Sulla pubblicità dei lavori:
Aprea Valentina, Presidente ... 3
Audizione del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Mariastella Gelmini, sulle linee programmatiche del suo dicastero, limitatamente agli aspetti attinenti al settore dell'università e della ricerca (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):
Aprea Valentina, Presidente ... 3 14 20 21 24 26 29 35
36 37 38
Bachelet Giovanni Battista (PD) ... 16 21 26
Barbieri Emerenzio (PdL) ... 3 32
Caldoro Stefano (PdL) ... 26
Capitanio Santolini Luisa (UdC) ... 28
De Pasquale Rosa (PD) ... 3
Farina Renato (PdL) ... 30
Frassinetti Paola (PdL) ... 35
Garagnani Fabio (PdL) ... 14
Gelmini Mariastella, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca ... 3
Ghizzoni Manuela (PD) ... 24 36 37
Goisis Paola (LNP) ... 33
Mazzarella Eugenio (PD) ... 18
Murgia Bruno (PdL) ... 25 26
Nicolais Luigi (PD) ... 21
Palmieri Antonio (PdL) ... 24
Pepe Mario (PdL) ... 20 21
Picierno Pina (PD) ... 34
Rivolta Erica (LNP) ... 38
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.
Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 11,10.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2 del Regolamento, l'audizione del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Mariastella Gelmini, sulle linee programmatiche del suo dicastero, limitatamente agli aspetti attinenti al settore dell'università e della ricerca.
Do il benvenuto a tutti i colleghi e in particolar modo al Ministro Gelmini.
Do la parola all'onorevole De Pasquale, che ha chiesto di intervenire sull'ordine dei lavori.
ROSA DE PASQUALE. Signor presidente, leggendo le convocazioni per i lavori della Commissione di questa settimana, ho notato che non è prevista la replica del Ministro Gelmini nell'ambito dell'audizione sulle linee programmatiche relative al settore dell'istruzione.
PRESIDENTE. Il Ministro è impegnato al Senato e quindi il seguito di quell'audizione avrà luogo martedì prossimo.
EMERENZIO BARBIERI. Signor presidente, prima della replica dobbiamo ancora tenere il dibattito sulle comunicazioni.
PRESIDENTE. Il seguito dell'audizione sulle linee programmatiche relative al settore dell'istruzione con il dibattito si terrà martedì prossimo.
Do la parola al Ministro Gelmini.
MARIASTELLA GELMINI, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Signor presidente, onorevoli deputati, siamo giunti alla seconda parte di quella duplice fatica cui facevo riferimento nel mio primo intervento di fronte alla Commissione. Cambiano, oggi, le materie trattate, ma non cambiano i cardini del ragionamento che ho precedentemente condiviso con voi. Istruzione, università e ricerca scientifica sono moduli distinti, ma rappresentano, insieme, l'infrastruttura del sapere e, come ogni infrastruttura, vincono solo se interconnessi l'uno all'altro.
La sfida decisiva del capitale umano e dell'innovazione si gioca a questo tavolo. Occorre riconoscere, innanzitutto, che l'università e la ricerca sono fattori indispensabili di sviluppo della nostra comunità nazionale. Eliminarne le criticità è quindi strategico.
A questo proposito occorre ricordare che nel recente passato il nostro sistema
formativo era in grado di formare capitale umano di eccellenza. La domanda è la seguente: come è possibile recuperare questa capacità nell'attuale contesto sociale ed economico complesso e globalizzato?
Si prospettano due possibilità. Una gestione più fortemente centralizzata del sistema universitario, con regole uguali per ogni ateneo, ogni professore, ogni ricercatore; oppure, prendendo atto delle diversità presenti tra i singoli atenei e centri di ricerca, porre le condizioni per valorizzarne la specificità. La seconda opzione, analogamente a quanto avviene in molti Paesi caratterizzati da sistemi universitari di eccellenza, ci sembra quella da sostenere.
Siamo chiamati, come istituzioni politiche e come società, ad un comune commitment per l'università e la ricerca, riconoscendone il ruolo primario per la formazione della classe dirigente, come fa ogni grande Paese moderno. La filosofia cui intendo informare l'azione del Ministero, per questi motivi, non cambia. Si fonda sul trinomio autonomia, valutazione, merito, che è quanto l'Italia, oggi, si aspetta da noi.
Vorrei, prima di tracciare un quadro generale della situazione e formulare alcune prime proposte, aggiungere altre due considerazioni. La prima, riguarda la leva legislativa, la seconda il ruolo dei giovani. Nel corso di questi ultimi anni si sono venute stratificando una serie di norme, a volte contraddittorie, a volte di difficile interpretazione, che hanno di volta in volta interrotto e contraddetto ipotesi di riforma, anche coraggiose, proposte dai ministri che si sono via via succeduti, a partire da Antonio Ruberti, cui va il mio commosso ricordo, per finire con Letizia Moratti, autrice di una proposta capace di intervenire su alcuni snodi fondamentali. Il mio impegno è quello di dotare, entro il termine dei cinque anni di legislatura, il mondo dell'università e della ricerca di regole certe e condivise, di testi unici che non siano la sommatoria di norme già esistenti, ma, al contrario, eliminino «il troppo e il vano» e liberino le ali
dell'autonomia dal troppo piombo che ne impedisce il volo. Né io né voi possiamo ovviamente paragonarci a Giustiniano; tuttavia, l'esempio di una attività legislativa che possa sfidare il futuro mi sembra ci debba essere caro.
Quanto al ruolo dei giovani, può sembrare pletorico ricordare quanto ricada su di loro il vizio di una società italiana ancora troppo ingessata, gerontocratica e refrattaria a riconoscere il merito. Si pensi che, in Italia, solo il 15 per cento dei dirigenti, l'8 per cento dei professori associati e l'1 per cento dei professori ordinari ha meno di 40 anni. Vorrei che fossero proprio i giovani ad aiutarci a progettare il futuro del Paese, che è in fondo, soprattutto, il loro futuro. Mi propongo di invitare al Ministero i giovani docenti e ricercatori per partecipare a un grande concorso di idee, e quindi per potermi aiutare a rendere realtà le idee migliori, a tradurle in pratica e a proporvele. Ho intenzione di spalancare le porte dell'EUR a quest'aria nuova, per investire davvero sui giovani talenti. È un dato di fatto che i risultati del nostro lavoro saranno misurabili in un futuro non immediato. Mi sembra giusto chiamare a progettarlo
chi ne sarà protagonista.
E veniamo al quadro d'insieme. Ho incontrato nei primi giorni di questo mio mandato, un numero notevole di persone e rappresentanti di istituti di eccellenza su cui l'Italia può certamente contare. Ma sappiamo tutti che il sistema dell'università e della ricerca presenta, accanto a situazioni che gareggiano alla pari con le migliori realtà estere, un quadro non confortante. Nelle classifiche internazionali, i nostri atenei arrancano. Studenti, ricercatori e docenti provenienti dall'estero sono decisamente troppo pochi: e un'ottima università si distingue anche per un ambiente culturale internazionale.
La pronta adesione al «processo di Bologna» e la conseguente introduzione del «3 2», se ci ha consentito di aumentare il numero dei laureati, è messa da più parti sotto accusa per aver innescato un processo di licealizzazione prolungata e una proliferazione di corsi e indirizzi che non ha eguali negli altri paesi europei:
3.200 corsi in Italia, contro gli 800 della Germania. Sul «3 2» intendo, peraltro, proseguire una rigorosa attività di monitoraggio e continuare sulla strada intrapresa dai miei predecessori verso una forte razionalizzazione dei corsi.
Va anche rilevato che la formazione post laurea di terzo e quarto livello, troppo spesso diviene una sorta di area di parcheggio da cui pescare mano d'opera accademica a basso costo. Inoltre, l'FFO è basato in larghissima parte sullo «storico» e alimenta bilanci ingessati, senza che una percentuale significativa delle risorse sia destinata a premiare il merito e l'eccellenza. Manca, inoltre, un collegamento stretto con il mondo del lavoro che dovrebbe caratterizzare molto più di quanto oggi avvenga le lauree triennali; si registra una scarsa valorizzazione delle forme di apprendistato professionalizzante finalizzato a garantire uno sbocco che sfrutti le competenze maturate. E non si può sottacere che, mentre gli iscritti ai corsi di laurea umanistici e di comunicazione sono migliaia, si rileva tuttora una scarsa percentuale di iscrizione ai corsi di laurea scientifici. Fin qui la fotografia dell'esistente. A noi il compito di trovare soluzioni
adeguate per rilanciare la qualità degli studi e l'università.
E veniamo alle risorse. È un dato di fatto che la ricerca sia sottofinanziata. La percentuale di investimento in ricerca è in Italia pari all'1,09 per cento rispetto al PIL contro una media OCSE del 2,26 per cento. La percentuale di incremento annuo è del 2,70 per cento, in Grecia è del 16,70 per cento, in Estonia del 13 per cento. Con queste cifre, capite bene che è difficilissimo competere, se non impossibile. Sarebbe suicida mantenere un'arretratezza così evidente nell'investimento più utile per la crescita di una nazione e per la promozione sociale. Si pensi che delle 20 migliori università, per risultati di ricerca e didattica, 17 sono negli Stati Uniti. E gli Stati Uniti sono il Paese con il più alto tasso di mobilità sociale.
Se da un lato dobbiamo fissare l'obiettivo di aumentare le risorse a disposizione, occorre, però, da subito, imparare a spenderle meglio, vincolandole alla responsabilità, ai risultati conseguiti ed eliminando sacche di spreco o di spesa poco produttiva. Possiamo chiedere al Paese uno sforzo finanziario aggiuntivo soltanto se garantiremo un rinnovamento nel metodo di spesa, vincolando cioè i finanziamenti al livello della didattica e della ricerca, portando ad almeno il 20 per cento del fondo la quota destinata a premiare i migliori. Più risorse e più meritocrazia saranno il nostro indirizzo.
Sulla leva finanziaria ci sono due tipi diversi di interventi da fare, a seconda della provenienza pubblica o privata dei fondi. Il primo intervento riguarda le risorse pubbliche. Siamo, in questo caso, con lo 0,58 per cento, più o meno al livello di altri paesi. Ma è inammissibile il ritardo con cui i bandi vengono promulgati, inammissibile la lentezza con cui i risultati vengono valutati e il tempo in cui i contributi vengono corrisposti. Erogare i fondi con mesi, se non anni, di ritardo, significa uccidere il sistema. Ho intenzione, in tal senso, di compiere uno sforzo prioritario per tagliare senza esitazione il cappio che strangola l'opera di tanti ricercatori. Dobbiamo dare un esempio di burocrazia efficiente. Può sembrare una contraddizione in termini, ma è essenziale fare di tutto per realizzare un sistema di distribuzione delle risorse che sia rapido, giusto ed equo.
Sul versante dell'investimento privato, le note sono invece in parte dolenti. Non solo le grandi imprese, salvo rare eccezioni, investono poco, ma il tessuto imprenditoriale italiano è caratterizzato, come sapete, da piccole e medie imprese, le quali fanno fatica ad accantonare fondi da investire per la ricerca, nonostante una grande propensione all'innovazione registrata dalle statistiche che va assolutamente riconosciuta. Mi impegno a studiare, di concerto con i colleghi di Governo, meccanismi di agevolazione per le piccole e medie imprese che coordinino i loro investimenti. Crediti di imposta e defiscalizzazioni sono, assieme all'unione delle forze - e penso anche al ruolo delle fondazioni bancarie, per esempio, al ruolo
del no-profit, delle associazioni di categoria - la chiave per ridare risorse alla ricerca.
Ma il problema delle risorse riguarda anche le università, come ho precedentemente accennato. Si è data autonomia, senza però chiedere conto dei risultati. Sono troppi i casi di spesa senza controllo, di sforamento dei tetti previsti riguardo, ad esempio, alla quota massima del 90 per cento degli FFO per quanto riguarda il personale. Alcuni atenei, inoltre, versano in una situazione di avanzata esposizione finanziaria. Siamo pronti ad aiutarli, secondo piani pluriennali concordati di rientro dall'indebitamento, vincolandoli però rigorosamente ad una gestione responsabile e virtuosa della spesa.
Non è mia intenzione limitare in alcun modo l'autonomia degli atenei, ma desidero, insieme a loro, trovare soluzioni accettate e condivise, percorsi che recuperino i casi di dissesto con tempi e risorse certe; fissare regole altrettanto certe che consentano di liberare risorse per premiare la qualità. Occorre mettere in atto un chiaro patto di stabilità, individualizzato per ogni singolo ateneo, così da valorizzare le specificità.
E veniamo alla sfide. È mia intenzione, in questa relazione, affrontare solo alcuni dei punti che riguardano le linee di Governo, rinviando a momenti successivi l'approfondimento di altri punti.
Trovo che focalizzare la relazione su alcuni temi possa lasciare spazio maggiore al dibattito e del resto il campo è talmente vasto da esigere una prima selezione degli argomenti.
Dobbiamo affrontare con coraggio alcune sfide impellenti: l'autonomia e la responsabilità, la valutazione, il reclutamento dei docenti, il welfare studentesco, la governance, l'eccellenza e la riforma degli istituti di ricerca.
Per quanto riguarda l'autonomia e la responsabilità, la prima considerazione da fare è che il sistema dell'università e della ricerca si presenta estremamente variegato: atenei di diversa propensione e dimensione, centri di ricerca pubblici e privati, consorzi. Sarebbe fuorviante cercare di ridurre questo patrimonio di diversità a un tutto unico. Dobbiamo cercare, invece, di fare della diversità un punto di forza.
Senza dubbio l'autonomia ha un valore fondante, costitutivo e, direi quasi, antropologico. La constitutio habita, primo statuto della prima università, l'Alma Mater Studiorum di Bologna, concessa da Federico I nel 1158, giusto 950 anni fa, riconosce la libertà della ricerca e fa dell'università una libera societas di allievi presieduta da un maestro. E la carta costituzionale richiama il tema dell'autonomia: «Le istituzioni di alta cultura, - recita l'articolo 33 - università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Non intendo, quindi, in alcun modo, conculcare questa autonomia. Anzi, vorrei che insieme la rendessimo più piena, a patto che la stessa autonomia diventi più responsabile.
In questi anni si è riconosciuta l'autonomia alle università, senza però coniugarla con il richiamo alla responsabilità e alla valutazione delle scelte. Responsabilità significa la possibilità di essere premiati o sanzionati per le scelte, rispettivamente vincenti o sconvenienti, che si sono operate. Richiamo il mondo dell'università a questa sfida, che so essere da loro già avvertita come cruciale per il rilancio del sistema.
Lavorerò per un sistema competitivo. Ma per chiarire cosa intendo per competizione, voglio affidarmi alle parole di Dario Antiseri: «Quando noi parliamo di competizione - dice Antiseri - spesso abbiamo paura di questa parola, perché la competizione è guerra; tuttavia, il progresso scientifico si ha perché la ricerca scientifica è una competizione serrata tra idee. Pensate alla battaglia tra copernicani e tolemaici, tra arbitralisti e meccanicisti in biologia. La scienza va avanti attraverso teorie e confutazioni, va avanti tra proposte di teorie e critiche a queste teorie. Non è razionale colui che difende la sua teoria ad ogni costo. (...). Quindi, è la competizione ad animare la scienza, la democrazia e il mercato e chi non vuole la
competizione ha scelto di bloccare il mutamento. Del resto la parola cumpetere vuol dire cercare insieme la soluzione migliore in modo agonistico».
In tal senso avanzo una prospettiva di lavoro: la natura pubblica del sistema erogato non presuppone la natura statale dei soggetti erogatori. È un punto acquisito anche dal dibattito sulla parità scolastica, che a maggior ragione ritengo di proporre per l'università. Dunque, per un sistema che sia veramente e virtuosamente competitivo, l'approdo da auspicare è la parità delle condizioni finanziarie delle strutture pubbliche e private che rispettino, però, alcuni severi requisiti, evitando di relegare l'iniziativa privata per lo più in spazi residuali, destinati magari alla creazione di aree di eccellenza, ma anche di privilegio sociale. Ovviamente non hanno spazio nella mia concezione esempi di «esamifici» che possano spuntare, e che in parte sono spuntati, verso i quali l'atteggiamento del Ministero sarà di assoluto rigore.
Per far questo, dobbiamo innanzitutto elevare i criteri di accreditamento delle strutture universitarie, sulla base di alcuni parametri oggettivi e certificabili, quali le esigenze del territorio, la capacità di autofinanziamento, l'adeguatezza dei corsi di laurea rispetto agli obiettivi formativi, la composizione del corpo docente, l'idoneità tecnica delle strutture.
E veniamo alla valutazione che va, a mio modo di vedere, coniugata con la trasparenza. Per poter premiare le università virtuose, secondo il principio del merito e della responsabilità, ed incoraggiare quelle meno virtuose all'adozione di politiche migliori, è necessario affrontare il problema della valutazione. Anzitutto, occorre dire che intendiamo valutare i risultati più che le procedure, come nello spirito della delivery unit concepita da Tony Blair. La normativa in tema di valutazione è, nel nostro Paese, ancora in uno stato di incertezza. Il precedente Governo ha istituito l'ANVUR - Agenzia Nazionale di Valutazione - che dovrebbe sostituire il CNSVU - Comitato Nazionale di Valutazione del sistema Universitario - e il CIVR. Ma l'ANVUR non può ancora diventare operativa, per via dei rilievi che le sono stati mossi dal Consiglio di Stato. Peraltro, la stessa Corte dei conti ne ha registrato con riserva il
regolamento.
