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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
1.
Martedì 15 settembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SU TALUNI FENOMENI DEL MERCATO DEL LAVORO (LAVORO NERO, CAPORALATO E SFRUTTAMENTO DELLA MANODOPERA STRANIERA)

Audizione di rappresentanti dell'EURISPES:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 4 8 10
Bobba Luigi (PD) ... 6
Cazzola Giuliano (PdL) ... 5
Delfino Teresio (UdC) ... 7
Fara Gian Maria, Presidente dell'EURISPES ... 3 4 5 8
Foti Antonino (PdL) ... 7 8
Madia Maria Anna (PD) ... 6
Martelli Claudio, Direttore dell'Osservatorio permanente sull'immigrazione dell'EURISPES ... 3 5 7 9
Mosca Alessia Maria (PD) ... 4

Audizione di rappresentanti del CENSIS:

Moffa Silvano, Presidente ... 10 14 15 16 18
Cazzola Giuliano (PdL) ... 15
Fedriga Massimiliano (LNP) ... 16
Gnecchi Marialuisa (PD) ... 14 15
Roma Giuseppe, Direttore generale del CENSIS ... 10 16
Schirru Amalia (PD) ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 15 settembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 12,40.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'EURISPES.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro (lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera), l'audizione dei rappresentanti dell'EURISPES.
L'indagine viene avviata nella giornata odierna e dovrà essere conclusa entro marzo 2010.
Sono presenti, e li ringrazio, Gian Maria Fara, presidente dell'EURISPES, e l'onorevole Claudio Martelli, direttore dell'Osservatorio permanente sull'immigrazione.
Nel ringraziarli ancora una volta per la loro presenza, do loro la parola.

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'EURISPES. Vi ringraziamo per averci voluto ascoltare su un problema che appartiene alla storia dell'istituto. L'EURISPES, sin dalla sua nascita, nel 1982, si è occupato del problema dell'economia sommersa, producendo dati, stime, analisi, studi e ricerche che spesso hanno anche fatto discutere, forse perché troppo in anticipo sui tempi. Tali dati, però, sono sempre stati confermati ex post dalla realtà.
Continuiamo a seguire questo fenomeno con grande attenzione, dedicandogli indagini mirate o, di volta in volta, sezioni all'interno del nostro Rapporto Italia, il rapporto annuale che l'istituto produce sulla situazione economica e sociale del Paese.
Le stime più recenti che abbiamo prodotto parlano di un sommerso che ha ormai superato un terzo del PIL. Il dato è riferito al periodo tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008: su un PIL complessivo di circa 1.540 miliardi di euro il sommerso equivarrebbe - secondo le nostre stime - a circa 540 miliardi.
Riteniamo che, nel corso del 2008, soprattutto a seguito della grave crisi economica che ha colpito evidentemente non solo il nostro Paese, il sommerso sia ulteriormente aumentato, dal momento che pezzi interi dell'economia sana, in presenza di una crisi così forte e marcata, hanno deciso di rifugiarsi nel sommerso come ultima difesa di fronte alle difficoltà del momento.
Non siamo in grado di produrre stime certe su quanto è avvenuto nel corso del 2008 e nei primi sei mesi del 2009, ma stiamo lavorando e pensiamo di poter produrre dati aggiornati e attendibili entro il prossimo gennaio, quando presenteremo Rapporto Italia.

CLAUDIO MARTELLI, Direttore dell'Osservatorio permanente sull'immigrazione dell'EURISPES. Desidero aggiungere poche osservazioni. È evidente che anche l'immigrazione contribuisce, per la sua parte, che è una parte significativa, alla


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dimensione abnorme, che il professor Fara ha appena citato, dell'economia sommersa o shadow economy, l'economia dell'ombra, come la chiamano gli studiosi anglosassoni.
In che forma vi contribuisce? Per cominciare, la stessa immigrazione legale è spesso sottoposta a una tirannia dai datori di lavoro poiché, essendo più debole, è più soggetta a ricatti. Non di rado tali ricatti si manifestano mantenendo in nero anche forme di occupazione stabili e - regola ancora più generale - non dichiarando per intero le caratteristiche del lavoro, anche quando esso è stabile e regolare; trasformandolo in lavoro occasionale o stagionale, si riduce così la quota di contributi che vengono versati.
Un discorso a parte, ovviamente, meriterebbe l'immigrazione clandestina, rispetto alla quale le stime nostre e dell'Eurispes valutano, allo stato attuale, una quota pari a circa 800 mila persone; una parte di queste persone non lavora, ovviamente, e una parte lavora e, quando lavora, lo fa sempre in forma di lavoro nero.
L'immigrazione clandestina, complessivamente intesa, costituisce circa un quarto dell'immigrazione nel suo insieme, un quarto totalmente sommerso, che si aggiunge a una percentuale - non valutabile in termini precisi, ma certamente consistente - dell'immigrazione legale, trattata tuttavia come se fosse in nero.
Forme di accertamento più penetranti potrebbero raggiungersi monitorando le rimesse degli immigrati verso i Paesi di origine. In questo modo - in cambio, forse, di una misura di perdono fiscale - potremmo essere in grado di valutare meglio l'entità del lavoro sommerso, che non è soltanto fonte di iniquità fiscali, ma è in se stesso fonte di alterazione del mercato del lavoro e di tutte le conseguenze negative immaginabili.

PRESIDENTE. Si dice molto spesso, da parte anche degli osservatori, che il fenomeno del lavoro nero e del lavoro sommerso, soprattutto per quanto riguarda gli immigrati, è anche collegato alla scarsa volontà di svolgere determinati lavori da parte degli italiani.
Vorrei sapere se su questo elemento, che è spesso al centro del dibattito, ci sono dati che possono aiutarci ad analizzare meglio il fenomeno.

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'EURISPES. Per l'esperienza che noi abbiamo e per le ricognizioni che effettuiamo abbastanza regolarmente, direi che ci sono interi settori e comparti dell'economia nel nostro Paese che sono stati ormai completamente abbandonati dalla manodopera italiana. È difficilissimo, ormai, trovare nel settore dell'edilizia un muratore o un manovale italiano e lo stesso vale per il settore dell'agricoltura. Si tratta di comparti quasi completamente affidati a manodopera straniera.
Lo stesso problema si registra nel settore dei servizi, della ristorazione e del turismo. Questi sono i fronti nei quali la presenza della manodopera italiana è praticamente scomparsa. Il rapporto ormai è di due su dieci, in base alle informazioni in nostro possesso.
Nel segnalare la nostra stima sul sommerso - che equivale, come si diceva prima, a circa 540 miliardi di euro - ho trascurato di comunicarvi che ad esso va aggiunto il cosiddetto «sommerso criminale», ovvero il «fatturato» prodotto da mafia, 'ndrangheta, camorra e sacra corona unita (per quel poco che ancora produce, fortunatamente).
Secondo i nostri calcoli, questo fatturato criminale equivale a circa 175 miliardi di euro annui. La nostra stima è sostenuta e confortata dalla Procura nazionale antimafia, dalla Polizia, dai Carabinieri e dalla Guardia di finanza. Si tratta di dati, dunque, condivisi con le forze dell'ordine e con la magistratura. Naturalmente, parliamo sempre di stime approssimative per difetto.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ALESSIA MARIA MOSCA. Ho due domande da porre. In primo luogo, vorrei


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sapere se avete, rispetto alle vostre stime, un'idea della distribuzione territoriale, regione per regione, dei fenomeni che avete illustrato, ossia di quali sono le regioni maggiormente coinvolte.
La seconda domanda riguarda, invece, l'accenno fatto all'eventualità di svolgere un controllo delle rimesse. Mi interesserebbe sapere se esistono delle buone prassi già in atto, attraverso le quali si può capire che un meccanismo del genere può in effetti far risalire a fenomeni di lavoro sommerso e può essere una modalità efficiente per contrastarlo.

