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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XIII
9.
Martedì 23 giugno 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Russo Paolo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL FENOMENO DEI DANNI CAUSATI DALLA FAUNA SELVATICA ALLE PRODUZIONI AGRICOLE E ZOOTECNICHE

Audizione dei rappresentanti della Federazione italiana parchi e riserve naturali (Federparchi):

Russo Paolo, Presidente ... 3
Zucchi Angelo Presidente ... 9 12
Beccalossi Viviana (PdL) ... 11 12
Cenni Susanna (PD) ... 9
Nastri Gaetano (PdL) ... 11
Sammuri Giampiero, Presidente della Federparchi ... 3 10 11 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: (Misto-RRP).

COMMISSIONE XIII
AGRICOLTURA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 23 giugno 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PAOLO RUSSO

La seduta comincia alle 12,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione dei rappresentanti della Federazione italiana parchi e riserve naturali (Federparchi).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche, l'audizione dei rappresentanti della Federazione italiana parchi e riserve naturali (Federparchi).
Sono presenti il dottor Giampiero Sammuri e il dottor Luigi Bertone, rispettivamente presidente e direttore della Federparchi.
Do la parola al presidente Giampiero Sammuri.

GIAMPIERO SAMMURI, Presidente della Federparchi. Signor presidente, la ringrazio dell'invito a parlare dell'importante problema dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche.
Riassumo molto brevemente la natura della Federparchi, perché non sempre viene interpretata nel modo migliore. Non si tratta di un'associazione di carattere ambientale, né di altro tipo, ma di una federazione che riunisce gli enti gestori delle aree protette italiane. La Federparchi, insomma, rappresenta per i parchi ciò che l'ANCI rappresenta per i comuni e l'UPI per le province, ossia l'unione degli enti gestori. I soci sono 170 e costituiscono la quasi totalità degli enti parco nazionali e regionali presenti in Italia, cui sono da aggiungersi anche regioni e province, in qualità di gestori.
Per quanto riguarda la problematica relativa alla gestione faunistica, la Federparchi ha sempre avuto una visione molto pragmatica, coerente con le finalità che la legge quadro n. 394 del 1991 - sin dall'articolo 1, comma 3 - e le direttive comunitarie assegnano alle aree protette: la conservazione della biodiversità. Questo avviene con un approccio molto scientifico.
In particolare, dal 2006 è stata stipulata una convenzione con l'ex Istituto nazionale per la fauna selvatica, oggi ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) per indirizzare la gestione faunistica nelle aree protette attraverso l'uso di criteri tecnico-scientifici.
Inoltre ogni anno organizziamo, sempre con l'ISPRA - e prima con l'Istituto nazionale della fauna selvatica (INFS) - e con la provincia di Siena, una serie di workshop, «I cantieri della biodiversità», nei quali si affrontano, anche in modo molto critico, tematiche relative alla gestione faunistica.
Nel 2006, il primo anno, la Federparchi ha organizzato un convegno dal titolo «Reintroduzioni: 200 anni di tanti errori e


