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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XIII
7.
Martedì 7 ottobre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Rosso Roberto, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ANDAMENTO DEI PREZZI NEL SETTORE AGROALIMENTARE

Audizione dei rappresentanti della Confcommercio e della Confesercenti:

Russo Paolo, Presidente ... 3 10 13
Bella Mariano, Responsabile dell'ufficio studi della Confcommercio ... 3 12
Brandolini Sandro (PD) ... 10
Pergamo Gaetano, Direttore della Federazione italiana esercenti specialisti dell'alimentazione (FIESA)-Confesercenti ... 7 12

Audizione dei rappresentanti della Federdistribuzione, dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop) e dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad):

Russo Paolo, Presidente ... 13 20 23 24 26 28
Brandolini Sandro (PD) ... 20 26
Cardile Piero, Responsabile del settore legislativo dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad) ... 16 24 25 26
Crippa Stefano, Direttore dell'area relazioni esterne e ricerche economiche della Federdistribuzione ... 19 23
Gottardo Isidoro (PdL) ... 21
Oliverio Nicodemo Nazzareno (PD) ... 22 25
Pagani Marco, Direttore dell'area legislazione e studi della Federdistribuzione ... 13 28
Russo Albino, Responsabile del settore economico dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop) ... 18 26 27
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE XIII
AGRICOLTURA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 7 ottobre 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PAOLO RUSSO

La seduta comincia alle 13,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione dei rappresentanti della Confcommercio e della Confesercenti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'andamento dei prezzi nel settore agroalimentare, l'audizione dei rappresentanti della Confcommercio e della Confesercenti.
Sono presenti il dottor Mariano Bella, responsabile dell'ufficio studi della Confcommercio; il dottor Luciano Mauro, funzionario dell'ufficio studi; il dottor Marzio Cozzolino, funzionario del settore legislazione d'impresa; e il dottor Antonio Castellucci, addetto stampa.
Per la Confesercenti sono presenti il dottor Gaetano Pergamo, direttore della Federazione italiana esercenti specialisti dell'alimentazione (FIESA)-Confesercenti; la dottoressa Danila Negrini, dell'ufficio economico della Confesercenti; e la dottoressa Luisa Barrameda della FIESA-Confesercenti.
Darei subito la parola agli auditi, riservando eventuali domande dei colleghi in esito alle loro relazioni.

MARIANO BELLA, Responsabile dell'ufficio studi Confcommercio. Grazie, presidente.
Ho la possibilità di leggere, per cinque minuti, una breve memoria?

PRESIDENTE. La ascoltiamo con attenzione.

MARIANO BELLA, Responsabile dell'ufficio studi della Confcommercio. Signor presidente, signori onorevoli, Confcommercio ringrazia questa Commissione per l'invito a trattare il tema delle condizioni economiche della filiera agroalimentare, su cui esprimerò sinteticamente il nostro punto di vista. Abbiamo lasciato agli atti una breve documentazione sull'argomento.
L'inflazione, in Italia, è del tutto simile a quella europea: nel 2007 è stata del 2,4 per cento in Italia e del 2,2 per cento nell'Unione economica e monetaria (UEM) a tredici; mentre a settembre 2008 era pari al 3,7 per cento in Italia e al 3,6 per cento nella UEM a tredici. I valori sono simili sia nel complesso, sia sui capitoli di spesa.
La dinamica del prodotto lordo, del reddito disponibile e dei consumi, invece, sotto il profilo strutturale e sotto quello congiunturale, è largamente differente. Mi riferisco alla storia economica degli ultimi vent'anni e, in particolare, degli ultimi sette. Citando la Banca d'Italia, queste evidenze sono racchiuse nel fatto che, dal 1991, il reddito delle famiglie cresce in Italia dello 0,3 per cento in media all'anno, contro l'1 per cento della Germania e il 2,2 per cento della Francia.


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Nell'anno in corso, molteplici cause porteranno a un grave rallentamento nei profili di sviluppo dell'economia nazionale ed europea. La crisi di Francia, Spagna e Germania porterà, quest'anno, a una crescita tra lo 0,9 e l'1,5 per cento. In Italia, quella stessa crisi, in presenza della medesima inflazione, porterà a una riduzione netta del prodotto reale e, nel migliore dei casi, ad una stagnazione.
Queste poche ma chiare evidenze definiscono la dimensione e la natura della questione Italia: il problema riguarda la crescita del sistema e non certo la presenza di settori più o meno inefficienti, né il sistema di formazione dei prezzi.
Vengo ora all'argomento oggetto dell'audizione, sebbene questa premessa fosse molto importante.
La creazione di valore lungo la filiera alimentare - secondo le dicerie correnti - considerando un euro di acquisto effettuato dal consumatore finale, sembra ripartirsi in 17 centesimi che vanno all'agricoltura, 23 centesimi all'industria e 60 centesimi al commercio.
Tutto ciò è falso: 60 centesimi non rappresentano, infatti, un guadagno per il commercio, bensì la sua produzione lorda. Il fatto che non si capisca dove sia allocata, per esempio, l'imposta sul valore aggiunto dovrebbe far venire il sospetto che tali indicazioni sono del tutto destituite di fondamento.
Mi preme segnalare che, molto spesso, quando si parla di catena del valore lungo la filiera, si fa confusione tra i concetti di produzione e di valore aggiunto o, più semplicemente, tra ricavo e guadagno.
Il cosiddetto «margine del commercio», secondo le corrette definizione dell'ISTAT, è una produzione lorda da imposte, tasse e, soprattutto, dai costi degli input intermedi, cioè dai costi sostenuti per produrre.
Abbiamo effettuato i conteggi, a tal proposito, utilizzando le matrici input-output dell'ISTAT, secondo delle tecniche standard. Si è così evidenziato che, di un euro speso dal consumatore finale per prodotti alimentari non trasformati, 24 centesimi vanno alle importazioni e ai trasporti, 17 centesimi all'agricoltura, 24 centesimi al commercio e circa 36 centesimi agli altri settori, la cui produzione viene attivata dal consumo finale di cui si sta parlando.
Su questo punto, molti esperti dimenticano che l'agricoltura fruisce di consistenti aiuti. Ho letto i resoconti delle precedenti audizioni svolte presso questa Commissione e posso dire che lì di tutto si parla, salvo che di sussidi all'agricoltura e del loro effetto disincentivante sul prodotto e sulla produttività del settore, a cui farò cenno tra breve.
Se ricalcoliamo la catena del valore, includendovi gli aiuti indiretti all'agricoltura e, cioè, i vantaggi monetari al settore derivanti da agevolazioni su IVA, IRAP, ICI, IRPEF, accisa sui combustibili e sul regime contributivo e previdenziale, la ripartizione del valore considerato è la seguente: 25 centesimi all'agricoltura, 23 centesimi all'importazione e ai trasporti, 20 centesimi al commercio e 32 centesimi agli altri settori.
Lo stesso valore aggiunto deve essere correttamente decomposto, al fine di individuare quanta parte del valore complessivo di filiera venga trattenuto dall'imprenditore del commercio: pagati i redditi dei lavoratori dipendenti e coperti gli ammortamenti, il risultato di gestione è pari a 12,5 centesimi di euro per la filiera dei prodotti non trasformati e a 9,5 centesimi per quella degli alimentari trasformati.
Se si tolgono anche le imposte dirette, si ottiene un risultato netto di gestione pari a circa 10 centesimi su un euro di venduto per i non trasformati e a meno di 8 centesimi per i trasformati. Stiamo parlando di risultati netti di gestione, che sommano i proventi del dettaglio e i proventi dell'ingrosso e includono ancora almeno un centesimo di euro di imposte indirette nette.
Un altro mito riguarda il cosiddetto «doppio prezzo di vendita», cioè la possibilità di consentire al consumatore di avere immediata visione, nei punti-vendita, sia del prezzo di acquisto, sia del prezzo di vendita dei singoli prodotti: noi non


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crediamo che sia la strada giusta per accrescere il benessere che il consumatore trae dal consumo.
Non va dimenticato, se ci si mette nei panni del consumatore, che l'acquisto di un prodotto o di un servizio è motivato, innanzitutto, dal suo prezzo finale, piuttosto che dal guadagno realizzato dal venditore. È del prezzo finale che l'acquirente tiene conto, nella sua libera decisione di acquisire o rinunciare al bene o al servizio, in quanto proprio sul prezzo finale misura se quel prodotto o bene sia in grado di venire incontro al suo bisogno e alla sua capacità di spesa.
Introdurre elementi come l'invidia o, peggio ancora, l'odio sociale, nella funzione di utilità del consumatore finale, non credo possa aiutare.
Sotto il profilo tecnico, diverse sono le controindicazioni che tale sistema avrebbe per i consumatori: non si potrebbero conoscere i responsabili di eventuali particolari incrementi di prezzo all'interno della filiera; la distribuzione commerciale vedrebbe compromessa la propria immagine sul consumatore; il consumatore tenderebbe a imputare al solo commerciante le differenze di prezzo all'origine e al dettaglio, anche nel caso di disfunzioni da addebitarsi alle fasi intermedie; si aumenterebbe la confusione del consumatore.
Dal lato delle aziende, si tratterebbe di un intervento senza alcun riflesso sulle dinamiche del mercato, che stanno alla base del prezzo finale, ponendo l'attenzione su un elemento che non apporta alcun contributo al miglioramento dei meccanismi di libero scambio. In tal senso, turberebbe il mercato e la concorrenza.
Da parte del distributore, inoltre, verrebbe così meno qualsiasi interesse a promuovere l'acquisto di tanti prodotti o ad allargarne l'assortimento in offerta, alla luce dei possibili equivoci informativi per il consumatore.
Il sistema del doppio prezzo creerebbe problemi anche nel caso di prodotti importati, in quanto il loro prezzo non sarebbe del tutto comparabile con quello indicato sugli altri prodotti nazionali.
In nessun caso, poi, il doppio prezzo sarebbe un indicatore di correttezza del comportamento dell'intermediario. Il commerciante, infatti, dovrebbe esporre anche, prodotto per prodotto, la misura in cui i costi fissi di gestione gravano sul singolo prodotto. Dovrebbe dunque segnalare eventuali incrementi dei costi dell'affitto, dell'energia, degli oneri fiscali, assicurativi e bancari, dovrebbe infine segnalare il rischio di invenduto connesso al singolo prodotto, la cui copertura determina, in proporzione, il prezzo di vendita.
Tutte queste informazioni dovrebbero poi essere fornite con riferimento all'andamento di tutti i prodotti venduti nel singolo punto di vendita, in quanto, ovviamente, i costi fissi unitari si ripartiscono in funzione del profilo delle vendite di ciascuno e di tutti i prodotti. Un panorama semplicemente grottesco, dunque: più che di informazione, parlerei di incubo.
Il tema della sicurezza alimentare, da decenni relegata al più modesto compito di assicurare una conformità del prodotto alimentare alle normative di natura igienico-sanitaria, viene oggi più correttamente interpretato in termini di disponibilità di materie prime e scorte operative. Serve, quindi, una produzione agricola di base abbondante, tutta sicura e con un rapporto ben differenziato e riconoscibile tra qualità e prezzo del servizio.
L'Italia è dipendente dall'estero per il 35 per cento del grano duro; per il 60 per cento del grano tenero; per il 10 per cento del mais; per il 30 per cento del latte; per il 65 per cento dei prodotti ittici e per il 50 per cento di carne bovina; mentre è autosufficiente nei settori delle carni, del pollame e dei prodotti ortofrutticoli.
La carenza di derrate agricole di base permette al commercio, con l'attività di importazione, di supplire alle carenze produttive nazionali e di svolgere il compito di rifornire il mercato. Lo stesso commercio, attraverso le esportazioni, valorizza il made in Italy agroalimentare nel mondo.
Il punto non è tanto di fare una valutazione in ordine alle risorse che assicurano un sostegno ai redditi degli agricoltori,