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'EURISPES. In risposta alla prima domanda, il fenomeno del sommerso è equamente distribuito sul territorio nazionale. Il problema del sommerso criminale interessa, dal punto di vista della produzione delle risorse, certamente più le regioni meridionali ma, dal punto di vista della distribuzione o del reimpiego di tali risorse, riguarda in maniera abbastanza marcata anche le regioni settentrionali. Il prodotto della 'ndrangheta viene reinvestito sul mercato nazionale nel Veneto come in Piemonte, ma non solo, anche in altri Paesi europei o addirittura in Canada o in Australia. Si tratta, quindi, di un capitale che si diffonde e che tocca l'economia delle diverse parti del Paese.
Il dato relativo alle rimesse - su cui lascerei rispondere l'onorevole Martelli - può essere considerato uno dei tanti indicatori che aiutano a comprendere meglio un fenomeno. Se ci accorgiamo che dal nostro Paese parte un numero «x» di miliardi, essi saranno stati evidentemente prodotti da qualcuno che vive qui come ospite regolare o irregolare, e ciò rappresenta un indicatore della capacità di produzione di reddito degli immigrati.

CLAUDIO MARTELLI, Direttore dell'Osservatorio permanente sull'immigrazione dell'EURISPES. Naturalmente, il carattere dell'occupazione degli immigrati in Italia rivela già elementi interessanti e significativi. Si tratta in larga misura ancora di un'immigrazione impegnata nel lavoro domestico, di gran lunga la mansione più diffusa tra i nostri immigrati e anche quella che è più difficile sottoporre a un'osservazione efficace e capillare.
Il rapporto di lavoro domestico è, infatti, quello in cui spesso si combina l'interesse del datore di lavoro a pagare meno contributi, attraverso l'erogazione in termini reali di uno stipendio che viene denunciato formalmente in termini minimi, in modo da avvantaggiare il datore di lavoro e in apparenza anche il lavoratore (in apparenza perché in realtà quest'ultimo rinuncia ad alcune contribuzioni, ma preferisce avere denaro liquido in maggiore proporzione rispetto agli altri).
Per quanto riguarda le rimesse, è evidente che si tratta di un indicatore. Suggerivo di porre sotto maggiore attenzione tale fenomeno, in primo luogo, perché in realtà è il vero aiuto che noi diamo ai Paesi in via di sviluppo. In realtà non lo diamo noi, lo danno loro stessi a se stessi, ma il fatto di non intervenire, di chiudere un occhio, significa lasciar correre un flusso di denaro verso i Paesi da cui originano i flussi migratori. È evidente che è solo un indicatore, però credo sia molto importante.

GIULIANO CAZZOLA. Da ragazzi ci spiegavano che, per determinare la ricchezza di un Paese, si doveva tener conto anche delle rimesse degli immigrati. Si diceva che queste si riducevano mano a mano che veniva meno il rapporto affettivo tra l'emigrato e il Paese d'origine.
Innanzitutto, ringrazio i nostri ospiti per la presenza e per le informazioni che ci hanno comunicato. Tenuto conto che questa Commissione dovrà non solo conoscere i fatti e prenderne atto, non solo avere una dimensione dei fenomeni, ma anche capirne i motivi, vorrei chiedere a un istituto importante come EURISPES se sono giunti a spiegare tali fenomeni. A meno che non arriviamo a fare dell'«auto razzismo» e a sostenere che noi italiani abbiamo nel DNA qualcosa di maledetto, per cui siamo più propensi all'evasione, alla furbizia, all'imbroglio e via di questo passo (è bene che non arriviamo a darci


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risposte di questo tipo), credo che sia utile compiere uno sforzo per capire le ragioni dell'evasione e il motivo per cui siamo il Paese che ha un'economia sommersa maggiore di altri.
Un'economia sommersa esiste dappertutto, come pure dappertutto esiste un'economia criminale. Anni fa si diceva che ogni tre dollari che circolavano per il mondo ce n'era un quarto in mano alla grande criminalità internazionale. Purtroppo, esiste anche una globalizzazione della criminalità, di cui noi facciamo - non gloriosamente - parte.
Vorrei che i nostri ospiti ci spiegassero i motivi sottesi a questo fenomeno. Occorre comprendere, infatti, per quale motivo, pur essendo un Paese che ha leggi severe (più o meno severe a seconda delle circostanze), che ha forze di contrasto dell'evasione fiscale - almeno per quanto riguarda i numeri e i corpi attrezzati per svolgere questa funzione, che fanno indubbiamente invidia a Paesi molto più popolosi del nostro - siamo meno efficienti in tale campo rispetto a tali Paesi.
Credo che ci siano dei dati reali - come diceva Hegel, tutto ciò che è reale è anche razionale - che sarebbe bene chiamare per nome. Per esempio, l'onorevole Martelli citava il caso delle colf come elemento su cui più si concentra l'evasione, compreso il caso della colf regolare.
È più difficile probabilmente evadere nella grande impresa industriale, tenuto conto che il permesso di soggiorno è legato anche alla continuità di un rapporto e di un contratto di lavoro. Nel caso della colf, può capitare che, una volta regolarizzata da un datore di lavoro, essa lavori anche per altre famiglie assolutamente in nero, visto che, probabilmente, per la colf immigrata il problema non è la pensione, ma essere in regola con il Paese che la ospita. Sul versante della pensione, poi, qualche santo provvederà anche per lei. Capita spesso, quindi, che la colf lavori per più famiglie oltre che per quella che la mette in regola.
Credo che lo sforzo che deve compiere questa Commissione, avvalendosi anche dell'apporto di persone qualificate che studiano questi fenomeni e li osservano da vicino, sia quello di fare il possibile per risalire ai motivi reali, per definizione anche razionali, che determinano queste situazioni.

MARIA ANNA MADIA. Io chiederei una riflessione sul rapporto tra legislazione del lavoro e sommerso. Nel dibattito attuale credo sia onnipresente, ormai da diversi anni, il tema della flessibilità, che sta sicuramente mettendo a rischio vite professionali e affettive. Noi, come forze di centrosinistra, ci battiamo per limitare la flessibilità che diventa precarietà, però avendo sempre presente, come un chiodo fisso, quanto l'irrigidimento possa diventare sommerso e non lavoro regolato. Vi chiederei, dunque, una riflessione al riguardo.

LUIGI BOBBA. Intervengo solo per esprimere un dubbio sull'indicazione, in linea teorica corretta, espressa dall'onorevole Martelli relativamente all'utilizzo, come dato indiretto, della quantità delle rimesse.
È evidente che tale indicatore potrebbe essere importante. Ciononostante, avendo avuto modo, peraltro abbastanza di recente, di leggere uno studio sul caso albanese, ho potuto constatare che gran parte delle rimesse non segue canali formali, non utilizza le istituzioni deputate a ciò o le agenzie che erogano questa tipologia di servizi, ma canali informali, reti comunitarie, persone che raccolgono, specialmente tra le colf, il denaro e vanno ad esempio in Polonia, per citare un'altra situazione. Il fenomeno mi sembra, dunque, difficilmente afferrabile, vista la sua natura. Inoltre, tali rimesse avvengono, specialmente nei Paesi che non sono lontani dai nostri, attraverso l'«esportazione» di beni, come televisori o altro.
Capisco che potrebbe essere un indicatore però, per come avviene oggi e anche per via dei costi dei trasferimenti formali delle rimesse da parte delle agenzie, delle banche o delle poste, ritengo che questo sia difficilmente affidabile come elemento indiretto di rilevazione.