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pochi successi. Abbiamo imparato qualcosa?», in occasione del quale sono state approfondite criticamente le problematiche relative alle reintroduzioni.
Il secondo anno la Federparchi si è interessata, in un workshop ancora una volta molto partecipato - ogni anno presenziano 150 persone circa - della gestione del cinghiale nelle aree protette, argomento molto collegato, dunque, alle tematiche che stiamo discutendo oggi.
Nel 2008, il convegno intitolato «La sfida delle invasioni biologiche. Come rispondere?» era dedicato alla problematica delle cosiddette «specie aliene», ossia introdotte artificialmente - in forma volontaria o passiva - nel territorio nazionale, che possono creare problemi per la conservazione della biodiversità.
Alla fine di ogni convegno sono stati elaborati dei documenti - che consegnerò al presidente - con un approfondimento sulle rispettive tematiche che, tra l'altro, sono molto legate al problema dei danni. Quest'anno il convegno riguarderà la gestione degli ibridi in natura.
Quanto al problema dei danni alle produzioni agricole e zootecniche, credo che sia giusto citare la direttiva «habitat» del 1992, il cui contenuto è stato ripreso nella recente Carta di Siracusa approvata il 24 aprile, nel corso del G8 ambiente, dai Paesi membri e da altri 12 Paesi (Australia, Cina, Brasile e altri). La direttiva prevede che, in generale, la gestione della fauna deve essere finalizzata alla conservazione della biodiversità e a un equilibrio con le attività umane. Questa è la sintesi che, come Federparchi, sposiamo.
Per quanto riguarda i danni alle colture agricole, sappiamo che per gestire il problema ci sono varie modalità. La prima - più semplice per certi versi, ma presenta alcune problematiche - è quella dell'indennizzo dei danni, che secondo noi è doveroso dal punto di vista sociale ed è peraltro previsto dalla normativa vigente. Le controindicazioni all'utilizzo spinto di questo sistema sono, ovviamente, l'elevato costo sostenuto dalla pubblica amministrazione e, comunque, l'insoddisfazione degli agricoltori, che generalmente preferiscono non avere danni o averne meno piuttosto che ricevere la corresponsione di un indennizzo. Si tratta, quindi, di un'attività doverosa, ma non risolutiva del problema.
Altri metodi utilizzati sono, per esempio, le protezioni delle colture attraverso le recinzioni, che possono anche avere un utilizzo locale, ma hanno un costo molto elevato quando sono efficaci (quelle elettriche sono utili, ma non sempre risolutive). Altre misure, come l'uso di repellenti, sono poco utilizzate nel nostro Paese e, soprattutto, poco efficaci.
Un tema molto dibattuto - di cui parlerò meglio in seguito - riguarda il cosiddetto «foraggiamento dissuasivo», cioè l'utilizzo di un foraggiamento che induca gli animali, specialmente il cinghiale, a stare lontano dalle colture. Evidentemente, tuttavia, il rischio è che questo comporti un incremento della specie che si vuole allontanare, piuttosto che il suo allontanamento.
Il tema principe per la prevenzione dei danni, invece, è il controllo numerico delle popolazioni per mezzo di catture e abbattimenti: si tratta certamente del metodo più efficace, soprattutto per la salvaguardia della vegetazione naturale, oltre che delle colture agricole. Alcune specie, infatti, quando sono troppo abbondanti, nelle aree protette come in altri luoghi, possono determinare il deperimento anche della vegetazione naturale.
Per quanto ci riguarda - ecco la pragmaticità che ci distingue - sosteniamo che la cattura o l'abbattimento non dipendono da motivi etici, ma da ragioni tecnico-pratiche. Ad esempio, tutti sanno che il cinghiale è una specie che si cattura con molta facilità, mentre il daino è molto difficile da catturare. La scelta di utilizzare prevalentemente la cattura per una specie e l'abbattimento per un'altra è dettata soltanto dalla facilità dell'uno o dell'altro metodo.
Sappiamo che, al riguardo, ci sono i fautori dell'abbattimento e quelli della cattura, ma in realtà, da un punto di vista gestionale, si tratta di scelte equivalenti. L'abbattimento è soltanto un metodo più


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breve e, comunque, gli animali catturati, ovviamente, vanno comunque avviati all'abbattimento. Se si catturano dei cinghiali, infatti, non si può poi pensare di introdurli da un'altra parte, in una situazione come quella italiana, in cui questa specie oramai manca solo in alcune zone della Pianura Padana e dell'arco alpino orientale, ma per il resto è presente ovunque, sempre in numero esorbitante.
È chiaro, quindi, che un cinghiale catturato non può essere immesso da nessuna parte, se non eventualmente in aree recintate e per altri scopi. Dopo la cattura, in linea di massima, questa specie va abbattuta, mentre per altri animali il discorso può essere leggermente diverso. Oltretutto, a volte, mossi dalle migliori intenzioni, si provocano i danni più disastrosi, come qualche anno fa, quando si proponeva di catturare dei caprioli centroeuropei in provincia di Alessandria per portarli in Calabria, dove invece c'è la sottospecie autoctona del capriolo italico. Si sarebbe prodotto un danno incredibile da un punto di vista di inquinamento genetico e, in più, l'operazione si sarebbe rivelata inutile. Gli animali catturati, pertanto, vanno condotti prevalentemente all'abbattimento.
Un problema fondamentale per noi è separare sempre più nettamente il controllo dalla caccia, nel senso che si tratta di fenomeni completamente diversi, che solo in parte si sovrappongono. In Italia ci sono sessanta specie cacciabili, elencate dalla legge n. 157, poche delle quali possono creare problemi all'agricoltura: in primo luogo, il cinghiale, in alcuni casi il cervo e il daino - che peraltro sono molto localizzati in Italia - in altri il capriolo e il coniglio selvatico e, qualche volta, la tortora. Solo queste sono le specie cacciabili che causano danni all'agricoltura. Tutte le altre specie che provocano danni all'agricoltura non sono cacciabili. Le restanti specie cacciabili, invece, lo sono semplicemente perché le popolazioni presenti in Italia lo consentono, ma non c'è nessun intervento di carattere gestionale e pratico per l'agricoltura. Alcune specie, probabilmente, come il combattente, l'allodola e così via, meriterebbero attenzione, ma non creano certo problemi all'agricoltura. È necessario quindi separare controllo e caccia in modo sempre più netto, perché il fatto che una specie sia contemporaneamente cacciabile e potenzialmente problematica per l'agricoltura è l'eccezione, non la regola.
A questo va aggiunto che ovviamente è difficile controllare una specie attraverso l'attività venatoria. Prendiamo l'esempio del cinghiale: è del tutto legittimo che un cacciatore, con la passione per questo tipo di caccia, speri che questa specie sia il più abbondante possibile. È normale che ciò accada. Allo stesso modo, chi vuole andare a cercare funghi spera che ce ne siano tanti. Un cacciatore di cinghiali, dunque, come un cacciatore di lepri o di tordi, quando si apre la stagione venatoria spera che la specie di suo interesse sia abbondante, come è legittimo che sia. Nel caso del cinghiale, però, ciò contrasta con la nostra esigenza di limitare i danni all'agricoltura: è difficile utilizzare, per limitare una specie, chi spera che invece questa sia abbondante, se non attraverso una gestione di carattere pubblico.
La gestione del controllo delle specie, pertanto, deve essere evidentemente pubblica, utilizzando vari soggetti - ivi compresi i cacciatori che possono farlo - ma non lasciandola all'attività venatoria. È importante, inoltre, che questa attività interessi tutto il territorio, comprese le aree protette.
Prima ho accennato alle specie aliene, tema del quale, peraltro, si occupa una parte specifica della Carta di Siracusa. Al riguardo, abbiamo delle grandissime carenze normative, che abbiamo evidenziato anche nel nostro convegno dello scorso anno. Pensate, peraltro, che la IUCN (International Union for Conservation of Nature), ossia l'Unione internazionale per la conservazione della natura, considera le specie aliene la seconda minaccia per la biodiversità dopo i cambiamenti climatici, il che la dice lunga sull'importanza di tali specie.
In Italia abbiamo assistito spesso a situazioni paradossali, come quando in