L'ANVUR è stata concepita come una costosissima struttura ad alto tasso di burocrazia e rigidità, destinata a controllare anche le procedure e i meccanismi più piccoli, caricata di eccessivi compiti che non potrebbe svolgere se non in tempi molto lunghi e non è questo quello di cui abbiamo bisogno. Occorre, dunque, rivedere la disciplina dell'ANVUR, al fine di assicurare al mondo dell'università e della ricerca un sistema integrato di valutazione, che vincoli il finanziamento ai risultati, incentivando l'efficacia e l'efficienza dei programmi di innovazione e di ricerca, la qualità della didattica, lo svolgimento dei corsi anche in lingua inglese, la capacità di intercettare finanziamenti privati ed europei, il tasso di occupazione dei laureati coerente col titolo di studio conseguito.
In questo quadro di valutazione dobbiamo, però, preservare la specificità di un sistema variegato. Alcuni criteri saranno applicabili a tutte le facoltà e corsi di laurea, altri no. Esistono esperienze internazionali consolidate, paradigmi riconosciuti dalla comunità scientifica. Ci riferiremo ad essi, cercando la condivisione del mondo accademico. Tuttavia, nel frattempo non è possibile lasciare né le università né gli enti di ricerca, destinatari di finanziamenti pubblici, senza strumenti di valutazione, per cui è allo studio una proroga degli organismi vigenti.
Inoltre, per la valutazione dei risultati didattici e di ricerca pensiamo ad un doppio binario. Oltre alla doverosa valutazione da parte dell'Agenzia, occorre incoraggiare quella forma di valutazione plurale, spontanea, quotidiana, che viene operata dagli studenti e dalle famiglie ai fini della scelta dell'università da frequentare, così come viene operata dalle imprese e dalle fondazioni quando scelgono l'ateneo al quale indirizzare finanziamenti o richieste di collaborazione.
Questa forma di «valutazione dal basso» è essenziale. Affinché essa sia possibile, è necessario introdurre regole di trasparenza e di pubblicità. Le singole università dovranno fornire sui loro siti web, come avviene in gran parte del mondo anglosassone, i dati sugli sbocchi professionali dei loro studenti, sulla produzione scientifica annuale dei loro docenti e ricercatori e sulla customer satisfaction degli studenti, un monitoraggio che già diversi atenei, statali e privati, peraltro, provvedono a compiere. Sappiamo tutti che solo con la trasparenza e l'accessibilità alle informazioni può affermarsi un sistema pienamente meritocratico.
Passiamo al tema del reclutamento. Non voglio neppure sottrarmi ad una prima riflessione in merito anche perché nei prossimi cinque anni è previsto un ricambio del 47 per cento del corpo docente. Le regole che stabiliamo ora sono destinate ad influire sul sistema universitario per i prossimi venti anni e a determinarne, almeno in parte, le sorti. Due sono le anomalie italiane: da una lato, l'anzianità dei professori ordinari e associati; dall'altro lato, i ricercatori sono pochi e inadeguatamente retribuiti. Entrambi questi dati dovranno essere portati nei prossimi cinque anni almeno vicini alla media europea.
Certamente dobbiamo prendere coscienza che non è possibile lasciare un'intera generazione ai margini del sistema della ricerca e dell'università. Non possiamo permetterci di rappresentare un'anomalia per il mondo industrializzato, non possiamo permetterci un'università che favorisca le progressioni di carriera locali piuttosto che l'ingresso di forze nuove. Inoltre, non possiamo permetterci un sistema duplicemente impermeabile, rispetto ai giovani studiosi italiani e rispetto agli studiosi stranieri.
L'area dei ricercatori e dei dottori di ricerca, quella dove si dovrebbe formare il corpo accademico, è ristretta. A fronte di circa 38 mila professori, più o meno equamente ripartiti tra ordinari e associati, ci sono 23 mila ricercatori: il sistema è più simile a un cilindro che non ad una piramide. Quanto ai dottori di ricerca, da noi ce ne sono circa 16 per ogni 100 mila abitanti, contro i 50 della media europea. Sul fronte dei ricercatori nella finanziaria del 2007 è stato previsto un finanziamento di 40 milioni di euro per il 2008 e di 80 per il 2009 per coprire un congruo numero di posti. Il provvedimento, però, è subordinato all'emanazione di un regolamento, che tuttavia non ha visto ancora la luce, in quanto gli atti sinora presentati nella scorsa legislatura hanno ricevuto il parere negativo della Corte dei conti. Poiché i bandi debbono essere emanati entro il giugno 2008, stiamo intervenendo urgentemente
per scongiurare l'eventualità di bloccare l'accesso alla carriera accademica di tanti giovani e di lasciare i fondi congelati, così come intendiamo prolungare sino al 30 novembre i bandi per i concorsi da professore ordinario e associato. Mi auguro che questo possa essere un obiettivo condiviso, anche in questo campo, per dare in futuro certezze che sono venute a mancare. Credo che si tratti di una priorità.
Poiché la retribuzione dei ricercatori è troppo bassa rispetto alla media europea, ciò rende il ruolo meno appetibile da parte dei giovani di talento. Occorre investire risorse perché i ricercatori universitari siano in numero maggiore e meglio pagati. Da pochi giorni abbiamo reso operativo l'emendamento presentato dal senatore Valditara che prevede l'aumento di 240 euro mensili per le borse di dottorato. L'intervento di adeguamento si affiancherà ad una riforma del dottorato stesso, che vogliamo improntata ad una drastica riduzione del numero dei corsi, ad un carattere più intensivo della ricerca e ad una più radicale internazionalizzazione. E proprio come fanno i grandi sistemi internazionali, favoriremo in tutti i modi i passaggi dal mondo dell'impresa all'università e viceversa, per evitare che ci siano ancora sacche di dottori di ricerca anziani e ricercatori che il sistema non è in grado di
assorbire.
Quanto alle nuove regole di reclutamento per professori e ricercatori, pensiamo
a procedure snelle e credibili, che assicurino meritocrazia e autonomia dei singoli atenei. Ne discuterò a breve con il CUN e con gli organismi interessati e mi limito, quindi, qui ad indicare alcune linee di indirizzo, che andranno poi valutate e verificate. Occorre, innanzitutto, una verifica nazionale di idoneità, riconosciuta da parte della comunità scientifica nel suo complesso. All'interno di una lista di idonei, le università sceglieranno autonomamente colui che ritengono lo studioso più capace nella produzione scientifica, più adatto a richiamare finanziamenti dalle imprese e/o iscrizioni da parte degli studenti. Nella lista degli idonei dovranno essere compresi, tramite regole di valutazione e riconoscimento dei titoli internazionali, anche gli studenti che lavorano all'estero, italiani o stranieri che siano. Ciò determinerà una crescente internazionalizzazione dell'università italiana, che
sarà più permeabile alle energie di quanti, italiani e non, lavorano all'estero, anche sbarazzandosi di tetti che in ragione della scelta decisa verso l'autonomia non hanno ragione d'essere.
Il sistema meritocratico e di trasparenza con il quale saranno erogati i fondi pubblici, basato sui risultati di ricerca e di didattica, indurrà necessariamente i singoli atenei ad operare scelte responsabili e scoraggerà il più possibile azioni clientelari. Questo sistema di reclutamento in due fasi (attribuzione dell'idoneità su base nazionale e scelta del docente da parte del singolo ateneo) si richiama all'impostazione della riforma Moratti, che non ha purtroppo avuto attuazione nella precedente legislatura e che ritengo, invece, opportuno applicare. Proprio in base al principio dell'autonomia responsabile, è mia intenzione lasciare le università libere di chiamare, nei propri ranghi, anche docenti che non provengano strettamente dal mondo accademico e le cui caratteristiche rappresentino un valore aggiunto per gli atenei e per i corsi di laurea. Si tratta di un tema delicato e mi rendo conto che è esposto a dei rischi;
per questo i meccanismi di selezione saranno comunque rigorosi e magari verrà individuata una proporzione.
Il merito e la responsabilità non soltanto informeranno il meccanismo di reclutamento, ma concorreranno anche a determinare almeno una parte della retribuzione del professore e del ricercatore. Il contratto nazionale fisserà solo la retribuzione di base, il resto sarà il frutto di una trattativa tra atenei, docenti e ricercatori, fondata su criteri meritocratici.
Passando alla governance, la parola chiave per il riassetto del sistema universitario italiano è proprio governance. Come tanti termini inglesi di uso comune, anche questo ha un cuore antico, collocato nella civiltà mediterranea. L'etimologia latina di governance, (guberno, o gubernatio) richiama l'idea della guida, del governo della nave in mare, della responsabilità di usare il timone secondo le aspettative di chi è a bordo. Il termine rimanda, per certi versi, anche all'idea della capacità di rispondere delle proprie scelte, della verifica e del controllo. Questo principio deve ispirare tutto il mondo accademico, in tutti i suoi aspetti, da quelli scientifici a quelli didattici, da quelli organizzativi a quelli finanziari. La sfida della governance è la sfida dell'autonomia di governo responsabile degli istituti universitari. So che i rettori delle università tengono
particolarmente a questo tema. E libere associazioni di università, quale ad esempio Aquis, hanno sviluppato proposte e ragionamenti che mi paiono interessanti e che è mia intenzione approfondire e sviluppare.
Una governance responsabile si basa su grande libertà di organizzazione; sul passo indietro di una burocrazia statale che determini regole troppo rigide, come spesso è avvenuto, anche recentemente; sull'accentuata individualizzazione dei rapporti contrattuali che consente di valorizzare il merito di chi fa ricerca e didattica e che rende gli atenei direttamente responsabili delle loro scelte. Una governance moderna richiede l'introduzione di nuove figure, in grado di garantire
il successo organizzativo degli atenei e indirizzate a reperire i finanziamenti esterni.
Ritengo che gli atenei debbano essere lasciati liberi di avvalersene, rimuovendo ogni eventuale ostacolo legislativo alla loro libera auto-organizzazione e limitando il ruolo dello Stato alla fissazione di alcuni paletti che rispettino la natura di societas dell'università e garantiscano, però, a tutta la collettività, un controllo rigoroso e trasparente.
E veniamo al welfare studentesco. Mi piacerebbe che le università fossero sempre più comunità vive e stanziali di studio e ricerca, dove studenti, docenti e ricercatori si arricchiscano reciprocamente. Occorre incoraggiare la crescita di queste comunità con la creazione di nuovi alloggi per studenti fuori sede, disincentivando lo scandaloso e crescente sfruttamento degli studenti spesso costretti ad affitti elevatissimi e fuori mercato. Penso ai campus, modellati sulla recente esperienza del collegio di Milano, di Catania, di Torino, di Pavia, iniziative sorte grazie alla partnership con le regioni in primis, ma anche con gli enti locali. Penso anche, più modestamente, a delle residenze universitarie. In modo particolare su questa materia desidero confrontarmi con il consiglio nazionale degli studenti universitari, valutando le loro proposte e i loro suggerimenti.
La mia stella polare per la creazione di un nuovo welfare studentesco è negli articoli 3 e 34 della Costituzione, laddove si fa riferimento al «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» e (con riferimento all'articolo 34) al premio ai «più capaci e meritevoli». In cinquanta anni, questi obiettivi non sono stati raggiunti, se non parzialmente. Alcune regioni italiane hanno saputo compiere grandi sforzi e conseguire discreti risultati. Occorre fare tesoro delle loro esperienze e continuare su questa strada. Anche in tal caso ritengo urgente attivare un coordinamento con le regioni e gli enti locali che porti ad una maggiore considerazione dello studente, che non è un problema ma una risorsa, soprattutto per le città universitarie. Al fine di aiutare gli
studenti, dobbiamo incentivare la pratica dei prestiti d'onore, rendendo l'erogazione più facile e di maggiore entità.
E veniamo all'eccellenza. In Italia vantiamo numerosi centri di eccellenza: la Normale e la Sant'Anna di Pisa, la Scuola internazionale, la SISA, l'Istituto di scienze umane di Firenze, l'Istituto universitario di studi superiori di Pavia, la Scuola di alti studi, l'IMT di Lucca. Tali istituti stanno operando bene, mostrando i risultati che possono essere raggiunti quando le parole autonomia e responsabilità sono perfettamente coniugate. Lo strumento delle cosiddette «scuole a statuto speciale» rappresenta una leva per l'eccellenza. L'Italia ha un disperato bisogno di eccellenza e di ritornare ad essere capitale di cultura e innovazione.
Queste realtà erano state «messe a sistema» da Letizia Moratti, chiamate intorno a un tavolo che purtroppo, da due anni, non è stato più convocato. Ritengo invece quel tavolo strategico per il Ministero e per tutto il mondo universitario ed è mia intenzione riattivarlo immediatamente. Dobbiamo proiettare, soprattutto, queste realtà ai vertici delle classifiche internazionali, dobbiamo, sul loro modello, stimolare la nascita di altri poli di eccellenza nelle varie parti del Paese e in modo particolare nel Mezzogiorno, realtà che sappiano coinvolgere consorzi universitari, fondazioni, centri di ricerca, nonché attrarre fondi privati. Dobbiamo fare di queste realtà il vivaio da cui poter attingere la classe dirigente del Paese. Le Grande école francesi, le università di Oxford e Cambridge, gli atenei della Ivy League sono esempi cui guardare e a cui trovare dei corrispettivi.
La pubblica amministrazione, innanzitutto, ha bisogno dei giovani formati in queste scuole. Abbiamo avuto, nel recente passato, un esempio positivo che ha saputo coniugare merito e impegno al servizio del Paese. Mi riferisco al famoso primo corso-concorso per dirigenti pubblici, promosso
da Sabino Cassese ormai più di dieci anni fa, che attraverso una selezione durissima ha regalato alla pubblica amministrazione alcuni dei suoi migliori dirigenti.
Passo ora al tema della ricerca. Sul capitolo dedicato alla ricerca intendo proporre alla Commissione alcuni punti fondamentali: innanzitutto i compiti di coordinamento del MIUR, il piano nazionale della ricerca, la rivisitazione degli enti di ricerca, il ruolo di ricercatori e tecnologi e il trasferimento tecnologico. Intendo innanzitutto rivendicare e attuare un forte ruolo di regìa e di coordinamento del MIUR su tutte le attività di ricerca che si svolgono o si progettano nel sistema Paese e sulle sue connessioni con la ricerca internazionale, in primo luogo europea. Per rendere competitiva la ricerca bisogna innanzitutto mapparla, razionalizzarla e darle coerenza. Servono quindi una riorganizzazione della ricerca, una razionalizzazione delle sue risorse, l'istituzione di nuovi criteri di valutazione, il coordinamento e la finalizzazione verso obiettivi strategici.
Per fare questo, occorre rileggere coraggiosamente la frammentazione della ricerca italiana, della sua gestione, del suo controllo e del suo finanziamento, frammentazione che esiste sia in senso orizzontale, presso diversi dicasteri e settori (università, enti di ricerca speciali pubblici e privati, dicasteri come quelli della salute, dell'ambiente, dell'agricoltura, delle attività produttive, dei beni culturali) e poi in senso verticale tra Europa, Stato, regioni e altre istituzioni locali.
Mi limito ad un solo esempio, che riguarda le ricerche marine. Oggi presso il MIUR oltre alla ricerca universitaria sono presenti a svolgere attività di ricerca anche marina il CNR, l'INGV, l'OGS, la Stazione zoologica, e presso altri ministeri l'ENEA, l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, l'APAT e una serie di consorzi di ricerca per la pesca. Insomma, si tratta di una sfilza di istituzioni regionali per lo più collegate alle ARPA, nonché, da ultimo, alcune società scientifiche che hanno ottenuto finanziamenti per svolgere ricerca in prima persona, «appoggiandosi» sulle università o sulle cooperative.
Tutti questi attori si muovono indipendentemente e senza alcun coordinamento sia a livello nazionale che internazionale. Non si tratta certo di togliere o avocare competenze di merito, di portafoglio e di settore, o legami col territorio, o di interferire rispetto ad interventi speciali dettati da particolari condizioni. Si tratta però di porre e di pretendere la fine di duplicazioni, ridondanze, incoerenze di indirizzo e di obiettivo. Occorre valutare realisticamente gli effetti negativi di queste dinamiche in termini di pura e semplice competitività del sistema, in ultima analisi di sostenibilità economica. Fino ad oggi è venuto a mancare, volutamente o meno, questo ruolo trasversale di coordinamento attivo da parte del MIUR, che è, assieme alla promozione della ricerca, la sostanza stessa della sua ragion d'essere. Lo stesso lavoro di sistematizzazione va compiuto, innanzitutto, tra gli enti di ricerca italiani. Per questo ho apprezzato
l'idea di un'indagine conoscitiva avanzata dall'onorevole Antonio Palmieri, che servirà a me, ma credo al Parlamento tutto, a fare chiarezza e ad individuare i rami secchi.
È mia intenzione procedere, peraltro, alla completa spoliticizzazione degli enti di ricerca. I loro futuri vertici saranno nominati in una rosa proposta da appositi search committee di livello internazionale e rigidamente vincolati, nel loro mandato, al raggiungimento degli obiettivi. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla competenza e sull'autorevolezza che dobbiamo chiedere, e dare, ai nostri ricercatori e ai nostri tecnologi. La Commissione europea ha approvato nel marzo 2005 una raccomandazione riguardante la Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l'assunzione dei ricercatori, contenenti princìpi generali e prescrizioni in materia di reclutamento, di progressione di carriera, di diritti e doveri, di mobilità, che gli Stati membri sono invitati a recepire, al fine di «offrire ai ricercatori dei sistemi di sviluppo di carriera sostenibili in tutte le fasi della loro carriera» e perché «i
ricercatori
vengano trattati come professionisti e considerati parte integrante delle istituzioni in cui lavorano».