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Mi domandavo, inoltre, se - visto che è stato indicato dal presidente Fara come uno dei campi prevalenti, se non il principale - non si potesse utilizzare come indicatore indiretto il campo dell'edilizia, considerato che per un numero di anni significativo lo Stato ha riconosciuto agevolazioni fiscali in relazione al recupero del patrimonio edilizio pari al 36 o 41 per cento, e se non possa essere un elemento, anche in termini di differenziazione territoriale, di evidenziazione di fenomeni di sommerso e di evasione. I dati su questo settore sono formalmente ineccepibili e credo che l'Agenzia delle entrate li possa mettere a disposizione. Si potrebbe utilizzare questo metodo indiretto, visto che, trattandosi di sommerso, è evidente che non si può andare a chiedere agli interessati.

TERESIO DELFINO. È stato affermato che esistono comparti quasi completamente affidati alla manodopera immigrata. Questo elemento, però, viene contestato: è successo anche qui in Commissione, dove, se non ricordo male, è stato detto da alcuni colleghi che questo dato dovrebbe essere puntualizzato e approfondito, dal momento che deriva non tanto dalla mancata volontà degli italiani di svolgere certi lavori, quanto dal fatto che un mancato controllo del lavoro nero dell'immigrazione fa sì che, a quegli stipendi e a quelle condizioni di lavoro, gli italiani non possano più svolgerli. Vorrei una vostra prima valutazione, perché si tratta di un dato non indifferente.

CLAUDIO MARTELLI, Direttore dell'Osservatorio permanente sull'immigrazione dell'EURISPES. Concorrenza sleale!

TERESIO DELFINO. Concorrenza sleale, appunto. La seconda osservazione è che, comunque, il problema esiste e si espande. Noi siamo tra coloro che ritengono che l'immigrazione da problema debba diventare risorsa, senza con questo abbassare assolutamente la guardia sulla legalità e sul contrasto alla criminalità organizzata. Vorremmo, però, avere una proposta positiva da parte vostra - sulla base della vostra esperienza, che ha compreso anche responsabilità di governo in questo settore e in altri - in modo da trarre anche da questa consultazione un'indicazione di come operare in modo più stringente sul fenomeno del lavoro nero.
Sono in Parlamento da quindici anni e ho sempre sentito parlare del problema del caporalato, del lavoro nero, e ho sempre visto la dilatazione incredibile del fatturato, che è aumentato sempre più, mettendo in condizioni di svantaggio i poveri italiani, che invece non sfuggono alle tasse contributive o fiscali.
Nel ringraziare i nostri ospiti - scusandomi per il ritardo - aggiungerei un'ultima osservazione. Ritengo che ci potrebbe aiutare - con questo concludo, signor presidente - lo svolgimento da parte vostra di una comparazione europea in materia di legislazione di lavoro, rispetto alle misure di contrasto più specifico.
Cito un esempio: dalle mie parti ci sarebbero tanti pensionati o anche ragazzi, che potrebbero raccogliere la frutta, ma, a causa di condizioni normative non paragonabili - non ho ancora fatto questa comparazione perché ne sono stato informato ultimamente - a quelle di altri Paesi europei, preferiscono rinunciare. Abbiamo anche portato l'età per raccogliere i piccoli frutti a sedici anziché a quattordici anni.
Faccio questo esempio per dire che una comparazione europea, anche in termini di possibilità di accesso di alcuni lavori agli italiani, forse sgombrerebbe il campo da quella voce secondo la quale gli immigrati svolgono lavori che potrebbero essere svolti da italiani. Io sono molto più vicino alla vostra posizione e ritengo che gli italiani abbandonino alcuni settori, ma, rispetto a visioni diverse, vorrei capire se voi potete fornirci alcune illuminazioni sugli elementi che impediscono agli italiani di svolgere determinati lavori.

ANTONINO FOTI. Innanzitutto, ringraziamo il presidente Fara e l'onorevole Martelli per aver ribaltato la proporzione delle percentuali di durata delle nostre


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audizioni: normalmente l'80 per cento del tempo è impegnato da chi è audito e il 20 per cento dai parlamentari, mentre in questo caso ci congratuliamo per la rapidità degli interventi degli auditi.
Rispetto al dato dei 540 miliardi, che corrisponde a un terzo del PIL (1.540 miliardi), cosa comportano in termini percentuali fenomeni come caporalato, immigrazione e, nella fattispecie, criminalità organizzata?

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'Eurispes. La criminalità organizzata è calcolata a parte. Noi abbiamo tre PIL, in buona sostanza: un PIL ufficiale, uno sommerso e uno criminale, che corrispondono rispettivamente a 1.540, 540 e 175 miliardi circa.
In sostanza, il PIL complessivo di questo Paese equivale approssimativamente a quello della Germania.

ANTONINO FOTI. L'onorevole Cazzola sosteneva che gran parte di questo sommerso ha determinato il mancato pagamento delle tasse da parte degli italiani; allora, mi domando in che percentuale gli aspetti dell'immigrazione incidono rispetto a quel 30 per cento.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola al presidente Fara e all'onorevole Martelli per le conclusioni, voglio informarvi che il presidente dell'EURISPES ha già anticipato che ci fornirà un'ampia documentazione. È stato molto cortese nell'aprire subito il dibattito, ma la sua presenza oggi sarà suffragata anche da una mole di documentazione che, ovviamente, verrà messa a disposizione della Commissione.

GIAN MARIA FARA, Presidente dell'EURISPES. Cerco di rispondere rapidamente all'onorevole Cazzola ricordando la frase pronunciata da Ivano Spallanzani, presidente della Confartigianato, in occasione di una conferenza pubblica, quando, riferendosi al Presidente del Consiglio, disse: «Presidente, non è il sommerso che è alto, è l'acqua che è alta». Insomma, uno dei motivi alla base del sommerso è l'eccessiva pressione fiscale, su questo non c'è dubbio. La legislazione, gli impedimenti, la burocrazia: è un sistema che, nel complesso, non funziona e non produce ciò che l'impresa si aspetta.
Alcuni anni fa la Guardia di finanza realizzò un'indagine a tappeto controllando 700 mila aziende. Dai controlli emerse un quadro assolutamente allarmante, in quanto la gran parte di esse non era in regola con la normativa. Molte producevano sommerso e retribuivano i propri lavoratori in nero. Io ho la sensazione che il sommerso venga utilizzato nel nostro Paese come ultima arma di difesa rispetto a un sistema spesso oppressivo e limitativo della libertà di impresa.
Onorevole Madia, il nostro mercato del lavoro è ancora eccessivamente farraginoso e regolato, a mio parere. Ho la sensazione che tale eccessiva regolazione produca forme alternative di prestazione d'opera. Bisognerà probabilmente intervenire su questo fronte.
Onorevole Bobba, le rimesse ufficiali degli immigrati sono uno dei tanti indicatori, ma non l'unico possibile. Noi sappiamo perfettamente che specialmente nel caso di immigrati di alcuni Paesi - penso a parte di quelli dell'est Europa o africani - le rimesse sono affidate alle reti informali di trasferimento. Tuttavia, poiché non possiamo avere dati certi su ciò che accade in via informale, quello dei trasferimenti ufficiali, pur non risolvendo il problema, rappresenta comunque un indicatore. Il ricercatore - ragiono un po' come faceva Pasolini, il quale a un certo punto, accortosi che non c'erano più le lucciole, sosteneva che qualcosa stesse succedendo nell'ambiente - va a caccia di segnali deboli, flebili; mette insieme tali segnali e ci ragiona sopra. Quello delle rimesse ufficiali, seppure non esaustivo, è comunque un buon indicatore.
Noi abbiamo, come dato sul quale lavoriamo, la convinzione che i nostri immigrati clandestini producano una ricchezza pari a 24 miliardi di euro l'anno, mentre quelli con regolare permesso di soggiorno produrrebbero un sommerso pari a 18 miliardi. Siamo arrivati a questi


