che, a loro avviso, rappresenta una difesa strategica da parte delle imprese a fronte di costi elevati di gestione: sarebbe opportuno, a loro avviso, individuare una compensazione a tale fenomeno, ad esempio garantendo un allentamento dei vincoli in uscita del rapporto di lavoro e favorendo la creazione di un sistema organico di ammortizzatori sociali ai fini di una ricollocazione repentina ed efficace del lavoratore. Ad avviso degli auditi, sarebbe anche importante concedere alle aziende la possibilità di provare il lavoratore per un tempo congruo, attesa la brevità del periodo di prova disciplinato dai contratti collettivi.
I rappresentanti di Assolavoro (l'associazione che riunisce a livello nazionale le principali agenzie per il lavoro) hanno sottolineato l'importanza del contratto di somministrazione - sul quale si svolgeranno ulteriori considerazioni anche in un'altra parte del presente documento - inteso come strumento flessibile di assunzione di manodopera per le imprese, che appare capace anche di tutelare le esigenze di sicurezza dei lavoratori, attraverso l'erogazione di servizi complementari, riguardanti la formazione, la previdenza integrativa, la maternità e la disoccupazione: esso favorirebbe, a loro avviso, una efficace contrapposizione al lavoro nero e all'uso illegittimo di altre forme contrattuali. Si è rilevato altresì un quadro occupazionale preoccupante, soprattutto per i giovani, che vede un pesante mismatch tra profili professionali presenti sul mercato del lavoro (soprattutto di tipo tecnico) e fabbisogno produttivo delle aziende. In proposito, sottolineata la mancanza di un sistema scolastico adeguato e la scarsità delle scuole professionali, determinata anche da fattori culturali connessi alla insufficiente considerazione attribuita al lavoro professionale tecnico, si è rilevato che il contratto di somministrazione permetterebbe di orientare i giovani, a livello locale, in relazione alle opportunità e alle offerte delle imprese, formandoli a seconda delle loro caratteristiche. La parità di trattamento assicurata ai lavoratori somministrati rispetto a quelli con contratto a tempo indeterminato, unitamente al costo maggiore - in ragione delle ampie tutele offerte - rispetto alle altre forme flessibili, assicurerebbe poi una maggior specializzazione e professionalizzazione delle risorse, costituite da personale altamente qualificato, per il quale si prospetterebbero buone possibilità di stabilizzazione. I rappresentanti di Assolavoro,


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poi, evidenziata l'importanza di un altro strumento contrattuale flessibile - lo staff leasing - rivolto ai profili professionali medio alti, hanno richiamato l'esigenza di procedere ad una estensione della liberalizzazione della somministrazione, attraverso il rafforzamento della «acausalità» del contratto (prevista già in forma sperimentale dal 2010). Si sono infine auspicate adeguate forme di collaborazione e integrazione tra i servizi pubblici per l'impiego e le Agenzie, che si pongono in chiave complementare ai primi.
I rappresentanti del Forum azionale giovani hanno illustrato i risultati di una indagine svolta sul tema del lavoro dai ricercatori della loro rete, soffermandosi, in particolare, su talune criticità del mercato del lavoro. Si è evidenziato come ancora sia grande l'incidenza del lavoro sommerso e quanta poca conoscenza i giovani abbiano delle norme in tema di previdenza complementare, strumento a cui fanno ricorso essenzialmente solo i lavoratori stabili. Sul tema dei lavori atipici, gli auditi hanno portato l'attenzione sugli ammortizzatori sociali, facendo notare che la flessibilità non deve trasformarsi necessariamente in precarietà. Si è poi segnalata l'esigenza di valorizzare lo strumento dello stage, rafforzando la figura del tutor e prevedendo una percentuale sul minimo salariale dei contratti collettivi nazionali di riferimento, in base alle mansioni svolte dallo stagista. Per lo stage e per tutti gli altri strumenti contrattuali flessibili si è auspicato un utilizzo conforme alla loro natura, evitando modalità distorsive tendenti a mascherare altre finalità. Si è infine segnalata la necessità di valorizzare la formazione professionale e di intervenire sul sistema d'istruzione universitario, affinché le università svolgano un'effettiva attività di orientamento: fornire una serie di informazioni sulle possibilità lavorative di un determinato campo, potrebbe mettere gli studenti nelle condizioni, ad esempio, di sostenere concorsi a livello europeo.
Quanto agli elementi acquisiti nel corso dell'audizione dedicata alle principali organizzazioni sindacali, si segnala anzitutto che i rappresentanti della CGIL hanno evidenziato come la crisi abbia determinato un progressivo peggioramento della qualità delle assunzioni, con la crescita di forme strutturalmente precarie e la conseguente transizione verso la disoccupazione o la fuoriuscita dal mercato del lavoro. È stato quindi sottolineato il crescente aumento del fenomeno dei NEET - cioè dei giovani né in occupazione, né in formazione - giunto al 18,6 per cento nella coorte 16-24, al 28,8, nella coorte 25-30.
Sottolineato poi il mismatch territoriale e il dato preoccupante dell'occupazione femminile, si è fatto notare che i lavori precari o non a tempo indeterminato rappresentano un fattore di calo della produttività, perché a lavori poco tutelati corrisponde una scarsa qualità del prodotto-servizio e, quindi, una progressiva debolezza dell'intero sistema produttivo.
Al contempo, i rappresentanti della CISL hanno richiamato il divario tra qualifiche possedute e mansioni svolte (conseguenza di una mancato raccordo tra la formazione tecnico-professionale e il nostro mercato del lavoro), il problema della salute e della sicurezza dei giovani lavoratori legati a contratti flessibili e temporanei, la crescita del lavoro sommerso, la mancanza di trasparenza delle opportunità nel mercato del lavoro e l'assenza di una integrazione tra l'offerta pubblica e privata, l'uso distorto dei contratti atipici. Dopo aver segnalato l'esigenza di rendere operativa la riforma sull'apprendistato, si è posta in evidenza la necessità di prevedere un credito di imposta per le assunzioni nel Sud, per rilanciare i livelli occupazionali del Mezzogiorno.
I rappresentanti della UIL hanno altresì evidenziato l'esistenza di un mercato del lavoro duale e di un sistema di sostegni al reddito che lascia esclusi soprattutto i lavoratori più deboli, sottolineando che l'incontro domanda-offerta non funziona e che il sistema di formazione presenta un'evidente gap rispetto alle richieste del sistema produttivo e territoriale. Si sono


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evidenziate quindi le criticità del sistema di collocamento ed orientamento dei lavoratori, sia pubblico che privato, facendosi notare che prevale nel nostro sistema un'intermediazione di tipo informale. Gli auditi ritengono importante prevedere un potenziamento delle politiche attive del lavoro, anche attraverso un riordino del sistema degli incentivi nelle assunzioni e un contrasto all'uso distorto di alcuni istituti contrattuali.
Sul versante della formazione, si è poi segnalata l'esigenza di rilanciare il sistema dei fondi interprofessionali, intesi come laboratori di formazione continua per il nostro Paese, favorendo l'elaborazione di programmi di formazione tecnica e professionalizzante più utili ad aumentare le capacità produttive del nostro sistema di impresa, in un contesto di collaborazione bilaterale con le parti sociali.
A loro volta, i rappresentanti dell'UGL hanno evidenziato le criticità del sistema di istruzione e della formazione professionale, nonché l'eccessiva diffusione del lavoro precario e le insufficienze del collocamento. È stato poi richiamato il problema dei lavoratori ultracinquantenni espulsi dal processo produttivo per crisi aziendali e chiusura di aziende, per i quali soprattutto si pone un'esigenza di aggiornamento professionale. I rappresentanti della UGL si sono poi dichiarati d'accordo nel ridurre e addirittura nell'eliminare alcune forme di contrattazione cosiddette atipiche, puntando sull'apprendistato o sul lavoro a tempo determinato.
Sono state poi avanzate talune proposte, tra le quali si segnala l'ipotesi di un allungamento del periodo di prova, la previsione di sistemi premiali, come agevolazioni fiscali per le assunzioni e riduzione dell'IRAP, il rafforzamento del contratto part-time per favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Nell'ambito dell'audizione dedicata a comitati e associazioni di coordinamento dei lavoratori precari, i rappresentanti della «Repubblica degli stagisti» riscontrano un'attivazione spesso distorta dello stage, che porta i lavoratori ad aver svolto nel loro percorso professionale più tirocini, a causa di un sistema di gestione da parte degli enti promotori non efficace e non coordinato. A tale riguardo, la «Repubblica degli stagisti» propone l'introduzione di una sorta di anagrafe degli stagisti, un database nazionale o su base regionale che possa convogliare tutti i dati relativi all'attivazione di ogni stage, permettendo una trasparenza totale rispetto all'utilizzo di questo tipo di strumento.
Dopo aver fatto notare il problema importante del mancato riconoscimento di un equo compenso agli stagisti, gli auditi hanno richiamato l'esigenza di sanzionare chi abusa dello stage, obbligandolo a trasformarlo in un contratto di apprendistato, qualora emerga che il tirocinante viene utilizzato come dipendente. Secondo gli auditi è urgente adeguare la legislazione in modo da impedire l'utilizzo gratuito e lo sfruttamento di tali lavoratori, introducendo un obbligo di rimborso spese per tutti gli stage e i praticantati. Soffermandosi più un generale sulle problematiche dell'accesso al mondo del lavoro, i rappresentanti della «Repubblica degli stagisti» hanno richiamato l'esigenza di introdurre un salario minimo che vada a coprire tutti i contratti (o quanto meno tutti i contratti che esulano dai contratti nazionali di categoria), prevedendo un contratto unico: si ritiene importante semplificare le decine di forme contrattuali attualmente esistenti, che generano solamente confusione e disparità di trattamento, finendo con lo «spezzettare» i diritti dei lavoratori. Si è quindi evidenziata la situazione di apartheid del mercato del lavoro italiano, che danneggia soprattutto i giovani e che viene mascherata molto spesso attraverso il finto lavoro autonomo, i contratti a progetto senza progetto, le partite IVA che gli stessi auditi hanno voluto definire «spintanee».
Nella medesima audizione, i rappresentanti del «Comitato 9 aprile - Il nostro tempo è adesso; la vita non aspetta» hanno fatto presente che essi ritengono che il lavoro discontinuo debba costare di più del lavoro a tempo indeterminato, sulla base dei minimi retributivi previsti dai


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contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto di appartenenza. Ciò consentirebbe di scoraggiare l'utilizzo improprio di forme contrattuali atipiche e di dare adeguata copertura previdenziale ai lavoratori discontinui.
Si giudica, poi, urgente e necessaria l'estensione degli ammortizzatori sociali a tali lavoratori, garantendo l'indennità di disoccupazione ai lavoratori subordinati a tempo determinato (che spesso ne sono privi, essendo i requisiti di accesso molto selettivi), ai lavoratori parasubordinati (per i quali, allo stato, si è prevista esclusivamente la misura dell'una tantum, anche in questo caso in termini piuttosto restrittivi) e ai lavoratori autonomi che lavorano con più committenti.
I rappresentanti del «Comitato 9 aprile» ritengono poi che sia molto importante l'istituzione di un reddito minimo di inserimento, inteso non solo come forma di sostegno e tutela, ma anche come strumento promozionale e abilitante, costituito, da una parte, da un contributo monetario, dall'altra, da servizi da rendere disponibili e fruibili per i soggetti.
I rappresentanti del Comitato, inoltre, giudicano opportuno evitare ulteriori innalzamenti dell'aliquota previdenziale della gestione separata per i lavoratori atipici, ritenendosi necessario intervenire prima sulla quota destinata alle prestazioni sociali (lo 0,72 per cento). Al riguardo, si considera prioritario incidere sui redditi al fine di avere poi automaticamente una ricaduta positiva sul montante.
Fatto notare che il percorso dei lavoratori precari atipici è molto frammentato, atteso che spesso non si maturano i requisiti e si rischia anche di perdere segmenti del proprio percorso contributivo, il «Comitato 9 aprile» propone l'abbattimento di ogni ostacolo alla totalizzazione dei propri contributi e l'introduzione di strumenti tesi a valorizzare tutto il contenuto del proprio montante.
I rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia hanno segnalato l'importanza di intervenire su vari pilastri: formazione professionale, istruzione, maggiore flessibilità del mercato del lavoro, costo del lavoro.
Ci si è quindi soffermati sulla rigidità sia in entrata che in uscita del mercato del lavoro e soprattutto sulla prevalenza delle politiche passive del lavoro (che hanno comunque consentito di mantenere un certo livello occupazionale nei momenti di difficoltà) rispetto a quelle attive. Dopo aver sottolineato l'esistenza del fenomeno dei più volte richiamati NEET (Not in Education, Employment or Training), facendo presente che nel Mezzogiorno del nostro Paese l'80 per cento dei giovani uomini si trova in tale situazione, si è richiamata l'esigenza di rafforzare il sistema dell'istruzione e della formazione, considerata la grave discrepanza che esiste tra domanda e offerta di lavoro. Nel far notare la necessità di recuperare le competenze tecnico-professionali di cui il mondo economico e produttivo, fatto di piccole e medie imprese, ha realmente bisogno, si è poi richiamato il fenomeno della cosiddetta over-education, ovvero della sovra-specializzazione di tanti giovani, che trovano lavoro, ma non in collegamento agli studi compiuti.
I rappresentanti delle piccole e medie imprese ritengono, in proposito, che il Testo unico dell'apprendistato, recentemente adottato dal Governo, sia un ottimo strumento per tentare di superare questo mismatch: si tratterebbe, a loro avviso, di un importante istituto contrattuale che, per la sua componente formativa, può conseguire il duplice risultato di garantire il diritto all'istruzione e alla formazione professionale dei giovani.
Evidenziato che il nuovo Testo unico dell'apprendistato pone al centro dell'istituto a causa mista, cioè della parte formativa vera e propria, l'impresa come luogo ideale di trasmissione di saperi e competenze, i rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia hanno poi sottolineato l'esigenza di valorizzare i fondi interprofessionali, al fine di garantire la formazione continua dei lavoratori.
Sul versante del costo del lavoro, si giudica opportuno rendere strutturali le