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Piemonte l'allora Istituto per la fauna selvatica si adoperò per l'eradicazione dello scoiattolo grigio, una specie nordamericana che crea numerosi problemi. Nell'occasione, si verificarono delle criticità derivanti proprio da una carenza normativa, con tanto di condanne penali per alcuni tecnici dell'Istituto nazionale che, giustamente, volevano eradicare una specie aliena che creava problemi alla conservazione della biodiversità. Questa problema indubbiamente va risolto.
So che in questa Commissione si è parlato anche della nutria, l'esempio classico di specie aliena introdotta in Italia. Al riguardo, un interessante studio - allegato alla documentazione che consegno alla Commissione - realizzato da Panzacchi ed altri, paragona le misure adottate in Gran Bretagna per l'eradicazione della nutria e quelle attuate in Italia per il controllo, dimostrando come le azioni della Gran Bretagna, seppure molto onerose nel breve periodo, a lungo termine si rivelano molto più economiche, dal momento che hanno risolto il problema. Evidentemente, in Italia la situazione è più complicata, anche in assenza di inverni rigidi che invece ne hanno favorito altrove l'eradicazione; tuttavia, la tecnica attuata in Gran Bretagna si è dimostrata più efficace. Come, investendo nella tutela idrogeologica, si risparmiano risorse per pagare i danni delle alluvioni, in questo caso, con un intervento deciso di eradicazione, si spende un po' di più all'inizio, ma si risparmia a lungo termine.
L'altra tematica da affrontare è relativa ai danni al patrimonio zootecnico.
Sono maremmano e ho notato che, nelle vostre audizioni, alcuni miei conterranei sono intervenuti per relazionare sui problemi legati ai danni agli allevamenti ovini. I danni al patrimonio zootecnico essenzialmente sono causati da due gruppi: gli orsi e i canidi. Quella dell'orso è una realtà estremamente limitata, in quanto in Italia - come sapete - tale animale è presente solamente con pochissimi esemplari nel parco d'Abruzzo, nel parco Adamello Brenta e nelle zone alpine circostanti, dove è stato reintrodotto. Come dicevo, si tratta in effetti di uno scarso numero di esemplari, fermo restando che i danni al patrimonio zootecnico devono essere rimborsati in modo totale. A tal proposito, rilevo che la situazione è molto variegata in Italia, perché in alcune regioni si provvede al risarcimento, in altre no, creando una disparità di trattamento che genera diversi problemi.
Nel caso degli orsi, dunque, considerata la loro scarsa presenza e l'esigua incidenza che ciò comporta sugli allevamenti, può succedere che un esemplare si specializzi nel danno all'animale domestico. In questo caso, è opportuno agire come in Trentino, dove hanno catturato l'animale problematico collocandolo in un recinto di esposizione. È possibile seguire tale direzione nel caso in cui il numero degli animali sia molto esiguo, per una specie che solo occasionalmente arreca danni agli allevamenti zootecnici.
Per quanto riguarda i canidi, invece, la questione è diversa. Intanto, in proposito, bisogna ricordare che in Italia i danni agli allevamenti ovini sono causati da lupi, cani mal custoditi, cani inselvatichiti e ibridi (ossia i cani lupo). I «tifosi» negano questa realtà; alcuni iper-animalisti, infatti, affermano che il lupo non provoca danni; altri, viceversa, sostengono che solo il lupo è responsabile. In realtà, i danni vengono arrecati da tutte e quattro le categorie che ho citato, a volte di natura diversa, ma il tipo di intervento è completamente differente.
Rispetto all'audizione cui hanno partecipato i miei conterranei, vorrei dire che il problema dello smaltimento delle carcasse è reale. In effetti - questo dipende molto dai veterinari - non ho mai capito perché quando un animale muore in natura nessuno lo deve smaltire: se un cinghiale o un daino muoiono naturalmente, non vengono prelevati per lo smaltimento dal servizio della ASL, ma è la natura ovviamente a smaltirne la carcassa. Invece, per quanto riguarda le pecore, per esempio, è necessario provvedere allo smaltimento. Questo, dunque, è un problema reale. Non è reale, invece, la convinzione che il danno denunciato sia minore di quello vero.