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ma di vedere se e quanto tali risorse producono, in termini di prodotto interno lordo, occupazione, innovazione, carico fiscale sui cittadini-contribuenti e livello dei prezzi sui cittadini-consumatori.
Il rapporto tra il complesso degli aiuti all'agricoltura e il valore aggiunto della branca, al netto di ogni contributo, è superiore al 50 per cento. Ciò vuol dire che la branca assorbe risorse pari alla metà del valore che genera. Dal 1999 al 2006 sono stati dati all'agricoltura italiana, tra sussidi diretti e indiretti, quasi 125 miliardi di euro.
Ne è sortito - sempre citando l'ISTAT - che la superficie agricola utilizzata si è ridotta di oltre il 15 per cento e che la produzione agricola, valutata ai prezzi concatenati (ossia a prezzi più o meno costanti), si è ridotta del 4,5 per cento. Naturalmente, nulla vieta alla politica di fare le sue scelte in completa autonomia e assumendosi la responsabilità di quanto deliberato, ma la distanza tra quanto si investe per l'agricoltura e quanto l'agricoltura riesce a produrre, innovare, ricercare e sviluppare, si fa sempre più ampia.
In generale, c'è qualcosa che non funziona nella missione politica e nel modello organizzativo della res agraria, nonostante i continui percorsi di aggiornamento e la radicale riforma del 2003. Considerato che nessuno dei due obiettivi principali (disponibilità di derrate e condizioni di vita più eque) pare essere stato raggiunto, Confcommercio non può che sostenere l'esigenza di un'approfondita verifica dell'attuale sistema, diretta verso un'agricoltura sostenibile ed orientata al mercato.
Parlare di filiera lunga, corta - passo ai farmer's market - cortissima o di «filiera a chilometri zero» è assolutamente ininfluente, perché i prezzi sono lievitati in tutte le fasi della filiera e con ogni tipologia organizzativa.
La marcata riduzione delle imprese all'ingrosso e degli intermediari commerciali, negli ultimi vent'anni, non ha prodotto alcun beneficio. Tra il 2002 e il 2008, le imprese grossiste di frutta e ortaggi sono passate da 14.800 circa a poco più di 13.000, con una riduzione del 9 per cento. Nello stesso periodo, le imprese grossiste di prodotti lattiero-caseari ed altro, sono passate da 4.000 a circa 3.700, con una riduzione inferiore al 6,6 per cento.
È di tutta evidenza, quindi, che il problema non è di etichetta, bensì di concrete funzioni, assolte per il buon funzionamento del mercato.
Le fasi di commercializzazione vengono svolte anche dai produttori agricoli, industriali, artigianali, che incidono sui passaggi da valle a monte, così come il lavoro degli imballatori, la logistica, i trasporti e la fiscalità di prodotto.
È auspicabile che il comparto agricolo, i suoi imprenditori e le associazioni che li rappresentano, sviluppino maggiormente la propria capacità di confrontarsi con gli altri attori della filiera che, essendo più vicini alle esigenze e alle aspettative dei consumatori, hanno tutto l'interesse a valorizzare il prodotto agricolo nazionale, con un elevato servizio di trasformazione e distribuzione commerciale.
Appare sempre più necessario superare l'autoreferenzialità che, spesso, contraddistingue il mondo agricolo, abbandonare la via dell'assistenzialismo e promuovere rapporti di tipo privatistico tra i vari soggetti della filiera. In tal senso, occorre una rivisitazione dei recenti esempi legislativi, che hanno prodotto effetti particolarmente distorsivi sulla concorrenza.
Il nostro riferimento, come già richiamato in una precedente audizione, riguarda nello specifico: l'introduzione nel codice civile, con il decreto legislativo n. 228 del 2001, del concetto di «prevalenza» tra i prodotti ottenuti direttamente dal campo e quelli che possono essere acquistati e rivenduti nell'ambito della nuova definizione di imprenditore agricolo; l'insuccesso concettuale ed operativo del decreto legislativo n. 102 del 2005 sulla regolazione dei mercati (interprofessione); il recente decreto sui farmer's market.
Il primo punto, in particolare, produce effetti deleteri: si tratta della classificazione giuridica delle vendite dirette di prodotti di terzi, effettuata dagli agricoltori,


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pur entro i limiti della «non prevalenza», ma del tutto sottratta alle regole generali del commercio.
Tutti questi elementi si riflettono negativamente sui rapporti di filiera e, in ultima analisi, sul livello dei prezzi al consumo, perché il modello di pluralismo distributivo italiano agisce efficacemente ai fini del rafforzamento della concorrenza.
In questo contesto essenziale si è assicurata una sostanziale parità di regole e di condizioni operative fra tutti coloro che, in definitiva, agiscono sul mercato; al contrario, l'istituzionalizzazione di regimi speciali e derogatori altera le regole di una corretta concorrenza e crea effetti distorsivi, tanto più rilevanti quando essi si incrociano, poi, con le generose condizioni fiscali, contributive, tariffarie e di incentivazione, riconosciute al mondo dell'agricoltura.
Non avendo alcuna preclusione nei confronti di nuove proposte di offerta alle famiglie, come i farmer's market, va ribadito che queste iniziative non devono essere una mera operazione di marketing e che la loro attività di vendita deve essere effettuata nel pieno rispetto delle normative sulla distribuzione commerciale, sotto il profilo amministrativo, igienico-sanitario e fiscale.
Signor presidente, onorevoli deputati, la novità di questi anni è che competitività e qualità non riguardano più solo le imprese entro i loro confini strutturali. Serve qualcosa in più: una qualità di filiera, per garantire sicurezza, rintracciabilità, igiene e qualità dei prodotti, innovazione lungo la catena del valore, un servizio di trasformazione industriale e artigianale e un servizio commerciale.
Purtroppo, la logica sinergica che, a nostro avviso, si dovrebbe promuovere è tra le meno diffuse e praticate nel nostro Paese. Spetta quindi anche alla politica individuare - e alla pubblica amministrazione realizzare - le condizioni perché tutte le imprese possano esprimere al massimo le proprie potenzialità, in condizioni di pari dignità, equità e stabilità.
La nostra confederazione si dichiara disponibile a un confronto costruttivo con gli altri attori della filiera al fine di verificare la possibilità di raggiungere non un patto sui prezzi, di nessun interesse per i consumatori, bensì un patto per la produttività che, al contrario, ben attiene al tema generale del rilancio dell'economia del nostro Paese. Grazie.

GAETANO PERGAMO, Direttore della Federazione italiana esercenti specialisti dell'alimentazione (FIESA)-Confesercenti. Faremo pervenire alla Commissione un documento scritto nel quale, ovviamente, riassumeremo le cose che mi appresto a portare a conoscenza della Commissione, non prima, però, di aver ringraziato la Commissione stessa per l'opportunità che ci offre oggi di essere qui e di esporre il nostro punto di vista.
È evidente che questa audizione si pone nell'ottica di affrontare l'allarme crescente dell'opinione pubblica circa la dinamica inflattiva e l'andamento dei prezzi. Su questo aspetto teniamo a ribadire che, per quanto riguarda il nostro Paese, a noi sembra che l'andamento dei prezzi sia assolutamente in linea con ciò che succede negli altri Paesi europei, con particolare riguardo al settore alimentare, dove registriamo addirittura una performance positiva rispetto a quanto succede negli altri Paesi, come vedremo nel dettaglio.
Confesercenti e FIESA sono interessate a collaborare con questa Commissione e a ribadire il punto di vista importante che veniva poc'anzi citato, riguardante la conformazione della filiera nel nostro Paese.
Tale filiera non può essere ridotta ai tre passaggi della produzione, dell'ingrosso e della distribuzione o, nel caso dei prodotti agro-alimentari, della produzione/industria, del commercio e della distribuzione. È del tutto evidente che intervengono una serie di altri passaggi molto importanti e molto incisivi, che vanno dalla gestione della logistica ai trasporti, al confezionamento, al conferimento del prodotto.
Con grande disagio nostro e dei nostri associati, noi segnaliamo le crescenti e


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continue polemiche nei confronti del mondo della distribuzione, alimentati da taluni soggetti della filiera, laddove si denunciano aumenti fantasiosi sui singoli prodotti, magari prendendo l'animale vivo in stalla e, nel caso del maiale, paragonandone il prezzo al prezzo finale del prosciutto San Daniele o del prosciutto di Parma.
È evidente che si tratta di cose che non stanno in piedi, che non fanno bene al mondo della produzione agroalimentare, né al commercio, né all'economia, perché generano discredito all'interno della filiera e disorientano il consumatore.
È stata richiamata prima la serie infinita di aiuti di cui gode il mondo agricolo, a fronte dei quali c'è da rimarcare l'assoluta assenza di interventi in favore delle piccole e medie imprese della distribuzione commerciale e, nel caso specifico, delle imprese alimentari.
Con spirito costruttivo, noi vorremmo richiamare l'attenzione del dibattito pubblico nei confronti del mondo agricolo sull'esigenza di compiere quell'ammodernamento che, nel campo della distribuzione commerciale, è stato fatto con la crescita dei centri commerciali, della grande distribuzione organizzata ed indipendente nel nostro Paese e con la garanzia di grande pluralità che è tuttora garantita dalle circa 100 mila imprese del mondo della distribuzione specializzata dell'alimentazione.
A fronte di ciò, il nostro mondo agricolo è ancora basato su una piccola e frammentata azienda, che fatica a mettersi al passo con i tempi e che - anziché dotarsi di infrastrutture moderne e quindi di implementare il proprio valore - si attarda in polemiche nei confronti della distribuzione, addirittura credendo di poterne svolgere il ruolo.
Come ogni impresa, anche la distribuzione richiede tempo, impegno di capitali umani ed economici, competenze e professionalità: è evidente che le piccole aziende non possono garantire questi passaggi. Riteniamo, quindi, che un impegno maggiore sul proprio business farebbe probabilmente molto bene alla filiera nel suo complesso.
Richiamiamo l'attenzione del legislatore sul fatto che, anziché intervenire, per esempio, per favorire l'innovazione tecnologica e la crescita della logistica con il rafforzamento dei mercati agroalimentari (ossia di tutto quello che è alla base della movimentazione delle merci), si interviene per favorire il fiorire di mercati promossi dagli agricoltori - che, per altro, esistono già all'interno dei mercati all'ingrosso e anche dei mercati al dettaglio nelle città - quindi con una dispersione notevole di forze e di investimenti.
Ciò detto, tornando alle dinamiche che presiedono alla spinta registrata nei rincari dei prezzi agroalimentari, ci piace ricordare la vostra audizione al Garante dei prezzi, che ha confinato le motivazioni di questi rincari sostanzialmente al livello internazionale: ai fattori, strutturali e congiunturali, che hanno operato sia dal lato dell'offerta, sia dal lato della domanda.
Tra i fattori strutturali, hanno inciso la crescita della domanda di alimenti da parte di grandi Paesi come Cina e India; l'aumento di domanda dei cereali per l'alimentazione animale; e la crescita della domanda di biocarburante.
Per quanto riguarda i fattori congiunturali, hanno certamente inciso gli andamenti climatici sfavorevoli; la crescita del prezzo del petrolio e dei prodotti energetici; la svalutazione del dollaro; e anche, ovviamente, l'attuale crisi economica e finanziaria, che grava sul potere di acquisto delle famiglie e ne condiziona grandemente l'orientamento al consumo.
Confesercenti ha partecipato, in questi mesi, a tutte le iniziative svoltesi per contenere la dinamica dei prezzi: lo ha fatto con le istituzioni che si sono attivate in questo senso, prime fra tutte il Ministero dello sviluppo economico e il Garante dei prezzi, con cui ha collaborato per il contenimento dei prezzi di pane, pasta, burro e carni.
Raffrontando la situazione italiana con il panorama europeo, credo che di poter dire che abbiamo conseguito dei risultati,