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misure di detassazione e decontribuzione attualmente previste nel nostro ordinamento.
I rappresentanti di Confindustria hanno evidenziato le criticità del sistema di collocamento italiano, facendo notare che il grado di istruzione universitaria è basso, come basso è il numero di laureati in materie tecnico-scientifiche. Si è quindi fatto presente che altrettanto limitato è il tasso di iscrizione nei percorsi di istruzione secondaria di tipo tecnico, che comparato a quello della Germania risulta sfavorevole: esiste, pertanto, a loro avviso, una sorta di scollamento fra gli indirizzi scolastici e della formazione e le reali potenzialità del mercato del lavoro, che rende necessario un lavoro da compiere sull'orientamento scolastico, da un lato, sulla formazione professionale, dall'altro. Si è evidenziato, al riguardo, che i nostri giovani giungono al mondo del lavoro più tardi rispetto a quanto accade in alcuni altri Paesi, peraltro con un bagaglio di esperienze non sempre adatto e spesso totalmente a digiuno da esperienze lavorative. Si è quindi segnalata l'esigenza di dare piena attuazione alla riforma dell'apprendistato, ritenuto uno strumento che, nei suoi tre diversi livelli, consente l'incontro virtuoso fra il mondo della scuola e dell'università e il mondo del lavoro.
Dopo aver sottolineato l'esigenza di puntare sulla riduzione della pressione fiscale sulle imprese e sul taglio del cuneo fiscale, i rappresentanti di Confindustria hanno poi rilevato che un sistema di welfare più equilibrato e universalistico, in grado di tenere conto di politiche passive e attive, richiede un'equa distribuzione dei suoi costi.
Da ultimo, gli auditi si sono soffermati sul fenomeno dei NEET - tema affrontato a più riprese nel presente documento - osservandosi che tra i 15 e i 24 anni l'incidenza nel 2010 risale al 19 per cento rispetto al 15 per cento del 2008; si è quindi fatto presente che il fenomeno si acuisce e diventa ancora più grave quando si guarda alla classe di età successiva, quella tra i 25 e i 29 anni, dove l'incidenza è addirittura del 27,3 per cento.
La Confapi ha auspicato una maggiore attenzione al collegamento tra il sistema scolastico e quello delle imprese, soprattutto di medie e piccole dimensioni, esprimendo un giudizio favorevole sull'utilizzo dei fondi interprofessionali e della formazione in azienda.
I rappresentanti della Confapi, nel dichiararsi favorevoli ad una certa flessibilità nell'accesso al lavoro - che non vuol dire, a lo avviso, proliferazione di fattispecie contrattuali, ma utilizzo più certo e corretto delle fattispecie esistenti - hanno valutato positivamente l'articolo 8 della legge n. 148 del 2011 (in tema di derogabilità ai contratti collettivi nazionali), dal momento che esso conferisce maggiore possibilità di flessibilità alle imprese, in concerto con i sindacati, prevenendo eventuali contenziosi tra lavoratori ed imprese.
Espressa la necessità di favorire una riduzione del costo del lavoro, i rappresentanti della Confapi hanno poi sottolineato l'esigenza di promuovere strumenti quali l'apprendistato e lo stage, manifestando interesse anche per un eventuale aumento del periodo contrattuale di prova, che consentirebbe alle imprese di valutare i lavoratori assunti. Lo stage, in particolare, viene valutato uno strumento che aiuta, da una parte, le imprese, dall'altra, i ragazzi a non rimanere senza attività, in attesa di opportunità migliori che si possono presentare loro.
I rappresentanti della SVIMEZ hanno evidenziato che il dato ufficiale di disoccupazione nel Mezzogiorno, che era del 12 per cento nel 2008, oggi è del 13,4 per cento, contro il 6,4 per cento nel Centro-Nord (era il 4,5 per cento all'inizio della crisi), segnalandosi un aumento dell'area di inattività e del lavoro irregolare (tra il 2003 e il 2010 gli inattivi in età da lavoro sono cresciuti al Sud di quasi un milione di unità). I rappresentanti della SVIMEZ rilevano che nel Mezzogiorno gli occupati standard (sostanzialmente i part-time) in questa classe di età sono il 24 per cento,


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gli atipici il 7 per cento, i cassaintegrati lo 0,1 per cento, i disoccupati ufficiali l'11 per cento, gli appartenenti alla «zona grigia» - cioè quelli che dichiarano che vorrebbero lavorare se ci fosse una prospettiva, ma che non si dichiarano in attiva ricerca di lavoro - il 18 per cento, gli inattivi - ovvero quelli in nessun modo collegati al mercato del lavoro - circa il 40 per cento.
Si è quindi sottolineato che la debolezza del sistema produttivo e di un sistema sociale sostanzialmente bloccato determina un mismatching, ovvero la presenza di giovani laureati, specializzati, professionalizzati, di vario genere, che sempre meno trovano lavoro, a fronte di una formazione del sistema scolastico e universitario, che, soprattutto nel Mezzogiorno (il tasso di iscrizione all'università nel Mezzogiorno è in discesa), sembra non corrispondere alle domande delle imprese. Si è quindi evidenziato che sovente i laureati meridionali emigrano nel Centro-Nord o sono la componente di un pendolarismo di lunga distanza, facendosi presente che il 30 per cento di essi, nella fascia di età dai 25 ai 34 anni, ricadrebbe nella categoria dei NEET.
È stato poi evidenziato che in Italia la forte flessibilizzazione del mercato del lavoro ha avuto effetti congiunturali positivi nell'area sviluppata del Paese, meno nelle aree più deboli, dove il problema è strutturale: continuare in questa direzione potrebbe rivelarsi non efficace dal punto di vista congiunturale e negativo da punto di vista strutturale. Si ritiene che la flessibilità abbia contribuito a mantenere un ridotto costo del lavoro per unità di prodotto, ma a costo di ridurre le performance e la dimensione delle imprese, fossilizzandole in una struttura che, alla lunga, si è rivelata incapace di reggere la situazione di crisi.
Si giudica opportuno piuttosto l'avvio di una adeguata politica di sviluppo che accompagni le imprese del sud in un processo di crescita fondato sulla ricapitalizzazione, la modifica delle specializzazioni, l'organizzazione, la ricerca e l'innovazione. Soluzioni volte alla riduzione del costo del lavoro potrebbero essere utili e avere un effetto compensativo nel breve termine (il credito d'imposta), ma non sarebbero certo sostitutive di misure più strutturali connesse all'avvio di adeguate politiche industriali (puntando, ad esempio, soprattutto nel sud, all'energia geotermica).
I rappresentanti della SVIMEZ si dichiarano poi aperti a possibilità di adeguamento del costo del lavoro alla produttività, pur ritenendo che, proprio in aree deboli come il Mezzogiorno, l'unico elemento vero di garanzia sia rappresentato dal contratto nazionale, giudicato derogabile solo in presenza di espresse previsioni contenute nel contratto nazionale stesso: nel caso in cui ci si affidasse esclusivamente al contratto aziendale, quindi, la debolezza sul mercato del lavoro dei sindacati e dei lavoratori delle imprese meridionali finirebbe per condurre a deroghe eccessive.
Particolare interesse merita la sottolineatura di una inversione del ciclo demografico delle regioni meridionali, in quanto, a metà del secolo, il Sud avrà perso 2 milioni di giovani mentre gli ultrasettantacinquenni cresceranno del 10 per cento (dall'8 per cento al 18 per cento).
Il ministro del lavoro e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, ha sottolineato l'attuale insufficiente capacità inclusiva del mercato del lavoro a cui concorrono il bassissimo livello di incontri tra la domanda e l'offerta di lavoro (che si realizzano attraverso canali informali) e il significativo disallineamento tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle effettivamente disponibili.
A tale riguardo, il ministro ritiene che la recente liberalizzazione del collocamento abbia lo scopo dichiarato di promuovere non solo l'incontro tra domanda e offerta, ma anche la progettazione di percorsi educativi, integrati con esperienze lavorative. Il ministro giudica necessario rendere meno opaco il mercato del lavoro, rendendo trasparenti i curricula degli studenti e dei neolaureati nei siti delle università e nel sistema informatico Cliclavoro


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(il portale istituzionale). Il ministro ha rilevato, quindi, una disarticolazione tra regioni e province in materia di collocamento, in moltissimi casi anche di carattere tecnico-funzionale, auspicando una doverosa ripresa della funzione di governo unitario da parte delle regioni nei confronti delle province, pur nel rispetto delle competenze di quest'ultime, da valorizzare soprattutto nell'ottica di una tutela delle fasce più deboli del mercato del lavoro.
Il ministro ha sottolineato l'importanza di una collaborazione tra Stato, regioni e parti sociali, anche con il contributo degli enti bilaterali, ai fini di una efficace gestione degli ammortizzatori sociali in deroga e delle attività di formazione, auspicando una reale operatività delle norme che collegano il godimento dei benefici alla disponibilità del soggetto ad accettare nuove opportunità lavorative.
Dopo aver richiamato l'esigenza di una più corretta e semplificata gestione delle risorse dei fondi interprofessionali, ai fini di un'attività di formazione da svolgersi prevalentemente in ambiente lavorativo, il ministro ha sottolineato la necessità di investire, da un lato, sull'integrazione tra l'apprendimento e il lavoro (grazie ad una corretta applicazione dell'istituto dell'apprendistato, di recente valorizzato dal Governo in carica) e, dall'altro, sulla possibilità di rendere più omogenea la disciplina dei rapporti di lavoro, giudicata ancora troppo rigida, soprattutto dal punto di vista della risoluzione del rapporto stesso.
Il ministro, infine, giudica importante un corretto sviluppo delle relazioni industriali che vada nel senso di una proficua collaborazione delle parti sociali in chiave bilaterale, in vista di una regolamentazione efficace del mercato del lavoro (complementare rispetto a quella istituzionale), che comprenda lo svolgimento di attività formative e la disciplina delle dinamiche salariali.
Il ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Mariastella Gelmini, illustrando le politiche poste in essere in materia scolastica e universitaria, ha evidenziato la necessità di creare una vera integrazione tra il sistema dell'istruzione e della formazione e il mercato del lavoro. Sono stati così posti in evidenza i numerosi interventi compiuti nel corso della legislatura con l'obiettivo di contrastare la dispersione scolastica - nel nostro Paese oltre la media europea di circa 9 punti (intorno al 17 per cento) - e per ridurre la disoccupazione giovanile (in Italia siamo ben oltre il 20 per cento rispetto alla media europea), attraverso il miglioramento dei percorsi della formazione professionale (anche ai fini dell'assolvimento dell'obbligo di istruzione) e la rivisitazione del contratto di apprendistato.
Si è quindi sottolineato il processo di valorizzazione dell'istruzione tecnica - attraverso l'alternanza scuola/lavoro e la realizzazione della formazione in ambiente lavorativo - portato avanti al fine di intercettare il bisogno del sistema delle imprese di avere professionalità adeguate e tecnici qualificati. In tale direzione, il Ministro ritiene si pongano le novità introdotto sul versante degli stages e dei tirocini, disciplinati tempi certi e limitati in modo tale da impedirne un utilizzo distorto, nonché quelle in materia di istruzione tecnica di terzo livello e di ITS (Istituti tecnici superiori). Il Ministro ha fatto notare che nel 2010 - nonostante l'elevato tasso di disoccupazione - 100.000 posti di lavoro non sono stati occupati, proprio perché la scuola non è stata in grado di offrire i profili tecnici che il mercato del lavoro e il settore produttivo richiedevano.
Particolare attenzione è stata poi riservata al tema dell'orientamento e delle formazione; su tale punto si sono evidenziate le forme di collaborazione con le università, in vista della pubblicazione dei curricula dei neolaureati, e con le regioni, in prospettiva di un monitoraggio sull'andamento e sulla qualità della formazione professionale (la quale, ad avviso del Ministro, non ha standard qualitativi omogenei ed elevati in tutto il Paese).