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L'allevamento ormai - sicuramente in Toscana, ma credo anche in altre parti d'Italia - comporta l'iscrizione a un'anagrafe zootecnica, dal momento che gli animali sono tutti schedati con un numero progressivo, in base alla normativa europea. Se un esemplare non si trova più nell'allevamento, dunque, si danno due sole possibilità: o è morto o è disperso. Se una persona possiede cento pecore e il giorno dopo se ne ritrova novanta, deve denunciare la morte o la sparizione delle dieci che mancano. Dunque, se un lupo, o chi per lui, attacca il gregge, non è possibile limitarsi a dichiarare una variazione nel numero degli esemplari in proprio possesso, ma bisogna denunciarne la sparizione.
Pertanto, è impensabile che si dica che, poiché lo smaltimento delle pecore è costoso, in qualche modo vengano fatte sparire. Una volta arrivato il lupo, se al limite non si intende avviare allo smaltimento le proprie pecore, niente vieta di dichiarare che sono disperse, eventualmente aggiungendo che è stato il lupo. Pertanto, il danno denunciato e quello reale difficilmente non coincidono.
Venendo alle quattro categorie, è chiaro che, nel caso di danni causati dal lupo, occorre considerare che tale animale appartiene a una specie particolarmente protetta - ai sensi della legge n. 157 e della direttiva «Habitat» del 1992 - che come tale va tutelata. Vorrei sgombrare il campo dall'idea di alcuni secondo la quale, se in una zona si rileva la presenza di un animale problematico, questo può essere catturato e trasferito altrove.
Questo ragionamento è in voga soprattutto tra chi vuole trovare una mediazione tra interventi più radicali e misure più tenui. Tale modalità di per sé ha poco senso, ancor meno nel caso del lupo. Intendo dire che si tratta di una specie dotata di una capacità di spostamento eccezionale.
Ho portato con me - e lascerò alla Commissione - il risultato di un'indagine condotta su un lupo investito da una macchina, rimesso in sesto e liberato nella zona della Garfagnana in Toscana: in cinque mesi è arrivato in Francia, coprendo una distanza che è superiore a quella che separa, per esempio, la provincia di Grosseto e il Parco nazionale d'Abruzzo. Il lupo monitorato con questo trasmettitore satellitare in una notte ha realizzato il record di 75 chilometri, ma ci sono casi di lupi conosciuti che hanno superato ampiamente i 100 chilometri. Prendere il lupo per spostarlo da un'altra parte, dunque, non ha senso, dal momento che altrove le problematiche sono comunque le stesse, perché difficilmente, in un ambiente compatibile con la presenza di esemplari di lupo mancano pecore o allevamenti ovini in genere. Questa misura, dunque, è priva di senso.
La soluzione è l'indennizzo ed eventualmente - in Italia è difficile da pensare, ma accade in altre parti del mondo - quando i lupi sono effettivamente troppo numerosi, si può pensare anche a zone di conservazione o, in caso di individui problematici come l'orso di cui parlavo in precedenza, a possibili abbattimenti. Tuttavia, questo tipo di azioni non ha senso in relazione allo spostamento.
Per quanto riguarda i cani mal custoditi, ossia quelli che vengono lasciati in giro la notte provocando danni ai greggi, bisogna inasprire fortemente le sanzioni e i controlli perché, mentre per il lupo si può agire limitatamente, su questa categoria si può lavorare molto. Se la gente non mandasse in giro la notte questi esemplari, infatti, riusciremmo a limitare almeno i danni provocati da questa categoria di animali.
Quella dei cani inselvatichiti è una questione difficile da risolvere. Come saprete, per quanto riguarda il piccione domestico, l'ISPRA ha sempre affermato - e concordo, da un punto di vista tecnico, con questa interpretazione - che una specie quando è domestica resta sempre tale, indipendentemente dal fatto se vive da sola o è alimentata dall'uomo. Una pecora, una capra o un cane, pertanto, sono comunque animali domestici. Tuttavia, la sentenza della Corte di Cassazione III Sezione penale n. 2598 del 26 gennaio 2004 ha stabilito che un animale, pur