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dati attraverso alcuni piccoli segnali. Mettendo insieme i pezzi del puzzle non si arriva forse a una foto digitale, ma si ottiene una buona definizione dell'immagine.
Rispondo all'onorevole Delfino, che ha posto il tema dei comparti di manodopera completamente abbandonati dagli italiani. Noi dobbiamo pensare che uno dei problemi all'origine dell'abbandono di certi settori è legato anche alla cultura di un Paese. Abbiamo sposato culturalmente Kant ed espulso Tocqueville. Kant, come ricorderete, diceva che un barbiere, poiché produce un servizio, non dovrebbe avere diritto di voto, mentre un sarto, che produce un'opera, un manufatto, potrebbe partecipare alla democrazia. Tocqueville, invece, ci insegnava che negli Stati Uniti ogni mestiere è dignitoso, purché onesto, dal facchino della stazione fino al Presidente degli Stati Uniti.
Le famiglie, specialmente quelle meridionali, sono ancora fortemente legate a questa visione culturale. Ci sono settori nei quali noi italiani potremmo avere un grande ruolo e dai quali potremmo trarre grandi vantaggi, ma li trascuriamo. Basti pensare al settore del turismo. Se lei parla con una brava signora del meridione, le dirà che non ha fatto studiare il figlio per mandarlo a fare il cameriere. Questa è la logica, eppure il nostro è un Paese che potrebbe trarre dal turismo e dall'ospitalità grandissime risorse.
Alcuni anni fa dissi che il futuro di questo Paese, considerando che noi non abbiamo materie prime e nemmeno grandi industrie, è nella vendita d'affetto. Forse la mia era un'esagerazione, ma ho la sensazione che il settore del turismo possa realmente rappresentare una prospettiva per questo Paese, che deve cambiare e modificare anche la propria cultura.
Onorevole Foti, abbiamo studiato il sommerso in tutti i modi. Non lo producono solo gli immigrati, né la criminalità, ma anche i nostri impiegati dello Stato che per sopravvivere svolgono un doppio lavoro, milioni di pensionati che lasciano il servizio attivo ed essendo ancora giovani e volenterosi arrotondano, imprenditori che non fanno il loro dovere.
Il sommerso è il prodotto di una situazione complessa, di un insieme di concause.

CLAUDIO MARTELLI, Direttore dell'Osservatorio permanente sull'immigrazione dell'EURISPES. Onorevole Delfino, rispetto all'offerta di lavori sgraditi, ho usato io un'espressione impropria, concorrenza sleale: in realtà è più un dumping sociale che una concorrenza sleale quello che viene esercitato. Mi riferisco all'esistenza di una concorrenza di manodopera che si offre a un prezzo più basso e a minori garanzie.
È evidente che questo è il punto cruciale. Senza la disponibilità dei datori di lavoro sarà molto difficile prosciugare quest'area sommersa. Come si può ottenere tale disponibilità, se non agendo sul lato della deduzione fiscale? Se si portasse ogni occupato in deduzione fiscale ci sarebbe anche un interesse del datore di lavoro a denunciarlo. Se, viceversa, il dato del lavoro viene assunto quasi come criterio per stringere la morsa fiscale, si ottiene l'effetto contrario.
Non so se sono apparsi chiari i dati che il professor Fara ha fornito in merito al lavoro sommerso nella sua totalità. Se sommiamo il dato del sommerso a quello della criminalità arriviamo a una dimensione del 50 per cento del PIL (sommando un terzo più altri 170 miliardi di economia criminale si sfiora, appunto, questa quota).
Siamo di fronte, dunque, a un problema enorme, ma anche a un'opportunità altrettanto enorme se si riuscisse progressivamente a ridurre, circoscrivere e prosciugare quest'area, con grande vantaggio per le casse dello Stato.
Bisognerebbe non compiere errori. Mi permetto di osservare, credendo di non poter essere smentito, che l'errore più grave compiuto in questa materia è responsabilità comune di tutte le forze politiche: l'ingresso della Romania nell'Unione europea e la mancata adozione, da parte dell'Italia, di una moratoria sui


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lavoratori rumeni, che da quel momento erano diventati cittadini dell'Unione e potevano, quindi, circolare liberamente. Francia, Germania, Inghilterra e Spagna imposero una moratoria sugli ingressi ai lavoratori rumeni all'atto dell'ingresso della Romania nell'Unione europea. L'Italia, nel 2006, durante il passaggio tra centrodestra e centrosinistra, non ha adottato nessuna misura di autoprotezione del proprio mercato del lavoro e non ha ragionato come gli inglesi, dichiarando che, pur rispettando la libera circolazione degli uomini, il proprio mercato del lavoro non era in condizione di reggere l'urto prevedibile di un'esondazione di lavoratori rumeni.
È evidente che questo caso ha alterato completamente i dati della nostra immigrazione, la quale non è più prevalentemente extracomunitaria, ma è, almeno per il 50 per cento, di origine europea, relativa a Paesi appena entrati o in procinto di entrare nell'Unione europea. È un'immigrazione nella quale si combinano elementi di diritto diversi, perché un conto è il lavoratore europeo, un altro quello extracomunitario e non possono essere applicate le stesse misure.
Faccio un'ultima osservazione, anche questa di natura statistica. Se le proiezioni dell'EURISPES, ma anche dell'ISTAT e, sia pure un po' più ridotte, della Caritas confermano il dato di più di 4 milioni di immigrati regolarmente presenti in Italia - stimiamo intorno agli 800 mila i lavoratori irregolari - la domanda ulteriore è questa: quanti di questi 4 milioni di regolari lavorano? Secondo i dati dell'INPS, in numero inferiore ai 2 milioni. Che cosa fanno gli altri 2 milioni di immigrati regolarmente presenti? Forse non lavorano? Sembra difficile pensarlo, perché saremmo di fronte a una situazione profondamente alterata e strana. In realtà, esiste una quota di bambini e di donne che non lavorano, ma anche certamente una parte, molto maggiore dei due milioni, che lavora e lo fa in nero, in una forma sommersa.
Anche un altro dato è poco tenuto in considerazione. La maggioranza netta degli immigrati presenti in Italia e che lavorano sono donne - non maschi neri belluini - e svolgono lavori prevalentemente domestici. Rispetto a questi lavori mi sembra che non ci sia attenzione né da parte sindacale né da parte delle amministrazioni, né da parte delle famiglie, che non sono interessate, e mai lo saranno se il lavoro domestico non può essere valutato fiscalmente, a denunciare il rapporto di lavoro. Insomma, se tutta la convenienza è a non denunciare, nessuno denuncerà mai.
Rispondo alla domanda giusta posta dall'onorevole Cazzola: siamo antropologicamente differenti? No, non credo, o può darsi che ciò sia vero in alcune situazioni. Al fondo, tuttavia, in materia fiscale non è prevalsa l'idea di evitare che si sommino la convenienza del datore di lavoro e del lavoratore nel tenere nascosto nell'ombra, sommerso, il loro rapporto di lavoro.
Non esiste l'ispirazione culturale di fondo in materia fiscale nello spezzare la convenienza reciproca nel non denunciare. Bisogna creare tale convenienza, rispettiva, a denunciare.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti del CENSIS.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro (lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera), l'audizione di rappresentanti del CENSIS.
Sono presenti il dottor Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, che ringrazio, e la dottoressa Maria Pia Camusi.
Do la parola al direttore del CENSIS, Giuseppe Roma.