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Dopo aver sottolineato gli elementi di novità introdotti nel campo dei dottorati al fine di migliorarne la qualità e la spendibilità sul mercato del lavoro, il Ministro si è concentrato sulla riforma dell'università perseguita con l'obiettivo di eliminare sprechi ed inefficienze e garantire migliori standard qualitativi (in tal senso, si pongono l'accreditamento delle università e l'istituzione di un'agenzia per la valutazione, l'ANVUR).
Fatto presente che il piano di razionalizzazione delle piante organiche condotto sulla base di un fabbisogno oggettivo di insegnanti per numero di studenti ha contribuito a produrre una maggiore stabilità nei rapporti di lavoro, il Ministro ha fatto notare l'ingente impegno profuso dal Governo, in collaborazione delle regioni, per migliorare la qualità dell'istruzione soprattutto nel Mezzogiorno, attraverso l'utilizzo dei fondi strutturali. Sono state poi evidenziate le agevolazioni per i giovani studenti, per gli studenti lavoratori, per le madri impiegate part time, sottolineandosi gli interventi compiuti per assicurare il diritto allo studio (da perseguire attraverso il riconoscimento di borse di studio e prestiti d'onore).
Rilevato che il compito della scuola è quello di educare, non di creare occupazione, il Ministro ha così ravvisato l'esigenza di migliorare qualitativamente l'investimento nell'istruzione, valorizzando le strutture, l'edilizia, la formazione degli insegnanti, il loro aggiornamento, la loro motivazione, legando la progressione delle carriere non solo all'anzianità ma anche alle performance.
Ritenuto importante puntare sulla valutazione puntuale degli standard qualitativi, dei requisiti minimi di ogni corso, di ogni ateneo, più che sull'abolizione del valore legale del titolo di studio, il Ministro ha poi richiamato la necessità di favorire un riconoscimento più diretto dei titoli all'interno dell'Unione europea, in modo che esso non sia più connesso esclusivamente al meccanismo degli accordi bilaterali tra università.

3. I principali elementi emersi nel corso delle audizioni.

Con l'indagine conoscitiva, la XI Commissione si proponeva di esaminare il ruolo dei fattori che concorrono all'occupabilità dei lavoratori e a promuovere l'inserimento lavorativo. In particolare, come detto nel paragrafo introduttivo, i filoni di indagine ritenuti prioritari erano stati individuati (secondo quanto enunciato nel programma dell'indagine) nella capacità del sistema educativo e formativo di rispondere alle esigenze del mondo produttivo (in termini di figure professionali richieste dal mercato nei diversi contesti territoriali e produttivi), anche per superare il fenomeno del cosiddetto «lavoro rifiutato» e del ruolo delle forme contrattuali flessibili nell'attuale mercato del lavoro, soprattutto con riferimento all'inserimento lavorativo dei giovani.
Alla luce delle audizioni svolte si può sin d'ora affermare che i materiali informativi acquisiti e l'ampia mole di dati raccolti consentono di giungere - ferma restando la pluralità delle chiavi di lettura proposte per spiegare i vari fenomeni - a una rappresentazione chiara e aggiornata delle dinamiche in atto nel mercato del lavoro del nostro Paese, dei principali punti di debolezza e dei problemi ancora (almeno in parte) irrisolti.
Un primo e fondamentale punto fermo al quale è possibile pervenire dall'analisi complessiva degli andamenti occupazionali negli ultimi anni è l'ampia precarizzazione delle classi di lavoratori più giovani, a conferma della marcata segmentazione (o dualismo) del mercato del lavoro del nostro Paese, che vede contrapposti lavoratori con un'anzianità media più elevata e con posizioni contrattuali più stabili e garantite, a lavoratori più giovani con contratti «deboli», retribuzioni medie inferiori e minori garanzie. La divaricazione è tanto più evidente anche per quanto riguarda gli effetti sociali della crisi: mentre la flessione dell'occupazione stabile si è avvertita solo nel 2010 (-1,5 per cento), i rapporti di


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lavoro a termine o comunque non standard hanno subito una flessione importante fin dai primi mesi della crisi.
Benché la cosiddetta «precarietà» sia un fenomeno ampiamente indagato e da anni ormai oggetto del dibattito politico, dai dati emerge con chiarezza che si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni, in costante crescita e con preoccupanti ricadute socio-culturali, anche se sono emerse valutazioni e stime differenti sull'ampiezza del fenomeno stesso.
Secondo dati CENSIS, in Italia i giovani con meno di 35 anni, occupati con contratti flessibili (dalla partita IVA a monocommittenza all'apprendistato) sono 1 milione e 568 mila, circa il 25,1 per cento del totale degli occupati appartenenti a questa fascia di età (566 mila hanno meno di 25 anni, poco più di 1 milione tra 25 e 34 anni). In termini di incidenza, tra i lavoratori con meno di 24 anni sono impiegati con contratti flessibili o atipici il 45,5 per cento. La grande maggioranza di questi (40,1 per cento) ha un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato (15,7 per cento un contratto di inserimento, come ad esempio l'apprendistato, finalizzato alla successiva stabilizzazione; il 20,5 per cento un contratto temporaneo; il restante 5,4 per cento è costituito da lavoratori a progetto o con partita IVA in situazione di monocommittenza). Nella fascia di età successiva (25-34 anni) l'incidenza dei lavoratori flessibili è del 20 per cento (il 14,2 per cento con contratto di lavoro a tempo determinato).
Secondo dati ISTAT, le possibilità di transitare da un rapporto di lavoro flessibile verso condizioni di impiego stabile non sono molte e si sono andate riducendo nel corso degli ultimi anni. Ogni 100 lavoratori con contratto flessibile nel primo trimestre 2009, soltanto 15 dichiaravano, dopo un anno, di aver conseguito un contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre erano 24 tra il 2007 e il 2008. L'incidenza dei giovani che conservano un lavoro temporaneo dopo un anno è invece salita dal 53,3 per cento del 2008 al 60,1 per cento del 2010. Per quanto concerne, specificamente, i Co.co.pro (ossia gli assunti con contratti di collaborazioni a progetto), i dati forniti dal Forum nazionale giovani evidenziano dei giovani risultanti titolari di un contratto di questo tipo alla fine del 2006, a distanza di un anno il 73,1 per cento erano ancora nella stessa posizione; il passaggio al lavoro dipendente ha riguardato solo il 22,6 per cento, metà dei quali con contratto a tempo determinato.
Per molti giovani si pone, pertanto, il problema della precarietà di lunga durata, con conseguente impossibilità di fuoriuscita dal nucleo familiare di origine.
I lavoratori giovani, poi, sono i primi a subire gli effetti del rallentamento economico. Sempre secondo dati ISTAT, dei 532 mila posti di lavoro persi nel biennio 2009-2010, circa il 90 per cento (pari a 482 mila unità) ha riguardato giovani tra i 18 e i 29 anni. In termini relativi, la flessione dell'occupazione giovanile (pari all'8 per cento nel 2009 e al 5,3 per cento nel 2010) è stata oltre cinque volte più elevata di quella complessiva. Dati analoghi sono stati forniti dal CENSIS, secondo cui l'Italia è il Paese dove il divario tra lavoro giovanile e adulto si presenta più marcato. Nel periodo 2007-2010, infatti, a fronte di un sensibile calo di occupati under 35 (-13,6 per cento, uno dei più alti d'Europa, che ha interessato soprattutto la fascia dei giovanissimi), il numero degli occupati in età adulta (over 35) è aumentato del 3,9 per cento (anche in questo caso si tratta di uno dei valori più alti d'Europa).
Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 ha raggiunto nel 2010 il 27,8 per cento, a fronte del 20,8 per cento della media europea.
Dati particolarmente allarmanti sulla situazione occupazionale giovanile e sui tassi di inattività nel Mezzogiorno, strettamente correlati alla caduta del PIL registrata negli ultimi anni, sono stati forniti dalla SVIMEZ. Dei 533.000 posti di lavoro persi nel nostro Paese nel triennio 2008-2010, 281.000 si localizzano nel Mezzogiorno; ciò significa che il 60 per cento dei posti di lavoro persi si concentra in regioni che rappresentano meno del 30 per cento degli occupati. Il tasso di occupazione


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giovanile (tra 15 e 34 anni) è sceso dal 33 per cento del 2008 al 31,7 per cento del 2010. In questa fascia di età, il tasso di occupazione delle donne è attualmente del 23 per cento, mentre al Centro-Nord è del 56 per cento.
Un fenomeno in crescita nel nostro Paese negli ultimi anni e significativamente superiore alla media europea è poi quello dei NEET (dall'acronimo inglese Not in Education, employment or training), ossia dei giovani esclusi dal circuito educazione-formazione-lavoro. Secondo dati ISTAT, i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni in questa condizione in Italia nel 2010 erano circa 2,1 milioni, il 22,1 per cento della popolazione corrispondente (con un'incidenza nel Mezzogiorno doppia rispetto al Centro-Nord), con una crescita del 17,8 per cento rispetto al 2008. L'aumento ha riguardato soprattutto i maschi, il Mezzogiorno e i giovani in possesso di un diploma di scuola superiore.
L'anomalia italiana al riguardo emerge con chiarezza dai dati forniti dal CENSIS. Secondo l'istituto, degli oltre 6 milioni di giovani italiani di età compresa tra 15 e 24 anni, il 60 per cento ancora studiano, il 20,5 per cento lavorano, il 7,9 per cento sono in cerca di un'occupazione e ben l'11,2 per cento sono NEET. I dati riferiti alla media europea evidenziano che il 53,3 per cento dei giovani di età compresa tra 15 e 24 anni ancora studiano, il 34,1 per cento lavorano (percentuale che arriva al 46,2 per cento e al 47,6 per cento, rispettivamente, in Germania e Gran Bretagna, ossia ben oltre il doppio dei giovani italiani) e solo il 3,4 per cento sono NEET.
Nella fascia di età compresa tra i 25 e i 29 anni le cose si configurano in termini assai simili: il 14,4 per cento dei giovani italiani ancora studiano, il 58,8 per cento lavorano, il 10,1 per cento sono in cerca di un'occupazione e ben il 16,75 sono NEET (a fronte dell'8,1 per cento della Germania, del 7,7 per cento della Francia, del 9,6 per cento della Gran Bretagna e una media europea dell'8,5 per cento).
Il basso livello di attività dei giovani si lega alla più lunga durata dei percorsi formativi (su cui non ha inciso in modo significativo l'introduzione delle lauree triennali), la tendenza al completamento «tardivo» del percorso universitario e la funzione di ammortizzatore sociale che la famiglia italiana si è ormai abituata a svolgere.
Il quadro che emerge dal complesso dei dati fin qui menzionati ha portato a concentrare l'attenzione sull'occupabilità dei giovani e sulle problematiche legate al loro inserimento lavorativo, benché non siano mancati interventi volti a richiamare il tema della disoccupazione dei lavoratori più anziani, soprattutto con riferimento ai profili connessi alla riqualificazione professionale e all'apprendimento lungo tutto l'arco della vita.
Un primo filone di indagine è stato quello della capacità del sistema educativo di rispondere alle esigenze del mondo produttivo. Dalle audizioni svolte è emerso, in primo luogo, un consenso diffuso (pur con alcuni distinguo, come nel caso di Almalaurea) intorno all'idea che sistema scolastico e mondo delle imprese siano due mondi ancora troppo distanti tra loro, che raramente mostrano capacità di parlarsi e interagire, creando le sinergie che sarebbero invece necessarie. Tale difficoltà si colloca, peraltro, all'interno di un sistema che nel suo complesso appare propendere ancora in modo eccessivo verso la «liceizzazione» diffusa, la sottovalutazione dell'istruzione tecnico-professionale e il prevalere della cultura umanistica su quella tecnica e scientifica.
I dati disponibili in proposito rivelano che negli ultimi anni, a fronte di una maggiore domanda di professionalità tecniche espressa dal mondo produttivo, si è registrata una flessione dei diplomati da (e delle iscrizioni a) istituti tecnico-professionali. Secondo dati ISTAT, nel periodo compreso fra l'anno scolastico 2004/2005 e l'anno scolastico 2007/2008 il numero dei diplomati degli istituti tecnici italiani è passato da 181 mila a 164 mila, con un divario rispetto alla domanda potenziale che cresce da 24 mila unità (nel 2005) a oltre 127 mila nel 2007.
Tale stato di cose è anche il portato, non vi è dubbio, di un clima culturale