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appartenendo a una specie domestica, se vive da sé, ai sensi della legge n. 157 del 1992 è da considerarsi fauna selvatica. In base a questa sentenza, il piccione domestico, che vive indipendentemente dall'uomo, è stato considerato fauna selvatica e ugualmente, in base alla stessa interpretazione, dovrebbe essere considerato anche un cane inselvatichito. Ciò complica la questione, perché, in quanto fauna selvatica, tale animale sarebbe soggetto alla legge n. 157, dunque, come il piccione, passibile di abbattimento. Tale disposizione, inoltre, varrebbe anche per pecore, capre, bovini. Al riguardo, mi pare che ci sia una certa carenza normativa cui forse si dovrebbe ovviare.
Da ultimo ci sono gli ibridi, ossia l'incrocio tra il lupo e il cane, piuttosto diffusi sul territorio nazionale, che in Italia non sono regolati da alcuna normativa (non a caso, organizzeremo il convegno di quest'anno su questo tema). Mentre oggi, con tutte le motivazioni del caso, una legge impedisce di abbattere un lupo o un cane, per quanto riguarda gli ibridi non c'è alcuna disciplina, il che costituisce una grave carenza.
In conclusione - trovandoci in una Commissione che svolge questa indagine conoscitiva per poi presentare anche delle proposte di modifica della normativa vigente - desidero formulare alcuni suggerimenti, nell'ottica di quanto detto. La prima misura da adottare riguarda il divieto di immissioni di cinghiali in natura su tutto il territorio nazionale, indispensabile, dal mio punto di vista, ad eccezione delle aree adeguatamente recintate nei soli istituti faunistici venatori previsti da normativa nazionale e dai piani faunistici regionali.
Inoltre, sarebbe anche opportuno - è una proposta molto forte, ma secondo me utilissima - un divieto di allevamento del cinghiale su tutto il territorio nazionale, esclusi motivi di ricerca scientifica o sperimentazione. Non riesco a capire, infatti, a che scopo si alleva il cinghiale oggi in Italia. Non credo che, da un punto di vista alimentare, ci possano essere particolari problemi. Vengo dalla provincia di Grosseto, dove ogni anno, in attività venatoria, vengono abbattuti dai 10 mila ai 15 mila cinghiali. Pertanto, creare allevamenti per mangiare cinghiale mi sembra piuttosto curioso, dal momento che gli allevamenti spesso servono per far prendere altre strade a questi animali. Mi rendo conto che sto parlando di una misura drastica, ma secondo me sarebbe utile.
Un ulteriore elemento da introdurre per normativa è il divieto di fornire alimentazione a terra utilizzabile dai cinghiali, se non per motivi zootecnici oppure di censimento, cattura o abbattimento selettivo, espressamente autorizzati dagli enti gestori. Una deroga può essere concessa, da parte delle Regioni, dal primo marzo al quindici ottobre, ossia in presenza delle colture agricole, per portare avanti l'alimentazione dissuasiva.
Sarebbe molto importante, inoltre, introdurre un divieto molto forte delle azioni che possano disturbare o limitare l'attivazione di interventi di controllo della fauna selvatica. Tali interventi, infatti, sono spesso ostacolati sia da animalisti sia da cacciatori (questi ultimi, contrariamente a quanto si crede, come dicevo prima non vogliono che venga limitato il numero dei cinghiali).
L'Istituto nazionale della fauna selvatica, per esempio, nelle sue linee guida afferma che, per limitare adeguatamente i cinghiali, bisognerebbe effettuare gli abbattimenti nel periodo riproduttivo, ossia tra febbraio e maggio; questo vale per tutte le specie, che si possono limitare intervenendo in questa fase. I cacciatori sono molto disponibili a eseguire gli abbattimenti nel periodo tra novembre e gennaio; molti sono riottosi invece, per non dire contrari, a compierli nel periodo riproduttivo, perché è chiaro che in questo caso si riduce la densità della specie.
Pertanto, in occasione degli interventi di controllo, si verificano azioni di disturbo di vario tipo, sia da parte degli animalisti più agitati, sia dei cacciatori. Sarebbe opportuno, dunque, introdurre sanzioni importanti per quanto riguarda il disturbo alle operazioni di controllo e di abbattimento. Nel caso dei cacciatori,