In Italia - come sapete - siamo lontanissimi dal recepimento della raccomandazione comunitaria. La situazione è disastrosa, tanto dal punto di vista dello status giuridico, quanto da quello del reclutamento e della retribuzione. Proseguirò il programma di rientro dall'estero dei «cervelli», ma soprattutto mi sembra essenziale impedire che fuggano e, anzi, strappare possibilmente all'estero i «cervelli» migliori, offrendo loro prospettive. La concorrenza tra sistemi Paese e l'internazionalizzazione diventano parole vuote, se non si dà ai nostri ricercatori e tecnologi la dignità necessaria a sedersi nei club internazionali. E non gliela possiamo dare, se il loro status giuridico ed anche economico e i loro meccanismi di reclutamento e valutazione non consentono loro di guardare negli occhi i colleghi. Uno dei miei obiettivi è, pertanto, il recepimento della raccomandazione europea.
Ho già sviluppato, all'inizio del mio intervento, il tema delle risorse, che entra a pieno titolo in una rigorosa riorganizzazione della macchina pubblica. Vorrei toccare altri due punti, che riguardano il piano nazionale della ricerca e il trasferimento tecnologico. Sul primo avremo tempo e modo di confrontarci in maniera proficua e serrata. Da un primo giro di tavolo con gli stakeholder, emerge chiara l'esigenza di puntare su alcuni settori di eccellenza e su alcune specificità italiane. Soprattutto, è chiara la necessità di puntare a progetti di ricerca di medio-lungo periodo, che possono essere affrontati solo dal sistema pubblico, ma che nel loro percorso hanno ricadute immediate sulla conoscenza.
Le risorse che i vincoli di bilancio concedono devono spingere alla loro migliore allocazione possibile e certamente con attenzione prioritaria a quelle tecnologie definite abilitanti: tra queste, ovviamente, le biotecnologie, le nanotecnologie, gli ICT (Information comunication technology).
Due settori mi sono particolarmente cari e su questo vorrei chiedere poi il contributo della Commissione perché credo che dobbiamo connotare politicamente il tema della ricerca: penso all'agroalimentare, che rappresenta una delle punte di lancia del made in Italy, sul quale, peraltro, è in atto anche un progetto da parte di diverse fondazione bancarie, quindi con la possibilità di recuperare anche qualche fondo, e sul quale poi si offre l'opportunità dell'Expo 2015; penso infine che non si possa nemmeno trascurare la ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili.
Per quanto riguarda le linee di indirizzo, il Ministero intende promuovere un ruolo attivo della ricerca italiana nell'ambito dell'European technology platform, costituitasi su incoraggiamento della Commissione europea, al fine di individuare gli obiettivi strategici di medio e lungo termine per la ricerca europea e per attuare gli obiettivi della rinnovata strategia di sviluppo.
Le ETP sono guidate dai rappresentanti del mondo industriale e produttivo delle filiere di interesse e coinvolgono tutti gli stakeholder di ciascuna filiera, sia pubblici che privati. In alcuni settori e per alcune delle piattaforme europee si è realizzato un corrispettivo italiano. L'obiettivo è quello di identificare priorità di ricerca e di sviluppo tecnologico mirate all'innovazione del settore a livello nazionale.
A partire dal 2006 sono stati costituiti, nel nostro Paese, piattaforme tecnologiche italiane o gruppi di supporto a sostegno della Knowledge-based bio-economy. In questa fase è molto importante promuovere le PTI, illustrarne gli scopi e le finalità per creare coordinamento e sinergie anche a livello sovraregionale.
Ho spesso citato nel mio intervento il rapporto tra pubblico e privato. La loro alleanza è possibile ed auspicabile nonché l'unico modo - aggiungo - per avere più risorse. Voglio però essere chiara. Non si tratta, come qualcuno può pensare, di «piegare la ricerca al mercato». Si tratta di comprendere, innanzitutto a livello filosofico e concettuale, che la ricerca, pubblica
e privata, ha un ruolo sociale, risolve i problemi del cittadino e ne migliora la vita. Occorre, però, ricordare che tutti i processi di valorizzazione dei risultati della ricerca, mediante meccanismi che definiamo di technology transfer, possono generare valore aggiunto per chi li ha prodotti, creando quindi un volano economico per finanziare la ricerca stessa, come avviene nei migliori centri anglosassoni ed essere inoltre un motore di innovazione per chi li sfrutta, che per essere competitivo necessita di poter attingere ai risultati della ricerca no-profit.
Affinché il processo possa avvenire in modo efficace sono necessarie normative chiare per la definizione dei diritti di proprietà industriale, con meccanismi di incentivazione per i ricercatori che producano invenzioni, cultura e formazione appropriata; se il ricercatore non ha questa cultura, non potrà nemmeno valorizzare i risultati della sua ricerca. In questo senso è tipico il frequente caso del ricercatore che pubblica prima di brevettare. Occorrono allora strutture qualificate ed adeguate, i cosiddetti TTO (Technology transfer office), presso i principali centri di ricerca, che possano gestire in modo professionale tutte le fasi del technology transfer, dalla brevettazione alla contrattualistica, dal marketing al business development, alla definizione di un eventuale progetto industriale, e così via; occorre, insomma, favorire la creazione dei cosidetti «incubatori», cioè
strutture fisicamente inserite all'interno di alcuni centri di ricerca, dove le nuove iniziative possano nascere ed essere accompagnate in un processo di sviluppo e consolidamento e dove realtà industriali già avviate e consolidate possano trovare una sede adeguata che favorisca l'interazione con masse critiche di ricerca in grado di dare maggiore competitività e favorire il technology transfer.
In Italia si fa ricerca, ci sono risorse private, finanziarie e industriali che potrebbero e vorrebbero investire nelle biotecnologie, nella biomedicina, nella nanotecnologia. Tuttavia, non c'è una cultura e una struttura per il trasferimento tecnologico, non c'è un'estesa capacità di dialogo tra i due settori. Un ruolo importante nel dialogo tra ricerca, industria e mercato lo possono giocare due elementi già presenti nello scenario: i progetti congiunti tra enti di ricerca e industrie, i parchi e i distretti tecnologici.
I distretti e i parchi tecnologici costituiscono in teoria luoghi privilegiati per alimentare la filiera dell'economia della conoscenza, perché mettono a contatto tutti gli attori e i momenti del meccanismo di generazione di valore economico a partire dalla ricerca, sia di base che applicata, fino all'industria e al territorio; tutti questi fattori vengono fatti sedere attorno ad un medesimo tavolo. Prevedono in genere infrastrutture tecnologiche centralizzate e disponibili e servizi per assistere le varie fasi: servizi per fund rising, competenze per il business planning, marketing, consulenza legale, brevettuale, aziendale. Sono quindi il laboratorio ideale per coltivare e realizzare l'applicazione della ricerca e la sua valorizzazione economica. Nella formazione post laurea, di terzo e quarto livello, si dovrebbero individuare con chiarezza percorsi per creare manager specializzati in questa direzione.
E mi avvio a concludere. Signor presidente, onorevoli deputati, so di non essere stata breve e, nonostante ciò, di non aver toccato tutti gli argomenti che mi premevano. Mi importa, al di là di un carniere di argomenti, aver fornito un metodo di lavoro, alcuni princìpi e alcune priorità di azione del Governo. Il filo rosso che ho cercato di utilizzare per tenere insieme i miei ragionamenti, oltre ai concetti chiave di autonomia, valutazione, merito, semplificazione legislativa e centralità dei giovani, si chiama futuro del Paese. Ciascuno di noi è chiamato, nell'ambito del proprio ruolo istituzionale, quale che sia l'orientamento politico di riferimento, a scrivere la propria parte e possibilmente a scriverla insieme. Sono certa che questa Commissione contribuirà autorevolmente alla realizzazione di questo fine comune attraverso un confronto continuo e costruttivo.
PRESIDENTE. Grazie, Ministro Gelmini. (Commenti dell'onorevole Barbieri). Proseguiremo fino alle 14.
Do la parola agli onorevoli deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.
FABIO GARAGNANI. Chiedo scusa al ministro, se dovrò assentarmi per svolgere una relazione in un'altra Commissione, tornando comunque nel prosieguo.
Apprezzo la relazione del Ministro, che si è fatta carico di descrivere la situazione dell'università italiana e soprattutto di individuare alcuni possibili rimedi. Questo mi pare importante, con l'auspicio che questi rimedi siano effettivamente trovati anche alla luce dell'esperienza registrata dal 2001 da chi è impegnato in questo settore. Il Ministro ha infatti ricordato come alcune azioni attivate dall'allora Ministro Moratti siano state parzialmente disattese o non sufficientemente seguite, anche perché alla volontà politica spesso non è seguita un'adeguata conseguente attività, per effetto sia delle opposizioni trasversali - e sottolineo trasversali - presenti in Commissione da parte degli organi universitari, sia dell'insofferenza degli organi burocratici.
Poiché concordo con il Ministro, accentuerò alcune riflessioni preoccupate sulla situazione dell'università. In riferimento a quanto evidenziato dalla presidente Aprea sul ruolo della Commissione, desidero ricordare come la Commissione cultura nella legislatura precedente abbia approvato all'unanimità una proposta di indagine sul sistema universitario, che sarebbe opportuno riprendere, in considerazione del fatto che esso, al di là di significative punte di eccellenza, appaia gravemente malato.
Nell'ambito della suddetta indagine si individuavano tre atenei (Bari, Messina e Bologna), in cui si sono registrati casi di malaffare, con ripercussioni molto negative sul sistema universitario e su alcune facoltà, in particolare medicina e chirurgia. Propongo quindi che questa Commissione riprenda l'idea di quell'indagine conoscitiva, bloccata dalla conclusione anticipata della legislatura.
La seconda considerazione riguarda l'autonomia universitaria. Concordo con lei, signor Ministro, per quanto concerne la governance e il ruolo dello Stato. Tuttavia, credo che, a circa sessanta anni dall'approvazione della Costituzione, si ponga il problema di una qualche forma di controllo sull'autonomia universitaria. L'università non può essere legibus soluta e non può intervenire in proposito solo la magistratura.
Noi e numerosi docenti universitari siamo posti di fronte all'impossibilità di agire in termini diversi da quelli di un ricorso interno, stante l'impossibilità del Ministero - peraltro tutta da dimostrare - di inviare ispettori e di avviare una verifica. L'autonomia universitaria non può prescindere da un controllo di merito del Governo, altrimenti si generalizza l'anarchia e spesso la violazione di leggi, aspetto inammissibile. Il problema dei controlli, abbinato alla governance, non può essere affidato alla sola autonomia universitaria, che si è rivelata incapace di affrontarlo.
Questo problema riguarda anche - so di toccare un tema delicato - il Consiglio superiore della magistratura nei confronti dei magistrati, che non sempre riesce ad assumere una responsabilità decisionale nei confronti dei fatti. Questo aspetto è importante, perché di fronte a questi episodi di malaffare le università sono state incapaci di reagire e di dar vita ad una serie di necessari comportamenti sanzionatori, lasciando l'intervento alla sola magistratura.
Soprattutto nelle facoltà umanistiche, esistono migliaia di insegnamenti, che incidono sullo sviluppo dell'università e che debbono essere affrontati in termini perentori, rispettando i diritti acquisiti, ma ponendo gli atenei, incapaci di affrontare tali questioni da soli, di fronte alla responsabilità di valutare se sia giusto mantenere insegnamenti per due o tre studenti, di fronte alla carenza d'insegnamenti soprattutto nelle discipline scientifiche. Mi chiedo infatti quanti insegnanti
abbiano i DAMS, i corsi di laurea in filosofia o scienze politiche e quanti le facoltà scientifiche. Si rileva dunque un problema di non facile riconversione, perché è evidente che un docente di disciplina dello spettacolo non può passare a ingegneria o economia. Tuttavia, esiste anche la necessità di un contenimento dei costi, di allocazione delle risorse e soprattutto di intervento del Governo per una necessaria razionalizzazione di presenze nelle facoltà umanistiche, per evitare che il problema dell'università italiana esploda.
In questo senso, credo che il problema delle facoltà umanistiche si giustifichi anche nella facoltà di cooptazione del docente. Sono convinto che il concorso a livello nazionale sia utile e opportuno, perché serve a garantire una delle proposte dei Ministri Mussi e Moratti, che ho condiviso, rispetto ai concorsi limitati alle singole università; tuttavia, è necessario valutare le modalità di questo concorso. Ritengo infatti che i docenti dovrebbero essere annualmente estratti a sorte, per evitare che siano sempre gli stessi, costituendo una corporazione che protegge e tutela se stessa. Tali modalità devono essere definite e, come credo anche il Ministro ritenga, dovrebbe essere prevista la verifica precisa e puntuale, sulla base di pubblicazioni, dell'operato dei vari docenti, come oggi non avviene, attraverso un ente esterno sovrauniversitario, che valuti le pubblicazioni e i meriti scientifici dei vari docenti, per evitare
che rimangano in cattedra sessant' anni professori con scarsa preparazione scientifica.
Considero quindi opportuno introdurre figure di docenti a contratto privato, estendendole molto più di quanto previsto finora, ovviamente non integrate nel corpo accademico. Si garantirebbe la quanto mai opportuna competizione all'interno dell'università e l'assunzione di responsabilità, soprattutto in facoltà scientifiche che hanno bisogno di esperienze dal mondo del lavoro. Un bravo manager deve avere la possibilità di insegnare nelle discipline scientifiche, garantendo un ritorno. Oggi non può farlo, se non in limiti estremamente ristretti.
Per quanto riguarda il problema delle facoltà di medicina e chirurgia, occorre una particolare vigilanza del Ministero per quanto riguarda il ruolo delle regioni. Ad esempio nella mia regione, l'Emilia-Romagna, si rilevano palesi e costanti interferenze della giunta regionale nel ruolo delle università, di cui comprimono l'autonomia soprattutto per quanto riguarda le facoltà di medicina e chirurgia, nonché per il problema dei concorsi, la gestione in campo sanitario e universitario e la verifica dei titoli e delle pubblicazioni. Non si può accettare - scusi, signor Ministro, ma, essendo stato eletto in una regione devo rappresentare i suoi interessi - che chi vi sta parlando debba rivolgersi a un rettore chiedendo il rispetto della legge, perché in un concorso di chirurgia toracica un candidato ha il doppio delle pubblicazioni rispetto ad un altro, che però sarà probabilmente nominato al suo posto. Probabilmente mi
rivolgerò alla magistratura, come ho già fatto. Mi riservo di citare nome e cognome in separata sede. Tutto questo testimonia un sistema diffuso; infatti, ci siamo occupati di quanto è accaduto al Policlinico di Bari e a Messina, ma il fenomeno appare molto più vasto. Il problema di rapporto tra istruzione universitaria, tutela del malato, rapporto con il welfare nel territorio non può lasciare indifferenti. Le facoltà di medicina e chirurgia rappresentano un problema da affrontare a parte per la sua delicatezza e per i problemi sottesi alla tutela della salute del paziente.
L'ultima considerazione - i temi sono tanti e non voglio monopolizzare l'attenzione - riguarda la competizione giusta. Condivido la considerazione del Ministro su un organo di valutazione, perché ad esempio spesso gli studenti di una facoltà giuridica si trasferiscono da un'università ad un'altra dove è più facile conseguire la laurea, con diversità molto evidenti. Per quanto riguarda la mia realtà, da Bologna basta andare a Urbino per laurearsi in breve tempo. L'università di Padova invece è molto rigida. Ne consegue il trasferimento
in massa di studenti verso sedi più facili per quanto riguarda ad esempio la facoltà di giurisprudenza.
Il problema di giustizia verso gli studenti iscritti a una facoltà che si laureano con difficoltà o sono fuori corso, rispetto a studenti che si laureano con estrema facilità, con un piano di studi abborracciato, richiede una valutazione seria, che restituisca dignità alle università e agli studenti e che li ponga su un piano di effettiva parità. Gli studenti, infatti, sono trattati in modo diverso dalle varie facoltà e valutati secondo parametri diversi, perché la piccola università può mantenere le sue strutture se ha un alto afflusso di studenti, che l'affollano non tanto per la preparazione ricevuta, quanto per l'estrema facilità di ottenere la laurea. È necessario affrontare questo problema soprattutto per le piccole e medie facoltà, mentre per le grandi esiste una grande confusione. È un problema di uguaglianza.
In merito all'allocazione delle risorse avrei molto da dire, ma mi riservo di farlo in altra occasione. Considero esaustiva la relazione del Ministro per quanto riguarda i crediti d'imposta, che devono essere accentuati, o il problema delle fondazioni che devono prevedere un controllo rigoroso.
Ritengo che il Ministro, cui auguro buon lavoro, non debba astenersi da un'azione che è mancata ai suoi predecessori, ossia quella di esercitare il potere ministeriale, un potere di ispezione, contrastato ma previsto da una legge del 1935, che compete al Ministro della scuola e dell'università. È doveroso esercitare tale potere, pur senza ledere l'autonomia universitaria.
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Mi scuso se parlerò più da professore universitario, ruolo che ho ricoperto fino a qualche mese fa, che da parlamentare, ma l'occasione è troppo ghiotta. Mi scuso, altresì, se userò toni da Beppe Grillo, che potrebbero danneggiare sia me stesso che gli altri. Spero davvero che quello che lei ha detto adesso corrisponda a quello che avverrà, perché lo abbiamo già sentito affermare da due Ministri, Moratti e Mussi. Tuttavia, il risultato è il blocco del reclutamento universitario da quattro anni. Il combinato disposto di due grandi riformatori è stato che non si fanno concorsi universitari.