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complessivo che affonda le radici nel passato e che appare difficile da correggere. I dati che emergono dal raffronto con gli altri Paesi sono tuttavia impietosi e dimostrano come il nesso tra formazione tecnica in ambito scolastico e inserimento lavorativo dei giovani sia stretto (si pensi al ruolo delle scuole professionali tedesche). Non vi è dubbio, quindi, che per rispondere alle sfide del presente occorre superare schemi mentali e riflessi culturali ormai obsoleti, che spesso tendono a screditare il lavoro manuale. Sotto tale profilo la politica non può fare tutto - è evidente - ma può fare molto. Il Ministro, nella sua audizione, ha auspicato che le recenti modifiche degli ordinamenti degli istituti tecnici e professionali possano andare nella giusta direzione. Maggiori risorse vanno messe in campo, poi, per rendere più efficaci i servizi di orientamento scolastico, tenendo conto che i giovani italiani sono particolarmente esposti alle indicazioni del contesto familiare sulle loro scelte educative e professionali (indicazioni che, soprattutto nelle famiglie con più bassi livelli di istruzione, sono frutto di esperienze maturare in un contesto radicalmente mutato nel passaggio generazionale e, quindi, spesso disallineate rispetto alla effettiva realtà del mercato del lavoro).
Altro profilo cruciale è quello della formazione universitaria. In linea generale, dagli interventi emerge che anche per l'istruzione terziaria si riscontrano molti dei problemi che caratterizzano il nostro sistema scolastico, per quanto concerne la capacità di integrarsi con il mondo produttivo e di rispondere alle esigenze professionali che emergono dal mercato.
Occorre poi considerare alcuni dati specifici. In primo luogo, il nostro Paese sconta ancora (benché negli ultimi anni si registri una inversione di tendenza, legata alla nuova articolazione dei percorsi di studio universitari) un tasso di laureati inferiore alla media dei Paesi avanzati. Fra i giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni i laureati in Italia costituiscono il 20 per cento, contro una media dei Paesi OECD del 35 per cento (24 per cento in Germania, 38 per cento nel Regno Unito, 41 per cento in Francia, 42 per cento negli Stati Uniti, 55 per cento in Giappone).
La durata media degli studi universitari, poi, è più alta della media europea.
A determinare la condizione professionale dei giovani concorrono, quindi, aspetti di carattere strutturale che risalgono al sistema formativo se solo si considera che il 26,5 per cento degli effettivi di ogni generazione si diploma con un ritardo da 1 a 6 anni, il 70 per cento dei diplomati si iscrive all'Università (anche se hanno finito la scuola secondaria in ritardo), il 46 per cento degli iscritti finisce fuori corso, uno studente su sei non sostiene neppure un esame all'anno, un iscritto su 5 abbandona lo studio. In sostanza, i giovani acquisiscono la laurea triennale a 25 anni, quella quinquennale a 27 anni, 3 o 4 anni dopo i loro coetanei europei.
Il possesso di un titolo di studio universitario, tuttavia, aumenta la possibilità di conseguire un'occupazione (e, soprattutto, un'occupazione stabile) rispetto al possesso del solo diploma scolastico. Tuttavia, il rendimento dell'investimento in istruzione universitaria è più basso nel nostro Paese rispetto a quanto accade nei maggiori Paesi europei: nel 2010, solo il 76,4 per cento dei laureati italiani ha un lavoro, a fronte dell'80,4 per cento della Francia, l'86,7 per cento della Germania e l'85 per cento del Regno Unito. Sul totale degli occupati, poi, i lavoratori in possesso di una laurea rappresentano appena il 17,5 per cento, a fronte del 29 per cento della media comunitaria.
Il nostro Paese, poi, registra tempi medi di accesso al lavoro dopo la laurea ben superiori a quelli di molti Paesi europei. I dati recenti mostrano che un anno dopo la laurea solo il 47 per cento dei giovani italiani ha un lavoro (a fronte del 57 per cento di cinque anni fa), contro il 77 per cento della Germania.
Secondo dati CENSIS, l'Italia è il paese europeo con il più basso tasso di occupazione tra i laureati (66,9 per cento contro una media europea dell'84 per cento), ma


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è anche l'unico in cui il tasso di occupazione dei laureati è inferiore al tasso di occupazione dei diplomati (69,5 per cento).
Una particolare interpretazione del fenomeno è stata fornita da Almalaurea, secondo cui il basso tasso di occupazione dei laureati nel settore privato è da attribuire alla peculiare struttura del tessuto produttivo nazionale, caratterizzato dalla presenza di micro e piccole imprese a gestione familiare, specializzate in settori a medio-basso contenuto di conoscenza, gestite da imprenditori con livelli di istruzione non elevati (il legame tra livello di istruzione degli imprenditori e assunzione di laureati sarebbe molto stretto).
In tale contesto grande attenzione è stata prestata al diffondersi di situazioni di sovra-qualificazione, che conducono molti laureati a rifiutare occupazioni che non ritengono coerenti con gli studi svolti o, al contrario, a svolgere lavori per i quali il possesso di un titolo universitario non conferisce alcun valore aggiunto.
Quello della sovra-qualificazione è un fenomeno che riguarda attualmente circa il 20 per cento dei laureati a tre anni dal conseguimento del titolo ed in continua crescita, peraltro con differenze significative tra lavoratori (riguarda soprattutto i precari), lauree possedute (riguarda soprattutto le cosiddette «lauree deboli», ossia le lauree del settore umanistico e sociale) e aree territoriali (riguarda soprattutto il Mezzogiorno, dove si registra il maggior tasso di laureati nei suddetti settori). I dati forniti da Almalaurea - che da anni svolge indagini accurate su tali problemi - sono eloquenti. Per quanto riguarda i laureati del 2004, a cinque anni dalla laurea (ossia nel 2009) l'11 per cento ritiene che il titolo di studio posseduto sia poco o per nulla efficace nel conseguimento di un lavoro. Tale percentuale si innalza al 24 per cento per i laureati in discipline letterarie, al 23 per cento per i laureati in discipline politico-sociali, al 19 per cento per i laureati in discipline linguistiche, al 16 per cento per i laureati nel settore geo-biologico. Gli altri percorsi di studio si collocano sotto la media dell'11 per cento e, in particolare, assai utili si rivelano le lauree nel gruppo ingegneria, chimico-farmaceutico e medico.
Con riguardo, infine, al ruolo dell'Università nell'accompagnare i neolaureati verso un'occupazione, è stata da taluni riconosciuta la positività di alcune novità introdotte nel recente passato, sottolineando tuttavia la necessità di un ulteriore potenziamento dei servizi di placement e dello sviluppo di più diretti e stabili rapporti del mondo universitario con le imprese.
A tale proposito il Ministro Sacconi ha richiamato le iniziative messe in campo dal Governo, come l'obbligo di pubblicazione on line dei curricula vitae degli studenti (che in molti casi non risulta peraltro ancora compiutamente adempiuto) e il Programma FIXO (Formazione e Innovazione per l'Occupazione, promosso e sostenuto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in collaborazione con Italia Lavoro con l'obiettivo di favorire l'occupabilità dei laureati).
Il Ministro Gelmini, richiamando il complessivo processo di riforma dell'università (processo tutt'ora in corso, e che verrà completato con l'adozione di tutti i provvedimenti attuativi entro il 2011), ha ricordato che sono state ampliate le possibilità di finanziamenti privati alle università ed è in corso una decisa azione di razionalizzazione di numerosi corsi di laurea attivati a seguito della riforma del cosiddetto «3 2» (molto spesso inutili, poco partecipati e avulsi dal contesto produttivo locale).
Strettamente connesso a quello dell'istruzione (secondaria e terziaria) è il tema della formazione professionale. Al riguardo, le posizioni emerse concordano sul fatto che la formazione professionale giochi un ruolo strategico essenziale per il buon funzionamento del mercato del lavoro, sempre più caratterizzato dalla richiesta di nuovi profili professionali e dall'esigenza di un costante aggiornamento delle risorse umane ai rapidi mutamenti indotti dall'evoluzione tecnologica.
I dati evidenziano le resistenze e le difficoltà di accesso al mondo della formazione


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da parte dei giovani. L'ISTAT rileva, infatti, che tra i giovani di età compresa tra i 15 e 24 anni attivi (ossia occupati o in cerca di lavoro), solo il 4,2 per cento partecipa contestualmente a un corso di studio o di formazione professionale, contro il 9,4 per cento della media europea. Per quanto attiene ai corsi di formazione specificamente rivolti ai giovani occupati, l'incidenza è pari al 3,8 per cento in Italia, contro il 10,4 della media europea.
Ampiamente condivisa è anche la consapevolezza che occorra migliorare la sinergia tra i vari attori, pubblici e privati (regioni, enti locali, centri per l'impiego, parti sociali, soggetti privati) che in vario modo partecipano al mercato dell'offerta formativa, con obiettivi, ruoli e collocazioni a volte assai diversificati.
Soprattutto nel settore pubblico, poi, l'uso delle risorse (statali, regionali, FSE) spesso non appare improntato a criteri di efficienza gestionale ed operativa. Un passo importante nel senso dell'integrazione è sicuramente rappresentato dall'Accordo tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Regioni e Province autonome e Parti sociali, del 17 aprile 2007, sulla formazione continua. È stato evidenziato (ISFOL), tuttavia, che a seguito del predetto Accordo l'approccio sistematico verso l'integrazione si è espletato unicamente attraverso la stipula di accordi diretti tra regioni e parti sociali (secondo un processo che oltretutto negli ultimi anni, anche per effetto della crisi, sembra avere subito un rallentamento), mentre non risulta ancora pienamente dispiegato il ruolo che dovrebbe essere proprio dell'organismo nazionale di coordinamento.
Altro strumento di grande rilievo, come dimostrano alcune delle felici esperienze maturate negli ultimi anni (significativa, in questo senso, l'esperienza riportata dall'ABI), sono i Fondi paritetici per la formazione professionale. A giudizio degli auditi si tratta di una leva importante, che occorre valorizzare compiutamente, nel quadro di un più diffuso coinvolgimento delle aziende negli investimenti formativi dei propri dipendenti. La crisi degli ultimi anni, peraltro, ha portato ad un ripensamento del ruolo dei Fondi, chiamati ad un'estensione del loro raggio di azione. Alcuni interventi legislativi (la legge n. 2 del 2009 e la legge finanziaria per il 2010), nonché il successivo accordo tra Governo, Regioni e Parti sociali sulle «Linee guida per la formazione 2010», hanno infatti previsto che i Fondi paritetici per la formazione professionale possano, in determinati casi, destinare risorse per misure temporanee di sostegno al reddito dei lavoratori. D'altro canto, se tali mutamenti ampliano le possibilità operative delle parti sociali, dall'altro occorre anche considerare che si introduce un elemento di complessità di non facile gestione, almeno nel breve termine, soprattutto nei contesti territoriali in cui le pratiche di integrazione non si sono ancora adeguatamente sviluppate.
A tale riguardo il Ministro Sacconi ha evidenziato che il divario tra risorse disponibili e risorse effettivamente impegnate dai Fondi resta alto, nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi anni. Le ragioni di tale difficoltà va rintracciata soprattutto nel fatto che le risorse in questione sono formalmente pubbliche e, conseguentemente, la loro gestione deve rispondere a regole particolari, che implicano numerosi adempimenti burocratici.
Per quanto attiene agli investimenti formativi da parte delle imprese, è stato evidenziato che l'Italia sconta uno strutturale ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Sempre secondo dati ISTAT, nel nostro paese le imprese con più di 10 addetti che nel 2005 avevano svolto un'attività formativa erano il 32 per cento del totale, contro il 60 per cento della media europea (ciò che colloca l'Italia al terzultimo posto nella graduatoria europea, davanti solo a Bulgaria e Grecia).
Particolarmente significativa, al riguardo, è l'esperienza maturata nell'utilizzo del contratto di apprendistato. A tale riguardo è stato da molti evidenziato come tale contratto, per come si è configurato nella prassi applicativa, non ha mantenuto


