Sulla pubblicità dei lavori:
Palumbo Giuseppe, Presidente ... 2
Seguito dell'audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di competenza (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):
Palumbo Giuseppe, Presidente ... 2 20
Bocciardo Mariella (PdL) ... 6
Farina Coscioni Maria Antonietta (PD) ... 15
Fucci Benedetto Francesco (PdL) ... 17
Molteni Laura (LNP) ... 8
Murer Delia (PD) ... 2
Patarino Carmine Santo (PdL) ... 14
Porcu Carmelo (PdL) ... 3
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.
Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 13,35.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione, ai sensi dell'articolo 143, comma, 2 del regolamento, del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di competenza.
Do la parola ai colleghi che intendano formulare quesiti o osservazioni.
DELIA MURER. Signor Ministro, vorrei sottolineare alcuni punti che mi sono sembrati in particolare poco definiti nella relazione da lei ieri illustrata.
Innanzitutto, per quanto riguarda la sanità, vorrei riprendere il tema dei ticket sulla diagnostica. A mio avviso, sarebbe necessario che il Governo sondasse la possibilità di reperire le risorse per la copertura piena di questi ticket, così come era successo lo scorso anno nella finanziaria varata dal Governo Prodi. Credo che sia particolarmente complicato, in un momento di difficoltà economica come l'attuale, pensare di pesare sul tema del diritto alla salute in questi termini e con questa modalità.
Inoltre, sempre a proposito di welfare, delle opportunità e delle responsabilità - cioè del filone culturale che lei pone al centro della sua riflessione e modalità di azione - avrei bisogno di capire meglio quali siano le politiche, in particolare quelle sociali, che il Governo intende effettivamente realizzare. Già ieri l'onorevole Livia Turco faceva riferimento alla legge 8 novembre 2000, n. 328 e alla rete dei servizi esistenti, peraltro con modalità diverse, poiché le stesse leggi sono state applicate dalle regioni in termini diversi. Riscontriamo una situazione dei servizi sul territorio che necessiterebbe di un approfondimento conoscitivo, magari tramite un'indagine sull'applicazione della stessa legge n. 328, che comunque non può sfociare, secondo me, in un'oscillazione nei finanziamenti dei servizi da essa previsti e che riguardano diritti di cittadinanza.
Abbiamo già assistito, con il provvedimento sull'ICI, al taglio di una parte del fondo sociale per l'immigrazione. Mi chiedo come possa un fondo definito in termini indistinti in conferenza Stato regioni, venire poi meno in questi termini, senza che sia avvenuta una riflessione e ci sia stato fatto capire l'intendimento vigente nei confronti delle politiche sociali.
Mi pare che ieri sia stato affermato molto giustamente dall'onorevole Livia Turco - e questo lo condivido in pieno - che nel nostro Paese le politiche sociali rappresentano tuttora una «Cenerentola» fra gli investimenti. Sappiamo invece che,
non solo dal punto di vista dei diritti dei cittadini, ma anche da quello delle possibilità di sviluppo del settore, tali politiche sono fondamentali per la qualità civile di un Paese.
Mi permetterei anche di chiedere certezze riguardo al fondo sulla non autosufficienza. Sappiamo che l'invecchiamento della popolazione rappresenta un tema molto forte: abbiamo città dove quasi un quarto della popolazione ha più di 65 anni. Provengo io stessa da una città che presenta questo tasso di invecchiamento, ma che vede anche nuove presenze e nuovi dati demografici (come quelli di presenza di immigrati regolari) sempre più consistenti. Ebbene, vorrei capire, rispetto ai due elementi dell'invecchiamento della popolazione e di una presenza strutturale dell'immigrazione, quali siano le politiche che intendiamo portare avanti.
Per quanto riguarda l'immigrazione, dal Governo è venuta una forte sottolineatura del tema dell'immigrazione irregolare. Trovo, però, molto contraddittorie le scelte compiute, ad esempio nel decreto sull'ICI, nel momento in cui si va a tagliare quasi completamente (di 45 milioni di euro se ne lasciano appena cinque) il fondo per l'integrazione degli immigrati. Sappiamo che quella da noi presente non è più un'immigrazione di prima generazione. Ormai contiamo una fetta di popolazione, formata anche da donne e bambini, che vive nei nostri territori da anni, grazie ai ricongiungimenti. Non possiamo pensare che le politiche di integrazione si possano affrontare senza risorse e, appunto, senza misure a favore dell'integrazione stessa. Questo nostro Paese deve affrontare il tema dell'immigrazione globalmente, favorendo la regolarizzazione e sostenendola. Sotto questo profilo vedo alcune contraddizioni, almeno nelle prime scelte che sono state
intraprese.