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l'unica misura efficace, al di là delle pene pecuniarie, è il ritiro per un anno della licenza di caccia.
Un altro intervento decisivo per il controllo consiste nella modifica dell'articolo 19, comma 2, della legge n. 157, che disciplina i famosi «metodi ecologici». Questa definizione, in primo luogo, ha poco senso da un punto di vista tecnico. Probabilmente il legislatore intendeva parlare di metodi non cruenti, che sono cosa diversa; i metodi ecologici, infatti, presupporrebbero un intervento sull'ecosistema - introducendo animali, piante eccetera - per cambiare i rapporti ecologici e limitare la presenza di queste specie.
A mio avviso, nella legge si dovrebbe parlare di «metodi selettivi»: per eliminare un cinghiale da una zona bisogna disturbare solo l'interessato, fino al punto di abbatterlo, ma senza creare nocumento ad altre specie attraverso tecniche inopportune. Il metodo ecologico, quindi, deve essere sostituito dal metodo selettivo, ossia un metodo diretto soltanto alla specie target.
Questa modifica, a mio avviso, è decisiva, considerando che su di essa hanno lavorato i TAR di tutta Italia, e l'INFS prima e l'ISPRA ora. Dobbiamo prevedere, pertanto, che gli interventi siano realizzati in modo selettivo da parte dei soggetti pubblici, a cura del coordinamento e controllo dei corpi di polizia provinciale, laddove ci sono, dei «guardaparco», se si agisce in un parco e questi sono presenti, e fare in modo che le disposizioni siano attuate da vari soggetti, ivi compresi i cacciatori che abbiano seguito i corsi.
Un altro aspetto significativo - qui ci si scontra con tutte le normative di pubblica sicurezza, antiterrorismo e così via - è che, in altri Paesi d'Europa, i metodi di controllo della fauna selvatica in eccesso prevedono un uso estremo di mezzi non consentiti per l'attività venatoria. In Francia, per esempio, il contenimento degli ungulati si realizza applicando silenziatori ai fucili, misura fortemente proibita in Italia.
In Francia è possibile acquistare il silenziatore presso l'armeria. Forse questa è un'azione estrema, ma potremmo trovare il sistema per consentire l'uso di questa tecnica almeno agli agenti della polizia provinciale e ai «guardaparco». Per il controllo del daino, per esempio, l'uso del silenziatore dà risultati molto importanti, permettendo a un solo operatore di effettuare un intervento efficace di controllo, invece di ricorrere alla carabina, arma rumorosa che permette di abbattere, magari, soltanto un esemplare.
Da ultimo, vorrei riflettere sulla questione relativa alla destinazione degli animali catturati che - come ho detto - a mio avviso vanno abbattuti. Oggi, in alcune strutture, ossia nelle aziende agrituristiche o venatorie, la normativa nazionale consente l'abbattimento solo di animali provenienti da allevamento. Una modifica utile, a mio parere, consisterebbe nell'introdurre anche l'abbattimento di animali provenienti da operazioni di cattura. Se si cattura un cinghiale e lo si chiude in una struttura per limitarlo, per esempio, questo può essere anche avviato a un'azienda agrituristico-venatoria. Tale opzione, da un punto di vista economico, renderebbe sicuramente di più, vista la situazione attuale, rispetto al macello, per un uso alimentare. Peraltro, non si creerebbe alcun problema per l'ambiente, dal momento che gli animali si troverebbero in aree recintate. Si potrebbe conseguire, dunque, un ulteriore introito economico da una parte e un'importante forma di limitazione dall'altra.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ANGELO ZUCCHI

PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Sammuri per la relazione approfondita e per i tanti spunti che ha voluto offrirci.
Do ora la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

SUSANNA CENNI. Ringrazio il presidente di Federparchi per l'ampia relazione che ci ha presentato in questa sede. Devo dire che una delle mie curiosità è stata già