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le promesse, soprattutto a causa della carenza di contenuto formativo. I dati forniti dall'ISFOL evidenziano che dopo il trend lievemente positivo - pur nel quadro di un ricorso assai contenuto di tale tipologia contrattuale rispetto a quanto avviene negli altri Paesi europei - che si è registrato ininterrottamente nei primi dieci anni dall'introduzione (avvenuta nel 1998) dell'istituto, nel 2008 si è registrata una flessione su base annua del numero degli apprendisti pari all'8,4 per cento.
Inoltre, è stato evidenziata una fortissima stagionalità nei mesi estivi, che starebbe a indicare un uso non coerente con le finalità tipiche dell'istituto.
Da parte di tutti gli intervenuti è stato pertanto espresso l'auspicio che la riforma dell'istituto, da poco adottata (decreto legislativo n. 167 del 2011), possa invertire la tendenza e consentire di restituire a tale contratto il ruolo che il legislatore intendeva attribuirgli, ovvero di strumento privilegiato di ingresso nel mondo lavorativo e di apprendimento professionale per i giovani.
Riflessioni analoghe hanno investito anche altri strumenti di inserimento iniziale nel mondo del lavoro, quali i tirocini e gli stages, dei quali è stato in particolare denunciato l'uso spesso distorto che ne fanno le imprese. Anche a tale riguardo, peraltro, è stato osservato che le modifiche normative recentemente introdotte (l'articolo 11 del decreto-legge n. 138 del 2011 ha ridotto la durata massima dei tirocini extracurricolari da un anno a sei mesi, e ha previsto che possano essere attivati solo entro i primi 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio) contribuiranno a ricondurre i tirocini nell'alveo naturale di strumenti di formazione professionale all'interno delle imprese e ad evitare abusi.
La difficile interazione tra sistema scolastico, mondo universitario, formazione professionale e contesti produttivi, gioca sicuramente un ruolo importante nel determinare fenomeni di mismatch (ossia di non rispondenza della forza lavoro alle professionalità richieste dal mercato) e skill gap (ossia di obsolescenza professionale della forza lavoro).
Il CENSIS, in particolare, ha evidenziato come il 26,7 per cento degli imprenditori italiani dichiarino di avere difficoltà a reperire lavoratori con le competenze tecnico-professionali di cui hanno bisogno. I motivi sono legati alla mancanza di formazione e preparazione (40,9 per cento dei casi); in caso di figure di difficile reperimento, le aziende scelgono in molti casi (43,1 per cento) di assumere figure con competenze simili, da formare in azienda.
Quanto alle figure professionali carenti, Confindustria osserva (richiamando dati Unioncamere) che nel corso degli ultimi anni si assiste a una polarizzazione della domanda di lavoro (fenomeno comune a tutte le economie avanzate), che si indirizza non solo - come comunemente si è portati a credere - verso profili di basso livello (soprattutto tecnici), ma anche nel senso opposto, ossia verso profili di alto livello (professionalità qualificate, in grado di gestire innovazioni e relazioni complesse con imprese e consumatori finali); tende invece a regredire la domanda di posizioni mediane - attività d'ufficio e funzioni di carattere impiegatizio - in larga misura sostituite da processi di automazione.
Peraltro, mentre alcuni (Consulenti del lavoro, Confindustria, R.ETE. Imprese, ISTAT, CENSIS) tendono ad attribuire a tali fenomeni un ruolo preponderante nella spiegazione degli alti tassi di disoccupazione (soprattutto giovanile) del nostro Paese, altri (Almalaurea, Assolavoro) ritengono invece necessario operare dei distinguo, al fine di tenere conto dei diversi contesti culturali e territoriali, nonché dei titoli di studio e formativi considerati, osservando che si tratta di fenomeni complessivamente in linea con l'andamento registrato in altri Paesi.
Strettamente connesso ai fenomeni di mismatch è il tema della manodopera straniera, il cui ruolo nel colmare le lacune dell'offerta lavorativa degli italiani è stata oggetto di una pluralità di chiavi


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interpretative. I dati relativi al periodo 2008-2010 mostrano che 863.000 italiani sono usciti dal mercato del lavoro, a fronte di 330.000 stranieri che vi hanno fatto ingresso. Di questi, 264.000 risultano assunti con contratto a tempo indeterminato, ma ben 237.000 sono badanti. Dal 2003 al 2008 l'occupazione è salita dello 0,7 per cento complessivo così suddiviso: 8,4 per cento stranieri; 0,2 per cento italiani. La componente di stranieri sulla popolazione totale degli occupati è passata in questo arco temporale dal 5,2 per cento al 7,5 per cento. La maggior parte degli occupati stranieri si concentra in alcuni settori: 23,2 per cento nell'industria in senso stretto, 16,3 per cento nelle costruzioni, 9,1 per cento negli alberghi, 23,9 per cento nei servizi alla persona. Un terzo degli stranieri è occupato in qualifiche ad alta manualità contro il 7 per cento degli italiani. Secondo il CENSIS è in atto in vero e proprio effetto sostitutivo stranieri/italiani nell'ambito del lavoro manuale. Dal 2005 al 2010 sono usciti dal mercato del lavoro, in questi settori, 848 mila lavoratori italiani (-11 per cento) e sono entrati 718 mila stranieri ( 84 per cento). Nel 2010, il tasso di occupazione degli italiani era pari al 56,5 per cento, quello degli stranieri al 62,1 per cento. Il tasso di disoccupazione, tra il 2008 e il 2010, è passato, nel caso degli stranieri dal 6,9 per cento al 13 per cento; nel caso degli italiani dal 6 per cento all'8,7 per cento. Quanto al numero degli stranieri iscritti all'Inps, il 63,2 per cento è dipendente da aziende, il 17,2 per cento sono lavoratori domestici, l'8,5 per cento sono operai agricoli, il 10,8 per cento sono lavoratori autonomi.
Unitamente ai temi fin qui indicati (sistema educativo-formativo e mismatch), l'indagine ha affrontato anche i problemi legati all'assetto istituzionale del mercato del lavoro e alle tipologie contrattuali.
Per quanto concerne il ruolo dell'intermediazione, sulla cui centralità per il buon funzionamento di un moderno mercato del lavoro si è registrato un diffuso consenso, è stato in primo luogo osservato che la presenza di una pluralità di operatori, pubblici e privati (il cui numero si è notevolmente accresciuto a seguito del processo di liberalizzazione del collocamento privato portato avanti dall'attuale Governo), non è automaticamente garanzia di efficienza del sistema nel suo complesso.
Secondo dati ISTAT, infatti, la maggior parte dei primi ingressi nel mercato del lavoro, circa il 55 per cento, avviene attraverso il ricorso a forme tradizionali di comunicazione che sfruttano le conoscenze dirette (segnalazioni di parenti e amici). La scelta di affidarsi alla rete informale, peraltro, si riduce all'aumentare del livello di istruzione: i canali formali non professionali (richiesta diretta a un datore di lavoro, inserzioni sulla stampa, siti web) sono praticati da circa il 25 per cento dei giovani, con quote del 18,1 per cento per i giovani con licenza media e del 31,7 per cento per il laureati. Il dato che deve maggiormente far riflettere, tuttavia, è rappresentato dal fatto che solo il 5 per cento del totale dei giovani ricorre ai Centri per l'impiego e alle Agenzie per il lavoro.
Con riferimento ai Centri per l'impiego è stato in particolare evidenziato come i livelli di efficienza siano molto differenziati a livello territoriale. In particolare, l'UPI ha osservato come - nel quadro della generale carenza di risorse, umane e finanziarie, in cui sono sempre più costretti ad operare i Servizi per l'impiego - le migliori esperienze si registrano nei contesti dove la gestione delle politiche attive del lavoro (e della stessa formazione professionale) è stata ampiamente delegata al livello provinciale (come in Liguria, Veneto e Toscana).
Dal canto suo, il Ministro Sacconi ha evidenziato la necessità che i Centri per l'impiego si connettano maggiormente tra loro, nel quadro di una più produttiva collaborazione (soprattutto in alcune regioni) tra livello di governo regionale e livello di governo provinciale.
Da più parti (UPI, Assolavoro, CISL, UIL, Formez), inoltre, è stata auspicata una maggiore collaborazione tra intermediari pubblici e privati (con i secondi


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chiamati a svolgere un ruolo complementare rispetto ai primi), al fine di evitare duplicazioni e innalzare il livello dei servizi offerti.
Assolavoro, infine, ha evidenziato come il ruolo delle Agenzie private sia andato evolvendo progressivamente negli ultimi anni. Le Agenzie svolgono sempre più, infatti, attività di formazione professionale, tentando di adeguare le competenze dei lavoratori ai fabbisogni, in costante evoluzione, del mondo imprenditoriale e del mercato del lavoro.
Sul versante delle tipologie contrattuali, i dati presentati hanno fornito un'ampia rappresentazione del carattere duale del nostro mercato del lavoro.
Per quanto concerne le dimensioni del fenomeno è stato osservato che la flessibilità non costituisce un dato solo italiano, ma riguarda, in termini analoghi, anche tutti gli altri Paesi europei (Confindustria ha parlato, al riguardo, di «retorica del precariato»). Dal raffronto dei dati emerge, ad esempio, che nel nostro Paese i giovani occupati con un contratto di lavoro temporaneo sono il 46,7 per cento, a fronte del 57,2 per cento che si registra in Germania, del 55,2 per cento in Francia, del 57 per cento in Svezia e del 52,7 per cento in Svizzera.
Alcuni (SVIMEZ, UIL) hanno peraltro sottolineato che i dati in questione rischiano di essere fuorvianti, non tenendo conto della più alta percentuale di lavoratori in nero nel nostro Paese (il Forum nazionale giovani ritiene che in Italia 1 giovane su 3 abbia un lavoro in nero).
Varie ipotesi sono state avanzate per spiegare l'ampio ricorso a forme di lavoro flessibile (e, in taluni casi, gli abusi e gli utilizzi distorti) da parte delle imprese. Alcuni (Almalaurea, Assolavoro, Eurispes, Comitato 9 aprile, Repubblica degli stagisti) tendono a ritenere prevalenti motivazioni legate ai minori costi (in primo luogo contributivi) del lavoro flessibile rispetto al lavoro a tempo indeterminato. Altri (R.ETE. Imprese, Confapi, ABI) legano il sovra-utilizzo dei contratti di lavoro flessibile alla rigidità in uscita (si pensi al reintegro previsto a favore lavoratori licenziati senza giusta causa o giustificato motivo) e, più in generale, all'eccesso di tutele proprie dei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Altri ancora (Censis, Consulenti del lavoro) riconducono il tema agli orizzonti temporali propri dell'attività imprenditoriale e alla mutabilità dei mercati, che induce a programmare i fabbisogni di personale (soprattutto in tempi di crisi come l'attuale) in un'ottica di breve periodo. Altri (ISTAT, SVIMEZ), infine, richiamano la specificità del tessuto produttivo del nostro Paese, caratterizzato da un gran numero di imprese con scarsa propensione all'innovazione e con specializzazione in settori labour intensive, ove prevale l'esigenza di capitale umano poco qualificato e intercambiabile, con bassi costi unitari.
In linea con le chiavi interpretative adottate si muovono le proposte avanzate per promuovere un riequilibrio complessivo del mercato del lavoro e la riduzione della precarietà. In particolare, è stato ipotizzato di incidere sui costi del lavoro flessibile al fine di renderlo maggiormente oneroso e, quindi, meno conveniente per il datore di lavoro di quanto non sia oggi. Secondo tale visione, infatti, la precarietà, proprio in quanto si accompagna a un minore livello di garanzie per i lavoratori e a una maggiore libertà di movimento per il datore di lavoro, rappresenta un «vantaggio» che occorre in qualche modo bilanciare sul versante dei costi. Altri ritengono, al contrario, che solo rimuovendo l'eccessiva rigidità in uscita che caratterizza il contratto di lavoro a tempo indeterminato nel nostro Paese si potranno creare le condizioni per uno spostamento dal lavoro flessibile al lavoro ritenuto stabile.
Oggetto di discussione è stata anche l'ipotesi di un superamento del dualismo del mercato del lavoro attraverso l'introduzione di un nuovo contratto unico di inserimento lavorativo, secondo il modello delineato da alcune proposte di legge depositate al Senato (in particolare l'AS 1481, a prima firma Ichino). In proposito, tuttavia, si è fatto notare che, in pratica, anziché essere un contratto «unico», si