Vorrei capire meglio quali siano le scelte generali che il Governo intende fare: lei, signor Ministro, ha dichiarato di voler procedere a zig zag, ma così si finisce per non capire dove ci si intenda dirigere.
Un'altra preoccupazione che nutro, legata sia al tema dell'invecchiamento della popolazione, sia a quello di una difficoltà che si svilupperà nella rete dei servizi e che anzi già esiste, proprio perché il nostro Paese investe poco nelle politiche sociali, si riferisce al tema delle badanti.
Al riguardo mi pare che lei, tempo fa, avesse previsto un provvedimento, o almeno si era parlato di un emendamento, diventato poi un disegno di legge; in ogni caso, non ho capito quale strumento alla fin fine si voglia adottare. Dobbiamo tenere presente che, rispetto al totale dei soggetti che attendono una risposta alla domanda inviata al Ministero dell'interno per la regolarizzazione, una fascia molto consistente è rappresentata da persone che svolgono proprio questo lavoro. Noi siamo consapevoli che, se non verrà emanato alcun provvedimento, esiste un forte rischio che queste persone rientrino nella clandestinità.
Non amo le sanatorie. Secondo me, bisognerebbe mettere mano davvero ad un nuovo provvedimento che permettesse di favorire l'immigrazione regolare, senza produrre irregolarità, come invece fa la legislazione attuale. Si tratta, ritengo, di un tema emergente sul quale molte persone che svolgono questo lavoro, nonché tante famiglie italiane, attendono lumi.
CARMELO PORCU. Signor presidente, vorrei dare il benvenuto e rivolgere un ringraziamento non formale al Ministro Sacconi, per la disponibilità a essere oggi con noi e ancor di più per la sua dichiarata disponibilità a lavorare di concerto con il Parlamento nel prossimo futuro, al fine di affrontare problematiche che, per importanza nei riguardi dei cittadini italiani e per complessità, non hanno certamente bisogno di essere ulteriormente sottolineate.
L'apprezzamento è anche rivolto all'approccio intellettuale che il Ministro ha voluto adottare in un momento così complesso della vita di questo grande Ministero del welfare, che si presenta - mi sembra giusto sottolinearlo - per la prima volta in vera e propria attività unificata.
Ricordiamo brevemente la vicenda: sono state promulgate leggi che hanno proposto l'accorpamento, ma quest'ultimo non si è mai di fatto realizzato, poiché tutti i Governi che finora si sono succeduti hanno provveduto, come primo atto, a rinunciare all'accorpamento ed a praticare il cosiddetto «spacchettamento».
Questa è la prima volta che ci inoltriamo nella legislatura con l'attuale tipo di organizzazione ministeriale. Valeva la pena sottolinearlo e direi che ora - nelle prossime settimane e nei prossimi mesi - dobbiamo vedere se tale accorpamento funzionerà.
Non dobbiamo tendere all'accanimento, bensì realisticamente prendere atto degli eventuali problemi e se questo procedimento sarà in grado di sortire risultati positivi. Mi sembra che sia questa una maniera concreta, un grande approccio realistico, per valutare la situazione così come essa di fatto è, giacché, visto che fino adesso l'accorpamento non è stato messo alla prova, mi sembra giusto che gli organi competenti non traggano subito le conclusioni.
Se l'accorpamento funziona, se esso serve per raggiungere quegli obiettivi che i teorici di questo tipo di provvedimento si proponevano di realizzare (attraverso una semplificazione, una riduzione delle spese, un aiuto soprattutto ai cittadini che sono i più esposti e che si aspettano qualcosa da questi ministeri), allora ben venga. Se invece esso si trasforma in un appesantimento burocratico, in una non immediatezza nella risposta ai cittadini e, ancor di più, in una non comparazione dei vari livelli a cui esso si propone (in un certo senso, quando vi sono gli accorpamenti, alcune istituzioni e alcuni centri vengono penalizzati rispetto ad altri dall'attività del «superministero» che viene creato), mi sembra che di tutto ciò si debba prendere atto. Se non si può intraprendere altra via, allora si deve risolvere il problema per via legislativa, ripristinando l'antica situazione.