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sebbene non andando incontro appieno alle aspettative dei consumatori. Tutte le aziende hanno ovviamente i loro condizionamenti e le loro logiche di gestione e, quindi, ci sono cose insopprimibili, che vengono affrontate in una logica di mercato.
Oltre a questo, segnaliamo le innumerevoli iniziative territoriali, promosse dagli enti locali, dalle province, dai comuni e i vari panieri a cui partecipiamo.
Non da ultimo, segnaliamo un accordo con la Confederazione italiana agricoltori, per cercare di intervenire su questa benedetta filiera, ossia per individuare quei meccanismi che ci consentano di accorciarla, mettendo in collegamento diretto gli agricoltori con le nostre piccole aziende sul territorio.
È un protocollo che sta andando avanti in diverse regioni e che stiamo sperimentando, ritengo, con soddisfazione da entrambe le parti. Ho citato alcuni settori, come quello del pane e dei cereali, dove ci sono stati aumenti consistenti.
I prezzi sono aumentati ancora dello 0,6 per cento rispetto a luglio e del 12,2 per cento rispetto al 2007; quello della pasta è cresciuto ancora dell'1,1 per cento rispetto al mese precedente e del 25 per cento rispetto al 2007.
Anche a questo riguardo, ci piace ricordare un comunicato del Garante dei prezzi, che richiamava l'industria molitoria a riversare ai panificatori il pur contenuto rientro della dinamica rialzista del prezzo delle farine perché, ad oggi, dalle fatture dei nostri panificatori, emerge che i prezzi non sono ancora rientrati.
Gli aumenti a due cifre rilevati al dettaglio nell'ultimo anno, per alcuni importanti prodotti alimentari - come ricordavo prima: pane, pasta, latte ed altri - riguardano prodotti che, complessivamente, pesano per circa il 4 per cento sulla spesa per consumi della famiglie italiane, quindi si spiegano con i considerevoli incrementi che i prezzi di questi prodotti hanno avuto alla produzione.
Si pensi che soltanto i prezzi dei cereali, nel periodo compreso tra il giugno 2008 e il giugno 2007, hanno segnato un aumento del 49 per cento; semi e sementi un aumento del 23 per cento; la frutta del 24,5 per cento; gli ortaggi del 12,1 per cento; il latte e i suoi derivati, infine, del 10 per cento. Ho citato dati ISMEA e non dati elaborati da Confesercenti, che potrebbero essere considerati ad uso e consumo delle ragioni dei commercianti.
Il tutto, ovviamente, è avvenuto in una situazione di grande turbolenza internazionale, tanto che una delle motivazioni addotte per spiegare uno degli interventi operati all'epoca dall'allora Ministro De Castro, quando si cominciò a delineare il boom del prezzo del grano, fu che bisognava intervenire a livello europeo, destinando più ettari alla coltivazione del grano per fini alimentari, per avere più materiale per produrre pane e pasta.
In tutto questo, segnaliamo la grande difficoltà delle piccole aziende della distribuzione, che continuano a perdere fatturato. Nel periodo compreso tra gennaio e maggio del 2008, rispetto allo stesso periodo del 2007, il fatturato delle piccole e medie aziende della distribuzione alimentare ha segnato una diminuzione dello 0,9 per cento, mentre la grande distribuzione è cresciuta, ma grazie all'espansione della propria rete di vendita. Segnaliamo, quindi, questa ulteriore area di sofferenza delle piccole aziende del commercio alimentare.
Tornando al dato che riferivo in apertura, segnalo che, nel periodo compreso tra il giugno 2007 e il giugno 2008, l'indice generale dei prezzi in Italia - pari al 4 per cento - è esattamente appaiato a quello dell'area dell'euro. Nell'ambito della distribuzione alimentare, invece, nello stesso periodo, tale indice è pari al 6,1 per cento in Italia e al 6,4 per cento nell'area euro, dove alcuni Paesi hanno segnato addirittura incrementi ancora più significativi.
È del tutto evidente - e concludo - che questo risultato si è avuto grazie all'operazione di razionalizzazione della rete distributiva italiana, che è stata avviata con grande sacrificio dal mondo del commercio. Oggi il settore della distribuzione è sicuramente tra i più liberalizzati del nostro Paese; la stessa panificazione, ad


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esempio, non è più soggetta al numero chiuso e alla licenza delle camere di commercio, ma alle sole autorizzazioni sanitarie e amministrative di rito, che non rispondono però a rigidi criteri di programmazione.
Evidentemente, questo significa che laddove ci sono spazi aperti di mercato e imprenditoriali, le nuove imprese possono andare a occuparli; ma significa anche che la distribuzione ha raggiunto importanti livelli di efficienza e di capacità nell'andare incontro alle esigenze del consumatore, sebbene ci sia ancora tanto lavoro da fare.
Noi riteniamo che occorra anzitutto razionalizzare la filiera agroalimentare, che prevede ancora troppi passaggi, soprattutto in alcune fasi e in alcuni segmenti, che necessitano di essere razionalizzati, ammodernati e resi più efficienti. Credo che in questo abbia un grande spazio, ad esempio, il mondo agricolo, che può sicuramente contribuire in maniera determinante all'ammodernamento della filiera.
L'ultimo dato, con cui chiudo, è quello relativo al pane. Tra il giugno 2007 e il giugno 2008 abbiamo riscontrato, per esempio, un aumento del prezzo del frumento duro pari all'89,8 per cento. Ricordo il dato relativo al pane che ho fornito prima, che si aggira intorno al 13 per cento e che sta ora rientrando lentamente. Lo stesso dicasi per il frumento tenero, che ha registrato aumenti del 32 per cento.
Credo che il dibattito debba prevedere una maggiore integrazione di filiera, che veda la distribuzione come parte integrante - e non come controparte - del mondo agricolo, quindi come una parte strumentale, capace di interagire e di integrare l'offerta proveniente dal mondo agricolo stesso.
La piccola distribuzione è una risorsa importante per tutto il mondo della produzione primaria. Ricordiamo, tra l'altro, che la piccola dimensione agricola ovviamente non consente un'interlocuzione commerciale con le grandi catene, per volumi, per qualità e per costanza nei rifornimenti.
Bisogna ripartire da questo, quindi, e non dalle polemiche, che fanno male agli operatori, i quali - ricordiamolo - stanno soffrendo in questa fase. Le piccole imprese della distribuzione alimentare stanno continuando a chiudere e si continuano ad incontrare difficoltà nel trovare praticanti fornai e giovani apprendisti che vogliano fare questo lavoro, che evidentemente è molto faticoso, perché bisogna lavorare di notte. La stessa cosa vale anche per altri settori: penso all'ortofrutta, dove ci si alza la mattina, si va al mercato, si sceglie il prodotto e lo si porta al proprio negozio o al proprio banco al mercato.
Occorre, quindi, collaborazione e non contrapposizione. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

SANDRO BRANDOLINI. Noi ringraziamo Confcommercio e Confesercenti, anche se debbo dire che, obiettivamente, ho apprezzato di più l'approccio di Confesercenti rispetto a quello di Confcommercio, che mi è sembrato un po' più teso, diciamo così, a scaricare le responsabilità - la mia è però solo un'impressione - mentre c'è un problema reale da affrontare.
Voglio tra l'altro premettere - così da non lasciare dubbi - che secondo me il doppio prezzo è una stupidaggine, che anzi produrrà un calo dei consumi.
Si può, certo, pensare alla vendita diretta, anche se personalmente ritengo che la vera vendita diretta sia quella fatta in azienda, dove addirittura il consumatore può andare a raccogliere personalmente il prodotto. Il resto rischia di diventare solo un'attività commerciale e, in ogni caso, può riguardare tra l'1 e il 3 per cento; quindi, siccome io devo considerare il 100 per cento, rappresenta solo una nicchia, laddove io mi preoccupo del restante 96, 97 o 98 per cento, dipende dalle situazioni.


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Premesso questo, ho sentito che si è fatto molto riferimento allo studio del garante Catricalà: ne è stata citata anche quella parte che io non condivido, nel senso che sono convinto che i sostegni alle aziende agricole siano essenziali, ma non come elemento per calmierare il prezzo finale, bensì per il valore che, complessivamente, l'agricoltura ha nel contesto economico e sociale e anche di salvaguardia e tutela del territorio, che richiede un sostegno importante.
Vengo ora alla domanda che vorrei porre. Io sono convinto che - sono contento che adesso lo dica anche Mister prezzi - bisogna fare un'analisi seria dei prezzi e dei costi.
Io vengo da Cesena, dove si producono le pesche; è banale dire che se il produttore vende le pesche a 50 centesimi, che vengono poi rivendute a 3 euro sul mercato, il loro prezzo si è moltiplicato per sei; se però il produttore le vende ad un euro, sul mercato queste non costeranno 6 euro, perché i costi della trasformazione e della lavorazione del prodotto sono fissi, a prescindere dal fatto che il produttore prenda un euro, 50 centesimi o 2 euro; è poi evidente che i margini cambiano in rapporto al numero dei passaggi.
Detto questo, mi pare che ci sia sicuramente bisogno - come diceva il dottor Pergamo, se non sbaglio - di affrontare tutti insieme (oserei dire dal produttore al distributore, fino al consumatore) un problema reale, senza voler ricercare responsabilità e colpe, ma operando miglioramenti in termini di efficienza, di qualità e, quindi, anche di contenimento dei costi, che possono ottenersi lungo tutto il percorso.
Voglio ora arrivare alla domanda che mi interessa porre direttamente: nell'indagine svolta dall'autorità garante, essa ha preso in esame i tre settori distributivi ed ha sostanzialmente detto che quello da voi rappresentato è da chiudere, per dirla brutalmente come ha fatto l'authority.
Io non sono del tutto convinto di questo, però è evidente che il settore del commercio in cui l'aumento dei prezzi è stato minore e, quindi, dove i prezzi al consumatore sono i migliori, è l'ambulantato, che tra l'altro voi rappresentate, essendo una parte del vostro mondo.
Poco al di sopra c'è la grande distribuzione, con un costo superiore, e infine c'è la cosiddetta «distribuzione di vicinato», con dei costi molto superiori, che spesso, obiettivamente, non corrispondono ad una qualità superiore.
Probabilmente sono le masse critiche a fare la differenza, perché se un soggetto acquista un quintale di pesche e ne vende novanta chili, è un conto, se ne vende cinquanta e il giorno successivo deve gettare via le restanti, è un'altro conto. È evidente che chi deve fare il prezzo finale tiene conto anche di questi aspetti.
Ritengo comunque che una ristrutturazione ed una riqualificazione ci debbano essere, con un contributo fondamentale anche del vostro settore. Mi interessa capire proprio questo, cioè come intendete agire di fronte a questo problema reale.
Io ho parlato del prodotto fresco, quindi del deperibile. Se invece parliamo del prodotto agroalimentare conservato, i problemi sono di natura diversa e quanto avete detto prima ha piena validità, compreso il fatto che, alla fine, tali sbalzi non portano mai a risultati durevoli per i produttori. Quelle che vengono comunemente definite commodity, inoltre, hanno dei margini ristretti e, nel momento in cui ce n'è l'occasione, i prezzi salgono e non ridiscendono più, nemmeno quando le materie prime tornano magari addirittura ad essere vendute un prezzo inferiore. Questo è un altro dei problemi che indubbiamente bisogna affrontare.
Io ritengo che ci sia da lavorare e che dobbiamo occuparci dell'analisi dei costi. Se lo facciamo fino in fondo - penso che anche Mister prezzi abbia capito che è necessario - riusciremo anche a capire dove e come intervenire, come migliorare e contenere. Se invece non lo facciamo, penso che potremo mettere in campo solo espedienti che non risolveranno il problema, anzi i consumi della frutta e della verdura diminuiranno e, tra l'altro, questo sarà un male anche per l'economia in generale, perché sappiamo che tali prodotti


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garantiscono maggiore salute e creano una ricchezza, perché non bruciano risorse per la sanità e quant'altro.

MARIANO BELLA, Responsabile dell'ufficio studi della Confcommercio. Intervengo veramente solo con una battuta, per dire che spero di non aver trasmesso o generato tensioni.
Anche noi siamo d'accordo sul fatto che l'analisi dei costi vada fatta seriamente e in proposito vi lasciamo un breve documento che contiene dati leggermente diversi da quelli che si leggono in giro. Esso contiene anche una piccolissima nota metodologica e noi crediamo che i conti lì riportati siano fatti un po' più seriamente.
Sul tema dell'authority dirò solo una cosa: non credo che la sua relazione finale sia oggetto di questa discussione, ma le conclusioni a cui è giunta, nel complesso, non mi piacciono - anche se ne condivido alcuni aspetti - perché partono da un presupposto sul quale secondo me, prima o poi, bisognerà riflettere, ossia che l'Italia è esattamente uguale alla Spagna o alla Francia.
L'authority considera i punti di vendita in relazione al numero di abitanti, il fatturato e, poi, a cascata, le economia di scala dovute all'ampiezza della produzione. Nessuno, però, si pone il problema di capire quanto la conformazione orografica e la distribuzione della popolazione, per classi di comune, incida su quella che noi chiamiamo produttività. Non si può fare il confronto tra Italia e Francia, se non tenendo conto di queste differenze.
Se teniamo conto di queste differenze e guardiamo a quello che ci dice l'ISTAT, secondo le cui ultime indagini sulle condizioni di vita degli italiani, ancora in 35 casi su 100 essi hanno difficoltà a raggiungere un negozio o un supermercato, mettendo a sistema questi due dati, ci rendiamo conto che forse, all'interno di un sistema multicanale caratterizzato da pluralismo distributivo, la vendita al dettaglio ha un suo ruolo. Anziché essere correttamente valorizzato, però, il dettaglio viene stranamente demonizzato in nome di economie di scala e di efficienza che non tengono conto dei fattori di contesto oggettivi.