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tratta di un contratto che disciplina, con una tutela crescente nel tempo, il rapporto a tempo indeterminato, non potendo fare fronte a tutte le esigenze che sono regolate mediante specifici rapporti di lavoro. Mentre alcuni sostengono che una «semplificazione» dei contratti potrebbe servire a contrastare i fenomeni della precarietà, altri ritengono che le diverse tipologie introdotte dalla legislazione sulla flessibilità corrispondono a situazioni lavorative particolari che non possono essere ricondotte ad un'unica forma contrattuale o ad una forma standard prevalente. In tale ambito, gli eventuali abusi sono da sanzionare come tali, ma non abolendo il rapporto di cui si è abusato. Si rammenta, peraltro, che un ulteriore modello di contratto «unico», a contenuto formativo, è oggetto di una proposta di legge presentata alla Camera (A.C. 2630, a prima firma Madia).
Le analisi sul fenomeno del lavoro flessibile e precario si sono accompagnate in molti casi a riflessioni più ampie sul sistema di ammortizzatori sociali. Da più parti è stato evidenziato, infatti, che in altri Paesi ove l'introduzione di forme di flessibilità è avvenuta ben prima che in Italia (si pensi a USA e Regno Unito), ad esse si è sempre accompagnato un solido sistema di tutele economiche e giuridiche per i disoccupati, a carattere universalistico, in grado di attutire i contraccolpi legati alla perdita del posto di lavoro e di accompagnare i lavoratori, all'esito di un percorso di formazione e riqualificazione professionale mirato, verso una nuova occupazione (magari anch'essa a carattere temporaneo), garantendo la necessaria continuità retributiva e delle tutele.
Altro tema ampiamente trattato è stato quello del lavoro autonomo, soprattutto con riferimento alle problematiche del lavoro giovanile. Al riguardo è stato ricordato che il tessuto produttivo del nostro Paese, contraddistinto da un'ampia diffusione di piccolissime imprese e dal carattere artigianale di molte lavorazioni, ha storicamente portato ad un'ampia diffusione di lavoro indipendente. Dall'analisi dei dati comparati emerge, infatti, che l'Italia è ancora uno dei Paesi con la più alta propensione al lavoro autonomo, sebbene gli effetti della recente crisi e, soprattutto, i più ridotti tassi di crescita della nostra economia rispetto agli altri Paesi europei abbiano negli anni eroso significativamente tale invidiabile primato. È stata quindi sottolineata l'importanza di uno snellimento delle procedure burocratiche e di interventi per l'alleggerimento del carico fiscale sulle imprese condotte da giovani, nonché la necessità di facilitare i rapporti con il sistema bancario per il credito, essenziale nelle fasi di «start-up» delle aziende.
È stato infine evidenziato come negli ultimi anni si sia andato estendendo il fenomeno delle partite IVA di comodo, ossia del lavoro formalmente autonomo dietro il quale si nascondono, in realtà, rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente, cui gli imprenditori fanno ricorso per eludere gli alti costi e le rigidità proprie del lavoro subordinato e (sebbene in misura inferiore) parasubordinato.


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ALLEGATO 2

Indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE DELLA PRESIDENZA SULLE TEMATICHE OGGETTO DELL'INDAGINE

La grave crisi economica che ha colpito tutte le economie avanzate, generando disoccupazione diffusa e riduzioni del reddito disponibile, ha reso ancora più evidenti le criticità del mercato del lavoro del nostro Paese. Per effetto del rallentamento economico, il carattere duale di tale mercato, ove si contrappongono insider (lavoratori con posizioni contrattuali più stabili e garantite) e outsider (lavoratori con contratti «deboli», retribuzioni medie inferiori e minori garanzie), si è andato rafforzando e, con esso, il divario tra generazioni di lavoratori.
Le ingenti risorse destinate agli strumenti di sostegno al reddito (in particolare la Cassa integrazione in deroga) hanno consentito, almeno fin qui, di attenuare le ricadute sociali della crisi per i lavoratori maggiormente protetti; poco si è potuto fare, invece, per le migliaia di giovani titolari di rapporti di lavoro atipici, i quali si trovano ora a subire le conseguenze di un sistema di tutele contro la disoccupazione disegnato in un momento storico nel quale la legislazione non contemplava (se si trascurano alcune marginali eccezioni) modalità di impiego diverse dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
La introduzione di forme di flessibilità (a partire dalla legge n. 196 del 1997, cosiddetta legge Treu, fino al decreto legislativo n. 276 del 2003, cosiddetta legge Biagi) ha consentito di compiere un passo importante per la modernizzazione del mercato del lavoro del nostro Paese e nella lotta al lavoro nero. I contratti di lavoro atipici hanno aperto a molti giovani - che altrimenti ne sarebbero restati esclusi - le porte del mercato del lavoro, dando loro la possibilità di svolgere una prima attività retribuita e, quindi, di ampliare significativamente l'orizzonte delle proprie opportunità; allo stesso tempo, la flessibilità ha consentito di dare risposta alle legittime esigenze di maggiore dinamicità e adattabilità avanzate da un mondo imprenditoriale chiamato sempre più a muoversi nei nuovi scenari competitivi imposti dalla globalizzazione e dall'affermarsi dell'economia della conoscenza. Si deve anche alla nuova legislazione l'incremento ininterrotto di nuova occupazione intervenuto nel decennio 1997-2007 che neppure la crisi ha eroso del tutto. Nell'arco di tempo compreso tra il 1992 e il 1997 (l'anno in cui vennero assunte le prime misure di riforma del mercato del lavoro secondo regole e criteri di flessibilità), ad una crescita media annua significativa del Pil è corrisposto un andamento critico del mercato del lavoro nel senso che diminuiva l'occupazione ed aumentava la disoccupazione. In parallelo, era in crescita la produttività del lavoro. In tale periodo, le imprese preferivano continuare ad effettuare investimenti labour saving piuttosto che far fronte ai picchi produttivi ricorrendo a nuove assunzioni. La realtà economica di quei tempi - invero non troppo lontani - produceva degli effetti con tratti apparentemente paradossali. L'Italia era un Paese ad intensa innovazione di processo (solitamente a risparmio di lavoro), mentre più modesta era l'innovazione di prodotto. Secondo i dati Ocse, dall'inizio degli anni '70 fino alla fine degli anni '90, nel settore privato, il capitale fisso per


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addetto era aumentato del 37 per cento negli Usa, del 125 per cento in Italia. A questa tendenza si accompagnò il fenomeno della frantumazione del tessuto delle imprese. Nel settore manifatturiero - sono dati della Banca d'Italia - la quota di occupati con più di 500 addetti era del 31 per cento nel 1971; era sceso al 19 per cento nel 1991 e al 15 per cento nel 1996. Su questa realtà (che non si è più modificata sul piano della struttura produttiva) hanno influito positivamente i provvedimenti di riforma del mercato del lavoro, tanto il «pacchetto Treu» del 1997 quanto la legge Biagi del 2003. Il segno del cambiamento è emerso con chiarezza nel quadriennio 2000-2003: l'occupazione è cresciuta mediamente dell'1,6 per cento (in valori assoluti) e dell'1,1 per cento (come unità di lavoro equivalenti), la disoccupazione è diminuita, sempre in media, dello 0,6 per cento. Al contempo, la produttività è calata mediamente dello 0,3 per cento. Ciò, sia in rapporto alle caratteristiche della nuova occupazione (si vedano i dati sull'elasticità dell'impiego), sia per un altro motivo molto ovvio: lo sblocco del mercato del lavoro fa sì che si produca la medesima quantità di beni (il Pil cresce, infatti, mediamente dello 0,8 per cento) con un numero maggiore di occupati.
Si tratta di un processo che ha investito, sebbene in misura e tempi diversi, tutte le economie avanzate e, per quanto riguarda l'Italia, di un fenomeno le cui dimensioni appaiono sostanzialmente in linea con quelle di altri Paesi europei.
Ciò che caratterizza la flessibilità italiana è invece il fatto che essa si è inserita in un contesto normativo (ma, in certa misura, anche sociale e culturale) peculiare, per almeno due ordini di motivi.
In primo luogo, nei Paesi che hanno aperto il proprio mercato del lavoro, iniettando dosi di flessibilità, si è agito parallelamente anche sul versante delle politiche attive del lavoro e del sostegno al reddito, al fine di rafforzare gli strumenti a disposizione e di renderli disponibili alla più ampia platea di lavoratori, senza distinzioni tra tipologie contrattuali. Attraverso ammortizzatori sociali a carattere universale si sono compensati gli effetti di precarizzazione insiti nel ricorso a forme di lavoro flessibile. Un sistema di tutele ampio e diffuso ha cioè consentito di trovare il giusto equilibrio tra le legittime esigenze di flessibilità delle imprese e quelle (altrettanto legittime) dei lavoratori di una continuità retributiva e contributiva anche a fronte di interruzioni involontarie del rapporto di lavoro.
Appare pertanto indispensabile procedere rapidamente, anche nel nostro Paese, ad una profonda riforma del sistema di ammortizzatori sociali, che appare ormai obsoleto e inadatto a dare risposta alle nuove esigenze imposte da un mercato del lavoro sempre più duale. Occorre immaginare, attingendo alle migliori esperienze di flexicurity realizzate in Europa, strumenti di sostegno al reddito e di reinserimento lavorativo di tipo universale, senza distinzioni basate sul settore produttivo di appartenenza o sulla tipologia contrattuale, ove il ruolo di intermediazione politica e sindacale sia ridotta al minimo indispensabile, a fronte di severi obblighi di attivazione (lavorativa e/o formativa) dei beneficiari. A tale riguardo occorre peraltro prendere atto che le politiche attive messe in campo negli ultimi anni nel nostro Paese scontano proprio sotto tale profilo - ossia dell'obbligo per il lavoratore rimasto disoccupato di accettare un lavoro congruo, pena la decadenza dal trattamento di sostegno - le maggiori difficoltà applicative. Appare pertanto opportuno, ad ormai quattro anni dall'avvio del processo di estensione della cassa integrazione in deroga e di rafforzamento delle politiche attive, immaginare nuovi e più efficaci strumenti (all'indirizzo di tutti i soggetti, istituzionali e non, coinvolti nella gestione dei processi) per evitare che nella fase di concreta attuazione degli interventi possano generarsi, nei fatti, situazioni di tipo assistenziale.
La Commissione auspica, pertanto, che il Governo voglia dare quanto prima attuazione alla delega ad esso conferita dall'articolo 46 della legge n. 183 del 2010