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sufficientemente soddisfatta. Mi riferisco alla presenza del lupo in molte aree del nostro Paese, in cui, sino a qualche anno fa, questa specie sembrava non essere presente o, quanto meno, esserlo in quantitativi assai ridotti. Lei sa - lo ha ricordato nel suo intervento - che in alcune aree le denunce di danni agli ovini causati dall'aggressione dei lupi sono oramai all'ordine del giorno. È interessante, peraltro, la riflessione da lei proposta rispetto all'esistenza effettiva del lupo, piuttosto che di cani abbandonati o di ibridi.
Viste le sue competenze tecniche in materia, le chiedo se ritiene che sia aumentata la presenza di lupi nel nostro territorio, in particolare nell'area dell'Amiata e dell'Appennino, dove vengono segnalati addirittura numeri fantascientifici circa la presenza di questa specie. Nel caso di risposta negativa, mi domando se sia possibile riconoscere l'esistenza di lupi, piuttosto che di ibridi, in base al danno prodotto. In caso contrario, diventa difficile comprendere come sia possibile - posto che non si tratti di un lupo - intervenire con gli strumenti necessari.
In secondo luogo, questa Commissione ha iniziato un lavoro, a mio parere, utile - mi riferisco alla sua relazione come agli interventi di altri auditi che abbiamo ascoltato nelle settimane e nei mesi passati - per formulare proposte normative in materia di prevenzione dei danni. Lei sa anche, tuttavia, che al Senato è avviato un iter di complessiva modifica della legge n. 157, che comprende tra l'altro alcune proposte che riguardano la questione in esame. Vorrei sapere, dunque, se la Federparchi - il presidente Sammuri, il direttore Bertone o qualche altro rappresentante - è stata audita anche in quel ramo del Parlamento e qual è la vostra valutazione sul testo del Senato.

GIAMPIERO SAMMURI, Presidente della Federparchi. Per quanto riguarda il lupo, le stime -chiaramente, trattandosi di dati nazionali, bisogna prenderli con le molle - ci dicono che questa specie ha toccato il suo momento di più bassa presenza in Italia nella prima metà degli anni Settanta, tra il 1970 e il 1975, quando si contavano in Italia, fermo restando il beneficio dell'inventario, circa duecento lupi. Attualmente gli esperti sostengono che da allora la popolazione è triplicata ovvero quintuplicata: oggi in Italia il numero dei lupi rientra in un range tra i seicento e i mille esemplari.
Naturalmente, il dato va considerato con la dovuta cautela, ma è abbastanza importante. Trattandosi di una specie che - come dicevo - ha una grande capacità di spostamento, evidentemente si è determinata un'enorme estensione dell'areale del lupo in Italia rispetto alla sua localizzazione negli anni Settanta: l'animale è presente, dunque, in moltissime zone dove in precedenza era scomparso.
Per citare un esempio che conosco bene, quello delle province di Grosseto e Siena, in questa zona sono presenti tre delle quattro specie che provocano danni agli ovini: il lupo, i cani mal custoditi, ossia lasciati liberi durante la notte, e gli ibridi, mentre il fenomeno del cane inselvatichito, nella Toscana meridionale, è piuttosto raro.
Per quanto riguarda il riconoscimento della specie responsabile del danno, nel caso del cane e del lupo uno specialista è in grado di identificarla con una certa precisione, anche se alcuni cani attaccano in modo molto simile al lupo. Esiste inoltre un metodo formidabile, nemmeno costosissimo, per verificare se in un territorio circolano lupi, cani o ibridi: si raccolgono gli escrementi e dall'analisi genetica è facilissimo riconoscere la specie e, in più, definire individualmente i vari soggetti (per esempio, si può stabilire che in una determinata zona ci sono cinque lupi, sette cani e tre ibridi, riconoscibili singolarmente).
Sapere se in un'area è presente l'una o l'altra specie, dunque, è abbastanza semplice; il problema, tuttavia, nel caso siano presenti le diverse specie, è che ciascuna provoca danni, pertanto nessuno resta immune.
Per quanto riguarda i cani, però - diversamente dal caso del lupo - è possibile realizzare un'azione molto efficace


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di controllo, magari anche inasprendo le sanzioni per chi li lascia vagare di notte consentendo che provochino danni ai greggi. In ogni caso, i cani presenti sul territorio - salvo il problema illustrato in precedenza relativamente alla sentenza della Corte di Cassazione - possono essere rimossi, catturati e avviati a un canile. Per il lupo, invece, questo non è possibile.
Relativamente alla modifica della legge n. 157, la nostra audizione al Senato è fissata per martedì prossimo. Ho cominciato a studiare il complesso fardello delle nuove proposte di legge, una in particolare.
Al riguardo, ribadisco che il controllo non si può effettuare con la caccia: si tratta di due attività diverse, che solo limitatamente si sovrappongono, in quanto rispondono a interessi contrapposti. La gestione del controllo, pertanto, deve essere indipendente dalla caccia e, per essere efficace, va necessariamente affidata a un soggetto terzo, di natura pubblica.

GAETANO NASTRI. In primo luogo, mi scuso per essere arrivato in ritardo. A quanto mi è stato riferito, il dottor Sammuri non ha accennato alla questione della copertura assicurativa per danni alle cose.
In Piemonte abbiamo il grave problema dei cinghiali. Una delle criticità causate da questi esemplari riguarda, oltre all'incolumità alle persone, i danni alle cose. Spesso ci chiedono se non sia il caso di intervenire presso l'ISVAP, organo che controlla il comparto assicurativo, perché si definisca una normativa differente rispetto all'attuale. Solitamente, infatti, le compagnie portano avanti una sorta di rivalsa nei confronti del Governo, non risarcendo i danni alle cose.
Vorrei capire, dunque, se è il caso di inserire all'interno del percorso legislativo di modifica, in atto,una norma che possa tutelare i privati.