GAETANO PERGAMO, Direttore della Federazione italiana esercenti specialisti dell'alimentazione (FIESA)-Confesercenti. Vorrei semplicemente ribadire che il modello italiano ha grandi peculiarità, ma non è un modello inventato. Io credo che esso sia la risposta che il sistema delle imprese ha dato alla domanda reale del Paese, che è una domanda distribuita sul territorio. Il nostro territorio è molto collinare, è fatto di 8 mila comuni e di molti piccoli centri che hanno bisogno di servizi. Vi segnalo che crescono le aree che, viceversa, rimangono senza servizi commerciali primari.
Ai diversi tavoli istituzionali, come Confesercenti noi stiamo sottolineando questi aspetti da diverso tempo e ci piacerebbe che questa riflessione venisse portata al tavolo agroalimentare che si riunisce a Palazzo Chigi (il famoso tavolo verde), dove di filiera si parla solo fino a un certo punto, perché la riflessione s'interrompe proprio quando si arriva al tema della distribuzione.
Il nostro sistema, composto com'è da piccole e medie imprese, è la fotografia esatta del nostro Paese. Ciò vale tanto per il mondo della distribuzione, quanto per il credito, per l'industria, per l'artigianato e per tutte le manifestazioni economiche e imprenditoriali italiane.
Cito un solo esempio, per concludere. Abbiamo per anni condotto una battaglia molto importante con il Ministero della salute sui macelli a ridotta capacità, che servivano alle piccole macellerie dei piccoli centri, alla piccola zootecnia e ai piccoli allevamenti. L'alternativa ad essi è, ovviamente, quella di spalancare le porte alle produzioni di carni francesi, tedesche e inglesi, il che significherebbe distruggere i piccoli allevamenti che, a quel punto, non saprebbero dove macellare gli animali. Questo distruggerebbe, inoltre, le piccole macellerie, che finirebbero per vendere la stessa carne venduta da Auchan o da Carrefour.


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Io credo che l'Italia debba avere l'orgoglio del suo modello, che fino ad oggi ha garantito quella pluralità di cui il mercato ha bisogno.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti della Confcommercio e della Confesercenti per la partecipazione, ma anche per le utili sollecitazioni che ci hanno fornito, comprese quelle in forma scritta che saranno trasmesse successivamente.
Dichiaro conclusa l'audizione e sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 14,30, è ripresa alle 14,35.

Audizione dei rappresentanti della Federdistribuzione, dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop) e dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'andamento dei prezzi nel settore agroalimentare, l'audizione dei rappresentanti della Federdistribuzione, dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop) e dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad).
Sono presenti, per la Federdistribuzione, il dottor Stefano Crippa, direttore dell'area relazioni esterne e ricerche economiche e il dottor Marco Pagani, direttore dell'area legislazione e studi; per l'ANCC-Coop, il dottor Albino Russo, responsabile del settore economico; per l'ANCD-Conad, il dottor Piero Cardile, responsabile del settore legislativo.
Darei subito la parola agli auditi, riservando eventuali domande dei colleghi in esito alle relazioni svolte.

MARCO PAGANI, Direttore dell'area legislazione e studi della Federdistribuzione. Illustri onorevoli e illustre presidente, vi ringraziamo innanzitutto per l'audizione odierna, sperando di poter dare un contributo alla vostra indagine conoscitiva.

PRESIDENTE. Temo che lo darete!

MARCO PAGANI, Direttore dell'area legislazione e studi della Federdistribuzione. Infatti, speriamo di dare un contributo utile per la vostra indagine conoscitiva e di potervi fornire una serie di elementi della riflessione che abbiamo svolto all'interno delle nostre organizzazioni, anche sulle recenti vicende collegate all'aumento dei prezzi.
Tale aumento, assai di frequente, è diventato un argomento giornalistico, dietro al quale c'è però, effettivamente, una situazione particolarmente delicata.
È sicuramente aumentata la sensibilità dei cittadini verso questo problema reale, che diviene drammatico quando coincide con una congiuntura economica e sociale come quella attuale, nella quale si vanno a inserire anche i problemi occupazionali, salariali e di stagnazione dei consumi che, alla fine, costituiscono la causa principale della perdita di potere d'acquisto dei consumatori.
In queste situazioni e in questi frangenti si va sempre alla ricerca delle responsabilità e, molto spesso, la soluzione più facile consiste nello scaricare a valle un po' tutte le criticità del sistema o della filiera. Noi ci troviamo quindi spesso - come distribuzione commerciale e, più nello specifico, come distribuzione moderna - a dover cercare di spiegare una serie di ragioni che molte volte, pur non coinvolgendo tanto il nostro settore, si riflettono su tutta la filiera e vanno poi a creare a valle una situazione di particolare criticità per i consumatori finali.
Innanzitutto, partendo dalle leggi economiche di base che definiscono le modalità con cui si arriva alla formazione del prezzo finale del prodotto e quali sono gli elementi che vi concorrono, bisogna partire dai costi delle materie prime, della manodopera e dei servizi necessari alla produzione.
Da questo punto di vista, dobbiamo constatare che siamo di fronte, da un lato,


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a un aumento costante del costo del lavoro, che non è costituito soltanto dai salari, ma anche da tutti quegli oneri sociali e fiscali abbinati (che in Italia, per altro, sono i più cari e i più alti d'Europa); e, dall'altro, a una spinta speculativa su alcune materie prime di base (petrolio e cereali, per intenderci).
Se analizziamo le cause di molti di questi aumenti, rileviamo che - come abbiamo fatto anche ad altri tavoli istituzionali - queste situazioni di particolare gravità a livello internazionale nascono da speculazioni fatte su scala planetaria, che sono mascherate con giustificazioni legate alla carenza di materie prime o all'aumento del loro consumo da parte di nuovi consumatori o ad altri fattori ancora.
Tutto ciò, se non falso, è sicuramente solo parzialmente vero, perché gli aumenti sembrano molto spesso pilotati in modo razionale e scientifico, come abbiamo visto anche con il costo del petrolio. Le grandi speculazioni vanno sempre a toccare i prodotti di base e, quindi, in senso lato, l'energia e la base alimentare (cereali e altri prodotti di base, indispensabili e insostituibili). È chiaro che chi controlla questi driver, alla fine, ha in mano l'intero mercato del sistema di approvvigionamento mondiale. Ho detto questo solo per fare una premessa di scenario, di carattere generale.
Adesso entrerò maggiormente nello specifico di quel che ha fatto la grande distribuzione organizzata, analizzando il ruolo che il nostro settore ha esercitato e cerca di continuare a esercitare in questo contesto.
Sia in termini di contenimento dei prezzi, sia in un'ottica di implementazione di servizi e di informazione dei consumatori, abbiamo sempre cercato di essere sempre massimamente efficienti, minimizzando i costi.
Il comparto, in particolare - come risulta dai dati ISTAT - ha sicuramente calmierato il mercato e ha sempre avuto un andamento dei prezzi decisamente inferiore a quello generale rilevato dall'ISTAT.
C'è una forte dinamica concorrenziale al nostro interno. Il nostro è uno dei settori in assoluto più concorrenziali: sono ormai sotto gli occhi di tutti le massicce campagne promozionali che vengono fatte all'interno dei nostri punti-vendita e che, sicuramente, creano convenienze di acquisto notevoli per tutte le fasce di consumatori.
Chiaramente, in questa nostra attività, noi non siamo dei missionari, ma abbiamo la fortuna di veder coincidere, molte volte, i nostri interessi con quelli dei consumatori. Questa concorrenza forte, spinta, ha sicuramente portato un maggiore assortimento sul mercato, sia in termini di materie e prodotti, sia in termini di prezzi.
Ci troviamo, però, quotidianamente a lavorare in un contesto in cui vigono delle leggi di carattere amministrativo che, molto spesso, impediscono al nostro settore di massimizzare i vantaggi del consumatore finale, in termini di prezzi. Il nostro è sicuramente un settore ancora lontano dal raggiungere le dimensioni della GDO operante in Paesi come Francia, Germania, Spagna e Inghilterra, dove probabilmente si possono creare situazioni ancora più favorevoli per il consumatore finale.
Oggi la distribuzione moderna garantisce i prezzi medi più bassi del mercato, è efficiente e dà informazioni e sicurezza al consumatore sulla qualità dei prodotti; per le famiglie c'è una gamma estremamente ampia di prodotti da scegliere e, quindi, la più ampia libertà tra le diverse alternative; abbiamo messo in assortimento i «primi prezzi», i prodotti a marchio privato che hanno un ottimo rapporto qualità-prezzo.
Stiamo quindi cercando di andare incontro a quello che il consumatore ci chiede e di mettere sul campo un'offerta rispondente a tutte le tasche e a tutte le esigenze della clientela.
In questo panorama permangono comunque degli aspetti di notevole criticità, che ostacolano quella che potremmo definire la nostra azione di contenimento: la stagnazione dei consumi, con cui purtroppo ci troviamo ormai da tempo a dover fare i conti; un aumento dei listini


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industriali; un aumento del prezzo delle materie prime; un aumento dei costi di trasporto, anche alla luce degli ultimi provvedimenti che dovranno essere resi operativi sull'autotrasporto; l'aumento dei costi energetici e ambientali; l'aumento degli oneri generali come il costo del lavoro, dei servizi e delle utility, i costi bancari e assicurativi e tutta un'altra serie di costi che incidono sui bilanci aziendali; abbiamo poi, come dicevamo, delle normative che molto spesso ostacolano la competitività e la concorrenza tra le imprese.
Infine, prima di lasciare la parola ai colleghi, che forse vorranno intervenire su alcuni aspetti più specifici, vorrei fare alcune considerazioni sulla formazione del prezzo nel settore distributivo.
A concorrere alla formazione del prezzo c'è sempre un fattore immateriale che non è costituito dai costi di produzione, ma dalla domanda del mercato. Il valore del prodotto non è determinato solo dal pregio delle sue componenti, ma dalla sua utilità e dalla percezione di bisogno che ne ha il consumatore, determinate anche da quanti problemi il prodotto può risolvere a chi lo acquista e legate all'uso che di questo prodotto si fa.
Cito l'esempio dei prodotti ortofrutticoli della quarta gamma o delle quarte lavorazioni delle carni, che non aggiungono nulla di più alle caratteristiche del prodotto stesso e agli ingredienti che lo compongono, ma hanno la qualità di essere molto comodi per i consumatori, perché si preparano rapidamente. In una società che ha sempre meno tempo, questi fattori hanno un loro valore sul mercato. Tra l'altro, la domanda di questi prodotti va crescendo.
Il concetto di prodotto si arricchisce, quindi, di fatto, rispetto alla semplice somma degli ingredienti che lo costituiscono. L'offerta di una cassetta di frutta ai bordi della strada è una cosa, mentre una confezione di prodotto ortofrutticolo calibrata e selezionata sul banco del supermercato, con un assortimento ampio e profondo, è un'altra cosa.
Ci sono dei costi diversi, che ovviamente vanno a incidere sulla presentazione di questo prodotto sul banco del supermercato. Sono costi di logistica che il consumatore non percepisce.
Tra l'altro, l'Italia è un Paese in cui la logistica, purtroppo, è arretrata, in quanto il trasporto è ancora concentrato per l'86 per cento su gomma e ogni piccolo aumento del carburante porta a conseguenze rilevanti sui prezzi.
C'è poi l'inefficienza della filiera, che è la più complicata d'Europa e sopporta una somma di costi legati ai molti passaggi ai quali il prodotto è generalmente sottoposto. Proprio l'authority Antitrust e la Banca d'Italia sono intervenute diverse volte, anche ultimamente, per evidenziare come il sistema Italia potrebbe essere sicuramente più efficiente, alla luce di tutta una serie di fattori oggettivi oggi presenti nel mercato.
Ci sono poi gli aspetti fiscali, che colpiscono la filiera e, in particolare, il distributore. Solo per fare un esempio, cito l'IRAP, una tassa particolarmente pesante per aziende come le nostre.
Senza dimenticare, poi, gli aspetti di servizio: il prodotto arriva sul banco di vendita preparato, curato e selezionato, come dicevamo prima, quindi per poter dare al consumatore un prodotto che abbia determinate caratteristiche e che sia di interesse per i consumatori si rende necessaria tutta una serie di lavorazioni, che devono essere fatte all'interno del punto di vendita.
Entrando in un supermercato si possono però soddisfare più bisogni contemporaneamente, con un risparmio dei tempi e dei costi per il consumatore, che altrimenti dovrebbe andare a cercarsi tutti i singoli prodotti all'origine. Ciò vuol dire risparmiare, anche tanto, sia in termini di tempo, sia in termini di carburante.
Basti pensare a quello che è recentemente successo con i farmer's market, dove il consumatore va ad acquistare il prodotto «all'origine»: le aspettative coltivate su questi farmer's market non hanno dato la risposta attesa, in termini di prezzo. Il consumatore, infatti, si è accorto che questi