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(cosiddetto «collegato lavoro») per la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali.
Un secondo aspetto da considerare è il fatto che nel nostro Paese i contratti di lavoro flessibile sono stati calati in un contesto normativo nel quale la disciplina del contratto a tempo indeterminato (il rapporto contrattuale standard) si configura in termini assai rigidi, soprattutto per quanto attiene alla risoluzione del rapporto di lavoro (l'articolo 18 della legge n. 300 del 1970, il cosiddetto Statuto dei lavoratori, prevede infatti la reintegrazione in forma specifica, nelle aziende con più di 15 dipendenti, del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo).
Analizzare il fenomeno dei rapporti di lavoro flessibile senza tenere conto del contesto complessivo rischia di essere fuorviante. È verosimile, invece, che il diffuso ricorso ai contratti atipici trovi spiegazione (almeno in parte) proprio nella riluttanza degli imprenditori ad assumere i rischi connessi agli elevati costi di uscita dai contratti a tempo indeterminato (così come è verosimile - e una ormai copiosa letteratura economica sembra supportare tale tesi - che proprio la prevista applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle imprese sopra i 15 dipendenti costituisca uno dei freni più importanti verso l'aumento dimensionale delle imprese del nostro Paese). I dati relativi ad altri Paesi europei sembrano del resto confermare l'esistenza di una relazione diretta tra percentuale di lavoratori atipici (sul totale degli occupati) e rigidità in uscita dai contratti standard: nel Regno Unito, ad esempio, dove questa rigidità è minore, i lavoratori atipici sono appena il 5 per cento del totale; diversamente, in Italia e Spagna, dove la legislazione sui licenziamenti è più rigida, le percentuali sono ben più alte (rispettivamente 13 per cento e 25 per cento).
Alla luce di quanto esposto, si ritiene auspicabile l'adozione di misure volte (in linea con quanto richiesto, del resto, nella recente lettera trasmessa della BCE al Governo italiano, in cui si chiede espressamente «un'accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti» e, da ultimo, con gli impegni conseguentemente assunti dal Governo italiano nei confronti delle istituzioni europee) ad attenuare la rigidità in uscita dai contratti a tempo indeterminato.
In questa direzione un primo passo (fermo restando che la recente riforma dell'arbitrato in materia di controversie di lavoro rischia di trasformarsi in una occasione perduta se le parti sociali non saranno in grado di fornire le necessarie risposte sul piano contrattuale e dei conseguenti comportamenti pratici) è stato compiuto con l'articolo 8 del decreto-legge n.138 del 2011, il quale (nella scia degli accordi intervenuti tra le parti sociali), ha previsto - su una serie di materie tra cui, appunto, il «recesso dal rapporto di lavoro» - la possibilità di stipulare intese a livello aziendale o territoriale, sottoscritte dai sindacati più rappresentativi o dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, in deroga ai contratti collettivi nazionali e a norme di legge. Si tratta di una norma di grande rilievo, rispetto alla quale è auspicabile che le parti sociali (a tutti i livelli), col senso di responsabilità che si impone in momenti difficili come l'attuale, svolgano compiutamente il proprio ruolo, al fine di consentire che essa concretizzi appieno le proprie potenzialità innovative.
Un'altra leva importante per accrescere l'appetibilità dei contratti a tempo indeterminato - basata sull'evidenza che in molti casi il contratto atipico risponde all'esigenza del datore di lavoro di disporre del tempo necessario a «testare» attitudini e capacità professionale del nuovo lavoratore, nella prospettiva di una successiva assunzione standard - potrebbe essere anche un significativo prolungamento del periodo di prova (o l'introduzione di altri strumenti di ingresso soft, a stabilizzazione progressiva, idonei a dare risposta alla medesima esigenza).
Il discorso fin qui svolto consente di giungere a uno dei temi attorno ai quali è


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ruotato il dibattito nel corso delle audizioni, ossia la convenienza economica dei contratti atipici rispetto ai contratti standard. Secondo una delle letture proposte, l'ampio ricorso ai contratti atipici (e, nondimeno, il loro abuso) da parte degli imprenditori, troverebbe spiegazione principalmente nei diversi fattori di costo. In realtà, il problema si pone segnatamente per le collaborazioni a progetto, sulle quali il Governo, sempre nella citata lettera di intenti, si è impegnato a stabilire «più stringenti condizioni nell'uso dei «contratti para-subordinati» dato che tali contratti sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato». Si ritiene più opportuno, infatti, riportare i contratti di collaborazione ad una correttezza applicativa che li collochi nell'ambito di un lavoro autonomo qualificato e dotato del potere contrattuale che proviene dalla propria professionalità, piuttosto che consolidare, con la parificazione dei costi, un canale parallelo di occupati economicamente alle dipendenze.
In alternativa, occorrerebbe in primo luogo considerare che l'alto costo del lavoro nel nostro Paese (il cuneo fiscale e contributivo) rappresenta tuttora uno dei maggiori freni all'occupazione, per cui un ulteriore aggravio a carico di imprese e lavoratori non appare auspicabile. Un'eventuale processo di convergenza degli oneri sociali dovrebbe eventualmente avvenire non già verso l'alto (ossia innalzando le aliquote dei contratti atipici, come è avvenuto peraltro varie volte negli ultimi anni), bensì verso il basso (ossia riducendo, almeno per i nuovi occupati, le aliquote dei contratti a tempo indeterminato: ciò che, tuttavia, aprirebbe il non trascurabile problema della copertura finanziaria dei conseguenti oneri che potrebbero essere compensati da un incremento dell'occupazione).
In ogni caso, appare utile evidenziare che la maggioranza dei contratti atipici nel nostro Paese sono contratti a tempo determinato, che per quanto concerne i costi (retribuzione, contribuzione) sono del tutto assimilabili ai contratti standard. Un significativo vantaggio economico per il datore di lavoro (in primo luogo in termini contributivi) si configura, come ricordato, solo per alcune tipologie contrattuali, quali le collaborazioni a progetto e le false partite IVA (oltre che, ovviamente, per l'apprendistato, che peraltro sottostà a precisi limiti anche anagrafici), che tuttavia rappresentano solo una piccola parte (circa un quarto) del complessivo fenomeno dell'atipicità nel nostro Paese.
La ricerca di chiavi interpretative non può prescindere, poi, dalla specificità del tessuto produttivo del nostro Paese, caratterizzato da un gran numero di imprese con scarsa propensione all'innovazione e con specializzazione in settori labour intensive, ove prevale l'esigenza di capitale umano poco qualificato e intercambiabile, con bassi costi unitari.
Quanto fin qui detto in merito alla flessibilità (soprattutto per come si è concretizzata nel nostro Paese) non deve peraltro portare a ritenere che essa rappresenti un valore in sé, tanto meno quando genera precarietà esistenziale e incertezza nel futuro, impedendo ai giovani lavoratori di affrancarsi dalle famiglie di origine, di accedere a un mutuo per l'acquisto di una casa e - più in generale - di pianificare autonome scelte esistenziali. La continuità del reddito resta un valore essenziale per consentire ai giovani di prendere in mano le proprie vite; un valore da perseguire attraverso una «buona» occupazione, intesa nel duplice senso di stabilità del «posto di lavoro» (attraverso contratti standard) e stabilità «nel lavoro» (dove il passaggio attraverso una pluralità di occupazioni a termine non inficia la continuità del reddito, contributiva e delle tutele). Occorre tuttavia evitare la trappola della scorciatoia normativa, come se fossero le leggi a creare nuovi posti di lavoro o a combattere la precarietà, quando è la crescita dell'economia a svolgere un ruolo fondamentale. E soprattutto occorre tener presente che gran parte della disoccupazione giovanile «scolarizzata» è legata ad un dato strutturale come il ridimensionamento delle assunzioni nella pubblica amministrazione,


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da cui sarà estremamente difficile tornare indietro stanti le difficoltà strutturali della finanza pubblica.
Un altro elemento che occorre considerare quando si parla di flessibilità è la grande varietà di tipologie contrattuali che ad essa sono ascrivibili. È indubbio, infatti, che se abusi ed elusioni caratterizzano soprattutto alcune situazioni (come i contratti a progetto, le partite IVA di comodo, l'uso dell'apprendistato per far fronte alla stagionalità di alcune attività), esiste anche un'area che si potrebbe definire di flessibilità «buona», caratterizzata da ridotta precarizzazione, retribuzioni congrue e alto livello di tutele per i lavoratori. Si tratta, in particolare, dell'istituto della somministrazione di lavoratori tramite agenzie per il lavoro, che sembra aver dato buona prova di sé e che si iscrive a pieno titolo in una pratica di organizzazione della produzione e del lavoro destinata a diventare ordinaria e strutturale.
I lavoratori in somministrazione, infatti, godono oggi di un articolato sistema di welfare contrattuale, di una formazione mirata ai bisogno professionali costantemente rilevati sul territorio (si pensi al Fondo FormaTemp) e hanno buone probabilità di una rapida stabilizzazione. Si tratta, quindi, di un settore che ha segnato una rapida e positiva evoluzione, il quale ha dimostrato di saper crescere e rispondere dinamicamente alle esigenze del mercato del lavoro e che, per tali ragioni, occorre ulteriormente valorizzare e sostenere. Nel quadro della progressiva ed ulteriore liberalizzazione del settore tracciato dalla Direttiva europea 2008/14/CE (che gli Stati membri sono chiamati ad attuare entro il 5 dicembre 2011) andrebbe in primo luogo soppresso l'obbligo normativo di indicare le esigenze di ricorso alla somministrazione, tenendo conto dei buoni risultati che la sperimentazione della acausalità ha dato con riferimento ai lavoratori in mobilità (vedi legge n. 191 del 2009, articolo 1, comma 142). Inoltre, andrebbe contemplata, in un quadro di regole definito dalle parti sociali, la possibilità di somministrare lavoratori apprendisti. Infine, occorre attivare più efficaci strumenti (che vadano a completare il processo avviato con l'introduzione del reato di caporalato, che sicuramente rappresenta un passo importante nella giusta direzione) per contrastare le irregolarità diffuse in tale settore, come le gare di appalto dietro le quali si celano in realtà servizi di fornitura di lavoro in somministrazione con trattamenti economici quasi sempre assai penalizzanti per i lavoratori e il deteriore dumping esercitato della agenzie per il lavoro neocomunitarie.
Per quanto concerne i fenomeni di skill mismatch e skill gap, occorre insistere sul potenziamento dei servizi di orientamento scolastico e di placement universitario.
Tenendo conto dei limiti dell'orientamento professionale svolto dall'ambito familiare, occorre fornire ai giovani gli strumenti per comprendere al meglio la realtà del lavoro, al fine di poter assumere in maggiore autonomia scelte consapevoli, coniugando con coerenza talento, aspirazioni e prospettive occupazionali. In tale contesto pare auspicabile una riflessione sul ruolo che il valore legale dei titoli di studio (in primo luogo universitari) ha nell'influenzare le scelte formative dei giovani (e, soprattutto in alcuni contesti, anche le indicazioni provenienti dalle famiglie) e le conseguenti aspettative occupazionali.
Occorre promuovere e valorizzare le sinergie tra scuola, università, istituzioni formative e mondo del lavoro, sostenendo tutti gli strumenti - come il nuovo apprendistato, i tirocini formativi, gli stages - che consentono un contatto graduale (ma, allo stesso tempo, diretto) con il mondo produttivo e lo svolgimento di attività formative dentro le imprese. A tale proposito è auspicabile la rapida e piena implementazione degli strumenti già approntati dal Governo, come la pubblicazione on line (e l'accessibilità attraverso il portale Cliclavoro) dei curricula degli studenti e il programma FIXO.
Va rilanciata e potenziata l'istruzione tecnica (anche di terzo livello), nell'ambito dei percorsi triennali di Istruzione e Formazione professionale (Ie FP) e dei percorsi