A tale proposito, vorrei chiederle: come mai solo l'8 per cento di associati e l'1 per cento di ordinari hanno meno di 40 anni? Questo è studiato in una serie di articoli di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, apparsi su Le scienze nel 2006 e sul sito Lavoce del professor Giavazzi, ed è definito «lo tsunami dell'università». Se si considera la distribuzione dell'età, il fatto che siamo anziani non è legato per fortuna alla mia generazione, ma a un grande «bozzo» verificatosi subito prima, corrispondente ad una grande sanatoria, seguita ad un periodo proprio simile a quello attuale, di sette o otto anni senza concorsi. I beneficiari di tale sanatoria andranno in pensione nei prossimi quattro-cinque anni, ed è per questo che lei correttamente preannuncia che il 47 per cento dei professori andrà in pensione.
C'è quindi una grande opportunità, a meno di non fare per la terza volta una dichiarazione di principio cui segue un disegno di legge molto bello, ma altrettanto difficile da attuare, nonché lontano da quanto proporrebbe qualunque persona sensata. Mi riferisco ad entrambi i tipi di reclutamento proposti dai due Ministri precedenti, che sono stati bocciati dalla Corte dei conti o tirati per le lunghe dal Parlamento, in modo tale da non essere approvati. Il risultato è comunque che nessuno viene assunto. Apprezzo molto la sua buona volontà e, pur essendo all'opposizione, le auguro di avere successo, perché prevale in me la corporazione rispetto alla fazione.
Vorrei ora esprimere alcune altre considerazioni.
Volevo porle una domanda, signor Ministro, ma lei mi ha risposto in anticipo per quanto riguarda lo slittamento del termine dei concorsi del 30 giugno a novembre.
I «bozzi» si creano se non si realizza ogni anno in modo regolare una pur
piccola immissione in ruolo dei migliori. Con le sanatorie entrano anche quelli che non valgono niente, perché, quando le situazioni diventano insostenibili, non si riesce più a gestirle e anche le corporazioni si comportano male.
Rivolgo dunque un'implorazione al Governo e le chiedo, Ministro, di farsene portavoce affinché gli enti di ricerca e le università siano esentati dal blocco del turnover, altrimenti si lavora nella direzione opposta a quella anche da lei auspicata: si impedisce il reclutamento. In particolare, un provvedimento di immissione nei ruoli a tempo indeterminato di quelli che erano a tempo determinato ha già cominciato a funzionare ed è in corso negli enti di ricerca, ma un blocco del turnover con un solo assunto ogni otto che escono significherebbe privilegiare quelli finora assunti nei ruoli a tempo indeterminato ed escludere quelli che andavano a maturazione dalla metà del 2008 al 2009. Questo contribuirebbe ad accrescere il grande gruppo di mugugnanti che si definiscono precari, i quali, se si bloccano di nuovo le assunzioni, tra qualche anno costituiranno presto il secondo «bozzo». Si avrà così di
nuovo un'università di qualità non eccelsa, perché quando si aspetta troppo non è possibile valutare contemporaneamente migliaia di persone e le sanatorie diventano inevitabili.
Questa pertanto è una richiesta specifica che le rivolgo, così come sollecito l'utilizzo di altri piccoli strumenti. I PRIN, i fondi di ricerca sono bloccati, sebbene su questi vivano molti giovani che cominciano a fare ricerca, questa volta a tempo determinato, aspetto su cui non dissento, perché considero utile un «precariato» che duri per un numero ragionevole di anni e ritengo che giovi a valutare chi lavora; tuttavia, è controproducente se rappresenta il modo per tenere occupate delle menti fino a quaranta anni senza dare loro alcuna prospettiva.
In queste circostanze, la totalità dei miei laureati, data la mia non grandissima capacità di pressione accademica nel mio ateneo, si trovano all'estero. Sono bravi, vincono posti, stanno in Europa, ma con il passare degli anni è improbabile che torneranno indietro.
Se vogliamo risolvere il problema, occorre anche, mentre ipotizziamo grandi riforme, non bloccare per troppi anni qualsiasi meccanismo di valutazione, giacché qualunque anche imperfetta valutazione è meglio di nessuna valutazione; nessuna valutazione sfocia in sanatoria, che significa penalizzare alcuni per l'anno di nascita. Se infatti si considera la curva dello tsunami, i nati tra il 1954 e il 1955 rappresentano il minimo: molti della mia generazione sono rimasti all'estero. Se non vogliamo commettere la stessa ingiustizia verso altre generazioni, consentendo solo ad alcuni molto motivati di tornare a casa, è necessario evitare ulteriori interruzioni delle immissioni in ruolo.
Mi consenta di aggiungere una considerazione su un argomento sul quale - mi dispiace il qualunquismo e il «beppegrillismo» - mi pare che entrambi i Ministeri precedenti non abbiano eccelso. Tutti e due hanno dichiarato di voler valutare il merito e tuttavia, durante la riforma degli enti di ricerca iniziata dalla signora Moratti, un istituto di ricerca (l'INFM fondato dall'onorevole Berlusconi nel 1994 e del quale facevo parte) è stato riaccorpato al CNR, decretando sostanzialmente la morte di tutte le sue specificità, tra cui c'erano i tenure track, contratti temporanei, trasformabili in contratti definitivi solo attraverso una valutazione e non in modo automatico. Questo istituto è morto, è stato accorpato con l'idea che bisogna razionalizzare, fare censimenti per ottenere strutture omogenee. Il risultato è che un piccolo istituto, che funzionava e che il lodato CIVR aveva indicato come il più scientificamente
produttivo, non esiste più.
Anche in questo campo, quindi, plaudiamo al CIVR e al CNVSU e all'ottima l'idea di rimetterli in vita finché qualche altra cosa non funzioni, giacché è stata pessima la scelta di metterli in naftalina prima che la nuova agenzia funzionasse. Occorrerebbe però anche fare ciò che essi suggeriscono, perché se questi enti di valutazione dicono alcune cose ma i governi
si muovono in direzione opposta, è inutile chiedere loro quali siano gli istituti e i ricercatori migliori. In questo senso, mi rallegro che lei abbia confermato quanto previsto dalla legge delega di Mussi, una dei pochi provvedimenti che ho apprezzato, ovvero l'utilizzo di search committee, con il quale il Ministro Mussi per la prima volta si è spogliato di una parte della discrezionalità, affidando a un search committee di scienziati la definizione della rosa dei candidati fra i quali il Ministro sceglie poi i capi degli enti di ricerca. Quello è un ottimo metodo, che risulterà gradito a molti di noi della comunità scientifica.
A breve scadrà il consiglio di amministrazione del CNR, la cui composizione è complicata, con nomine spettanti a diversi ministeri. Vedremo dunque chi ne farà parte. Lo avrei detto anche all'altro Ministro, le assicuro, con lo stesso spirito polemico, ma vista la sua presenza, lo dico a lei: vedremo presto se davvero i nuovi volti sapranno rappresentare agli occhi della comunità scientifica un nuovo stile di meritocrazia.
EUGENIO MAZZARELLA. Ringrazio il Ministro per una relazione che tocca tutto il quadro dei problemi. Su molti aspetti si può convenire perché sono nell'interesse non della corporazione cui appartengo, ma del Paese.
Ringrazio il Ministro anche e soprattutto per la citazione del collega stimatissimo, Antiseri, secondo cui non è razionale colui che difende la sua teoria ad ogni costo, perché, se si viene a un confronto del genere, si è disponibili in linea di principio a non ritenere incontrovertibili le proprie ipotesi di soluzione e a trovarne in Commissione altre più confacenti alle finalità.
Desidero esprimere qualche osservazione, senza dilungarmi e togliere ai colleghi la possibilità di intervenire. Nella sua relazione c'è l'importante sottolineatura del fallimento conclamato. Fino a qualche settimana fa gestivo una facoltà umanistica, con problemi aggiuntivi anche a causa di alcuni aspetti già citati. In realtà, però, si sta tentando di porre riparo all'effetto di licealizzazione che la riforma del «3 2» ha apportato all'università.
Vorrei richiamare la sua sensibilità sul fatto che sarà tutto vano, se non si considera un dato di fondo. È vero, il sistema ha applicato malissimo il «3 2», che poteva essere sfruttato meglio. Mi auguro che vi si rimedi, ma la licealizzazione è solo in parte dovuta a un effetto di «cattiveria» degli addetti ai lavori, come in molte cose umane, mentre per molti aspetti è sistemica, ovvero dovuta sostanzialmente all'inefficienza del sistema formativo della scuola superiore, su cui bisogna assolutamente intervenire. Diversamente in un sistema la natura crea sempre vie diverse; quando un cuore non funziona, prima si creano bypass naturali, che poi l'artificio e la tecnica riproducono in chirurgia.
Il «divorzio» tra i due interventi renderà vana qualunque ipotesi di sottrarre l'università a un percorso di licealizzazione. Altrimenti, per fare una università di massa, sarebbe meglio accettare il principio di una fascia di anni universitari che riabilita all'insegnamento universitario, sulla falsariga dei college; in realtà è una formazione disabilitata in partenza. La prima annotazione dunque, riguarda l'attenzione da porre a tutta la filiera della conoscenza, dalle scuole materne all'università, essendo questo un problema di sistema.
In secondo luogo, un problema di fondo riguarda il sistema Paese da alcuni decenni. Le obiezioni polemiche non riguardano quindi questa progettazione programmatica, perché in merito a tale problema vari governi avrebbero già dovuto prendere decisioni. Da un lato abbiamo un Paese in difficoltà e arenato sul piano della sua base socio-produttiva, dall'altro lato, «fortunatamente», abbiamo un sistema dell'università e della ricerca non ancora del tutto morto, anzi migliore di quello che rappresentiamo. Esportare laureati che all'estero realizzano un percorso significa essere ancora in grado, come sistema produttivo-formativo a livello di istruzione superiore, di produrre dei «semilavorati di qualità», che poi devono
essere rifiniti all'estero con una diseconomia generale del Paese. Mi è capitato di citare un esempio preso dalle squadre di calcio, paragonando questa alla scelta di investire tutto nel vivaio e poi regalare il cartellino di un giocatore ad altre squadre di serie A che se ne avvantaggiano, e in seguito, dopo aver sostenuto i costi di formazione, pagare anche per riaverlo. Nessun manager calcistico agirebbe in questo modo, ma il sistema universitario italiano invece funziona così.
Ciò significa che comunque produciamo buoni ricercatori, cui non diamo le chance per realizzare questi progetti in Italia. Si tratta dunque di decidere perché, come evidenziato dall'onorevole Bachelet, questo Paese da alcuni decenni abbia scelto la via peggiore. Il sistema italiano della formazione superiore è probabilmente una testa del Paese più grande della base produttiva cui dovrebbe servire. Abbiamo due strade per l'ottimizzazione economica: ristrutturare al ribasso il sistema formativo, come in modo strisciante si sta realizzando da alcuni decenni, o investire su questo sistema formativo, che per certi aspetti è sovradimensionato rispetto alla base produttiva, perché è l'unico volano per poterla allargare. Ciò significa indirizzare forti investimenti sul sistema della ricerca e dell'università e non tagliare la spesa in atto. Da troppo tempo lamentiamo di avere meno laureati di altri Paesi
europei, ma alla fine il sistema non li regge e non riesce neanche ad allocarli. Ho fatto esperienza di un rapporto tra l'Università Federico II e Confindustria per avviare i migliori laureati nel sistema delle imprese tramite tirocini e stage, ma in realtà non esisteva la ricettività sufficiente, circostanza che rappresenta un dramma.
Proprio su questo adeguamento si giocherà la partita di una ristrutturazione al ribasso, oppure di un investimento su una infrastruttura del Paese per certi aspetti ancora efficiente, ai fini di un rilancio dell'Italia nel suo complesso. Qui si gioca la partita decisiva su un punto centrale nella sua relazione, ovvero la natura pubblica del sistema che non presuppone la natura statale dei soggetti che vi partecipano. Il rapporto tra pubblico e privato è certamente decisivo, ma metterei in guardia dal ritenere che, spostando fondi dal pubblico al privato, si risolva questo problema.
Gli indici di finanziamento dal pubblico e dal privato sul sistema ricerca e le sue considerazioni sul sistema delle piccole imprese ci inducono a riconoscere che non abbiamo la cultura e la base produttiva per una naturale propensione del privato a investire in ricerca. Se ci fosse l'equivalente di quello che lo Stato mette nella ricerca, saremmo in media con gli standard europei e internazionali, compresi quelli americani.
Il vero rischio è quello della semplificazione, ovvero quello di ritenere che il problema, presente nella relazione del ministro, si risolva con uno spostamento di fondi, per non affrontare il problema di dare efficienza al pubblico. Non bisogna illudersi, perché una ricetta del genere potrebbe smontare il pubblico, ritenuto sostanzialmente irredimibile sul piano dell'efficienza, e presumere che il privato per sue proprie logiche possa offrire efficienza al Paese sul piano dei sistemi formativi superiori con un sistema di accreditamenti. Anche alla luce di recenti eventi in qualche clinica privata, non situata nel profondo sud, invito tutti a riflettere su cosa significhi il sistema degli accreditamenti in un Paese che non possiede la cultura dell'eticità nel controllo sui sistemi di accreditamento. Ciò non significa che non si debba tener fermo il trinomio su cui lei lavora (autonomia, valutazione e investimenti), che resta fondamentale. In
realtà, però, bisogna farlo funzionare nel pubblico, perché anche alla base delle esperienze il nostro Paese ha questa tradizione che va messa in efficienza.
Un punto generico e generale riguarda le scuole di eccellenza da lei citate, che non contesto. Per usare un latino maccheronico, verba generalia non sunt appicicatoria. Tuttavia, qualcosa vorrei dirla. Non vorrei che disinvestendo dal pubblico verso il privato si puntasse a costituire scuole di eccellenza, che dietro non hanno nient'altro che l'autopromozione di pezzi
delle nostre corporazioni, che si autodefiniscono eccellenti, ma che sostanzialmente riproducono gli stessi vizi e le stesse virtù delle università di appartenenza. Ritengo che le scuole di eccellenza debbano essere a regime consortile, senza organici fissi. Se infatti servono a inseguire la ricerca sul fronte in cui cammina, probabilmente un ricercatore adatto ad un tipo di ricerca non è più adeguato qualora si decida di cambiare settore; tuttavia, se rientra nei ruoli, probabilmente porterà avanti con la sua età i suoi vezzi e i suoi vizi. Il rischio di queste scuole è diventare una sine cura per chi può permetterselo, rispetto a chi fugge dall'università pubblica e dalla fatica che costa farvi ricerca e didattica. Segnalo questo alla sua attenzione, signor Ministro, affinché non sia semplicemente uno specchietto per le allodole.
L'ultimo punto riguarda i giovani, tema a cui tengo molto. A suo tempo sono stato nell'1 per cento dei quarantenni già in cattedra, in famiglia pensano per merito, fuori dalla porta di casa può darsi che qualcuno non la pensi così. In realtà, quell'1 per cento è tale perché si invecchia, e per avere dati anagrafici bassi basta mandarci in pensione a quaranta anni oppure fucilarci per demerito. Per trovare dei giovani è opportuno investire potentemente nelle assunzioni, non bloccare, come diceva di fatto il collega Bachelet, gli ingressi, perché si verificheranno quegli effetti distorti.
Anche lei accenna fortunatamente al fatto che cercherà di mettere in gioco i finanziamenti dell'ex Ministro Mussi per i posti di ricercatore. Poiché è una delle ultime partite che ho trattato da preside qualche mese fa, so che questi finanziamenti, che sembrano grandi cifre, pari a 40 milioni di euro che diventeranno 80, alla fine per una facoltà come quella che gestivo, composta di 15.000 studenti, 350 docenti in organico, 100 dottori di ricerca che si formano ogni anno, hanno significato fare in ateneo la parte del leone per avere ben tre posti. Se riusciremo a vincere la stessa lotteria prima a livello di ripartizione a livello nazionale, poi nel confronto fra le quattordici facoltà del mio ateneo, riusciremo ad avere tra due anni ben sei posti. Nel frattempo, avrò in facoltà 300 dottori di ricerca. È questo il problema dell'invecchiamento del sistema Paese anche nella dimensione dell'università e della
ricerca.
Mi spiace di essermi dilungato, ma sono stato mosso dalla passione suscitata da quanto volevo dire.
PRESIDENTE. Si è sentita, onorevole Mazzarella.
Per non sacrificare eccessivamente gli ultimi iscritti a parlare, vi prego di porre questioni piuttosto che argomentazioni al Ministro, in modo da avere poi una replica soddisfacente.
MARIO PEPE (PdL). Signor Ministro, sarò breve, anche perché non amo il vaniloquio.
Un malessere turba la vita degli atenei da qualche anno. Come evidenziato dal collega che mi ha preceduto, l'università italiana, come accade ad un prete, ha perso la sua vocazione, ovvero quella di creare la conoscenza attraverso la ricerca e di trasmetterla. Quando l'università italiana trasmette solo la conoscenza, che magari fanno altri, non è più università, ma diventa liceo.
La situazione è precipitata con la famigerata riforma del «3 2» dell'èra Berlinguer. Quando nella XIV legislatura ero relatore della riforma Moratti - abbiamo tenuto tante audizioni, compreso un «pellegrinaggio laico» per le varie università italiane - ci rendemmo conto in primo luogo che dalle università italiane erano scomparsi i grandi maestri. Dicevo sempre all'allora Ministro Moratti che, quando entrai nel Policlinico di Roma (io sono medico), c'erano grandi maestri come Valdoni, Stefanini, Giunchi. Oggi dalle università italiane sono scomparsi i grandi maestri, sostituiti dai capi.
La differenza consiste nel fatto che i maestri facevano una scuola, creavano un gruppo di ricerca, affinché gli allievi potessero diventare più bravi di loro. I capi invece cercano solo dei seguaci. Se si legge l'elenco dei professori universitari italiani,
si possono ricostruire intere famiglie. Se ci fossimo recati al reparto di otorinolaringoiatra dell'Università di Roma qualche anno fa e avessimo chiesto di un tal professore, il portiere ci avrebbe risposto: «il padre o il figlio?». Questa è storia.