GIUSEPPE ROMA, Direttore generale del CENSIS. Signor presidente, non conoscendo bene, se non dal documento che ho letto, gli intendimenti della Commissione, svolgo un'introduzione piuttosto rapida, per lasciare spazio alle vostre domande e


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approfondimenti. Ho anche un testo scritto e alcune pubblicazioni che abbiamo realizzato negli anni passati, che forse possono essere di utilità per la Commissione.
Il tema del lavoro irregolare, del lavoro sommerso, dell'economia invisibile è discusso da tantissimo tempo. L'espressione «lavoro sommerso», «economia sommersa» fu adottata dal CENSIS nel 1974. Abbiamo seguito da allora questa fenomenologia.
È evidente che sia il lavoro irregolare che l'economia irregolare sono di difficile stima. Abbiamo organizzato alcuni anni fa, insieme all'OCSE, una conferenza internazionale proprio su questo argomento. Con queste premesse intendo dire che le cifre e anche alcune valutazioni devono essere accolte con grandissima attenzione e prudenza.
Il CENSIS usa una metodologia un po' diversa da quella dell'ISTAT. L'ISTAT è fondamentalmente legata ai dati di contabilità nazionale; noi, invece, dalle ultime e più recenti indagini (del 1998, del 2002 e del 2005) abbiamo utilizzato una metodologia indiretta, che spesso è risultata abbastanza complementare con quella dell'ISTAT.
Esistono molti metodi, anche a livello internazionale, che vi sconsiglio; mi riferisco soprattutto a quelli che forniscono numeri francamente esagerati. Occorre molta prudenza su questo punto. Mi pare che le ultime stime dell'ISTAT si attestino intorno al 16-17 per cento. Noi siamo sul 18 per cento, ma credo che questa sia la dimensione quantitativa a cui riferirsi.
È evidente che il fenomeno del lavoro, soprattutto quello irregolare, non è direttamente misurabile con parametri e valutazioni piuttosto semplificate (come quella secondo la quale la crisi occupazionale favorirebbe il lavoro in nero). Questo naturalmente è possibile, ma non è detto che sia solo questa la motivazione. Per esempio, abbiamo rilevato che, in taluni casi, anche in periodo di boom si può ricorrere al lavoro irregolare, il quale è un alone grigio intorno all'occupazione regolare, dotata di tutti i crismi dell'ordinarietà.
In base a quello che ho letto, voi siete più interessati alle forme estreme, perché una gran parte del lavoro irregolare e dell'economia sommersa è legata all'evasione contributiva e fiscale. Esiste anche questo aspetto e ha una certa rilevanza, ma forse, nell'economia del vostro lavoro, lo metterei da parte.
Troverete nelle prime pagine della mia relazione anche alcuni dati che l'Unione europea ha reso disponibili per la prima volta nel 2007. L'Unione europea, in particolare la Francia, ha sempre negato l'esistenza del lavoro e dell'economia irregolare, perché in tal caso sarebbe stata fuori dallo standard. Mentre l'Italia ha molto spesso cercato, anche in sede europea, di porre tale questione, i francesi avevano sempre posto il veto e, quindi, non sono mai state prese iniziative in proposito fino agli anni 2002-2003, quando si è scoperto che in tutta Europa esiste questo fenomeno. Vi ho fornito anche i dati più recenti, indicati proprio dall'eurobarometro in base a una media di autodichiarazioni degli europei che indicano attorno all'11 per cento l'area di irregolarità.
Faccio queste premesse per portare rapidamente il punto sulla questione che più ci riguarda. È evidente che, nel nostro Paese, la base dell'economia industriale si è realizzata proprio attraverso forme di spontaneismo che hanno portato anche a una dose di lavoro nero e irregolare - stiamo parlando degli anni '50 e '60 - ma questo, nella gran parte del Paese, soprattutto nel centro-nord, è stato progressivamente regolarizzato con la crescita dell'economia delle piccole e medie imprese.
Rimane, invece, una forte presenza di lavoro irregolare nel Mezzogiorno d'Italia, che, proprio per le sue caratteristiche non soltanto di arretramento rispetto ai trend dell'economia nazionale, ma anche per fattori di carattere socio-istituzionale, continua a presentare questo fenomeno in molte regioni come strutturale, mentre possiamo considerarlo molto meno strutturale nel resto del Paese. La prima differenza


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da sottolineare, se si vuole affrontare anche in maniera legislativa questo tema, è dunque di tipo territoriale.
La seconda differenza è relativa ai soggetti. È evidente che, quando si parla di lavoro nero, molto spesso - noi speriamo di aver contribuito a sradicare questo luogo comune - ci si ricorda delle macchine tessili in cantina, delle cascine di una volta, dove si lavorava in nero, insomma una realtà legata al settore manifatturiero. Noi possiamo dire che, ormai da diversi anni, certamente il settore tessile e dell'abbigliamento - il caso del Salento è quello più noto - presenta alcune forme di lavoro nero, ma il discorso che più preoccupa, perché mette a rischio anche la vita dei lavoratori, non è prevalentemente legato alle industrie manifatturiere, ma ad altri settori. Innanzitutto, perché è di stretta attualità, quello dei servizi domestici, dove nel 2005 abbiamo rilevato il 37 per cento di lavoro in nero. D'altronde, anche la regolarizzazione in corso delle badanti e delle collaboratrici domestiche indica l'esistenza del problema in questo settore.
Ho fatto una mia personale valutazione, per esempio, proprio sul tema delle colf e delle badanti, arrivando a un potenziale di lavoro irregolare di circa 300 mila unità, un numero un po' più basso di quello che il Governo stesso ha preconizzato (400-500 mila). Nella mia documentazione trovate un paragrafo in merito, ma vi illustro come è stato realizzato il calcolo. Si parte da una dichiarazione delle famiglie, registrata dall'ISTAT, e da una nostra indagine proprio sulle badanti. Da queste due diverse fonti - in gergo si parla di tecnica delle discrepanze, nel senso che si tratta di due dichiarazioni che vengono confrontate - a me risulterebbe che 400 mila famiglie non hanno dichiarato all'ISTAT la presenza di badanti. Attraverso alcuni calcoli che ci indicano che alcune badanti lavorano solo presso una famiglia e altre presso più famiglie, deriva il numero di circa 290 mila, un numero certamente rilevante. L'assistenza e il lavoro domestico rappresentano il settore con la percentuale più elevata, attorno al 37 per cento.
È un settore che adesso regolarizziamo, ma in esso certamente non vi è né lo sfruttamento evidente che si ha in altri settori, né la pericolosità, anche se stiamo conducendo uno studio sull'infortunistica nel lavoro domestico, che pure è rilevante. Come sapete, ci sono più morti per incidenti domestici che sul lavoro. Si tratta di un problema abbastanza rilevante, ma lo metto da parte.
La seconda area di maggiore incidenza del lavoro nero è l'agricoltura. Lo si capisce da molti elementi. L'occupazione agricola permanente è molto scesa; vi sono, in agricoltura, problemi di stagionalità e una struttura imprenditoriale che, anche se ha conosciuto moltissimi cambiamenti e innovazioni, anche dal punto di vista organizzativo, ha comunque i suoi problemi.
Gli altri due comparti appartengono al settore delle costruzioni: appalti e subappalti, ma soprattutto le ristrutturazioni. Queste ultime rappresentano un lavoro minuto, che molto spesso riguarda le abitazioni degli italiani e vede la presenza fortissima di lavoratori stranieri e di piccole imprese anche di tipo etnico.
Il settore delle costruzioni, quindi, ha problematiche del tutto differenti. Se il settore dei subappalti è legato a normative molto stringenti (penso al DURC, che ha fatto emergere molte condizioni di precarietà e di lavoro irregolare), certamente il settore delle costruzioni, che è un settore labor intensive, che impiega tanta manodopera, spesso anche non molto qualificata, presenta - come l'agricoltura, e stiamo parlando degli stagionali, dei raccoglitori, dei vendemmiatori in questo periodo - irregolarità prevalentemente legate a personale straniero.
Nell'ordine ci sono, poi, bar e ristoranti, attorno al 22 per cento - nella pubblicazione che ho lasciato figurano tutti i dati - per arrivare alla prima area del manifatturiero, il tessile, con il 13 per cento.
Ricapitolando, abbiamo nei servizi domestici il 37 per cento di lavoro irregolare, nell'agricoltura il 26 per cento, nelle costruzioni