GIAMPIERO SAMMURI, Presidente della Federparchi. Confesso che sono molto più esperto di biodiversità che di assicurazioni, quindi non conosco molto bene il tema.
È chiaro che i danni potenziali della fauna selvatica non dovrebbero essere circoscritti, da un punto di vista generale, soltanto alle colture agricole o zootecniche; la normativa, però, prevede indennizzi in questi casi, non in altri. Peraltro, per quanto riguarda i danni alle persone e alle cose, c'è una ricca giurisprudenza, sono state emesse sentenze di tutti i tipi, molte delle quali non riconoscono, per esempio in caso di impatto da incidente stradale, la possibilità di risarcire il danneggiato, se non per conto del gestore della strada. Si parte, infatti, dal presupposto che la fauna selvatica non si possa custodire e il suo proprietario sia lo Stato.
Evidentemente, il problema esiste, ma non saprei suggerire una soluzione. In ogni caso, penso sia bene affrontarlo.

VIVIANA BECCALOSSI. Dottor Sammuri, la ringrazio anch'io per la relazione, che è stata molto esaustiva rispetto ai quesiti che la Commissione si sta ponendo.
Mi chiedo se lei sia in grado di fornirci qualche dato relativo alla peste suina. Mi preoccupa molto, infatti, questa malattia che - come sa meglio di me - può colpire anche i cinghiali, che possono eventualmente trasmetterla agli allevamenti suini. Poiché spesso i cinghiali, in alcune zone, si trovano nelle vicinanze di questi allevamenti, che sono dedicati alla produzione di prosciutto crudo (di Parma, di San Daniele o, in Toscana, da esportazione), questa è una preoccupazione in più per molti.
I danni che una mancata gestione della fauna selvatica, in questo caso del cinghiale, può produrre interessano le coltivazioni, le persone (in caso, per esempio, di incidente stradale con impatto, laddove c'è una vacatio legis e da anni si emanano sentenze spesso non coerenti l'una con l'altra), ma vi è un terzo aspetto di carattere igienico-sanitario, che a me personalmente sta a cuore, quello della peste suina. Questo ultimo aspetto potrebbe - come è già accaduto - provocare dei problemi ad alcune nostre produzioni tipiche, impedendone l'esportazione.


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Per concludere, vorrei sapere se avete registrato un aumento di casi di peste suina in corrispondenza di un incremento della popolazione di cinghiali sul nostro territorio. Chiedo scusa per una domanda così specifica, ma trovo che questo costituirebbe un danno, oltre che economico, anche di immagine per il nostro Paese.

GIAMPIERO SAMMURI, Presidente della Federparchi. Premetto che condivido la preoccupazione, in quanto la relazione tra la peste suina contratta dal cinghiale e la successiva trasmissibilità ai suini domestici si è già verificata.
In Italia, la febbre suina ha avuto un momento di grande virulenza tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, paradossalmente quando i cinghiali erano meno diffusi. Per spiegare come mai ciò sia avvenuto, vorrei ricordare che minore è il loro numero, più i cinghiali si spostano, pertanto è più facile che si verifichi un contatto tra il soggetto affetto da peste suina e un altro soggetto. Più le densità sono elevate, invece, essendo animali parzialmente territoriali, si estendono meno perché trovano già un'altra presenza che impedisce lo spostamento. Paradossalmente, dunque, l'alta densità della specie favorisce meno la diffusione del problema.
Certamente, questo fenomeno va tenuto sempre sotto controllo, soprattutto nelle regioni che possono essere fortemente danneggiate dalla trasmissione del virus da animali allo stato selvatico a esemplari domestici. Di norma, comunque, questo controllo viene effettuato.

VIVIANA BECCALOSSI. Questa, dunque, potrebbe essere una delle ragioni di un intervento legislativo per contenere il fenomeno. Mi è sembrato di capire, infatti, che spesso si fa fatica a intervenire.
Anch'io, in passato, ho sperimentato - in linea con quanto da lei affermato - che di frequente, pur partendo da posizioni diametralmente opposte, gli interessi dei cacciatori convergono con quelli degli animalisti. Di conseguenza, dovremmo cercare di intervenire in maniera abbastanza equidistante dall'una e dall'altra posizione, che spesso rischiano di essere integraliste e, proprio per questo, sbagliate.
Una motivazione di carattere igienico-sanitario potrebbe rafforzare la necessità di un intervento.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,20.

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