Per evitare di risolvere la scomparsa dei grandi maestri dell'università, con il Ministro Moratti stabilimmo di chiamare dall'estero i professori di chiara fama, i quali non solo dovevano venire in Italia a insegnare, ma anche creare una scuola. Questa proposta creò grande sconcerto tra i professori universitari italiani, che non accettarono volentieri. In quella riforma, riuscimmo tuttavia a riservare una percentuale alla chiamata dei professori di chiara fama. Non c'è tempo di fare i concorsi. Mentre la riforma Moratti era in itinere, i baroni cominciarono a moltiplicare i concorsi in modo da occupare tutti i posti. Ancora oggi, signor Ministro, si stanno svolgendo i concorsi seguendo il vecchio metodo, con la doppia idoneità. Lei deve bloccare immediatamente questa situazione, altrimenti qualsiasi riforma sarà vanificata, perché i posti saranno occupati per le nuove generazioni. Ancora oggi, presso le università
italiane si svolgono concorsi come una volta, con la doppia idoneità.
Desidero inoltre affrontare il discorso dell'invecchiamento dei docenti. Signor Ministro, non sono vecchi solo i professori ordinari e i professori associati, ma anche i ricercatori, giacché l'età media dei ricercatori italiani è di 55 anni. Quando fu istituito il ruolo dei ricercatori si pensò che fosse di transizione prima di diventare docenti. In seguito, con la famosa ope legis una marea di ricercatori è diventata di ruolo, quindi da ruolo di formazione è diventato permanente. Questo ha bloccato l'università italiana per venti anni, in cui non sono stati banditi concorsi e sono state sbarrate le strade all'ingresso dei giovani ricercatori. Se si considera l'età dei ricercatori, non se ne trovano di nati dal 1955 fino al 1970. Sono state saltate intere generazioni.
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Di ricercatori ce ne sono tanti.
PRESIDENTE. Onorevole Pepe, non dimentichi di essere ospite.
MARIO PEPE (PdL). Concludo immediatamente con due considerazioni. Gli istituti di ricerca in Italia sono dei carrozzoni politici. Le chiedo però se l'Italia possa permettersi l'Agenzia spaziale, che si «mangia» 700 milioni all'anno per mandare ogni tanto un satellite nello spazio. Non siamo gli Stati Uniti d'America e abbiamo un debito pubblico che pesa come un macigno. Invito il signor Ministro a rivedere il sistema di finanziamento degli enti di ricerca, magari privilegiando quelli più utili al Paese.
Desidero rivolgere al signor Ministro due consigli e una provocazione. Provveda immediatamente all'avvicendamento dei direttori generali del suo Ministero, per evitare il mandarinismo ministeriale di direttori generali buoni per tutti i ministeri e per tutte le stagioni. Sto proponendo un avvicendamento, non di cacciarli. Il punto di riferimento nel mondo accademico deve tornare ad essere la politica, mentre oggi sono loro.
Per quanto riguarda il diritto allo studio, ho presentato un'interpellanza. Il suo sottosegretario mi ha risposto come aveva fatto il Ministro Mussi l'anno scorso. Lei deve ampliare immediatamente il numero dei posti per l'accesso alle facoltà di medicina. Non è vero che in Italia mancano i medici, perché quel numero è determinato sulla base degli iscritti all'Ordine dei medici e non sui medici effettivamente necessari e su quelli che realmente esercitano.
Concludo con una provocazione: signor Ministro, se vuole salvare la scuola e l'università italiana cominci a parlare dell'abolizione del valore legale del titolo di studio.
LUIGI NICOLAIS. Ringrazio il Ministro per la sua relazione ampia e piena di spunti interessanti, che fondamentalmente
pone al centro aspetti su cui tutti concordiamo, ossia l'autonomia, la valutazione e il merito.
Credo che le sue deleghe, Ministro, rappresentino un punto cruciale per lo sviluppo del Paese. Viviamo in un'economia della conoscenza, in cui la capacità di competere è basata soltanto sulla capacità delle nostre imprese di smaterializzare i prodotti. Solo riempiendo i prodotti di conoscenza in futuro saremo capaci di assumere una posizione cruciale nel mercato globale.
Per far questo, abbiamo bisogno di intervenire e di investire su tutta la filiera della conoscenza, per cui ho molto apprezzato e condiviso la scelta di avere un solo Ministero che copra tutta la filiera. Abbiamo bisogno di partire dagli asili nido, cercando di realizzare un progetto forte, che dia a questi giovani anche la capacità di apprezzare la bellezza di trovare qualcosa di nuovo. La curiosità della ricerca parte dunque dagli asili nido. Questa iniziativa è stata avviata come grande progetto in Canada e in Finlandia e sta rappresentando un cambiamento sostanziale.
Ovviamente, in questi cinque anni realizzeremo solo una parte e forse i risultati si vedranno in seguito. Come Paese, abbiamo bisogno di investire fortemente su tutta la filiera della conoscenza, di mettere a punto dei «modelli cerniera» appropriati al nostro sistema, di inventare un collegamento tra scuola e università e tra università e impresa, che rappresentino modelli sviluppati in modo appropriato per il nostro territorio.
Non possiamo immaginare che l'orientamento avvenga soltanto a seguito di una visita all'università, giacché esso deve essere più profondo di qualche interazione, affinché duri tempi lunghi. Già negli ultimi anni della scuola secondaria si deve realizzare una forte interazione con l'università. Abbiamo anche bisogno di sviluppare modelli nuovi di interazione tra università e impresa, perché il «trasferimento di tecnologia» deve rappresentare anche un passaggio di conoscenza. In passato i parchi scientifici erano organizzati in modo tale da riunire gli utilizzatori delle conoscenze, ma il time to market della conoscenza non era un elemento cruciale per il successo. Oggi si avverte fortemente la necessità di ridurre il time to market dal momento in cui creiamo la conoscenza al momento in cui la utilizziamo.
Modelli quali i distretti tecnologici devono essere incrementati sul territorio e rappresentano un sistema forte - definibile come bottom up - per valorizzare l'esistente e per trasferire la conoscenza per la piccola e media impresa. Di questo dobbiamo tener conto.
Nel nostro Paese la piccola e media impresa rappresenta il 92 per cento del totale. Anche la valutazione dell'innovazione che il nostro Paese produce deve tener conto del nostro sistema, laddove una piccola e media impresa necessita di un intervento dello Stato nella direzione di un migliore accesso alla conoscenza. In Italia, più che in altri Paesi, la ricerca pubblica, la ricerca dell'università, la ricerca degli enti pubblici diventa essenziale per la piccola e media impresa, se mettiamo a punto un rapporto di interazione tra questi due attori in modo costante. La grande impresa fa ricerca da sola e dimostra capacità di knowledge integration, di mettere insieme conoscenze sviluppate nel mondo. La piccola e media impresa ha bisogno di un'interazione sul territorio con chi produce conoscenza.
Quando ero ministro, dopo 13 anni avevamo eliminato il pericoloso blocco del turnover, considerando che l'università e la ricerca avevano necessità di un ricambio del 100 per cento. Non possiamo avere una riduzione rispetto all'esistente a causa della situazione attuale, mentre per gli altri comparti della pubblica amministrazione avevamo un turnover al 60 per cento, cercando di immettere giovani, ma contemporaneamente di «far dimagrire» le strutture. Ritengo doveroso adoperarsi per evitare il blocco del turnover, che non solo crea problemi alle strutture, ma ne determina la morte, perché senza un ricambio, senza una possibilità di new entry è impossibile che una struttura possa andare avanti.
Quando ero al Ministero, condussi uno studio sullo shock demografico nella pubblica amministrazione, da cui emersero risultanti interessanti. Come nelle università, si constatano infatti picchi con un grande flusso di posizioni, dopodiché si registra il blocco. Abbiamo questo flusso «a pistone» di assunti in un certo periodo che stanno arrivando al pensionamento; dovremo preoccuparci di come aumentare il numero dei ricercatori, perché altrimenti, fra cinque-sei anni, avremo un'uscita del 47 per cento di professori senza avere più nemmeno materiale cui attingere per poter scegliere i prossimi professori. Oggi abbiamo bisogno di investire fortemente per avere rapidamente molti più ricercatori, proprio alla luce dello shock demografico che avverrà fra qualche anno.
Inoltre, come da lei ribadito, è necessario collocare la valutazione al centro di un sistema, che deve però mantenere la sua autonomia. Autonomia e valutazione devono stare insieme in un sistema che miri a essere creativo, che si deve saper valutare dall'interno e dall'esterno. Non effettuerei la valutazione solo ex ante, bensì molto ex post. Come ho affermato quando ero ministro, l'errore del nostro Paese è l'abitudine di fare tutta la valutazione ex ante, che serve a deresponsabilizzare i pubblici funzionari. La valutazione ex post, invece, determina il valore di una decisione. Puntare sulla valutazione è molto importante, ma quella ex post, sia dall'alto che dal basso, rappresenta un punto importante per il sistema generale della pubblica amministrazione, ma ancor di più per l'università e la ricerca.
Ho letto inoltre che è previsto un aumento per i dottorandi. Di questo non posso che rallegrarmi, perché ritengo che non si possa chiedere a un giovane di sacrificarsi con il livello stipendiale attualmente previsto. Però, vorrei sollecitare anche un aumento ai ricercatori, giacché con questo aumento ai dottorandi siamo arrivati quasi allo stesso livello stipendiale e un ricercatore deve compiere una scelta per passione. Credo, infatti, che la ricerca sia un'attività creativa e debba essere fatta principalmente per passione. La ricerca necessita, tuttavia, anche di tranquillità e, quindi, di un adeguato livello stipendiale. Al fianco di questo aumento, è quindi opportuno studiare anche la possibilità di corrispondere un aumento di stipendio ai ricercatori.
Credo poi che in un Paese che deve lavorare in modo sinergico la collaborazione tra le università e gli enti pubblici di ricerca debba essere più stretta. Un flusso di attività tra ricercatori degli enti pubblici di ricerca e ricercatori delle università può in qualche modo prevedere anche la possibilità per i ricercatori del CNR di dare un contributo didattico alle università. Questo potrebbe garantire soddisfazioni ai ricercatori, in genere molto validi, degli enti pubblici di ricerca e contemporaneamente dare un supporto alle università, che molto spesso hanno bisogno di una didattica semplice, specialmente per i primi anni, senza dover chiedere un contributo al mondo delle imprese.
Lei ha anche aperto l'importante discorso della governance. Credo che questo sia un discorso di grande importanza per una università moderna. Abbiamo bisogno di una governance più veloce, più rapida, meno barocca, che permetta ai vari organi (senato accademico, consiglio di facoltà, consiglio del corso di laurea) di essere più rapidi e anche di responsabilizzare maggiormente l'ambito decisionale. Lo ritengo un argomento importante, da discutere anche con i rettori, sollecitandoli tuttavia ad assumere decisioni, perché anche sulle valutazioni spesso abbiamo discusso con la Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) senza ottenere un contributo reale. Abbiamo bisogno di mettere a punto modelli valutativi, perché, mentre nei settori in cui esiste il sistema degli impact factor delle pubblicazioni analizzate dal mondo internazionale si può avere una valutazione oggettiva
automatica, in altri la situazione è più complessa.
Per quanto riguarda la Scuola superiore della pubblica amministrazione, dopo Cassese stiamo cercando di fare la stessa cosa. Nell'ultimo corso-concorso che ho condotto, su 8.000 candidati hanno
superato lo scritto soltanto 450, di cui 120 sono stati assunti al corso-concorso a fronte di 150 posti disponibili. La Scuola superiore ha dunque mantenuto un livello di alta qualificazione, fattore imprescindibile in un Paese che vuole rimanere moderno.
Un'ultima breve considerazione riguarda il problema del «3 2», su cui si esprimono pareri discordanti. Il «3 2» è un obbligo europeo, che entrando in Europa abbiamo accettato come l'euro, per cui è necessario mettere un punto fermo sulla questione. Vorrei invece discutere sul fatto che il «3 2», come l'abbiamo inteso, è troppo rigido e talvolta ha creato difficoltà. Probabilmente, abbiamo bisogno di maggiore elasticità sul «3 2», che in alcuni corsi di laurea potrebbe diventare «4 2» in un discorso condiviso non solo con l'università e l'accademia, ma anche con gli ordini professionali e gli stessi studenti. Abbiamo bisogno di essere più elastici, ma senza mettere in discussione l'impianto del «3 2», problema europeo, non italiano.
In conclusione, vorrei dire che l'università e la ricerca hanno bisogno di fondi. So che tale aspetto, purtroppo, non rientra tra le sue deleghe. Tuttavia, il Governo deve sapere che se vuole dimostrare di tenere al futuro di questo Paese, deve dare un segnale di attenzione all'università e alla ricerca. Questo vale anche per il taglio che stiamo per effettuare sul FFO per finanziare l'ICI.
PRESIDENTE. Avverto che d'ora in avanti ogni quattro minuti suonerò il campanello: ci sono dieci iscritti a parlare e solo un'ora di tempo.
MANUELA GHIZZONI. Intervengo sull'ordine dei lavori, presidente, per invitare a valutare l'ipotesi, data l'importanza della discussione che stiamo sviluppando, ricca di spunti anche per il lavoro del Ministro, di proseguire l'audizione in altra seduta.
PRESIDENTE. Non abbiamo altre date. Poi diventa inutile...
MANUELA GHIZZONI. Comprendo, ma mi rivolgo anche agli altri colleghi. Possiamo disciplinarci, e su questo convengo...
PRESIDENTE. Il mio era semplicemente un invito. Poi, se non ce la facessimo, dovremmo valutare la situazione.
Abbiamo comunque altri due appuntamenti con il Ministro Gelmini, un incontro sulla scuola e uno per la replica. A questo punto, diventerebbe difficile richiedere un'ulteriore presenza del Ministro.
ANTONIO PALMIERI. Ministro Gelmini, accolgo l'invito del presidente Aprea, quindi le pongo sei questioni, due che riguardano l'università e quattro che riguardano la ricerca, per poi aggiungere un piccolo aneddoto finale.
Per quanto riguarda la ricerca, la ringrazio per la citazione che ha provocato da parte del resto della «classe» qualche apprezzamento, ma credo che la nostra indagine conoscitiva sia uno strumento di protagonismo condiviso della Commissione e al servizio del bene comune della ricerca, su cui tutti conveniamo. Condivido la sua impostazione generale su questa ricerca «utile», aggettivo che può essere declinato in molti modi, come vedremo nel corso di questi cinque anni.
Vengo ai punti, il primo dei quali è quello del finanziamento. Uno strumento voluto nell'ultima legge finanziaria del precedente Governo Berlusconi dal Ministro Tremonti riguarda il 5 per mille per la ricerca. Ben 16 milioni di italiani hanno aderito a questo forma di democrazia fiscale, ma gli importi non sono stati ancora erogati. Non è colpa del Governo attuale, né lo affermo polemicamente rispetto al Governo precedente; tuttavia 16 milioni di contribuenti hanno scelto di dare il loro 5 per mille, in gran parte a favore di enti di ricerca pubblici e privati, ma ancora non sono stati erogati i fondi. Naturalmente è un problema che non le compete, ma stiamo parlando della prima tranche. Il mio è un sollecito al Ministro Tremonti, che so essere sensibile a questo tema. Inoltre, per rendere stabile e permanente
il 5 per mille è necessario un lavoro, che può assumere sia la forma dell'iniziativa parlamentare, su cui stiamo studiando, sia quella dell'azione del Governo, che sarebbe auspicabile e che segnalo come prospettiva per il futuro.
La seconda questione attiene al deficit di sensibilità verso la ricerca. Ho in proposito due proposte. Suggerisco che l'anno prossimo, quando l'Italia ospiterà il G8, si tenga in Italia un segmento specifico dedicato alla ricerca sui temi di Expo 2015. Tutti cogliamo l'importanza di questa proposta, utile anche per sensibilizzare dall'alto l'importanza della ricerca, che, oltre a essere propedeutica a Expo, renderebbe protagonista il nostro Paese.
Accanto a questo - riprendendo una sollecitazione del collega Nicolais -, come ribadirò quando parleremo della scuola, suggerirei un'alleanza con gli altri strumenti educativi (o diseducativi), in primo luogo i mass media, la TV di Stato innanzitutto. La sollecitazione del collega Nicolais, che ricordava alcune esperienze straniere, attiene al fatto che sui bimbi si cominci a portare una educazione in questa direzione, come peraltro fece il Ministro Moratti con alcuni esperimenti ancora in essere sul digitale terrestre, ma anche il Ministro Stanca con programmi sulla RAI, quali Divertinglese e Pc utile. Andare in questa direzione può consistere in un aiuto che non attraversa canali accademici, ma incide proprio sulla cultura del Paese.
Gli ultimi due punti riguardano l'università. L'onorevole Pepe, in cauda venenum, ha accennato all'abolizione del valore legale della laurea. Posso preannunciare che stiamo lavorando con alcuni colleghi, come l'onorevole Farina, a una proposta di legge che vada in questa direzione come strumento per una sana concorrenza. Spero che su questo ci troveremo d'accordo con tutte le opposizioni.
L'ultimo punto riguarda un fatto che nella legge finanziaria 2003 vide protagonisti con me alcuni componenti dell'allora Commissione. Presentammo infatti un emendamento che dette il via alla regolamentazione Moratti-Stanca per quanto riguarda le università on line, che prima versavano in una situazione abbastanza sregolata e che invece possono essere uno strumento per veicolare la nostra cultura fuori dall'Italia e al tempo stesso in Italia per permettere agli studenti lavoratori e a quelli disabili di accedere alle strutture universitarie. Considero auspicabile verificare come stiano funzionando questi tipi di università, in particolare quelle nuove, sorte all'indomani del 2004 una volta ultimato il regolamento.