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circa il 24 per cento, nel tessile il 13 per cento, infine nella meccanica circa l'8 per cento.
Ho svolto questo discorso non soltanto per articolare il problema per settori, ma per capire la difficoltà di combattere questi fenomeni. È evidente che l'unico successo nell'emersione del lavoro nero si è verificato proprio nel Salento, con il tessile, grazie al fatto che in quell'area si è creato un forte sentimento fra le forze sociali e le istituzioni, fra chi doveva occuparsi della repressione e chi, invece, doveva aiutare i lavoratori a essere integrati in maniera regolare nel mercato del lavoro. Si è verificato un grande lavoro di territorio.
Penso che questo sia l'unico caso di successo nell'emersione, nonostante i tentativi messi in atto dagli anni 1998-1999 fino agli anni 2005-2006. Ricordo che il Ministro Tremonti indicò la voce dell'emersione come una delle entrate possibili per riequilibrare i conti pubblici. Si è trattato sicuramente di un'operazione di successo, grazie al fatto che sono stati coinvolti i territori. D'altronde, i cambiamenti nel sommerso sono rilevanti - non ve li illustro tutti perché il tempo è veramente limitato - e oggi possiamo affermare che le categorie più coinvolte nel sommerso sono gli immigrati, che nella nostra indagine costituiscono il 27 per cento, e i giovani in cerca di prima occupazione. Queste due categorie rappresentano da sole il 51 per cento.
La terza categoria, quella dei lavoratori in mobilità e in cassa integrazione, la considererei un po' diversa, poiché tali soggetti hanno una parte del salario garantito, attraverso forme di sostegno rispetto a condizioni di difficoltà, e la integrano con un'attività legata più all'evasione contributiva e fiscale che non esterna al circuito della legalità. Lo stesso vale anche per i pensionati, al quarto posto, che pur avendo già un reddito lo integrano attraverso un secondo lavoro.
La percentuale maggiore, ripeto, è costituita da immigrati e giovani alla prima occupazione.
Naturalmente la realtà del lavoro immigrato in nero incide in maniera molto diversa sul territorio. Per esempio, in Campania, Calabria, Sicilia e Puglia, dove pure ve ne sono di meno - si concentrano prevalentemente al centro-nord d'Italia - gli immigrati costituiscono più del 50 per cento di tutti i lavoratori in nero. In regioni dell'Italia centrale, come Lazio e Umbria, e anche in Sardegna e Basilicata, sono circa il 40 per cento. Nelle altre regioni costituiscono una percentuale più bassa.
È evidente che per affrontare questa tematica - in passato, l'approccio è stato quello di regolarizzare, introdurre il credito d'imposta nel Mezzogiorno, far emergere il lavoro e via elencando - una soluzione per tutti non è possibile.
Peraltro, quando il Ministro Sacconi era Sottosegretario al lavoro, concordammo una linea, insieme alle forze sociali e ai sindacati, per dividere il problema per territorio, per settore e per tipo di soggetto. Non si può dare un'unica soluzione al lavoro nero in agricoltura, nelle ristrutturazioni realizzate da piccolissime imprese, nei subappalti, nella cantieristica o nel lavoro domestico. Sono realtà assolutamente diversificate.
È chiaro che, mentre in passato c'erano molti soggetti diversi, oggi il fatto che gli immigrati siano le persone più coinvolte potrebbe essere un elemento unificante delle eventuali politiche per ridurre la dimensione del lavoro nero.
Penso, però, che occorra prestare un'attenzione specifica, anche in sede di Commissione, ai diversi settori, dal momento che le rispettive realtà sono completamente diverse. Oserei dire che, in fin dei conti, l'industria è il settore più semplice, perché esistono unità produttive, per quanto si possa anche lavorare a domicilio. Sono realtà territorializzate, per cui da un paese ci si può spostare a un altro vicino, ma la zona è circoscritta.
Se, invece, ci occupiamo delle ristrutturazioni edilizie, come individuiamo chi le realizza? Esistono imprese di immigrati assolutamente regolari, che però impiegano manodopera non regolare, e via elencando.


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Vi sono, ad esempio, appalti di pulizia gestiti in modo da imputare al committente cento e pagare quaranta ai lavoratori. Si tratta forse di una forma di dumping?
Come vedete, un discorso è quello degli appalti, un altro quello dell'edilizia, un altro ancora quello dei ristoranti. Insomma, un'unicità di intervento a me sembra abbastanza complessa.
Sottolineo un ultimo elemento. Stiamo realizzando, per conto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali un'indagine sui percorsi lavorativi degli immigrati, che sarà pronta a breve. Forse ne emergeranno tanti dati, anche su come questo Paese riesce a regolarizzare in maniera spontanea: spesso l'immigrato arriva da irregolare, si regolarizza, poi svolge lavoro irregolare, mette in piedi un'impresa in nero e infine regolarizza anche questa. Il nostro è un Paese che mostra una forte «autodepurazione», ma naturalmente questo non ci esime dal riconoscere che ormai l'area di lavoro che potenzialmente non solo non ha diritti, ma è anche esposta a molti rischi, è rilevante. Il discorso degli infortuni sul lavoro va affrontato in questa chiave. Credo che la soluzione debba essere proprio quella di non generalizzare i problemi e non sostenere che in Italia non è presente il lavoro nero.
Su questi temi si rischia di generare un gran dibattito politico, ma di non capire una realtà molto frantumata e anche abbastanza complicata.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Roma.
Do ora la parola ai deputati che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIALUISA GNECCHI. Signor presidente, ringrazio molto il direttore del CENSIS per l'esposizione, che è stata molto utile. Ritengo già strano che si possano definire percentuali sul lavoro nero: sappiamo esattamente che il fenomeno esiste, addirittura lo quantifichiamo, ma non riusciamo a eliminarlo.
È chiaro che l'obiettivo dovrebbe essere questo, proprio perché il lavoro nero comporta un danno per i lavoratori e le lavoratrici, che non avranno diritto alla pensione e rischiano di non essere tutelati rispetto a maternità, infortuni, disoccupazione e via dicendo. Il lavoro nero comporta, inoltre, un danno fiscale; se si lavora in nero, non si fa il versamento IRPEF, e questo rappresenta un danno per tutti.
Insomma, il lavoro nero determina un danno in generale, perché persone senza un reddito dichiarato e che non avranno pensioni sono, o rischiano di diventare, un «costo». So bene che non bisogna mai pensare alle persone in termini di costi, ma penso a persone anziane che non avranno neanche la possibilità di mantenersi.
Oltretutto, è evidente che il lavoro nero diventa anche concorrenza sleale tra le aziende e, inevitabilmente, è un meccanismo che favorisce un mercato e una logica che noi non possiamo assolutamente condividere.
Proprio per l'attuale situazione, dall'1 al 30 settembre, di sanatoria o regolarizzazione per colf, badanti e assistenti domiciliari, ho riesaminato i dati sull'assicurazione dei collaboratori e delle collaboratrici domestiche tra il 2001 e il 2002, all'epoca della precedente forte sanatoria.
Effettivamente si tratta di dati significativi perché, se guardiamo complessivamente in Italia il passaggio tra il 2001-2002 - ovviamente si è verificata una ricaduta anche sul 2003, perché le diverse regioni hanno lavorato con tempi diversi rispetto alla sanatoria - siamo passati da 267.434 lavoratori iscritti come collaboratori e collaboratrici domestiche nel 2001 a 511.000 nel 2002 e 538.000 nel 2003. Nel complesso, siamo passati da 267.000 a 538.000, con un raddoppio di iscritti come collaboratori e collaboratrici domestiche.
Consideriamo la differenza provincia per provincia, anche in base alle fasce orarie. La banca dati dell'INPS presenta le seguenti fasce orarie: fino a dieci ore, da undici a venti, da ventuno a trenta, da trentuno a quaranta, da quarantuno a