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prodotti non sono poi così convenienti. Sicuramente si tratta di prodotti di qualità, ma a livello di prezzo non hanno la convenienza che forse ci si immaginava.
Infine, è significativo rilevare quanto è accaduto a proposito dei farmaci e della benzina. Laddove questi prodotti hanno fatto ingresso nelle nostre strutture, si sono ridotti i loro prezzi e, in tal modo, abbiamo stimolato anche gli altri canali nei quali vengono distribuiti, per cercare di contenere il costo finale per il consumatore.
Oggi possiamo affermare che il nostro settore della grande distribuzione organizzata, costituendo l'anello finale della filiera, rischia di essere spesso sotto accusa, in quanto offre al consumatore finale un prodotto che risente di tutte le negatività e le inefficienze presenti all'interno della filiera stessa, che vanno ad assommarsi nel prezzo alla distribuzione.
Accanto alle materie prime e agli ingredienti, tuttavia, nei nostri punti di vendita c'è un'elevata componente di servizio che sicuramente non è presente negli altri step della filiera e tantomeno all'origine.
In pratica oggi accade che il settore finale - faccio riferimento alla distribuzione moderna organizzata, quindi alla GDO, come viene detta - è quello dove ci sono maggiore efficienza e maggiore concorrenzialità tra operatori; dove le promozioni sono costantemente in crescita; e dove c'è tutta una serie di fattori a vantaggio dei consumatori (assortimenti ampi e profondi e quant'altro); eppure essa rischia spesso di diventare il capro espiatorio di un sistema di filiera nazionale che sicuramente necessita di interventi strutturali e culturali in termini di riorganizzazione.
Questo, ripeto, non lo diciamo noi, ma è stato detto da organi istituzionali quali l'authority Antitrust e la Banca d'Italia. Lo abbiamo visto, in particolare, nella filiera ortofrutticola, che a livello nazionale assorbe più delle altre le negatività di un mercato che ha purtroppo bisogno di tante intermediazioni, prima di portare il prodotto sui banchi di vendita, dovendo passare attraverso un sistema logistico che risulta essere il più frammentato e il più costoso d'Europa.
Questo era solo per darvi un'indicazione generale sullo scenario entro cui ci muoviamo e su quali sono le nostre criticità operative quotidiane, perché molto spesso dobbiamo difenderci da attacchi che, a nostro avviso, dovrebbero essere formulati, più che altro, come richiami ad una sensibilizzazione di tutta la filiera sulla necessità di creare più efficienza e di riorganizzare e rivedere l'attuale struttura. Sicuramente la struttura esistente, al suo ultimo anello, non consente dei costi e dei prezzi sufficientemente convenienti per i consumatori, come invece avviene oggi in altri Paesi dove questo cammino è già stato intrapreso da tempo. Lascio adesso la parola ai colleghi.

PIERO CARDILE, Responsabile del settore legislativo dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad). Vorrei solo completare questo inquadramento della situazione richiamando gli impatti che tutto questo ha nella gestione di un'impresa della grande distribuzione. Vorrei riportarvi qualche numero in merito. Noi abbiamo fatto le analisi dei bilanci 2006 e 2007 delle nostre imprese e vorrei illustrarvele per cercare di chiarire in che scenario ci muoviamo, ossia quale impatto ha avuto quello che abbiamo visto fino a questo momento nei nostri conti economici.
Non intendo dire qui che noi ci stiamo rimettendo più degli altri, perché immagino che tutti vi facciano questo tipo di ragionamento e noi non vogliamo aggiungerci agli altri. Vorrei, però, far capire come sia effettivamente un elemento fondamentale la necessità di interventi nella filiera indirizzati a un recupero complessivo di efficienza del sistema.
La missione di un'azienda della grande distribuzione è naturalmente quella di cercare di tutelare gli interessi dei suoi clienti, proponendo convenienza: questo è un elemento proprio del DNA dell'azienda della grande distribuzione.


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Vorrei citare qualche numero, per descrivere cosa ha significato questo, anche dal punto di vista delle tasche dei nostri clienti. Sui prodotti di largo consumo confezionato (tutti quelli che ci vengono in mente come prodotti tradizionalmente venduti all'interno dei supermercati), negli anni 2004, 2005 e 2006, noi abbiamo registrato un'inflazione che si è attestata quasi intorno allo zero: in particolare, è stata pari al -0,1 per cento nel 2004, al -0,7 per cento nel 2005 e soltanto all'1,4 nel 2006.
A fronte degli aumenti da noi introdotti per i nostri clienti, a nostra volta abbiamo riscontrato aumenti di prezzo nei listini delle aziende di trasformazione e produzione, complessivamente pari a un valore annuo fra il 2 e il 3 per cento. Ciò significa che abbiamo cercato di porre un argine agli aumenti dei prezzi di listino introdotto dall'industria, per cercare di tutelare la capacità di spesa delle famiglie. Nell'arco di questi tre anni abbiamo poi cercato di assorbire tali due o tre punti percentuali di aumenti dei listini.
La cosa è andata avanti anche nel 2007, anno in cui c'è stata un'impennata, come sapete, della crescita del prezzo delle materie prime, che ha prodotto poi, a cascata, aumenti anche nei listini a noi proposti dall'industria.
Nel 2007 i listini hanno avuto mediamente un incremento di circa il 5 per cento, mentre noi abbiamo avuto un'inflazione di circa l'1,2 per cento. Anche in questo caso siamo quindi riusciti ad assorbire una parte significativa degli aumenti dei listini.
La stessa cosa si sta registrando nel 2008: noi abbiamo avuto aumenti superiori al 7 per cento nei listini e abbiamo l'inflazione a circa il 4,2 per cento. Abbiamo cercato di fare questo tipo di operazione, quindi, non per vincere qualche premio, naturalmente, ma perché abbiamo capito che se non fossimo andati incontro alle esigenze vere dei nostri clienti, questa famosa crisi dei consumi di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali sarebbe stata naturalmente destinata a peggiorare.
Queste non sono nostre rilevazioni interne: è un istituto esterno americano a rilevare queste inflazioni, misurate nei nostri punti-vendita.
Se consideriamo i dati dell'ISTAT, però, ritroviamo sostanzialmente gli stessi valori: citando i dati relativi al solo mese di agosto, i prezzi alla produzione dei prodotti alimentari sono cresciuti dell'8,1 per cento; i prezzi alla vendita, nel complesso dei negozi del mondo del commercio, secondo l'ISTAT sono cresciuti del 6,3 per cento; l'inflazione registrata nei negozi della grande distribuzione è del 5,1 per cento.
Da qualsiasi fonte si prendano le informazioni, quindi, questo ruolo virtuoso della grande distribuzione è abbastanza evidente.
Da un lato, quindi, noi stiamo cercando di tutelare il potere di acquisto dei consumatori, cercando di riportare un'inflazione più bassa rispetto a quella che registriamo nell'acquisto dei prodotti; d'altro lato, però, ci troviamo ad affrontare una serie di aumenti nelle voci che determinano i nostri costi, che sono molto più alti.
Analizzando i nostri bilanci, per esempio, notiamo che tutte le voci - dal costo del lavoro, al costo del trasporto, al costo dell'energia - che determinano il costo della gestione di impresa, aumentano ad una velocità circa doppia rispetto a quanto aumentano i nostri fatturati. Questo comprime necessariamente l'utile dell'azienda, infatti nel 2007 abbiamo registrato, rispetto al 2006, una pesante riduzione dell'utile finale dell'impresa della grande distribuzione.
Per dare un risultato complessivo sull'utile delle aziende, una volta pagate le tasse, se questo era del 2,2 per cento nel 2006, si è ridotto all'1,2 per cento nel 2007: parlo delle aziende associate a Federdistribuzione, quindi di tutte le aziende del mondo della grande distribuzione, a parte quelle associate alla ANCC e alla ANCD, rappresentate dai miei colleghi seduti qui accanto.
Questa situazione complessiva sta avendo ora un impatto estremamente significativo


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sulla gestione delle imprese. Teniamo presente che, se valutiamo un altro indicatore estremamente interessante, quello dell'incidenza del fisco - l'imposizione fiscale - sul reddito, il nostro settore, nel 2007, ha pagato il 53,5 per cento di tasse.
Per capire se questa è una situazione anomala oppure no, possiamo fare un confronto con ciò che accade negli altri Paesi europei dove esiste una grande distribuzione, e vedere in che modo lavora.
Ebbene, quel che noi abbiamo verificato è che queste grandi imprese internazionali, che lavorano in ambienti e scenari europei o addirittura mondiali, lavorano tutte con costi di gestione molto più bassi dei nostri, nell'ordine di un terzo rispetto a quelli che deve sopportare un'azienda della grande distribuzione che opera in Italia. Questo non è dovuto all'inefficienza dell'azienda italiana, bensì ad un sistema che genera inefficienza e che ha prodotto un aumento dei costi della benzina, dei trasporti e dell'energia più alto che in tutta Europa, come per altro si legge costantemente sui giornali.
Siamo quindi costretti a lavorare con costi operativi molto più alti rispetto ad altre aziende europee; produciamo un utile pari a meno della metà rispetto a quello delle altre aziende europee e abbiamo una tassazione quasi doppia alla loro: a fronte di quel 53,5 per cento che registriamo in Italia, in Europa ritroviamo un 28,6 per cento.
Quel che abbiamo voluto cercare di farvi capire è il contesto nel quale ci si sta muovendo e l'impatto che tale contesto ha sulla gestione dell'impresa della grande distribuzione.