Termino ricordando che Dio creò il professore universitario, il diavolo il suo collega.
BRUNO MURGIA. Signor presidente, il mio intervento durerà quattro minuti considerando anche come il collega Mazzuca già un'ora fa abbia raccomandato tempi giornalistici ed europei, da bravo ex direttore.
Signor Ministro, innanzitutto la ringrazio. Lei prima è stata erroneamente chiamata Ministro Gentile, però, se realizzasse anche solo la metà di quanto si propone la sua bella relazione, sarebbe ricordata quasi come Giustiniano o diventerebbe ancora più importante. La sua relazione è infatti ricca di contenuti importanti. Nei cinque minuti a mia disposizione ne citerò polemicamente alcuni, cercando di non essere il Grillo della situazione.
Parto da una considerazione personale. Sono recentemente ritornato all'università perché alla veneranda età di 38 anni mi mancava un esame, per cui posso anche parlare concretamente delle cose. Qui sono presenti dei professori e io in questo caso sarei lo studente. Dovevo ancora sostenere l'esame di latino. Mi sono messo a studiare, l'ho superato, ma ho sofferto. C'era lo stesso professore di tanti anni fa con lo stesso atteggiamento da carabiniere e con le stesse modalità di insegnamento. Ho ritrovato lo stesso rettore, che ha ottenuto l'ennesima deroga. Era un bravo rettore, una persona in gamba, ma l'ennesima deroga, dopo ventidue-ventitre anni di università, mi sembra esagerata. Mi sono ritrovato quindi in un mondo quasi «giurassico», lo stesso di trent'anni
prima. Questo è il primo elemento da valutare.
Poi sono andato dal mio professore di tesi, ottimo relatore, lavorando in un centro di ricerca, i cui fondi per giovani ricercatori, persone capaci che percepiscono 300-400 euro al mese, sono stati tagliati dalla regione. Immagino che il mio relatore, il quale gestisce questo centro, non sia particolarmente gradito - faccio una valutazione politica - al presidente della regione. Non mi interessa parlare dei colori. Questo è un altro aspetto che vorrei rilevare.
Vengo ora ad alcune questioni fondamentali. Nella relazione gli argomenti sono espressi con criterio scientifico, però avrei aggiunto qualcosa in primo luogo sulla questione del baronato, di cui non si parla molto, sebbene i giornali siano pieni di esempi. L'università italiana è ricca di professori che comandano sul mondo dell'istruzione superiore.
Nella scorsa legislatura in merito alla questione dei ricercatori presentai un'interrogazione all'onorevole Mussi, senza avere risposta. Soprattutto ai colleghi che in passato erano professori universitari sottolineo l'esigenza di qualificare la spesa nella ricerca, perché è vero che siamo il fanalino di coda, ma è anche necessario valutare come si spendono le risorse. Se il concetto è infatti quello del baronato, i fondi per la ricerca vanno sempre agli stessi, a ricercatori che sono in realtà i portaborse di soggetti che costituiscono il sistema di potere delle università.
Permettetemi due ultime annotazioni. Non sono molto d'accordo quando si cita il club degli eccellenti Aquis...
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Si è quasi «squagliato», nel frattempo.
BRUNO MURGIA. Meglio così, perché, come ho letto nell'autorevole sito Lavoce di Boeri, poteva essere un'unione di università di eccellenza, ma in realtà si avvicinano per recuperare fondi; tra l'altro non è detto che il piccolo ateneo di provincia non sia magari di qualità migliore di un grande istituto come La Sapienza..
Desidero inserire un elemento culturale, che non ritrovo nella relazione. Sono convinto che molte storture nascano dal Sessantotto con la famosa «fantasia al potere» (Commenti) o con la famosa «immaginazione al potere» (che non è così diversa dalla fantasia), ma in molte università italiane sta diventando impossibile realizzare convegni. Mi riferisco non ad alcuni studenti di destra, il cui atteggiamento è oggetto di valutazione da parte dell'opinione pubblica, ma al fatto che in un'università prestigiosa come La Sapienza il Papa non abbia potuto parlare...
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Non ha voluto parlare.
PRESIDENTE. Colleghi, vi prego.
BRUNO MURGIA. So di esprimere considerazioni polemiche ancora non emerse in questo dibattito, ma il collega Bachelet potrà replicare quando crede. Noi riteniamo che non abbia potuto parlare e mi chiedo se non sia per questo motivo che le nostre università si collochino così indietro rispetto a molti sistemi di rilevazione, se quindi solo per una scarsa qualità della ricerca o anche per altri elementi.
STEFANO CALDORO. Ringrazio il Ministro e ne condivido la relazione. Non entro, quindi, nel merito delle questione cui lei ha accennato nell'intervento.
Le grandi sfide del sistema universitario riguardano la valutazione, la responsabilità e l'autonomia. Ritengo che per avere un'efficiente valutazione, una forte autonomia e una chiara responsabilità la vera scommessa sia la governance, che permette di rendere virtuosi gli altri tre grandi sistemi.
Non sono legato, come il collega Nicolais, alla vita interna dell'ateneo, ma considero altrettanto importante parlare di comitati regionali, del CRUI, del CUN, degli organismi di governo sovraordinati, territoriali o di competenza generale. In particolare, i comitati regionali del sistema universitario funzionano molto male e dovrebbero
essere rivolti all'utente nell'ambito della grande questione della programmazione universitaria, del sistema e della conoscenza. Ritengo quindi che la governance sia la vera grande scommessa e che il sistema sia pronto ad affrontarla.
Vengo alla questione dei finanziamenti ed entro subito nel merito. È possibile fare economia e rendere il sistema più efficiente. Se si considerano i conti degli atenei, emergono casi in cui alcune facoltà hanno problemi di risorse a causa della cattiva gestione, mentre nello stesso ateneo altre hanno bilanci virtuosi. Si rileva quindi anche un problema di valutazione a livello amministrativo di come si governa il sistema universitario.
È chiaro che c'è bisogno di più finanziamenti, di strumenti di fiscalizzazione come il prima ricordato 5 per mille. Anche in merito all'autofinanziamento, è necessario valutare la dimensione dell'ateneo, la sua ubicazione al nord o al sud, i diversi parametri come il placement in uscita. In un grande ateneo del sud è più complicato tenere il ritmo anche nel sistema della valutazione complessiva. Lei, signor Ministro, ha efficacemente sottolineato l'esigenza che il singolo ateneo venga valutato anche in base a dove svolge la propria attività.
Procedo per flash e arrivo così alla questione dello stato giuridico. In merito al reclutamento si è fatto riferimento alla percentuale del 47 per cento. Lei ha la fortuna di vivere in un periodo in cui c'è la famosa gobba positiva, con la possibilità di un grande ricambio e di individuare forme innovative di anticipo di finanziamento. Si può chiedere al Ministero dell'economia e delle finanze delle forme di ingresso dei giovani anticipando le somme degli anni futuri, visto che l'economia per gli anni futuri appare certa. Visto che il DPEF e la legge finanziaria hanno la prospettiva di tre anni, si può fare programmazione, considerato che proprio in tre anni è la programmazione del sistema universitario, legandola all'ingresso delle giovani generazioni. Anche in questo caso, è però necessario dimostrare maggiore coraggio e fare di più anche in termini di dibattito.
Nella riforma del reclutamento, è stato previsto un sistema di reclutamento a tempo determinato, che dobbiamo potenziare. Abbiamo un record europeo, forse mondiale, dei professori a tempo indeterminato. In altri sistemi non sono previsti. Nel sistema anglosassone tutti i professori sono assunti a tempo determinato, anche i full professor. Dobbiamo tentare di bilanciare il nuovo reclutamento secondo la logica che il precariato debba avere il suo obiettivo non solo nella stabilizzazione, ma nel risultato, nella capacità, nel rendimento, negli stipendi più alti, nella mobilità, nella possibilità di scegliere di andare da un'altra parte, di lavorare nel privato, di andare nell'industria.
Occorre anche il canale del tempo indeterminato, ma non può essere un dogma. Dobbiamo avere il coraggio necessario di promuovere immissioni in ruolo a tempo determinato secondo la giusta valutazione dell'esigenza che il sistema degli scatti stipendiali e della progressione di carriera sia imperniato su uno stipendio di base, che deve essere garantito dal sistema complessivo statale. Il sistema universitario non è ancora in grado di recepire totalmente il pagamento degli stipendi differenziati ai professori nella piena autonomia, aspetto che è difficile realizzare nei prossimi anni, ma che potrebbe rappresentare una prospettiva futura. Su questo, quindi, credo che sarà necessario svolgere una grande attività.
Passo velocemente alle questioni che riguardano la ricerca. Signor Ministro, negli ultimi due anni la regìa del MIUR è venuta totalmente meno e il ruolo guida sulla ricerca è stato distribuito parimenti tra il Ministero delle attività produttive e il Ministero dell'economia e delle finanze, senza guardare alla logica europea, bensì seguendo una linea tutta interna. Al di là dell'energia, del nucleare e di altre ricerche importanti, il Ministero delle attività produttive non può avere lo sguardo complessivo del sistema. È quindi importante che lei si rimpadronisca di questo ruolo di
guida in collegamento con la missione del Paese e i progetti strategici concordati con l'Unione europea.
Oggi è difficile fare una ricerca solo domestica, che avrebbe un ruolo marginale. È stato fatto in alcuni periodi, quando in sede di Unione europea definimmo i progetti strategici in cui era coinvolto il nostro Paese e i settori di riferimento su cui lavorare, nell'ambito del programma-quadro dei finanziamenti e delle piattaforme europei.
Per quanto riguarda la frammentazione delle competenze, lei ha fatto riferimento in particolare alla ricerca marina e al numero di enti coinvolti. Del resto, anche lo stesso incubatore del CNR ha all'interno istituti che si occupano della stessa materia. È stato fatto un lavoro per accorparli, ma il problema della frammentazione esiste.
L'ultima questione riguarda alcuni modelli che hanno funzionato in Italia, in particolare i distretti hi-tech citati dal collega Nicolais, da non confondere con i parchi tecnologici. La focalizzazione della linea di ricerca sui distretti è ben chiara, netta e specifica. L'errore dei parchi tecnologici è stato quello di mettere insieme tante linee di ricerca e di fare un incubatore di servizi. Hanno funzionato oggettivamente meno, ma non si può dare un giudizio definitivo. Ritengo che focalizzando gli interventi e guardando all'Europa, i distretti di ricerca siano uno strumento oggettivamente più efficace.
L'ultima questione riguarda la valutazione della ricerca, essenziale come evidenziato dal collega Nicolais. Oggi i parametri permettono di valutare i risultati del prodotto della ricerca in alcuni sistemi. In altri è più difficile, perché si tratta di materie umanistiche e letterarie. Nella parte scientifica, però, ciò è possibile. Tuttavia, l'indicatore non deve essere solo quello del risultato della ricerca, ma anche dell'entità dei finanziamenti con cui è stato raggiunto. Dobbiamo valutare il risultato rispetto al finanziamento pubblico, laddove spesso grandi sistemi di ricerca producono risultati, ma a fronte di risorse continue, forse talvolta eccessive rispetto al risultato, che deve essere parametrato in rapporto ai finanziamenti trasferiti. Questo discorso vale per quanto riguarda i singoli ricercatori, il singolo sistema previsto all'interno dell'università, i centri di ricerca pubblici e
privati.
Tali iniziative andrebbero poste in essere, tenendo presente che il gran lavoro che lei, signor Ministro, dovrà compiere rientra in uno schema complessivo di riordino del Ministero. A tale proposito, mi permetta un personale appunto: non so quanto tempo potrà trattenersi in Commissione, avendo tra l'altro pochi collaboratori e una struttura che risponde alle tante esigenze che nascono dalla scuola. Abbiamo solo accennato all'orientamento, ma la grande questione dell'orientamento è strategica. Il collegamento scuola-università di carattere strutturale e non episodico è fondamentale per il processo formativo del nostro Paese. Comprendo però la sua esigenza di affrontare questi problemi a ranghi ridotti e con maggiore pazienza.
LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Sarò rapidissima anche perché dopo tanti interventi molti argomenti sono già stati trattati. Ribadisco la difficoltà di intervenire all'impronta in maniera puntuale e veloce su relazioni complesse e molto ampie.
La ringrazio, signor Ministro, e condivido la sua relazione, che cerca di fare chiarezza e mettere ordine in un sistema estremamente complesso e farraginoso, frutto di errori, omissioni, mancanze e ideologie accumulati in questi ultimi decenni sulla scuola e sulle università italiane.
Andando per punti, desidero sapere come si regoli il Ministro sulla questione del personale, giovani ricercatori e percorsi di carriera. È già stato detto del loro futuro incerto come precari fino a 45 anni. Conosciamo le difficoltà, che non ripeto. Nell'ultima legge finanziaria era previsto che tutti gli enti potessero provvedere a nuove assunzioni nei limiti dell'80 per cento del turnover, norma a mio avviso positiva. Il provvedimento «milleproroghe»
in maniera inopinata ha bloccato questo meccanismo. Per volontà dei burocrati e dei tecnici della funzione pubblica e dell'economia, ha infatti complicato in maniera molto forte queste assunzioni, per cui bisogna rivolgersi presso la Funzione pubblica, procedere ad una serie di passaggi farraginosi e complicati prima che finalmente il Presidente del Consiglio consenta le assunzioni. È una follia, introdotta probabilmente nel provvedimento «milleproroghe» per risparmiare ed evitare ulteriori emorragie. Il Ministro è stato smentito dai suoi - mi consenta questa espressione, perché sono qui a difendere il suo operato -, che nel «milleproroghe» hanno fatto saltare questa positiva iniziativa. Ci vorrà un anno per risolvere il problema introdotto dal «milleproroghe», aspetto che ritengo demenziale. Mi piacerebbe avere una risposta, perché dipende anche da questo il problema delle assunzioni e del
turnover.
Per quanto riguarda il tema della licealizzazione, concordo con chi mi ha preceduto sull'esigenza di cominciare, in una prospettiva ab imis, dalla scuola elementare. Non credo che il problema si possa risolvere in poco tempo, in una legislatura. Occorrono generazioni, decenni per risolvere questo problema e dovremmo essere tutti d'accordo in una grande alleanza del Paese: maggioranza, opposizione, addetti ai lavori, accademici, universitari, centri di ricerca, realizzando una grande alleanza. Il problema della licealizzazione delle università e dell'«ignoranza» dei nostri studenti non si risolve in cinque minuti, soprattutto per quanto concerne la parcellizzazione delle specializzazioni. In passato, prendevamo in giro l'America in cui erano tutti specializzati a fare perfettamente un tondino di ferro, senza saper fare assolutamente nient'altro. Stiamo andando in questa stessa direzione, laddove invece la preparazione umanistica ad ampio raggio
permette di affrontare anche problemi scientifici. Quindi, signor Ministro, deve avere il coraggio di andare controcorrente e di prendere provvedimenti impopolari per rimettere in sesto una macchina da tempo dissestata. Le auguro buon lavoro e di trovare in noi un aiuto.
In terzo luogo, in merito al sistema di valutazione, che è bloccato, lei ha affermato che è in programma una proroga degli organismi vigenti. L'agenzia viene dunque rinviata e ripensata, rimettendo in carreggiata i meccanismi precedenti. La prego di tenerci informati sullo stato dei lavori. Ritengo che questo sistema debba essere celermente sbloccato, perché altrimenti è impossibile andare avanti.
Il decreto legislativo n. 204 del 1998, di cui non ha parlato, prevede la razionalizzazione degli interventi di tutti i ministeri per quanto riguarda la programmazione delle risorse economiche e la spesa pubblica. Mi risulta che l'ultimo intervento risalga al 2005-2007 ad opera del Ministro Moratti, mentre il Ministro Mussi non ha fatto assolutamente nulla. Mi risulta, inoltre, che ci siano 28 miliardi di euro a disposizione, cifra colossale, per il recupero della produttività dell'industria per il Mezzogiorno stanziati entro il 2015.
PRESIDENTE. Si tratta di 28 miliardi di lire.
LUISA CAPITANIO SANTOLINI. No, si tratta di 28 miliardi di euro. Si tratta di finanziamenti europei. Il decreto che ho richiamato riguardava la razionalizzazione dei finanziamenti, mentre questi sono finanziamenti europei, stanziati per il recupero e la produttività dell'industria per il Mezzogiorno, con 1 miliardo di euro per l'innovazione e la competitività finalizzata allo sviluppo regionale. Questo miliardo è già stato decurtato dei 200 milioni che servivano per l'Alitalia, scelta su cui ho molto da dire. Inoltre, rischiamo di perdere anche gli altri, perché è prevista una programmazione nazionale delle ricerche che serve per razionalizzare il tutto.
Vorrei sapere se questi 28 miliardi sono a disposizione. Si tratta di fondi europei per il Mezzogiorno, di cifre enormi che vanno dal 2007 al 2013. Si rischia di perderli, il Governo Prodi non ha fatto nulla e vorrei sapere come si possano
recuperare, in mancanza della famosa programmazione prevista nel decreto-legge.
L'ultima questione riguarda il problema della razionalizzazione degli enti nazionali, che sono sotto la competenza del MIUR. Restano fuori l'ENEA, l'Agenzia spaziale, perché alcuni enti non sono di competenza del MIUR e quindi sono fuori da questa razionalizzazione. Come lei ha precisato, sta scadendo il consiglio di amministrazione del CNR. In realtà, è in ballo la legge n. 165 del 2007 voluta dal Ministro Mussi, volta a realizzare una sorta di spoil system del CNR, questione ancora aperta. Vorrei sapere come lei intenda procedere, cosa si possa fare sul piano organizzativo e quali siano i criteri per nominare i vertici di competenza del MIUR, giacché altri enti sono fuori dalle sue competenze, ma alcuni ci rientrano. Anche questa è una questione abbastanza urgente.