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cinquanta, e poi oltre le cinquanta ore. Sappiamo anche che la settimana contributiva viene coperta con una contribuzione di venticinque ore settimanali, quindi lo scaglione significativo è tra ventiquattro e ventisei, mentre i casi che superano questa soglia sono, chiaramente, pochi. Se andiamo, dunque, a vedere nelle varie province, osserviamo situazioni incredibili, perché esistono realtà come Bergamo, dove da 2889 assicurati si è passati a 6734, o Caserta, dove si è passati da 1181 a 5329; si è avuta, cioè, una quadruplicazione degli assicurati.

PRESIDENTE. Onorevole Gnecchi, la prego di concludere.

MARIALUISA GNECCHI. È ovvio che tutto ciò va nella direzione - confermo le vostre considerazioni - che si debba creare una cultura legata all'emersione del lavoro. Mentre normalmente si parla di datori di lavoro, aziende e via dicendo, in questo settore sappiamo che si tratta di famiglie. Esiste, quindi, un problema vero, legato al fatto che si ritiene di non dover assicurare una persona per poche ore o che sia comunque più comodo il lavoro nero.
Ricordo che un collega del PdL aveva fatto un'interrogazione per la semplificazione dei bollettini di pagamento e della denuncia di assicurazione delle domestiche. Ritengo che sia una procedura facile, ma ovviamente ognuno di noi può pensarla diversamente. Credo certamente che si dovrebbe andare nella direzione di poter scaricare fiscalmente i contributi; attualmente si può scaricare una parte della contribuzione, fino a un massimo di 2.500 euro, ma è evidente che è poco per famiglie che hanno collaboratrici domestiche a tempo pieno, anche esulando dal discorso assistenti domiciliari e badanti.

PRESIDENTE. Vi prego di essere molto contenuti negli interventi e, soprattutto, di formulare la vostra domanda. Avremo poi il tempo per discutere approfonditamente.

AMALIA SCHIRRU. Vorrei fare una considerazione a proposito delle questioni del lavoro sommerso. Mi domando se non sarebbe opportuno che chi si occupa di indagini e svolge ricerche facesse emergere anche il lavoro di cura svolto dalle donne nelle famiglie.
Si tratta di un fenomeno che, a livello istituzionale, nessuno è stato ancora in grado di mettere in evidenza, né in termini di dati, né di individuazione di una politica per ricompensare tale lavoro, spesso oscuro. Da questo nasce la cultura in base alla quale, anche quando questo lavoro viene svolto da persone esterne, non gli viene attribuito lo stesso valore di qualsiasi altro lavoro produttivo.
Lo stesso avviene in agricoltura, soprattutto nelle aziende familiari, dove, sia per le difficoltà economiche, sia per l'organizzazione produttiva e via dicendo, si ha lavoro sommerso svolto spesso e volentieri da figli e donne.
Riguardo alle badanti, il fenomeno ormai non è legato solo a un discorso di permesso di soggiorno. Esiste - e volevo capire se ciò è confermato - anche da parte di questo personale il rifiuto, a volte, di entrare in un sistema di regolarizzazione, probabilmente sia per storie di vita personale, sia per mancanza di fiducia nel sistema previdenziale.
Una questione di cui non si è parlato è il caporalato. Perché avviene e con quali fenomeni si presenta?

GIULIANO CAZZOLA. Ringrazio il direttore Roma per le informazioni molto interessanti e articolate che ci ha riferito.
Lei ha affermato, dottor Roma, che nel Mezzogiorno l'evasione è un fenomeno strutturale. Anche rispetto al dibattito, spesso mal posto, che si è sviluppato quest'estate su tali problemi, non ritiene forse che nel suo insieme l'economia meridionale non sia in grado di sottostare a regole uniformi e che sia in fondo anche questo elemento a determinare una ragione di sopravvivenza, rappresentata dall'immersione?
Nel 1992 il Mezzogiorno, che si era sviluppato con la Cassa del Mezzogiorno, si trovò improvvisamente abbandonato a se stesso, in quanto i vantaggi dell'intervento


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straordinario vennero meno, ed è forse in quel momento che l'economia meridionale si è immersa ancor di più per riuscire a sopravvivere.
Nel caso del settore tessile, che lei citava, se non ricordo male si è riusciti a recuperare il lavoro sommerso con un contratto di riallineamento, scendendo sostanzialmente al di sotto dei minimi contrattuali.

MASSIMILIANO FEDRIGA. Anch'io ringrazio il direttore per la presenza e per la relazione. Vorrei chiedere quali interventi territoriali si possono mettere in campo, a livello concreto, per combattere il lavoro nero e far emergere il lavoro, con una sola richiesta da parte nostra: che si tratti di misure che non favoriscono chi finora ha tenuto in nero il lavoratore.
Il rischio è che, per far emergere il lavoro, si individuino misure che favoriscono l'emersione, ma, col tempo, anche chi ha tenuto irregolarmente il lavoratore, non riconoscendo a quest'ultimo le giuste tutele ed evadendo i contributi allo Stato.

PRESIDENTE. Do la parola al direttore del CENSIS per la replica.