Mi sembra che un identico approccio, così realistico e concreto, alle questioni debba valere anche per la stampa. Nel suo intervento, signor Ministro, lei ha parlato del passaggio - che già è avvenuto nella dottrina e tra gli studiosi, ma che si sta facendo strada anche nella sensibilità della pubblica opinione - dalla concezione di uno Stato sociale che interviene nell'emergenza per concedere un determinato tipo di risarcimento, o di aiuto a persone che si trovano in difficoltà, verso una visione e una concezione più dinamica, anche preventiva, di uno Stato sociale che risponde all'esigenza di concedere opportunità a tutte le varie fasce sociali. Mi sembra che questo sia un approccio positivo e che esso vada nel senso del dibattito che si è sviluppato in questi anni, in Italia e ancor più all'estero, sul problema della sussidiarietà, cioè dell'intervento delle comunità locali (e anche
di quel poco di attività sociale dello Stato) al cui centro sta la persona umana, con la propria integrale dignità, i propri problemi e le proprie potenzialità.
Penso che si tratti di un modo moderno di affrontare questo tipo di situazione e mi sembra che sia opinione largamente diffusa, anche tra noi membri del Parlamento, volerla seguire nel tentativo di aggiornare la macchina istituzionale dello Stato a tale nuova realtà dottrinale che si profila.
Mi sembra che, ancora una volta, dobbiamo realizzare questo tipo di trasformazione, nel senso di facilitare maggiormente la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato sociale, ma ancor di più di rendere utile la macchina statale e le istituzioni pubbliche, ai problemi dei meno abbienti e di chi ha bisogno di essere aiutato a superare le obiettive difficoltà.
In questa trasformazione della concezione dell'intervento statale e delle pubbliche amministrazioni a favore delle persone deboli, mi sembra che il problema della disabilità, in tutte le sue sfaccettature, sia sempre centrale. Lo è ancora di più oggi, signor Ministro, in quanto viviamo in una società ad alto tasso di avanzamento tecnologico che produce profonde contraddizioni, in cui addirittura le gambe di Pistorius, proprio perché non ci sono, diventano un elemento
aggiuntivo per quella persona e non il contrario. Una volta, chi non aveva gambe era tagliato fuori da una certa realtà sociale: non dico che non potesse pensare di andare alle Olimpiadi, ma, probabilmente, non poteva neppure recarsi a fare la spesa al mercato. Oggi, invece, Pistorius, che non ha gambe, corre più degli altri ed è contestato per questa sua partecipazione alla vita civile, al mondo dello sport. Ciò rappresenta una grande contraddizione fra la scienza e la tecnologia che, nel loro avanzamento, abbattono frontiere tecnologiche, fisiche e materiali indubbiamente importanti e che, fino ad ora, hanno penalizzato fortemente la partecipazione dei disabili alla vita sociale e a una certa normalità.
Nella nostra società permangono però, signor Ministro, forse aggravate - ahimè -, tutte quelle barriere di ordine morale, psicologico e ambientale che non hanno mai favorito l'integrazione nella società delle persone imperfette o che soffrono di qualche problema.
L'egoismo sociale non è il frutto di questa società: essa costituisce un antico retaggio. Mi sembra però che, per certi versi, questa società lo alimenti.
Pensiamo ad esempio alla sempre maggiore diffusione della cultura dell'immagine, a una certa moda televisiva o ad altri tipi di cultura che privilegiano l'uomo perfetto in tutto e per tutto, creando nuove barriere e difficoltà che, magari, la tecnologia e la scienza sarebbero disposte ad abbattere. Veramente stiamo vivendo questa contraddizione profonda.
Signor Ministro, lei dovrebbe, secondo me, capire che il problema della disabilità, come tanti altri problemi di emergenza sociale presenti in Italia, non è riducibile a un problema di funzionamento della rete dei servizi sociali. Dire ciò significherebbe diminuire la portata storica, morale e di alta politica del problema stesso. Non si tratta soltanto di far funzionare i servizi sociali, anche se già questo sarebbe un bel passo avanti. Il problema si esaurisce solo prendendo la persona umana e cercando di realizzarne il reinserimento sociale nonché, prima ancora, proteggendo la sua dignità morale all'interno della società, in maniera che nessuno abbia a patire per le proprie condizioni individuali oggettive.