RENATO FARINA. Signor presidente, signor Ministro, colleghi, dovrei «salire sulle spalle» di molti colleghi che mi hanno preceduto, anche se la cosa probabilmente non è gradita, perché condivido quasi tutto. Mi domando dunque perché una classe dirigente che condivide tutto non riesca a modificare niente. Questo sarebbe materia di una indagine o forse di una riforma costituzionale.
L'unicità del sapere, e per analogia l'unicità del processo formativo, sono state già trattate la settimana scorsa dal Ministro e oggi riproposte perché il soggetto è sempre lo stesso: lo studente. Nell'università, però, il processo formativo è indisgiungibile dalla ricerca libera e autonoma della verità. Slegare formazione e ricerca del vero sarebbe una distorsione del senso stesso dell'università.
Il Ministro si è soffermato su alcune etimologie. L'università, fin dal suo nome, dichiara questa sua identità che ci proviene dalla nostra storia, si sostanzia in un'esperienza di universitas, ovvero del fatto che, nonostante le molteplici specializzazioni che talvolta rendono incapaci di comunicare studiosi e specialisti, i professori e gli studenti formano un tutto e lavorano nel tutto dell'unica ragione, con le sue varie dimensioni, dentro una comune responsabilità.
Le università hanno dunque il compito (vorrei dire la missione) di essere custodi in un Paese della sensibilità per la verità. Non debbono permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Il resto viene dopo, di conseguenza. Questa non deve sembrare un'affermazione romantica - oggi, è di moda criticare il barocco, invece io critico il romantico - e in fondo patetica. Capisco l'esigenza di ingegneri, tecnici, fisici nucleari e l'inutilità di attardarsi in considerazioni sul senso dell'università e sul significato della ragione. Ritengo però che la frammentazione e la dimenticanza del compito universale, ovvero dell'esperienza di universitas, abbiano portato alla crisi delle istituzioni accademiche, trasformandole in luoghi dove spesso si sprecano giovinezze e talenti.
Le baronie universitarie, l'opacità della selezione della classe docente è figlia della caduta teorica e pratica di questo concetto di università. La divisione surrettizia tra ambito tecnico-scientifico e ambito umanistico è superata dall'esperienza delle più grandi università. Il rettore dell'Università Complutense mi diceva che ad Harvard hanno richiesto una consulenza dell'Università Complutense proprio per ovviare all'esagerata specializzazione. Dunque, non conviene più teorizzare questa specializzazione estrema, che è fruttuosa solo come raggio della universitas.
Vengo a questioni più pratiche. Nella relazione del Ministro trovo già risposta alle mie domande. Ritengo che la firma del decreto che incrementa l'importo delle borse di dottorato potrebbe rappresentare un'importante occasione per individuare un meccanismo di rivalutazione periodica delle borse di dottorato, legandole alla retribuzione degli altri soggetti che lavorano nell'accademia o predisponendo una negoziazione periodica con le associazioni di categoria.
Il tema del diritto allo studio è stato trattato con la parola welfare dal Ministro. La legge n. 390 del 1991, relativa allo
studio universitario, prevede che ogni quattro anni venga emanato un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che ne definisce i livelli essenziali. Il DPCM del 2004 ha ripreso quello del 2001 ed è ormai scaduto. Inoltre, la legge non è in linea con il Titolo V della Costituzione per quanto riguarda le competenze regionali. Urge una riforma della materia e l'emanazione di un nuovo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che preveda anche la revisione dei criteri di merito, oggi eccessivamente permissivi, per il conseguimento delle borse.
Oggi esiste un'unica grande borsa di studio che la borghesia italiana si concede: il biglietto aereo per il figlio, in modo tale che non frequenti le nostre università ridotte a licei. Questo fa parte dell'aneddotica che vi risparmio, ma chiunque frequenti i primi anni di università constata come in certi atenei solo il 20 per cento degli studenti superi un esame di ammissione che corrisponde alla prova proposta in certi licei al secondo anno! Ci chiediamo come sia possibile.
Nel momento in cui si pone il criterio della valutazione ex post, che condivido totalmente, è implicita l'abrogazione del valore legale del titolo di studio, perché lo Stato non può riconoscere come uguale un titolo di studio quando poi con un'altra legge viene valutato differentemente. Si tratta di una contraddizione in termini. La valutazione oggettiva ex post implica l'abrogazione del valore legale del titolo di studio, salvo l'adeguamento dei vari punteggi conseguiti a quello rivisto grazie a questo criterio. Non si capisce perché possa lavorare in Parlamento chi prende 110 e lode in un'università, se questa valutazione viene ridimensionata da un criterio valutativo approvato proprio da questo Parlamento.
Per quanto riguarda l'autonomia degli atenei, tema già trattato, sarebbe opportuno immaginare nuove formule giuridiche, ad esempio delle fondazioni, per cui le università si possano affrancare dal modello di gestione di finanziamento attuale, introducendo meccanismi di finanziamento privato e gestione responsabile, che mettano le università in regime di concorrenza.
A proposito della valutazione, sono state espresse eccellenti argomentazioni, ma sui giornali appaiono le valutazioni curate dal Censis delle varie università. Poiché il Censis si sta occupando molto di queste cose, vorrei sapere se non esista già un accordo implicito con questo istituto per svalutare quanto invece previsto dalla legge, aspetto che a me non piace, anche perché il tipo di valutazione è non ex post, ma sulla base delle strutture e dei funzionamenti.
Occorre una disciplina chiara e stabile per i concorsi per il reclutamento del personale docente.
Pongo gli ultimi due punti solo come temi. Occorre affrontare il percorso di formazione degli insegnanti della scuola secondaria, le cosiddette SSIS. Come organizzato ad oggi, risulta un percorso biennale di formazione abilitante alla professione. In realtà, è un ulteriore periodo di formazione, che prevede in gran parte attività di didattica frontale e in misura inferiore, tirocini formativi. Sarebbe opportuno ridurne la durata abolendo completamente l'incompatibilità fra dottorato di ricerca e le stesse SSIS. Potrebbe essere concepito come un master di un anno soprattutto di attività di tirocinio teorico e pratico che segue la laurea disciplinare, il cosiddetto «3 2».
Per quanto riguarda le facoltà di medicina, è necessario un riordino chiaro delle scadenze e delle modalità di esame per gli esami di Stato e di accesso alle scuole di specialità. Negli ultimi due anni, si è assistito a una politica contraddittoria da parte del Ministero, che ha sempre tardato a comunicare le date, senza fornire alcuna certezza agli studenti. È necessario stabilire e rispettare una tempistica adeguata e standardizzata, che sia la stessa ogni anno, in modo da consentire ai laureati di conseguire l'abilitazione alla professione medica e successivamente concorrere per l'accesso alle scuole di specialità
con un corretto iter e senza inopportuni rallentamenti. Si tratta infatti di un'incertezza esistenziale gravissima.
Faccio inoltre presente come la legge n. 368 del 1999 venga applicata localmente in maniera arbitraria, perché mancano uniformi direttive nazionali.
EMERENZIO BARBIERI. Signor presidente, le chiedo di valutare in circostanze analoghe la possibilità di distribuire meglio il tempo, per non fare «figli e figliastri».
Intendo porre tre questioni al Ministro, cui illustrerò alcuni problemi in sede di discussione sull'altra relazione, mentre su questa esprimo un giudizio fortemente positivo ritenendo che lei, Ministro, abbia offerto alla Commissione la possibilità di aggredire alcune questioni.
Non voglio fare uno sgradevole paragone tra lei e il suo predecessore, al quale vanno imputate per intero la concezione e la creazione dell'ANVUR. Non mi stupisco del fatto che l'ex Ministro Mussi, e la maggioranza che lo sosteneva, abbiano pensato all'ANVUR, perché è tipica della loro mentalità questa visione centralista che porta a controllare fin nei particolari, ovviamente ricompensando in modo adeguato e forte, come lei giustamente rileva nella relazione, coloro che ne facevano parte.
Le chiedo scusa fin d'ora, Ministro, se utilizzerò degli slogan, ma il tempo breve a mia disposizione non mi consente di fare altro. Concordo con lei fino alle estreme conseguenze, laddove con una bella immagine afferma che occorre «liberare le ali dell'autonomia dal troppo piombo che ne impedisce il volo». Credo che lo Stato debba e possa correre dei rischi, senza però tarpare le ali all'autonomia dell'università, valore fondamentale soprattutto in un momento come questo, in cui ci accingiamo ad esaltare l'autonomia anche in altri settori. Come maggioranza, ci accingiamo a realizzare il federalismo fiscale e sarebbe quindi ridicolo se accentrassimo il controllo sulle università.
In secondo luogo, le chiedo di riflettere sull'opportunità di rivedere radicalmente il criterio del FFO, che lei definisce «storico». Questo Paese ha già conosciuto momenti in cui si sceglieva di sostenere la spesa per ragioni storiche. Mi riferisco ai famosi decreti che ripianavano i debiti degli enti locali, come lei, che è lombarda, ricorderà. A Bergamo, i cui amministratori capaci avevano portato a pareggio il bilancio, non veniva quindi dato un euro. A Reggio Emilia, la mia città, in cui si spendeva e spandeva in ossequio al criterio comunista secondo cui sarebbe intervenuto Pantalone, negli anni Settanta venivano date circa 150-200 mila lire ad abitante. Chiedo di rivedere questo criterio. Lei accenna ad una quota del fondo destinata a premiare i migliori pari al 20 per cento, ma le suggerirei di non abbassare la percentuale a meno del 25 per cento, costringendo tutti a uno sforzo supplementare.
Le chiedo anche di riflettere sulla questione degli atenei che versano in una situazione di avanzata esposizione finanziaria. Lei afferma di essere pronta ad aiutarli. Anche qui, vorrei farle un parallelo: a nord della linea gotica non sono molto entusiasti di quello che sta facendo il Governo per aiutare il Comune di Roma portato al dissesto da Veltroni. Anzi, sono molto critici. Quindi, attenzione, perché non è giusto farsi carico di una serie di preoccupazioni, bisogna affermare il criterio per cui anche gli atenei possono fallire, con le relative conseguenze. Il rettore di un ateneo che fallisce non può continuare a essere un libero cittadino. Ieri il CSM ha licenziato un magistrato. Forse si può cominciare a pensare anche a licenziamenti di altro tipo.
L'ultima questione riguarda la ricerca. Le sono grato perché non ci ha chiesto nulla, ma sarà informata che questa Commissione all'unanimità ha espresso un parere unanime sul decreto dei rifiuti, che anticipa le considerazioni da lei espresse nella sua relazione. Da questo punto di vista, anche rispetto a reiterate obiezioni che provengono da una sua collega di Governo che non si occupa del MIUR, ma di un altro Ministero, abbiamo spiegato che l'anomalia è quella di non aver voluto
mettere i tre istituti che vanno a sciogliersi sotto il controllo del MIUR. L'anomalia non risiede in quanto proposto da questa Commissione, ma nel fatto che finora l'Istituto per la ricerca applicata sul mare fosse sotto il controllo del Ministero dell'ambiente. Noi tentiamo di ritornare alla procedura ordinaria.
Signor Ministro, desidero porle una domanda. Lei avrà certamente letto che alla fine della legislatura precedente, il 30 gennaio con il Governo in crisi, questa Commissione con un colpo di mano dell'allora maggioranza, nonostante i reiterati inviti a soprassedere da parte di tutta l'opposizione, nominò il professor Luciano Maiani presidente del CNR. Nessuno dell'opposizione contestò le qualità scientifiche della persona, rilevando piuttosto come si trattasse di una procedura anomala e fu incredibile che venne portata avanti con il Governo in crisi.
Le chiedo quindi di dirci cosa intenda fare, avendo presente che nell'intervento che svolsi allora a nome dell'UdC invitavo il Governo a soprassedere, giacché il successivo Governo, che non sarebbe stato della sinistra considerati i disastri combinati, avrebbe anche potuto procedere nella direzione dello spoil system.
PAOLA GOISIS. Innanzitutto, saluto il Ministro, di cui condivido la relazione. Sarebbe difficile dissentire dai punti sottolineati e dalle proposte di soluzione avanzate.
Ovviamente mi sento «invitata a nozze» dalle considerazioni del collega Barbieri, laddove afferma che, per giungere alla soluzione delle problematiche legate all'università e alla ricerca, non si può prescindere dai temi dell'autonomia, del merito e di una sana, determinante competizione. A tutti questi elementi noi aggiungiamo con forza una visione privatistica dell'università. Come paladini dell'autonomia e dell'indipendenza, chiediamo il «federalismo» anche per l'università, perché in questo modo si eliminerebbero le storture esistenti al suo interno. Finché lo Stato interverrà a sanare i buchi e le voragini delle varie regioni, città o università, non ci sarà da parte di quest'ultima né degli studenti la volontà di cercare livelli qualitativi dei titoli più elevati. Per questo motivo insistiamo su questa visione privatistica dell'università.
Siamo molto contrari a una presenza eccessiva dello Stato, che come sempre va a sanare posizioni, colpendo in modo iniquo le università al pari di città e comuni virtuosi.
Se lo Stato non erogasse queste risorse, il risparmio potrebbe garantire l'effettivo diritto allo studio anche delle classi meno abbienti. Chi non ha le necessarie capacità economiche, va a lavorare, perché lo stipendio è necessario al sostenimento della famiglia e lo studio viene relegato all'ultimo posto. Se al contrario avessimo una consistente risorsa per questi studenti e per le loro famiglie, potremmo garantire situazioni di eccellenza anche a loro, senza creare bravi piccoli imprenditori, cui però viene precluso il diritto allo studio.
D'altra parte, le migliori università al mondo sono quelle americane, in cui vige appunto questo principio. Anche in Italia, una delle migliori università, la Bocconi di Milano, ha una posizione economica di gran lunga legata alla privatizzazione. Di contro, tante università italiane su cui continuano a confluire risorse sono di livello modesto, per non dire mediocre.
Per eliminare la problematica dell'università, da tempo proponiamo l'eliminazione della valenza legale del titolo di studio. Tanti ragazzi, più al sud che al nord, ricorrono alla laurea, perché senza fare eccessiva fatica è facile con il titolo di studio concorrere per le assunzioni negli enti pubblici. In questo modo non si dà possibilità di ulteriore sviluppo al sud, che invece si vorrebbe far crescere, e di cui viene meno la preparazione.
L'eliminazione del valore legale del titolo di studio significa invogliare chi veramente è portato a scegliere la strada dello studio, aiutandolo con borse specifiche. In questo modo l'università garantirebbe soluzioni molto importanti.
Per giungere alla soluzione delle problematiche dell'università, il reclutamento dei professori universitari deve seguire
strade diverse, al fine di eliminare forme di critica rivolte a questa categoria spesso accusata di baronaggio. Le università hanno figure eccellenti, glorie nazionali e luminari della scienza, ma spesso il loro valore è inquinato dal famoso nepotismo, per cui vi si ritrovano padri e figli e ci si chiede chi tra loro sia il professore. A tale riguardo, proponiamo un sistema diverso, che preveda l'obbligo di seguire concorsi molto rigidi sulla scia di quelli richiesti ad esempio per la carriera diplomatica. Avremmo la possibilità di prospettare una soluzione estremamente selettiva, restituendo credibilità all'università italiana, che invece si trova in grande ambascia.
Il sistema del «3 2» è previsto dall'Europa, che però prevede tante altre cose sulle quali non siamo d'accordo. Il «3 2», inoltre, è inficiato dal fatto che le scuole precedenti, in particolare la scuola media, sono l'elemento in cui si ravvisa il fulcro della negatività. Alle medie non si studia assolutamente, e, a partire da lì, si continua a portare avanti questa difficoltà.
Per quanto riguarda la ricerca, occorre usare termini più appropriati e dichiarare che purtroppo i ricercatori sono sfruttati. Ho dissuaso mia figlia dal fare la ricercatrice, perché è assurdo dopo tanti anni di lavoro e di studio essere considerati fino a 40-50 anni precari. Come occorre ridare credibilità e dignità alla scuola superiore, altrettanto bisogna fare con l'università ricordandosi dei ricercatori.
Vorrei chiedere infine perché i tre quarti delle risorse assegnate alla ricerca vadano agli enti di ricerca del sud.
PINA PICIERNO. Rivolgo un ringraziamento al Ministro soprattutto per l'auspicio iniziale, che andava nella direzione di una maggiore partecipazione dei giovani alla progettazione del futuro del Paese, che ritengo un fatto importante.
Condividiamo la centralità del sapere e della formazione, laddove la società della conoscenza è non uno slogan, ma un preciso obiettivo cui dedichiamo le nostre riflessioni, il nostro tempo e il nostro impegno quotidiano. Sappiamo che dal sapere delle persone nascono innovazione e sviluppo ed è per questo che la formazione è al centro del dibattito internazionale; eppure purtroppo in Italia questo dibattito stenta a decollare, perché il punto di vista degli studenti fatica a essere preso in considerazione.
Considero importante ricordare che dai nostri studenti, dalla loro formazione, dalla loro testa, dal loro cervello dipende il futuro del nostro Paese e la capacità di risalire nelle classifiche, che ci relegano a livelli molto bassi nella capacità di produrre e di competere con gli altri Paesi.
Desidero soffermarmi brevemente sul punto di vista di quello che ritengo il grande capitale di questo Paese, ovvero i ragazzi, partendo da una considerazione di ordine generale. In questi anni la riforma dell'ordinamento didattico è stata sempre fatta attraverso decreti ministeriali, senza operare un confronto autentico con il Paese, con i docenti e con gli studenti, e senza utilizzare il Parlamento come luogo di proposta, di discussione e di approvazione delle riforme proposte.