GIUSEPPE ROMA, Direttore generale del CENSIS. Mi pare che le prime due domande fossero relative al lavoro domestico, che è un'area in cui il fenomeno è molto forte. Onorevole Gnecchi, se addirittura nel 2001 erano 264.000 gli iscritti all'INPS, l'ISTAT, che realizza la sua analisi sulle forze di lavoro, nello stesso anno ne censiva già un milione. Ora, sulla registrazione dei dati INPS - l'onorevole Cazzola è più esperto di me - esiste un problema non semplice, però è evidente che i numeri oggi ci dicono che dal 2001 al 2008 nel nostro Paese colf e badanti sono aumentate del 37 per cento e che il 72 per cento di esse sono immigrate.
È evidente che esiste una collusività fra datore di lavoro e lavoratore. Penso che nel settore domestico essa sia relativamente limitata, perché la contribuzione per la famiglia è bassa. Il problema dell'irregolarità nel lavoro domestico è fortemente legato a un tema che ha poco a che vedere con il mercato del lavoro, ovvero il permesso di soggiorno. Evidentemente esistono datori di lavoro che vorrebbero regolarizzare dal punto di vista contributivo, ma non possono farlo perché manca il permesso di soggiorno.
Durante una trasmissione - riprendo quanto diceva l'onorevole Fedriga - su Radio 24 ha chiamato un ascoltatore per dire che lui da tre anni ha individuato una badante ucraina, ma non ha potuto fare la domanda per farla rientrare con i flussi regolari: questo signore, quindi, pur aspettando da tre anni, non avrà una badante, mentre gli altri oggi potranno regolarizzare le proprie. Si tratta dunque di fenomeni che hanno una loro rilevanza sociale.
Penso che redditi troppo bassi spingano più il lavoratore che non il datore di lavoro a non dichiararli. Ripeto, nel caso del lavoro domestico abbiamo contributi molto bassi e una situazione pensionistica relativamente bassa: se anche una lavoratrice domestica versasse i contributi per trent'anni, alla fine la pensione sarebbe esigua. Resta il fatto che avere 800 euro lordi in nero comporta una differenza di almeno 200 euro.
In questa tematica, laddove stiamo parlando di un lavoro nero che personalmente chiamo light, in quanto non si rischia la pelle e non ci sono condizioni di insicurezza sul lavoro, occorre considerare le convenienze di tutti e due i soggetti.
All'onorevole Schirru rispondo che il tema del lavoro di cura delle casalinghe o familiare va affrontato nell'ambito della Commissione pari opportunità, perché non lo si può considerare un lavoro retribuito. Esiste, semmai, una condizione di rapporto delle donne col lavoro di cura familiare. Politicamente potrebbe anche essere brillante la definizione di un lavoro nero familiare, però sappiamo che esso esula da questa condizione.
Onorevole Cazzola, io ho parlato di un sommerso e di un'economia coinvolgenti soggetti di impresa, soggetti e lavoratori autonomi, che riguarda evasione ed elusione fiscale, ma non particolarmente concentrata nel Mezzogiorno. La strutturalità


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del fenomeno nel Mezzogiorno sta nel fatto che una parte consistente del lavoro meridionale è in nero, il che non avviene al nord: è questa la differenza. Naturalmente nel centro-nord la strutturalità del lavoro nero non esiste, ma riguarda particolari soggetti e particolari forme di evasione ed elusione.
Nel Mezzogiorno - e qui vengo alla sua domanda - è evidente che la debolezza in termini di competitività significa anche che una piccola impresa ha un bilancio di costi e ricavi che non le consente di pagare il lavoro in bianco. La prima ricerca che abbiamo condotto riguardava soprattutto il Mezzogiorno e la intitolammo emblematicamente «Uscire vivi dal sommerso». Nel Mezzogiorno, infatti, il sommerso rappresenta anche una dimensione di sopravvivenza.
Tralasciando quello criminale, far emergere il lavoro sommerso di chi lavora alla cassa del supermercato senza contratto potrebbe significare il licenziamento. Nel Mezzogiorno esiste un problema di competitività di sistema che fa sì che tale parte di lavoro sia marginale e non possa mai evolvere, come è avvenuto nel centro-nord, in un lavoro regolare, se non cambiano le condizioni di contesto nel Mezzogiorno.
I contratti di riallineamento si riallineavano, appunto, ai contratti nazionali nel tempo: per dar modo all'impresa di avere un costo del lavoro uguale a quello contrattuale, venivano concessi due o tre anni di tempo.
Un problema che io credo sussista è relativo al costo del lavoro e alla differenza con la retribuzione effettiva dei lavoratori. Ritengo che la questione, come la poneva l'onorevole Cazzola, sia giusta, anche rispetto al dibattito sviluppatosi nell'estate relativamente al tema delle differenziazioni salariali, dal momento che mi sembra di aver capito che nel Mezzogiorno, essendoci un divario di competitività, può sussistere un discorso che contempli la variabilità dei salari. Dal modo in cui lo si è posto questa estate, sembrava un fatto puramente legato al consumo e, a quel punto, non praticabile, dal momento che è evidente che il costo della vita a Milano è differente che a Seregno. Se il costo del lavoro fosse proporzionato a questo sarebbe una Babilonia, mentre ritengo sarebbe giusto proporzionarlo in funzione della produttività del lavoro.
Infine, si è chiesto che eventuali interventi di tipo territoriale non aiutino chi fino a oggi non ha pagato le tasse. Credo moltissimo al fatto che, in tema di lavoro nero, e anche di evasione fiscale, conti molto la dimensione sociale e culturale. Non si può affrontare un tema, per esempio quello del caporalato - come diceva prima l'onorevole Schirru - senza coinvolgere le organizzazioni imprenditoriali, i sindacati, gli enti locali, ovvero senza mettere in campo una forza anche comunicativa rispetto al valore del lavoro.
Stiamo parlando di un argomento abbastanza forte, che si può ricondurre anche a schemi di tipo economicistico, ma il problema è capire se il nostro Paese vuole continuare a sostenere che chi lavora deve avere alcune garanzie - non quella di non lavorare, anche questo sarebbe veramente errato - come una retribuzione adeguata a quanto produce. Sul territorio è più facile.
La soluzione è sul territorio perché lì vi sono i soggetti che possono operare. È inutile ragionare solo sul servizio ispettivo dell'INPS: in un Paese che ha sei milioni di imprese è difficile che questi fenomeni si risolvano inviando un ispettore nelle case degli italiani, dove, per esempio, per cambiare il parquet si chiama la piccola impresa rumena. Né si può intervenire con i Carabinieri.
Occorre una cultura collettiva che sanzioni questi comportamenti. Devo dire che abbiamo posto anche questa domanda e, almeno a parole, gli italiani condannano questa pratica. Sappiamo, poi, quanti preferiscono pagare il dentista senza la fattura perché costa di meno.
Sarebbe auspicabile che il territorio desse alla regolarità non solo un valore etico, ma anche pratico, riconoscendo che entrano meno risorse nelle casse dello Stato, che vi è una concorrenza sleale tra chi paga tutto fino all'ultima lira e chi non


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paga. Questi dovrebbero diventare valori collettivi, e ciò può avvenire solo sul territorio, perché non si può allestire una grande campagna nazionale. Su problemi specifici (le costruzioni o l'agricoltura) l'intervento può essere mirato.
Noi pensiamo che anche le normative nazionali debbano tener conto di questa logica, perché non si può pensare che, se il 20 per cento del lavoro è irregolare, da oggi al domani lo si porta a zero: occorre ridurlo gradatamente, stabilendo di iniziare con l'agricoltura, con l'edilizia e via elencando.
Si tratta di un lavoro molto di dettaglio. Non è un caso che le ultime leggi - non sono al corrente se ne sono state varate altre, in Italia se ne fanno troppe per essere aggiornati - prevedessero, in relazione ai comitati territoriali dell'emersione, che a livello provinciale fossero presenti tutti, dagli enti locali alle camere di commercio, per lavorare insieme.
Diciamolo francamente: da qualche anno - il che significa tutti e due i Governi, quindi non penso che sia un problema di colore politico - questo tema è stato leggermente accantonato, perché è difficile. È inutile affermare di voler fare emergere il lavoro quando ciò comporta creare più disoccupazione o far chiudere le aziende.
È meritoria la vostra prudente indagine, perché questo tema è più difficile di come appare. Le soluzioni non sono immediate e occorre approfondirle. Lo ripeto, la dimensione settoriale e territoriale è l'unica con cui affrontarlo seriamente.

PRESIDENTE. La ringrazio molto anche per queste ultime precisazioni.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,10.

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