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quinquennali degli Istituti professionali, nonché promossa l'alternanza scuola-lavoro.
Regolata la questione dei tirocini allo scopo di evitare gli abusi e di ricondurre la fattispecie nell'ambito del processo formativo, per quanto attiene al nuovo apprendistato, che deve diventare lo strumento ordinario di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, occorre operare affinché le tappe applicative previste dal decreto legislativo di riforma (decreto legislativo n.167 del 2011) vengano puntualmente rispettate da tutti i soggetti coinvolti (parti sociali e regioni, ma anche scuole e università).
Va razionalizzato e adeguatamente valorizzato il dottorato di ricerca, la cui attivazione deve essere limitata a poche selezionate università e deve servire a formare professionalità altamente specialistiche, con immediate prospettive occupazionali.
Per quanto concerne il mondo universitario, il processo di revisione dei corsi di laurea proliferati in modo disordinato a seguito dell'introduzione del 3 2 deve essere completato, valorizzando le lauree «forti» e attivando strumenti premiali per le università più orientate in tale direzione (nel solco di quanto già previsto dalla normativa vigente, che include anche tale criterio nella ripartizione del Fondo ordinario).
Cruciale appare, poi, l'innalzamento del livello di efficienza del sistema formativo, chiamato ad assicurare quell'apprendimento lungo tutto l'arco della vita che costituisce un requisito essenziale per il successo lavorativo nella nuova economia della conoscenza. A tal fine occorre promuovere una più stretta integrazione tra formazione pubblica e privata, ridefinendo il ruolo degli attori che partecipano al mercato dell'offerta formativa. Assai utile per l'analisi del mercato del lavoro nei vari contesti territoriali, al fine di verificare i reali fabbisogni e indirizzare di conseguenza le attività di formazione (che, soprattutto in certi casi, vengono ancora concepite secondo logiche autoreferenziali), potrebbe essere la creazione di osservatori locali dei fabbisogni professionali, compartecipati da istituzioni pubbliche, parti sociali e privati.
Interessanti progetti in tali direzione, riguardanti varie aree provinciali, sono stati predisposti dal Formez e sono tuttora in corso di realizzazione. Altri progetti volti a promuovere l'occupabilità dei giovani e a sostenere le istituzioni locali nella realizzazione di politiche attive sul territorio potrebbero essere attivati assicurando il pieno utilizzo delle risorse, anche di derivazione comunitaria (FSE), riconducibili alla sfera di attività del Formez.
Un più ampio coinvolgimento delle parti sociali nei processi formativi va perseguito attraverso il sostegno dei Fondi interprofessionali per la formazione continua (prendendo spunto dalle migliori esperienze fin qui realizzate) e la promozione della bilateralità.
Per quanto attiene al ruolo dell'intermediazione, occorre chiedersi se non sia giunto il momento, in un'ottica di sussidiarietà orizzontale (e, soprattutto, tenendo conto della liberalizzazione del settore), di specializzare l'attività dei Centri per l'impiego, indirizzandola unicamente sulle categorie di lavoratori svantaggiati (fasce deboli, lavoratori in mobilità, ecc.).
Sul versante del lavoro autonomo, che nel nostro Paese gioca un ruolo essenziale per incidere sui livelli occupazionali, si potrebbe pensare ad interventi mirati alla riduzione del carico fiscale per le imprese giovanili, eventualmente compensati dalla riduzione della enorme mole di trasferimenti diretti alle imprese (che troppo spesso inducono comportamenti opportunistici e non premiano le vere capacità imprenditoriali).
Infine, l'enorme divario, in termini occupazionali e di reddito disponibile, che si registra tra Sud e regioni del Centro-nord (ampiamente documentato dall'ultimo rapporto SVIMEZ) imporrebbe un discorso differenziato (almeno in parte) per il Mezzogiorno. È evidente che la questione del lavoro nelle regioni meridionali non può essere evocato senza inquadrarlo all'interno di una strategia complessiva di sviluppo, che richiederebbe di estendere la


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riflessione a temi (si pensi alla politica industriale) che esulano dagli obiettivi della presente indagine. Volendo limitarsi ai temi del lavoro, occorrerebbe quanto meno chiedersi se non sia giunto il momento di riflettere seriamente (e senza pregiudizi ideologici) su come regolazioni uniformi (ossia valide per tutto il territorio nazionale) impattino concretamente sull'economia meridionale, sui livelli occupazionali, sul lavoro sommerso (ad esempio, l'introduzione dei contratti flessibili non ha inciso in modo significativo sull'emersione del lavoro irregolare al sud). Ciò di cui il Sud ha bisogno è forse un approccio diverso, che prenda atto del divario esistente e consenta di immaginare politiche selettive, incentrate sui fabbisogni e i problemi propri di specifiche aree territoriali. Politiche di vantaggio per quanto concerne la fiscalità sul lavoro (adeguatamente supportate in sede Europea), ad esempio, potrebbero costituire un volano importante per il rilancio economico del meridione. Ma andrebbero accompagnate da misure rivolte a collegare maggiormente le retribuzioni all'effettiva produttività, a rendere più flessibili, anche in deroga (come prevede l'articolo 8 del decreto-legge n. 138 del 2011), le condizioni di lavoro per quanto riguarda in particolare l'organizzazione, gli orari, le turnazioni, sull'esempio dell'accordo Fiat-Sindacati di Pomigliano d'Arco.
Sarebbe utile poi rivedere, almeno in via sperimentale, le norme in tema di risoluzione del rapporto di lavoro. Attraverso la facoltà riconosciuta alla parti sociali dal citato articolo 8 si potrebbe riconoscere alle imprese operanti nelle regioni meridionali la possibilità di assumere a tempo indeterminato lavoratori in mobilità, giovani e donne inoccupati, potendo avvalersi, in caso di licenziamento che non abbia carattere discriminatorio, di una tutela di carattere solamente risarcitorio. Lo sviluppo della contrattazione decentrata - come previsto dall'accordo interconfederale del 28 giugno scorso e come sostenuto e favorito dal ricordato articolo 8 (che consente di estendere erga omnes le intese raggiunte in azienda o nel territorio), nonché come favorito dalle norme sulla detassazione delle retribuzioni legate alla produttività - può consentire di realizzare quelle differenziazioni di trattamento e di regole che si palesano sempre più necessarie, senza dover ricorrere ad esperienze del passato (ad esempio, una forma di zone salariali) oggi non più riproponibili.


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ALLEGATO 3

Indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo.

NOTA DEPOSITATA DAI DEPUTATI POLI E MURO

L'indagine conoscitiva su cui ci apprestiamo a fornire le conclusioni, assume una maggiore rilevanza alla luce della nuova situazione governativa e delle recenti dichiarazioni fornite dal Governo. Il tema del lavoro è prioritario nell'agenda del Governo che, nel prendere atto di quanto finora prodotto in materia di lavoro in Aula e più specificatamente in Commissione lavoro, si è impegnato ad attuare interventi incisivi soprattutto in merito agli ammortizzatori sociali, alla necessità di inserimento nel mercato del lavoro di donne e giovani - vale a dire le categorie che più hanno risentito della crisi - e agli incentivi all'occupazione nel mezzogiorno, dove più forte risulta essere lo «scollamento» tra formazione secondaria ed universitaria e mercato del lavoro. Nel 2010, infatti - si legge nel Rapporto Svimez 2011 sull'economia del Mezzogiorno - il tasso di disoccupazione nel Sud è stato del 13,4 per cento (contro il 12 per cento del 2008), più del doppio del Centro-Nord (6,4 per cento, ma nel 2008 era il 4,5 per cento). Se consideriamo tra i non occupati anche i lavoratori che usufruiscono della Cig e che cercano lavoro non attivamente (gli scoraggiati), il tasso di disoccupazione corretto salirebbe al 14,8 per cento, a livello nazionale, dall'11,6 per cento del 2008, con punte del 25,3 per cento nel Mezzogiorno (quasi 12 punti in più del tasso ufficiale) e del 10,1 per cento nel Centro-Nord. Nel Sud l'emergenza giovani è più sentita che nel resto del Paese, dal momento che due giovani su tre sono senza un'occupazione, e oltre il 30 per cento dei laureati under 34 non lavora e non studia.
Riteniamo importante, in generale, ma nello specifico anche nel documento che abbiamo esaminato, mettere al centro i giovani impedendo il perpetuarsi del divario generazionale che vuole per i loro genitori il massimo della copertura previdenziale e per loro nessuna assicurazione e garanzia per il futuro. Il nuovo Governo ha evidenziato un piano di azione che partirà proprio dai giovani ed in questo ha il nostro pieno sostegno. Come più volte e da più parti evidenziato è il momento di investire sui giovani favorendo lo sviluppo di programmi post laurea internazionali, di sostenere quanti hanno le competenze per frequentarli in Italia o all'estero mediante prestiti, di varare incentivi per le imprese che investono in formazione e creano percorsi di mobilità internazionale per i giovani manager.
Si è proposto, e su questo siamo d'accordo, il potenziamento del rapporto università-lavoro con l'alternanza di stage formativi, onde evitare come è stato evidenziato dai diversi soggetti auditi e dal CENSIS in primis, il distacco «culturale» dei giovani dal lavoro che sembrerebbe scaturire dalla scarsa propensione dei giovani a lavorare mentre si studia. Tutto questo permetterà di fornire maggiori incentivi ai giovani e indirizzarli opportunamente nelle loro scelte, valorizzandone le specifiche capacità.
Riteniamo necessario investire in settori nuovi dove le opportunità sembrerebbero essere aumentate rispetto al passato, mi riferisco al settore dell'ambiente, del turismo, di quello agroalimentare, della comunicazione e della cooperazione sociale. Nel nuovo welfare, il terzo settore


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avrà un grandissimo ruolo ed è su questo che bisognerebbe incentivare i giovani educandoli attraverso una specifica formazione secondaria e universitaria verso settori che rendono più agibile la risposta adeguata del mondo del lavoro. Occorre potenziare i servizi di orientamento scolastico e professionale per contrastare la disoccupazione giovanile.
Importante è il capitolo degli ammortizzatori sociali, tema caldo di questa stagione parlamentare, ma mai direttamente affrontato se non attraverso proposte che giunte in Aula sono state completamente trasformate e private del loro più profondo contenuto. Abbiamo sempre sostenuto la necessità di una riforma organica e strutturale che tenesse conto del mutato mercato del lavoro e del proliferare di contratti che non possono avvalersi del ricorso al sistema della cassa integrazione a causa della atipicità che non ne contempla la tutela in tal senso.
Siamo in linea con quanto porterà a superare i dualismi tra contratti troppo tutelati e contratti atipici privi di assicurazioni in merito, nello specifico proponiamo l'estensione dei diritti fondamentali a tutte le forme di lavoro, comprese quelle precarie e, in particolare per l'attivazione di un sistema di ammortizzatori universali che fornisca adeguate reti di sicurezza onde evitare che debbano ripetersi situazioni ormai all'ordine del giorno di «somministrati» e lavoratori a progetto che da un giorno a l'altro potrebbero trovarsi e perdere il loro posto di lavoro senza poter contare su di un benché minimo ricorso alla CIG.
In merito al rapporto di lavoro atipico giudichiamo opportuno, come già evidenziato nel documento conclusivo dell'indagine, che la flessibilità non debba corrispondere alla precarietà. Se la flessibilità dovesse portare ad un ingiustificato incremento di atipicità nel mercato del lavoro allora il lavoratore atipico dovrebbe essere maggiormente tutelato rispetto all'indeterminato che ha altre tutele e agevolazioni. Il lavoro atipico non deve essere una scusa per minori costi a fronte di una maggiore incertezza.
In merito all'apprendistato siamo per il suo potenziamento. È importante l'intento alla base della riforma che è quello di fornire un valido strumento, utile ai giovani, in quanto coniuga lavoro e formazione, attraverso la creazione di figure professionali con adeguate competenze.
Condividiamo, tuttavia, le perplessità espresse dalle Associazioni audite che evidenziano la necessità che l'apprendistato non sia né troppo lungo né troppo corto, prevedendo come in alcuni casi già avviene a fronte dell'assunzione di apprendisti, l'obbligo di assunzione a tempo indeterminato, una volta terminato l'apprendistato, di una adeguata percentuale di loro.
Sarebbero più opportune delle riduzioni diversificate sulla base delle diverse dimensioni delle aziende interessate, anche al fine di favorire l'occupazione giovanile nelle piccole/medie imprese.
Pur approvando l'obiettivo che si è inteso realizzare attraverso la nuova disciplina dell'apprendistato, ossia di creare uno strumento positivo per l'occupabilità di molti giovani sulla base della necessaria integrazione tra apprendimento e lavoro, riteniamo importante, che detta nuova disciplina consenta concretamente ai giovani di sviluppare le proprie competenze e capacità professionali. Pertanto riteniamo indispensabile operare in un'ottica di stabilizzazione dell'occupazione e allo stesso tempo consentire alle imprese di formare professionisti capaci di incrementare la propria competitività.

ULTERIORI CONCLUSIONI E PROPOSTE

I) Inserire la possibilità che la gestione della previdenza integrativa possa essere affidata anche all'INPS (l'unico modo per ottenere oggi un miglioramento a livello previdenziale è iscriversi a un fondo privato, di vario tipo, ma è ancora troppo esigua la percentuale di persone che fa questa scelta). Dare la gestione della previdenza integrativa all'INPS potrebbe rappresentare un incentivo ad investire nella previdenza integrativa;
II) Prevedere la possibilità di inserire la previdenza integrativa nella norma che


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regola i periodi di lavoro all'estero, al fine di tutelare il lavoratore nei periodi di mobilità non coperti a causa del trasferimento;
III) Valutare la possibilità di versare la previdenza integrativa anche nei periodi di cig-mobilità-disoccupazione;
IV) Inserire vantaggiose agevolazioni fiscali, per i primi anni di lavoro, al fine di incentivare l'iscrizione al fondo;
V) Predisporre misure atte ad attribuire all'INPS il compito di sensibilizzare e pubblicizzare adeguatamente informando i giovani, a partire dalle scuole superiori fino all'ingresso del mondo del lavoro;
VI) Obbligare i fondi di categoria a fondersi per raggiungere una rilevante consistenza, evitando l'eccessiva dispersione in fondi di più piccola consistenza.

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