Il dibattito è poi proseguito senza un'accurata indagine degli effetti positivi e negativi di volta in volta messi in campo. Ritengo quindi che non abbiamo più bisogno di scelte fatte in solitudine, ma dobbiamo porci l'obiettivo di riportare i laureati a livelli europei, obiettivo che anche il Ministro si è posto nelle sue linee guida. Per farlo è necessario il coinvolgimento di tutti.
Considero dunque fondamentale la revisione della legge n. 390 del 1991 sul diritto allo studio, per ottenere livelli essenziali di prestazioni, in grado di garantire la piena applicazione dell'articolo 34 della Costituzione, citato dal Ministro. La suddetta legge non tiene conto delle novità intervenute con la modifica del Titolo V.
Sempre a proposito di welfare per gli studenti, è giusto ricordare come le regioni abbiano standard molto difformi nei servizi erogati agli studenti. Provengo da una regione del Mezzogiorno, la Campania, e purtroppo alcune regioni coprono poco più del 50 per cento delle borse di studio.
Abbiamo bisogno di un sistema in grado di garantire a uno studente che
frequenti l'ultimo anno della scuola superiore il diritto di scegliere in quale università studiare, scelta attualmente consentita soltanto a chi può permetterselo in quanto manca un sistema nazionale che garantisca l'erogazione delle borse di studio. La stessa legge n. 390 del 1991 prevedeva una consulta di valutazione sul diritto allo studio universitario, che non è mai stata resa operativa. La valutazione deve riguardare non solo la didattica, ma anche la qualità di vita degli studenti. Bisogna infatti valutare non solo le competenze che si acquisiscono, ma anche le condizioni in cui i giovani italiani studiano, perché la qualità del percorso formativo dipende anche dalla qualità delle condizioni di vita dello studente.
In questo senso, auspico la ripresa in tempi rapidissimi della discussione sullo statuto dei diritti degli studenti. Nella scorsa legislatura, Ministro, si era arrivati a una bozza approvata anche dal Consiglio nazionale degli studenti universitari, organismo con il quale, insieme con le organizzazioni studentesche, credo sia opportuno discutere sulle questioni dell'accesso al sistema universitario, di cui purtroppo non esiste traccia nella sua relazione.
In Italia si è ritenuto di recepire le direttive europee relative agli standard qualitativi per determinate facoltà attraverso l'introduzione del numero programmato e i test di accesso alle università con la legge n. 264 del 1999. Ritengo opportuno avviare una riflessione responsabile su come permettere ai capaci e ai meritevoli di accedere ai più alti gradi di istruzione attraverso l'imprescindibile strumento del merito, tenuto conto di come a causa degli scarsissimi finanziamenti di cui l'università italiana dispone sarebbe impossibile per gli atenei gestire corsi che avrebbero all'improvviso migliaia di frequentanti. Considero utile riflettere anche alla luce delle soluzioni e delle scelte adottate da altri Paesi europei. Da anni, infatti, il numero di accessi alle facoltà, che dovrebbe essere stabilito secondo criteri frutto di un confronto tra Ministero e sistema universitario, rimane invariato.
Come reso noto da fatti di cronaca, la magistratura e la Guardia di finanza hanno accertato gravissime irregolarità nello svolgimento dei test dello scorso settembre. In questo senso, le confesso che abbiamo appreso con molto stupore lo slittamento del decreto Mussi-Fioroni, che invece introduceva un principio di merito legato alla carriera scolastica nella valutazione dell'idoneità degli studenti (i famosi 25 punti).
Ci auguriamo che si arrivi a una rapida revisione della materia, che consenta di arginare il ricorso all'accesso programmato alle sole ipotesi di stretta necessità e sulla base di adeguate selezioni e che vengano predisposti tutti gli accorgimenti necessari affinché le prossime prove, che i nostri studenti si troveranno ad affrontare tra poco più di due mesi, si svolgano in piena trasparenza.
Ci auguriamo, infine, che il Ministro Gelmini non desideri caratterizzarsi per l'ennesimo decreto di riforma, ma invece si distingua per la capacità di dare stabilità al sistema universitario e centralità agli studenti e ai giovani, anche attraverso il riconoscimento del Parlamento e di questa Commissione come luogo in cui proporre, discutere e approvare le novità che tutti attendiamo.
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Picierno, e auguri perché con questo intervento lei ha fatto il cosiddetto «battesimo» nella nostra Commissione.
PAOLA FRASSINETTI. Brevemente perché è inutile ripetere argomenti già trattati. Ho selezionato due-tre punti sui quali mi soffermerò. Desidero ringraziare il Ministro Gelmini per questa relazione, che va oltre le linee programmatiche della prima seduta, sebbene io abbia solo l'esperienza della passata legislatura.
Tra i punti che individuo, considero importante razionalizzare i corsi di laurea, che sono 5.450, affinché da questa razionalizzazione possa determinarsi quel risparmio utile a reperire risorse.
Dopo dieci anni, è anche necessario fare il punto sul funzionamento del
«3 2». Esiste infatti una stretta connessione con l'accesso al mondo del lavoro. Ritengo che sul passaggio dall'università al mondo del lavoro si giochi molta della nostra credibilità. Spesso questo «3 2» ha creato disorientamento sia nei laureandi, sia nei giovani professionisti in alcuni settori, quali quello del mondo giuridico, che hanno attraversato un momento di grande confusione nel capire le qualificazioni e le possibilità di inserimento di chi avesse conseguito soltanto una laurea nel triennio.
Ritengo che la collega Picierno possa essere soddisfatta, perché non ho mai potuto verificare nella prima relazione di un Ministro così tanta attenzione all'altra parte della barricata, ovvero ai giovani. Plaudo soprattutto al preciso riferimento al frequente sfruttamento degli studenti, costretti ad affitti elevatissimi fuori mercato, problema importante, che deve essere risolto per tutti gli studenti fuorisede.
Occorre anche dare sostegno ai meritevoli, perché l'università deve essere di tutti e il merito non può essere dettato dal reddito. Devono andare avanti non soltanto i ricchi, ma soprattutto i più meritevoli. L'incentivazione delle borse di studio a questo riguardo è quindi fondamentale, come anche il collegamento dei piccoli atenei al territorio e alle sue realtà produttive.
Una delle esperienze più interessanti del mio mandato da assessore all'istruzione è maturata quando a Monza nel settore della chimica, che stava attraversando un momento di crisi, il Politecnico ha allestito in una scuola media superiore un laboratorio di eccellenza. Questo ha incentivato la ricerca chimica sul territorio, anche allargando la produttività, e dall'università è partito un messaggio di collegamento. Considero quindi molto importante il collegamento fra piccoli atenei e realtà produttive.
Per quanto riguarda la valutazione, hanno già parlato i colleghi che mi hanno preceduto. Incentrerei l'attenzione sulla certificazione di qualità, che deve tener conto dei livelli delle strutture, dei corsi e dei risultati. Uno dei parametri potrebbe essere anche la valutazione del tempo necessario per i laureati a trovare lavoro, che potrebbe rappresentare uno dei momenti qualificanti della certificazione di qualità.
Concludo il mio intervento con l'auspicio che anche nel campo della ricerca, in cui ravviso proposte concrete, si possa compiere un salto di qualità. Plaudo anche all'individuazione del campo agroalimentare e ambientale, soggetti dell'Expo 2015, che saranno la guida per il salto in avanti di tutta la nazione nel campo della ricerca. Per attuare le linee programmatiche, potrà avvalersi, Ministro, di un proficuo e corretto confronto. Ad ogni modo, siamo qui in prima linea per aiutarla e per non lasciarla sola.
PRESIDENTE. Siamo alle battute finali, perché il Ministro Gelmini deve andare in Senato.
MANUELA GHIZZONI. Mi rendo conto che il tempo è pochissimo, quindi procederò con alcuni quesiti, purtroppo, a scapito dell'articolazione che il tema meriterebbe.
Nello specifico della sua relazione, mi ha positivamente colpito il richiamo a tre pilastri, che anch'io ritengo assolutamente necessari per la realizzazione di un buon sistema universitario e di istruzione superiore: autonomia, valutazione e merito. Purtroppo - esprimo una considerazione politica -, andando avanti nell'esposizione mi è parso che questo spazio di collaborazione e di confronto si sia andato riducendo. Faccio riferimento ad alcune ipotesi attuative delle sue linee di intervento e anche alle omissioni di attività legislativa non solo del precedente Governo, ma anche di questa Commissione. Procedo per flash, citandoli.
Mi preme innanzitutto sottolineare come l'università, la cultura e l'istruzione purtroppo in questo Paese giochino un ruolo secondario, che la classe dirigente non ritiene strategico. Solo insieme possiamo conquistare spazi e risorse. Non credo che possa farcela da sola, Ministro, e il dialogo è importante anche per questo.
Per assicurare il dialogo, però, deve esistere uno spazio di condivisione tra tesi e antitesi, per giungere ad una sintesi condivisa.
Inizio da un punto che purtroppo manca nella sua relazione: mi riferisco all'AFAM. Non c'è nulla sul sistema dell'Alta formazione artistica e musicale e coreutica, a fronte di un taglio importante, previsto dal decreto n. 93, di 27 milioni di euro su 30. Le chiedo quindi quale sia la sua posizione su questo punto, che non posso nemmeno argomentare, perché è completamente taciuto (Commenti del Ministro Gelmini). Posso garantirle che non c'è alcun accento polemico nelle mie parole. Questo è un tema caro alla Commissione e a me personalmente. Ne parlai anche nella prima audizione - fu il mio battesimo in questa Commissione due anni fa - con l'allora Ministro Mussi. Il problema è però come procedere con la riforma. Non c'è bisogno di sottolineare il ruolo culturale, artistico ed educativo che questa istituzione potrebbe giocare nel prestigio internazionale. Vorrei quindi sapere se intenda andare avanti con
l'ultimo schema di decreto sottoposto all'attenzione del CNAM dal sottosegretario Dalla Chiesa sulle procedure, i tempi, le modalità.
Il secondo punto riguarda i dottori di ricerca. Si era svolto un lavoro per la creazione di scuole, una maggiore sintesi e una maggiore eccellenza dei dottorati. Al di là della questione delle borse di studio, mi pare che lei reciti quello che era il decreto Mussi, ovvero riforma del dottorato, riduzione del numero dei corsi, carattere intensivo della ricerca, rapida internazionalizzazione. Vorrei quindi sapere cosa intenda fare, giacché lo schema di regolamento aveva già compiuto un bel pezzo di strada.
Per quanto riguarda l'ANVUR, signor Ministro, dissento dalle valutazioni formulate anche da lei su quello che viene definito un carrozzone costoso. Se avessi avuto più tempo, avrei fatto un puntuale riferimento ai reali rilievi del Consiglio di Stato e poi dalla Corte dei conti, che non sono quelli citati nella relazione. Do per acquisito che lo spazio di discussione sia altro, però desidero capire se si torni indietro, annullando due anni di discussione. In tal caso, verrebbe a mancare lo spazio di condivisione e di dialogo. Suggerisco di fare un focus su questo punto, per ripartire però da un provvedimento già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, di cui tutti sentiamo il bisogno.
Per quanto concerne la ricerca, non si fa alcun accenno alla nostra legge delega, su cui in aula i Gruppi di AN e UdC si sono astenuti. È stata una legge condivisa, portata avanti da me e da molte altre donne, cui lei non fa riferimento. Aspetto risposte concrete su come intenda procedere.
Non torno sul tema dell'istituto di ricerca per la protezione ambientale, richiamato dall'onorevole Barbieri, istituto finito inopinatamente in questo ultimo provvedimento sui rifiuti.
Per quanto riguarda ricerca e ricercatori, quando lei afferma l'esigenza di potenziare le risorse soprattutto private, mi sarei aspettata una parola sul programma Industria 2015 e sugli sgravi fiscali del 10 e del 40 per cento. Pistorio, persona non sospetta, aveva riconosciuto che avevamo lavorato bene in questo senso. Vorrei allora sapere se intendiate proseguire nel DPEF.
PRESIDENTE. Ormai nella finanziaria.
MANUELA GHIZZONI. Ha ragione, presidente, ormai nella finanziaria. Ci aspettiamo la prosecuzione di un progetto valutato da più parti come assolutamente positivo. Lei dice giustamente di sbloccare le risorse, i 40-80 milioni per i concorsi da ricercatore, ma non indica come. Fa riferimento al nostro regolamento, poi bloccato, senza specificare come reclutiamo. Trattando di ricerca non cita mai il peer review. È infatti necessaria una valutazione ex ante ed ex post, ma anche con il peer review, laddove solo il 10 per cento di tutti i finanziamenti italiani viene attribuito in questo modo.
Confrontiamoci e viviamo uno spazio di condivisione. Avevamo presentato una legge per i giovani leader di ricerca, che
garantisce ampia autonomia ai ricercatori, esattamente come avviene in Europa con il programma IDEAS, e su cui sarebbe opportuno confrontarci.
Non posso parlare di reclutamento, di governance, ma considero importante quanto già rilevato da alcuni colleghi. Lei fa riferimento a nuove figure. Credo che ci si debba interrogare sullo scopo, sulla missione di questa nuova governance, cui competono molti degli esiti negativi del «3 2». Spero condivida che l'obiettivo strategico della nuova governance debba essere quello di realizzare il massimo di efficienza e di efficacia nel proseguimento di quelle missioni antiche e moderne - non voglio citare von Humboldt, anche se forse ne varrebbe la pena - in uno scenario di crescente accountability, cioè di sistematico impegno a rendere conto dei propri risultati con modalità trasparenti.
Infine, purtroppo, ho un'impressione diversa rispetto alla collega Paola Frassinetti, nostra vicepresidente, perché mi sembra che ci sia troppo poco spazio per i giovani e per il loro futuro. Non possiamo liquidare il tema dei giovani studenti, dei giovani ricercatori alle due paginette del welfare studentesco. Vorrei sapere se non ritenga opportuno arrivare a un diritto di cittadinanza studentesca, laddove la cittadinanza impegna diritti e doveri nella comunità scientifica e sociale dell'università e nei territori in cui i ragazzi vivono. Questo richiamo ai giovani è per noi molto importante, perché sono il futuro dell'università e di questo Paese.
ERICA RIVOLTA. Telegraficamente, signor Ministro, ho apprezzato il suo concetto di giusto equilibrio tra autonomia e valutazione, nel senso di grande responsabilità che l'università italiana deve finalmente dimostrare. Desidero sottolineare velocemente un aspetto basilare: la responsabilità dell'università riguardo al disagio delle famiglie, perché nonostante sia necessario, come sottolineato da molti colleghi, lavorare negli anni precedenti all'orientamento, bisogna riuscire a far trovare ai ragazzi la giusta vocazione. I ragazzi hanno infatti aspettative sbagliate, che corrispondono a prospettive reali diverse. Questo genera depressione e induce la società a un'involuzione nei confronti delle famiglie, che si sacrificano per anni per far laureare ragazzi che poi si trovano a dover lavorare in call center o come cassieri, con conseguenti insoddisfazioni e
impossibilità di costruirsi una famiglia, perché sottopagati. Si tratta quindi di una spirale viziosa, non virtuosa. In questo senso, ritengo che in termini di prevenzione si possa lavorare in maniera importante.
Solo una battuta riguardo al ricambio dei docenti dell'università, che sarà fisiologico. Spero però che i nuovi quarantenni che arriveranno alla docenza non abbiano una mentalità vecchia, perché mi sembra che venga richiesto un collegamento non solo con il mondo fuori dall'Italia, ma anche con tutti i comparti produttivi. È quindi necessario un progresso sia nell'offerta, che nella domanda.
PRESIDENTE. Signor Ministro, so che sta scappando, ma le lascio le ultime suggestioni come presidente di questa Commissione.
Condivido e sottoscrivo senza riserve il suo programma di Governo e le confermo che lavoreremo lealmente con lei per raggiungere i due obiettivi che mi sembrano prioritari: la riconquista della competitività del sistema universitario e l'aumento del grado di internazionalizzazione delle nostre università. Dovremo lavorare insieme soprattutto per cambiare la percezione che l'opinione pubblica ha dell'università. Oggi la gente la considera un punto di debolezza del Paese, con grave danno.
Lei ha indicato le leve nel rafforzamento della competizione tra atenei, premiando qualità e risultati, in una riduzione degli stessi; in un nuovo modello di governance, anche con la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni; nel ruolo della valutazione in senso strategico, i cui risultati garantiscano un reale effetto sulla distribuzione delle risorse, così da incentivare gli atenei a migliorarsi e a riconoscere ai docenti universitari che meglio
lavorano questa nuova professionalità. Tutti questi aspetti vedono gli studenti al centro dell'università. Credo che gli interventi della nostra Commissione abbiano ribadito la nostra attenzione verso questo ruolo, e lei nella sua conclusione è stata molto chiara.
Occorre attuare politiche finalizzate a sostituire il valore legale dei titoli di studio con un sistema flessibile di accreditamento sulla base dei modelli europei internazionali, individuando uno o più organismi dipendenti dal Ministero ma da esso abilitati per l'accreditamento dei corsi di studio universitari a protezione degli studenti e dell'utenza e per evitare la cosiddetta «pubblicità ingannevole».
Le politiche da lei indicate a favore della ricerca e dell'individuazione della mission degli enti pubblici di ricerca sulle aree scientifiche meritano il sostegno del suo operato, ma prima ancora l'intendimento di questa Commissione di essere sempre al suo fianco, a partire dal prossimo appuntamento della legge finanziaria. Grazie, Ministro.
Rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.
La seduta termina alle 14,25.