ALBINO RUSSO, Responsabile del settore economico dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop). Naturalmente vi ringrazio per l'invito.
Vi ruberò solo cinque minuti per aggiungere qualche riflessione a quanto hanno detto i miei colleghi.
Vi vorrei portare il punto di vista del consumatore finale. Coop aggrega 130 cooperative di consumo che sono, appunto, di proprietà del consumatore finale, il quale, nell'ultimo anno, ha subito forti ripercussioni dall'incremento dei prezzi dei prodotti alimentari: questo è un dato di fatto, verificabile nella vita quotidiana.
Noi abbiamo stimato che il potere d'acquisto della famiglia media italiana ha subìto una diminuzione superiore ai 300 euro, con un impatto sul reddito disponibile pari a circa il 2 per cento, peraltro sui consumi primari, riguardanti tutte le famiglie, anche quelle più povere e numerose.
Diciamo che si avverte uno stato di disagio per l'incremento dei prezzi dei prodotti alimentari, che si è andato a sommare a quello, maggiore, relativo all'incremento dei prezzi dei prodotti petroliferi, generando difficoltà di una parte crescente delle famiglie italiane.
Per darvi un ordine di grandezza, il 18 per cento delle famiglie italiane dichiara di aver dovuto ridurre i propri consumi alimentari, mentre un anno prima tali famiglie erano la metà. La quasi totalità delle famiglie italiane ha invece cambiato modo di fare la spesa.
Ci siamo trovati davanti a una situazione di difficoltà, a un incremento dei prezzi che non si verificava in Italia da molti anni, con riferimento ai prodotti alimentari. In questo contesto, dunque, le nostre cooperative si sono interrogate su come potessero dare una mano ai nostri proprietari e ai nostri soci consumatori e se avessimo fatto abbastanza in quella direzione.
È evidente che questa difficoltà nasce da una perturbazione dei mercati delle materie prime. Alcuni prezzi sono cresciuti in maniera esponenziale, riversandosi prima o poi sul consumo.
Dobbiamo dire che, pur preoccupati dalla situazione dei nostri consumatori, abbiamo verificato che l'incremento dei prezzi alimentari in Italia è stato più basso di quello della media europea, con quasi un punto di inflazione alimentare in meno rispetto a quella dei grandi Paesi europei. Questo ci conforta sulle capacità di riuscire


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a limitare questi danni da parte del sistema e dell'azione delle imprese della distribuzione e di tutta la filiera.
Allo stesso modo, da alcuni anni, nel nostro rapporto titolato «Consumi e distribuzione» - di cui possiamo lasciarvi copia - tentiamo di monitorare i rapporti di filiera, per verificare se e come si possa offrire un servizio migliore al consumatore o se ne possa tutelare meglio il potere di acquisto.
In questo senso, abbiamo dimostrato, a partire dall'analisi dei dati di EUROSTAT - quindi di fonte pubblica - che il mercato della grande distribuzione italiana, pur avendo marginalità e valori di ricarico del tutto simili a quelli degli altri grandi Paesi europei, in fondo al bilancio ha utili netti significativamente ridotti, a causa delle dinamiche che precedentemente i miei colleghi hanno spiegato meglio di me.
In sostanza, il settore della grande distribuzione nel quale siamo impegnati è uno dei più competitivi in Europa, eppure ci sono marginalità e utili significativamente più bassi rispetto a quelli degli altri Paesi europei.
La stessa cosa non si verifica negli altri stadi della filiera. Noi abbiamo preso in considerazione il settore all'ingrosso dei prodotti finali e delle materie prime agricole e la vendita al dettaglio della restante parte del mercato. Dall'analisi condotta risulta chiaro che le marginalità delle imprese dell'ingrosso e, segnatamente, dell'ingrosso di materie prime alimentari, sono significativamente inferiori in Italia rispetto agli altri Paesi europei.
Da questo deduciamo che nella filiera alimentare italiana esistono ancora delle sacche di inefficienza o di eccesso di costi - come hanno spiegato prima di me i miei colleghi - che vanno cercate soprattutto nelle parti alte della filiera, ossia in quei lunghi passaggi, spesso poco trasparenti, che portano dall'estero o dalla produzione primaria italiana alla trasformazione industriale e, da questa, alla vendita al dettaglio.
Noi riteniamo che, per difendere meglio il potere d'acquisto dei consumatori italiani, ci sia necessità di un impegno complessivo in termini di efficienza, da parte della filiera, ma che nella sua parte a valle ci sia ancora molto da fare, sebbene molto sia già stato fatto e che, invece, il recupero di efficienza vada cercato negli stadi a monte, su cui peraltro si possono immaginare percorsi di aumento dell'efficienza che coinvolgano anche la distribuzione e che, appunto, potrebbero permettere di ridurre l'impatto finale sul consumatore. Mi fermo qui.

STEFANO CRIPPA, Direttore dell'area relazioni esterne e ricerche economiche della Federdistribuzione. Naturalmente anch'io ringrazio la Commissione.
Interverrò veramente solo per completare, con un brevissimo accenno, quanto detto dai colleghi, anche esprimendo degli auspici per ciò che riguarda l'attività del legislatore, che credo accomunino tutta la GDO. Come è stato detto dai miei colleghi - io faccio parte, tra l'altro, di una struttura che associa dei dettaglianti, cioè dei commercianti che hanno deciso di essere più efficienti mettendosi insieme, associandosi in cooperativa e cercando di ottenere quelle economie di scala che, sicuramente, da soli non sarebbero riusciti ad ottenere - e come diceva nell'ultimo intervento il collega Russo di Coop, noi probabilmente dovremmo procedere anche ricercando ulteriore efficienza lungo tutta la filiera, e comunque ci auguriamo che questo avvenga.
A questo proposito, auspichiamo anche che l'intervento del legislatore non tenda mai a restringere o irrigidire troppo i rapporti e le attività della distribuzione e di tutti i soggetti che fanno parte della filiera, ma anzi, eventualmente, a eliminare tutti quei vincoli e quegli ostacoli che in alcuni casi impediscono ancora, in alcune realtà e settori, di raggiungere risultati più performanti.
Per riprendere un po' il discorso dell'inefficienza della filiera, io ricorderei - e concludo così, anche per passare magari alle vostre domande e per poter eventualmente rispondere alle vostre osservazioni - l'indagine conoscitiva abbastanza recente, del 2007, che l' Antitrust ha svolto


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sul settore della filiera agroalimentare. Nel documento predisposto dall'Antitrust - cito testualmente - essa ha sostenuto che la produzione agricola italiana risulta estremamente frammentata, sia rispetto agli altri Paesi europei, sia rispetto alla struttura del sistema distributivo.
L'eccesso di frammentazione nella fase produttiva rende inadeguato il primo stadio della filiera rispetto alle esigenze espresse dagli operatori della distribuzione al dettaglio, con particolare riferimento alla distribuzione moderna.
Il nostro auspicio - si citavano prima i farmaci e i carburanti, ma parliamo anche della riforma del commercio del 1998 - è che il legislatore non intervenga per restringere gli spazi di concorrenza, ma anzi che possa eventualmente ampliarli, perché riteniamo che questo possa essere un vantaggio per i consumatori e, quindi, per l'efficienza del settore stesso.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

SANDRO BRANDOLINI. Intanto vi ringrazio.
Io sono molto perplesso su quanto è stato detto. Tra l'altro, io sono socio Coop, vengo dall'Emilia, conosco bene il settore della distribuzione e, mentre parlavate, facevo alcune riflessioni, al di là del fatto che l'Antitrust - ho letto anch'io quell'indagine - non salva neanche voi della grande distribuzione, perché dice che questo è forse l'unico settore in cui non siete i primi nei prezzi, perché gli ambulanti avrebbero dei prezzi inferiori ai vostri.
C'è un problema di filiera, in questo Paese, ma c'è anche un problema più complessivo, che bisogna affrontare, emerso sia dall'audizione precedente che da questa, così come da un'intervista al presidente di Confagricoltura, pubblicata da Agra Press nei giorni scorsi.
La mia impressione è che, nelle soluzioni che si cercano, si vada verso una liberalizzazione: uso questo termine che, di fatto, significa ridurre i costi attraverso una riduzione dei diritti.
Lo avete fatto anche voi, ma questa non è la soluzione. Io conosco alcune vostre realtà in cui avete esternalizzato, creando cooperative di extracomunitari che non hanno diritti. Alla fine, avete contenuto i costi scaricando i problemi sul lavoro. Nel dire questo richiamo una polemica emersa proprio in questi giorni nella mia regione e, mi pare, anche in Toscana.
Non cerchiamo scorciatoie, dunque, perché il problema non si risolve così; voglio, poi, fare anche una provocazione che mi riguarda. Penso che probabilmente il problema della grande distribuzione italiana sia opposto a quanto dite voi. Il problema non consiste, cioè, nel fatto che è troppo piccola, perché nonostante i margini italiani siano bassi, gli stranieri vengono in Italia a comprare la grande distribuzione, la stragrande maggioranza della quale non è in mano a soggetti italiani. Questi ultimi, tra l'altro, tolte la Coop e la Conad, sono dei «nani», perché qualcosa è cresciuto, ma in modo insufficiente.
Credo, quindi, che il problema consista anche nel fatto che la grande distribuzione non è sufficientemente grande, né sufficientemente internazionalizzata perché, come vediamo, i margini sono minimi.
Io ritengo che si debba e si possa intervenire in tutti i settori. Sono d'accordo sul fatto che bisogna intervenire a livello di filiera complessiva, dal produttore al consumatore, voi compresi.
Non mi convince neppure la filiera: io vengo da Cesena, dove c'è la più grande cooperativa ortofrutticola, leader europea nel tecnologico, prima in Italia e in Europa e, comunque, prima nel settore del fresco. A Cesena, però, la filiera non è corta, è cortissima, va cioè dal produttore al consumatore o, quantomeno, al distributore. Il produttore - a Cesena il 90 per cento delle aziende sono cooperative - porta la merce ad Apofruit, ma non solo: in generale, al distributore (si tratti di Coop, di Conad, di privati o di stranieri) e il risultato finale, per l'agricoltore, è magari di qualche centesimo in più, che non è certo risolutivo, rispetto ai problemi complessivi.


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D'altra parte, quando parlo con i miei amici, sia di Coop, sia di Conad, mi dicono che chiuderebbero il reparto ortofrutta, perché ci rimettono. Arrivano addirittura a dire che è un servizio offerto al consumatore, che lo vuole, ma che non permette alcun guadagno.
Vi rivolgo allora una provocazione, che pongo anche all'Apofruit: perché non accorciare del tutto la filiera, in questo caso, mettendo a disposizione dei produttori, attraverso la loro associazione, la vendita del prodotto finale nei supermercati, di fatto attraverso un franchising? Potrebbero fare loro stessi la vendita all'interno della grande distribuzione, la quale potrebbe mettere direttamente a disposizione dei produttori una parte dei suoi spazi - evidentemente avendo il ritorno necessario per i costi sostenuti - in modo che il prodotto finito non venga consegnato al distributore, ma arrivi direttamente in mano al consumatore.
Su un'altra questione gradirei una risposta. Ritengo che nella grande distribuzione - e penso agli italiani, in generale, perché se gli stranieri vogliono venire qui a portare i loro prodotti, lo capisco: alla fine, in quell'economia di scala hanno probabilmente interesse a portare la pesca o la pera da un altro Paese - l'altro elemento che, secondo me, alla fine, porta a un aumento dei costi è la mancanza di un rapporto stretto, organico e continuato fra le produzioni locali e di stagione, da un lato, e la vendita diretta, dall'altro. Questo è un altro elemento che, secondo me, aumenta i prezzi e non dà risultati produttivi al sistema-Paese complessivo.
Bisognerebbe promuovere maggiormente i prodotti di stagione e i prodotti locali, perché i costi dei trasporti sono indubbiamente alti, mentre nelle produzioni locali tali costi sono decisamente più bassi. Questo è l'altro nodo su cui mi aspetto una risposta, perché penso che anche il vostro ruolo sia decisivo.

ISIDORO GOTTARDO. Sono convinto che lo sforzo che state facendo, rivolto alla necessità di essere competitivi sul mercato e di andare incontro alle esigenze dei consumatori, sia massimo. Del resto, questo è uno dei requisiti di ogni operatore: se non lo fa, fallisce o si colloca fuori dal mercato. Ritengo inutile, quindi, dirvi «bravi» per quello che state facendo, perché ciò risponde esattamente alle dinamiche imprenditoriali.
Parto dalle conclusioni a cui arrivava il collega: io sono rimasto molto colpito dall'audizione delle organizzazioni cooperative nazionali, che ci spiegavano che cosa è necessario affinché le cooperative rimangano competitive. Ebbene, non le ho mai sentite una volta ricordare che la loro preoccupazione è quella di garantire il prezzo alle imprese produttrici. Insomma, ho la sensazione che sia venuta meno la filosofia generale da cui nasce la cooperazione e che quindi sia venuta meno la filosofia della filiera.
Sono convinto che le famiglie siano state indotte ad un aumento enorme dei costi per effetto di un modello di consumo. Si dice che la gente ha meno tempo ma, se andiamo a verificare, probabilmente questo è vero solo nei Paesi dove le donne lavorano per il 70 per cento. Se facciamo un riscontro con l'occupazione femminile in Italia, il dato non torna: il modello di consumo dei Paesi a forte occupazione femminile è lo stesso di quelli che, come il nostro, hanno un ridotto tasso di occupazione delle donne.
Sono i modelli di consumo che stanno determinando la domanda, non è la necessità a determinarla: cibi precotti, già preparati e pronti creano un aumento dei costi.
La questione è se la grande distribuzione in Italia voglia mantenere una sua peculiarità rispetto a chi viene da fuori. La vicenda è paragonabile a quella di Alitalia-Air France: dipende dai punti di vista, ma è chiaro che Air France produrrebbe un modello di riferimento dei consumi che non è lo stesso di Alitalia, perché sono in gioco interessi di tipo diverso.
Ciò che giustifica il fatto di avere una grande distribuzione italiana rispetto a una internazionale è che quella italiana è strettamente legata alla filiera. Mi spiego meglio: ho l'impressione che non ci sia un


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interesse a costruire una filiera forte e a mantenere il legame con essa. Ognuno viaggia ormai per settori: chi distribuisce ha come riferimento la domanda del mercato, che egli stesso contribuisce a generare, e preferisce rimanere competitivo entro i modelli già costituiti, piuttosto che costruirne di nuovi dal basso.
Il ragionamento sulla vendita del prodotto di stagione, ad esempio, o su come educare la famiglia a spendere meno, anche adottando diversi modelli di consumo, indubbiamente dovrebbe essere uno dei compiti di una distribuzione che ha come fine il profitto, cioè la redditività dell'impresa, che altrimenti non sta in piedi. Secondo me, l'impresa dovrebbe proporre anche un modello diverso, creando un'affiliazione e una fiducia nuove tra il consumatore e l'azienda.
Non basta dire nella pubblicità, per capirci, che «noi siamo voi» o «voi siete noi», perché il problema vero è che le aziende agricole sono in crisi perché non hanno redditività, e questo è un dato di fatto.
Le accuse secondo cui la colpa sarebbe della grande distribuzione, quindi, si scontrano con la verità che ci dicevate voi, parlando dell'energia, del sistema inefficiente, della distribuzione, del costo dell'apparato pubblico, della tassazione e via dicendo.
Io vengo da una regione come il Friuli-Venezia Giulia e sono seriamente preoccupato degli effetti che potrà avere, ad esempio, la vicinanza alla Slovenia, rispetto ai dati che fornite voi. Si tratta di un Paese che ha portato la tassazione fissa d'impresa al 25 per cento e che la abbasserà, in cinque anni, al 20 per cento.
Non so come la grande distribuzione possa fare concorrenza, a Trieste, alla grande distribuzione al di là del confine, che ha dei costi indubbiamente molto più bassi, a partire da quello fiscale.
Ci sono aree del Paese che hanno anche il problema dei consumatori che attraversano il confine - dato che non c'è più confine, per via del Trattato di Schengen - senza che nessuno chieda loro nulla: ci vanno con la borsa della spesa perché là i costi del sistema sono diversi.
A mio giudizio questo è giustissimo, ma credo che gli aspetti da considerare siano due.
Il primo riguarda il modello di sviluppo, che influisce sulla spesa della famiglia. Nessuno ha mai fatto dei calcoli in merito ma, nel raffronto tra come cucinava e come faceva la spesa mia madre e il modo in cui lo fa mia moglie emerge non solo un problema di lievitazione dei costi, ma anche un modello completamente cambiato, che ha stravolto l'economia della famiglia.
L'altra questione è il problema della filiera all'inverso, perché il soggetto che sta a monte non si preoccupa più di come alimentare la filiera, seppure il farlo lo aiuterebbe.

NICODEMO NAZZARENO OLIVERIO. Quando noi, come Commissione, abbiamo avviato questa indagine conoscitiva sull'andamento dei prezzi, siccome il potere d'acquisto delle famiglie, dei salari e delle pensioni era diminuito di molto, mentre la domanda si era ridotta - lei giustamente diceva del 18 per cento, mi sembra - volevamo capire come intervenire e dove trovare gli strumenti sia per tentare di favorire il potere d'acquisto, sia per fare aumentare la domanda, che è il dato essenziale perché anche la distribuzione possa andare avanti e tentare di trovare una soluzione.
Non vi nascondo che eravamo arrivati fino a un certo punto pensando che avremmo potuto trovare l'anello più forte - e quindi debole, per il nostro ragionamento - nella grande distribuzione.
Voi oggi ci fornite dei dati che probabilmente non aiutano a trovare l'elemento risolutivo, però nel vostro ragionamento c'è qualche problema. Lo dico in modo costruttivo, perché so che quando parliamo di grande distribuzione parliamo anche dei suoi tantissimi dipendenti, di tantissimi redditi e delle tantissime famiglie che ne traggono sostentamento, quindi comprendo bene la portata del problema.


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Quando, però, vediamo che la grande distribuzione si affida a sei centrali di acquisto in tutta Europa, che in Italia mantengono il 95 per cento del mercato - questi sono i dati forniti dal Garante Catricalà - ci dobbiamo porre qualche domanda.
Si tratta di un problema di concorrenza al vostro interno oppure il problema è che non riusciamo a far decollare anche altre grandi distribuzioni?
Un problema c'è sicuramente perché, se da una parte tanti vincoli amministrativi forse non favoriscono la creazione di altre grandi distribuzioni, d'altra parte, il fatto che tutto si concentri in pochissime aziende, in sei grandi centrali d'acquisto, che probabilmente non sono neanche italiane, ma straniere, ci impone la domanda se siamo veramente in presenza di un sistema di concorrenza oppure di monopolio.
Ovviamente le osservazioni dei colleghi Gottardo e Brandolini mi trovano consenziente, ma questa domanda dobbiamo porcela, perché c'è una differenza molto alta tra prezzo al consumo e prezzo all'origine. Sappiamo che dobbiamo intervenire sulla filiera e su tantissimi altri aspetti, ma voi dovete rispondere anche a questa domanda: il problema sta forse nella mancanza di concorrenza? Dobbiamo porci questa domanda e trovare una soluzione.

PRESIDENTE. Ho lasciato ai colleghi tutta la parte relativa alla valutazione politica. Devo però dire, a testimonianza di quanto questa Commissione lavori in modo de-ideologizzato, che condivido tutte le considerazioni che ho qui ascoltato.
Vorrei fare solo qualche annotazione, anche per misurare la vostra disponibilità su alcuni fronti. Per esempio, vorrei sapere qual è il vostro rapporto con i prodotti locali (questione che ha sollevato anche il collega Brandolini); qual è il vostro rapporto con i prodotti nazionali; qual è la vostra disponibilità ad ipotesi di corner affidati ai produttori (anche questa questione è stata proposta dal collega Brandolini); se vi risultano variazioni regionali dei prezzi, nell'ambito della vostra medesima distribuzione e, nel caso vi siano queste variazioni, da cosa derivino, dal vostro punto di vista e secondo le vostre considerazioni.

STEFANO CRIPPA, Direttore dell'area relazioni esterne e ricerche economiche della Federdistribuzione. Vorrei svolgere alcune valutazioni stimolate dalle vostre domande. L'onorevole Brandolini parlava sostanzialmente di una struttura della GDO italiana che, per certi versi, non è così grande, né così forte, quanto le strutture degli altri Paesi europei. Questo è assolutamente vero.
Voglio solo precisare che probabilmente questo è il frutto di una legislazione vincolistica - la legge n. 426 del 1971 - che, introducendo le varie tabelle merceologiche, non ha permesso, per svariati decenni, la crescita e lo sviluppo di una forte GDO italiana.
Dico questo riallacciandomi, naturalmente, alle considerazioni che facevo in premessa, quando richiamavo la vostra attenzione a non legiferare in modo tale che possa ulteriormente impedire la promozione della concorrenza. Vengo così alle osservazioni dell'onorevole.
Si è parlato di sei gruppi che in Italia probabilmente detengono il 90 per cento del mercato. Per rispondere a questo, partirei da un'altra considerazione di carattere generale: nel nostro Paese, a nostro avviso, c'è una cultura della concorrenza poco sviluppata, per cui fondamentalmente c'è questa idea del «piccolo è bello», mi pare, nel senso che lo sviluppo di grandi aziende viene sempre visto come qualcosa che può penalizzare altri soggetti.
Noi riteniamo che si nasce piccoli, ma che si debba puntare a crescere: questo vale per la produzione, ma anche per i vari anelli della filiera.
Noi auspichiamo che anche i settori della produzione possano crescere, anzi crediamo che proprio lì, probabilmente, si raggiungerebbe maggiore efficienza, anche nei rapporti contrattuali tra le parti. È una cosa auspicabile, per cui questo discorso


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secondo cui ci sono gruppi che stanno crescendo, lo vedrei come un fatto di efficienza.
Quanto al fatto che non vi sia concorrenza, mi permetto di dire che c'è un organo come l'Autorità garante della concorrenza e del mercato che può verificare se vi siano degli abusi di posizione dominante, ma mi pare che anzi l'Antitrust, nel corso degli ultimi anni, abbia sempre riconosciuto alla GDO di essere performante e di avere una funzione in questo Paese; semmai essa ha sempre evidenziato pericoli di legislazione e di regolazione troppo rigida.
A questo punto, farei un accenno a quanto è stato evocato relativamente all'ipotetico obbligo di legge di istituire delle aree di vendita a disposizione della produzione. Pensare a un obbligo per legge, va sinceramente nella direzione sbagliata e opposta a quella che noi auspichiamo. A tal proposito, ricordo che l'Antitrust, con la segnalazione n. 314 del 2005 sostenne che la previsione di una riserva obbligatoria di spazi commerciali a favore di taluni produttori regionali si ponesse in netto contrasto con i principi nazionali e comunitari a tutela della concorrenza, producendo gravi effetti distorsivi nelle dinamiche concorrenziali.
Svolgo un'ultima considerazione sui prodotti locali. Per quanto ci riguarda, il gruppo Conad ha sempre sviluppato il discorso dei prodotti locali, tant'è che ha proprio una linea dedicata (non voglio fare pubblicità, ma ricordo che si chiama «sapori e dintorni»).
Aggiungo che, nel nostro piccolo, noi stiamo tentando di diffondere e di esportare anche prodotti locali e nazionali all'estero, sia nel rapporto che si è instaurato con la struttura europea, sia nel rapporto che abbiamo sviluppato, dal punto di vista commerciale, con Leclerc, sia anche con l'apertura di punti-vendita in un Paese come l'Albania, dove stiamo insediando alcune nostre strutture e dove cerchiamo di esportare i prodotti nazionali e, in alcuni casi, anche locali.

PIERO CARDILE, Responsabile del settore legislativo dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad). Le domande sono state molte e molto stimolanti: cercheremo di suddividere le restanti tra noi, in modo da fornire risposte dettagliate.
Vorrei cercare di fare chiarezza su due aspetti strutturali del settore della grande distribuzione, trattandosi di due luoghi comuni sui quali francamente sento di dover intervenire.
In primo luogo, la grande distribuzione in Italia è a grandissima prevalenza italiana. Noi non abbiamo un settore della grande distribuzione in mano al capitale straniero. La quota delle aziende straniere in Italia, nel mondo della grande distribuzione, è pari a circa il 25 per cento, non di più.
Il settore della grande distribuzione è poi dominato da imprese, magari a carattere regionale o ultraregionale, con un radicamento fortissimo sul territorio, con una conoscenza del proprio consumatore e con un'integrazione veramente molto forte con l'area circostante. Sono tutte aziende a capitale nazionale e, se vogliamo, anche a gestione padronale: esse rappresentano il tessuto portante del mondo della grande distribuzione italiana.
Non dobbiamo lasciarci sviare da tutto quello che si legge sui giornali in merito a quello che fanno Auchan e Carrefour. Certo, queste sono aziende importanti, ma non rappresentano la maggioranza, nel mondo della grande distribuzione. Sono molto più in mano al capitale straniero i settori della produzione; pensiamo al mondo dei detersivi, delle bevande e dei surgelati, ma anche tanti altri.
Il mondo della grande distribuzione è in mano a capitale italiano, lo ripeto, per il 75 per cento. Questa è la realtà delle cose, come potere appurare facendo la somma dei fatturati delle aziende.
In secondo luogo, intendo fare una considerazione sulle sei centrali d'acquisto.

PRESIDENTE. Il 75 per cento di aziende nazionali di cui ha parlato non è, però, internazionalizzato.


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PIERO CARDILE, Responsabile del settore legislativo dell' Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad).
Certo, il discorso sulle piccole dimensioni della grande distribuzione in Italia è tutt'altra cosa e riguarda un altro ragionamento, che aveva già toccato il mio collega. Il fatto che essa non sia internazionalizzata è sicuramente un problema, perché naturalmente la capacità di sviluppare economie di scala in Italia è infinitamente inferiore rispetto a quella delle grandi aziende internazionali: questo è fuori discussione.
Quello che volevo cercare di argomentare è, però, che siamo un settore a capitale italiano. Coop è sicuramente l'azienda a capitale nazionale più grande operante nel settore, ma non è l'unica, perché nella nostra federazione la stragrande maggioranza delle aziende è a capitale nazionale. Ci sono poi Auchan, Carrefour, il gruppo Rewe eccetera, però la maggioranza del fatturato non proviene da queste aziende.
L'altro tema riguarda le centrali di acquisto. Spesso si sente dire, anche da fonti autorevoli, che in Italia cinque aziende hanno in mano tra l'80 e il 90 per cento del venduto del prodotto nazionale.
Non è così, perché anche in questo caso, prima di tutto, la grande distribuzione dei prodotti alimentari in Italia rappresenta il 65-70 per cento del mercato; esistono, infatti, anche un commercio piccolo, un commercio al dettaglio e un ambulantato, che in Italia è molto rilevante e che, come si diceva prima, in alcuni casi propone anche dei prezzi più bassi rispetto a quelli che si rilevano nel mondo della grande distribuzione. Questa è una verità, anche se non sempre è così e bisognerebbe entrare nel dettaglio per capire quando si genera questo fenomeno.
Ad ogni modo, la grande distribuzione rappresenta tra il 65 e il 70 per cento del mercato, quindi già stiamo lavorando su queste percentuali.
È poi vero che ci sono queste sei centrali d'acquisto, che sviluppano una percentuale molto alta di questo 65-70 per cento. Tali centrali d'acquisto sono però nate per equilibrare i rapporti di forza esistenti tra grande industria e distribuzione e servono esclusivamente a fare degli accordi-quadro con i grandi fornitori, dopodiché la negoziazione passa nuovamente al livello delle singole aziende ed è a questo livello che vengono decise tutta una serie di regole negoziali che determinano poi il prezzo finale del prodotto.
Non si può dire, quindi, che in sei centrali d'acquisto viene governato il 95 per cento del prodotto, prima di tutto perché stiamo parlando soltanto del 65 per cento del totale e, in secondo luogo, perché in queste sei centrali viene gestito il 90 per cento - o il 95 per cento, se vogliamo prendere i dati dell'Antitrust - di una sola parte dei rapporti tra industria e grande distribuzione.
Esiste poi un altro livello negoziale, sul quale viene definito il rapporto finale, ed è questo a determinare la grande concorrenza all'interno del mondo della grande distribuzione. La competizione vera, infatti, esiste tra le singole insegne presenti sul territorio, che si danno battaglia reciproca in termini di prezzi, di promozioni, di lancio di prodotti di primo prezzo, come abbiamo detto prima, di marca privata, di iniziative, di panieri e introducendo sempre più servizi all'interno dei punti-vendita, come la possibilità di acquistare traffico telefonico, piuttosto che di pagare le bollette (ormai nella grande distribuzione si vendono le auto) e via dicendo.
Questi sono, dunque, due luoghi comuni: quello della grande distribuzione in mano allo straniero e quello di sei gruppi o centrali...

NICODEMO NAZZARENO OLIVERIO. Chiedo scusa, io mi riferivo a una relazione del presidente Catricalà, che così afferma: «Attualmente, in Italia, la maggior parte delle grandi catene della GDO appartiene ad una super-centrale di acquisto: solo sei super-centrali coprono il 95 per cento, in termini di quote di mercato, della moderna distribuzione».

PIERO CARDILE, Responsabile del settore legislativo dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad).


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Lo so, ma si tratta di calcoli, diciamo così, imprecisi, da questo punto di vista.

SANDRO BRANDOLINI. Non c'è contraddizione tra le due cose?

PIERO CARDILE, Responsabile del settore legislativo dell'Associazione nazionale cooperative fra dettaglianti (ANCD-Conad). Banalizzando, possiamo dire che nelle centrali d'acquisto un soggetto può fare un contratto, ad esempio, con la Ferrero, ma per quanto riguarda tutti i formaggi, i salumi, la frutta e il prodotto locale, lo stesso soggetto non tratta nelle centrali d'acquisto.
Quando si fanno questi calcoli, se si giunge ai risultati citati è perché si assommano alla centrale d'acquisto di Coop tutto il suo fatturato, ma non è così che bisogna fare. Nella centrale d'acquisto non viaggia tutto il fatturato di Coop (Commenti dell'onorevole Brandolini)...

PRESIDENTE. Mi perdoni, davvero non ho capito. Se la centrale di acquisto non acquista per voi tutti i prodotti, quale quota ne acquista?

ALBINO RUSSO, Responsabile del settore economico dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop). Provo a darle un ordine di grandezza...

PRESIDENTE. Siccome abbiamo ascoltato ciò che è riportato nella relazione dell'autorità garante, dobbiamo capire se si tratta di dati errati.

ALBINO RUSSO, Responsabile del settore economico dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop). Provo a spiegarmi con l'esempio che riguarda Coop. Coop partecipa alla più grande centrale d'acquisto italiana che si chiama, appunto, Centrale italiana.
Ora, le aziende appartenenti a Centrale italiana hanno una quota di fatturato sulle vendite iper e super pari a circa il 24 per cento - il 17 per cento del quale appartiene a Coop - rispetto alle vendite complessive di prodotti confezionati della grande distribuzione italiana.
Se misuriamo il fatturato di Coop sui consumi degli italiani, per darvi un ordine di grandezza, abbiamo il 17 per cento dei prodotti confezionati nella grande distribuzione, ma abbiamo meno dell'8 per cento dei consumi degli italiani.
In sostanza, Coop è leader di mercato vendendo l'8 per cento dei consumi alimentari italiani. Di questo 8 per cento, nella centrale d'acquisto vengono gestiti solo i prodotti presenti su tutto il territorio nazionale, i prodotti confezionati e i prodotti a marchio (che riguardano solo Coop, per altro). Tutti gli assortimenti locali - per intenderci: i formaggi, l'ortofrutta e i vini del territorio - sono invece gestiti in maniera decentrata. La centrale di acquisto, nella sostanza, negozia solo i grandi marchi e quei prodotti che fanno parte del referenziamento nazionale: di questo stiamo parlando.
Naturalmente, l'Antitrust non dice una cosa errata, ma il diverso universo di riferimento genera questi problemi. Non è un caso che le vendite iper e super siano di poco superiori al 50 per cento dei consumi, perché non comprendono tutto il tradizionale, tutto il fresco e tutto l'ambulantato. Sono quindi mondi sostanzialmente molto diversi.

SANDRO BRANDOLINI. Se posso fare una precisazione, visto che giochiamo a capirci, vorrei dire che c'è una centrale nazionale, ma ci sono anche delle centrali decentrate. Quando un soggetto compra i prodotti di ortofrutta, non lo fa negozio per negozio, ma attraverso un servizio che può essere regionale o subregionale, a seconda della realtà.
L'altro dato, a partire dal quale vorrei porre una delle contestazioni più grosse, che faccio in quanto socio Coop, anche se ho smesso di fare attività Coop fin dalle origini, è che quando io acquisto un prodotto al supermercato di Cesena - faccio un esempio legato alla città in cui abito, dove ora c'è l'Iper, che appartiene a un altro filone: siccome sono stato assessore


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provinciale, ho fatto il piano del commercio, per cui mi sono dovuto interessare anche di questi argomenti - il prezzo del prodotto finale dipende dai costi di gestione ovvero dal fatturato dell'azienda. Faccio un esempio banale: se lo stesso prodotto arriva con un prezzo di 10 centesimi sia a Cesena, sia a Ravenna, costa poi 10 centesimi a Ravenna, mentre costa 11,5 centesimi a Cesena e 13 centesimi a Cesenatico, questo accade in rapporto ai costi d'acquisto, della distribuzione e del negozio.

ALBINO RUSSO, Responsabile del settore economico dell'Associazione nazionale cooperative consumatori-Coop (ANCC-Coop). Visto che ho la possibilità di interloquire con un pezzo della mia proprietà, con chi vota nella nostre assemblee, mi interessa chiarire la questione sollevata dall'osservazione sull'utilizzo del lavoro che si fa in Coop, perché questo fa parte della nostra mission e della nostra politica di gruppo.
Coop, in un contesto di mercato difficilissimo, cerca di mantenere un modello di sviluppo sostenibile e socialmente compatibile.
Noi abbiamo recentemente firmato l'accordo con tutti e tre i sindacati, senza grosse tensioni, e abbiamo assunto da anni l'impegno a non utilizzare lavoratori atipici, ma solo lavoratori dipendenti, naturalmente con alcuni problemi sui costi, ma anche con la capacità di riuscire a dare un servizio ai nostri soci.
Vorrei fare una battuta complessiva su alcune proposte che sono emerse da questo dibattito. Si è parlato di prodotti locali, di prodotti nazionali e anche di rapporti innovativi con i produttori; ebbene, noi pensiamo che in questo settore la grande distribuzione possa costituire un fattore di sviluppo, di catalizzazione e di innovazione. Sono certamente d'accordo sul fatto che le scelte non possono essere imposte normativamente, ma devono venire dall'accordo tra produttori e distributori e devono essere verificate.
Faccio degli esempi. In alcuni nostri punti-vendita, segnatamente nella catena dei discount, cediamo pezzi del supermercato a chi gestisce il reparto dell'ortofrutta o della carne, perché in alcuni contesti questo è funzionale ed offre un servizio in più al consumatore.
Nella gestione dei grandi punti-vendita questo è molto più difficile, perché è praticamente impossibile trovare un gestore-produttore in grado di offrire un servizio compatibile con le esigenze del grande supermercato. Mi sento di dire: a ognuno il suo mestiere, anche se naturalmente questo può avvenire in alcuni casi.
Il tema dei prodotti locali e nazionali è molto difficile. Come azienda a completo capitale nazionale italiano - come soci abbiamo 7 milioni di famiglie italiane - noi siamo impegnati sulle produzioni nazionali. Una grande parte del nostro prodotto a marchio fresco delle carni, dell'ortofrutta e dei formaggi è di origine nazionale, cosa di cui facciamo un elemento di distinzione.
Naturalmente sappiamo molto bene che privilegiare le produzioni nazionali ha spesso un costo: le carni francesi, ad esempio, costano circa il 10 per cento in meno di quelle nazionali. Per continuare a difendere la produzione nazionale dobbiamo promuovere il suo sviluppo, rimuovendo quegli elementi di inefficienza di cui dicevamo prima. Questa è una condizione fondamentale, perché il consumatore non è disponibile, nei fatti, a spendere di più per difendere la produzione nazionale, se non in alcuni contesti e ad alcune condizioni.
Quando le famiglie si trovano in una situazione di profonda difficoltà, come quella che vivono oggi, rinunciano alla produzione nazionale per un prezzo più basso, a parità di qualità. Questo è un tema che va dunque posto con forza e, in un momento difficile dell'economia, con maggiore urgenza.
Dopodiché, alcune cose si possono fare. Poco tempo fa siamo stati in televisione con un'iniziativa sull'uva di prima qualità pugliese, che è arrivata sugli scaffali a 65 centesimi. Ciò è stato possibile solo tramite un accordo con la controparte agricola, che ha saltato molti degli anelli della


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filiera che, spesso, appesantiscono il prezzo finale. Certo, si tratta di un episodio, che va replicato, ma pensiamo che questa sia la strada da percorrere.
Non aggiungo altro a quanto è già stato detto sul tema della concorrenza. Io credo che sia pericoloso continuare a dire che in Italia c'è una situazione oligopolistica. Noi, che siamo leader, come soggetto collettivo costituito da 130 cooperative - questa è la nostra leadership - vendiamo il 7-8 per cento dei consumi alimentari italiani. Non credo che si possa porre il tema della mancanza di concorrenza. Semmai, al contrario, siamo troppo piccoli.
Io mi auguro, quindi, che possa esserci una crescita in questa direzione.

MARCO PAGANI, Direttore dell'area legislazione e studi della Federdistribuzione. Se posso, farei solo un ultimo appunto sulla questione delle centrali. La cosa importante da puntualizzare è che queste centrali sono state autorizzate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, proprio perché sono state ritenute un elemento, un fattore che porta a una diminuzione dei prezzi al consumo finale, in quanto consente alla distribuzione commerciale di avere un potere contrattuale e negoziale nei confronti della grande industria, il che porta poi a una riduzione dei prezzi di vendita.
L'Autorità garante della concorrenza e del mercato, quindi, ha fatto queste considerazioni nell'autorizzare la creazione di queste super-centrali.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per le utili sollecitazioni che ci sono state offerte e che saranno sicuramente oggetto di ulteriore approfondimento e di attenzione da parte di questa Commissione.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,45.

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