Si tratta di un progetto che coinvolge la cultura di questo Paese e l'anima profonda della nostra Nazione. Un problema del genere non deve essere lasciato al libero discernimento - che qualche volta è presente, qualche altra volta meno - delle istituzioni locali, del volontariato, della rete, di chi si occupa meritoriamente di questi problemi. In qualche modo, il tema deve essere portato avanti anche dallo Stato, che deve farne il suo primo obiettivo.
Assistiamo a un problema drammatico: i cittadini disabili, ma anche altri cittadini gravati da emergenze sociali, non riescono a usufruire pienamente dell'attuale sistema dei servizi sociali. Solo una minoranza ci riesce. Esiste una grande massa di persone che invece, pur avendo diritto, non ha accesso ancora a questo tipo di servizi, per ragioni che attengono anche a una certa realtà italiana, che lei, signor Ministro, ha giustamente richiamato nel suo intervento. Mi riferisco, ad esempio, alla disparità che esiste tra la rete dei servizi sociali disponibili a Bolzano e ad Oristano (tanto per citare la mia regione e non invadere il campo dei colleghi siciliani, calabresi, pugliesi e via dicendo). Nel sud esiste una situazione di forte difficoltà, maggiore che nel nord, anche per il fatto che lo stesso volontariato è diverso. Un conto è fare volontariato in una regione che ha grandi banche, fondazioni bancarie, una cultura del famoso
collateralismo sociale cattolico, che magari ha impostato vere e proprie iniziative di carattere finanziario, importanti, in questo settore; un altro è farlo in regioni depresse anche sotto questo punto di vista, che trovano difficoltà a far funzionare il volontariato volto a tali fini.
Lo Stato deve calibrare il proprio intervento, che deve essere più incisivo nelle aree dove si rileva una situazione emergenziale, rispetto a quelle in cui esiste una
situazione meno grave. Mi sembra che un approccio territoriale (o federale, come lo vogliamo definire) vada assolutamente adottato, anche perché, purtroppo, queste situazioni incidono sulla vita personale di milioni di cittadini che non si possono difendere.
Signor Ministro, ho il dovere di richiamarle alcuni punti, pur rimanendo fedele al mio ruolo di eletto nell'attuale maggioranza. La mia non vuole essere pertanto una presa di distanza, tantomeno una critica all'operato del Governo, bensì una forma di aiuto. Mi sembra che, in questi giorni, annunciare di volere effettuare 200 mila nuove verifiche alla ricerca dei falsi invalidi, nella migliore delle ipotesi ci porterà a fare un altro buco nell'acqua. Le prime verifiche, infatti, vennero ordinate dal Governo Spadolini, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80. Vorrei che il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali facesse presente al Ministro dell'economia e delle finanze che le verifiche vanno svolte per scovare i falsi invalidi e non per creare difficoltà ai veri invalidi. Se una persona è stata considerata invalida al 100 per cento, in quanto gli mancano due gambe o un braccio, non si può pensare che nel
frattempo gli arti gli siano ricresciuti! Le verifiche devono essere eseguite con criterio, per evitare che il cittadino venga inutilmente chiamato a rispondere e venga vessato ulteriormente rispetto alla sua già difficile situazione.
Aggiungo che, con 241 euro al mese, un invalido civile al 100 per cento non può vivere! Devo dire che finora tutti i Governi, di destra e di sinistra, che si sono succeduti in questo Paese, non hanno avuto il coraggio di affrontare questo tipo di situazione. Lo dico liberamente giacché pongo un problema che travalica le maggioranze parlamentari che si sono succedute: l'emolumento rappresenta una finzione, soprattutto nei confronti dei disabili gravi, come quelli che hanno il 100 per cento di invalidità. Si ponga fine a questa finzione: o la somma erogata serve effettivamente a realizzare una condizione di vita accettabile, oppure si dica che non si fornirà più alcuna assistenza. Pensare che si possa risolvere tutto con i 241 euro al mese che tuttora vengono assegnati, mi pare veramente assurdo!
Proporrei, se possibile, di riprendere la vecchia delega che venne applicata alla legge quadro sull'assistenza (legge 8 novembre 2000, n. 328) mi sembra all'articolo 27. In passato fu infatti dato il via al Governo affinché esercitasse la delega sulla riforma degli emolumenti relativi all'invalidità civile, compreso anche l'assegno di accompagnamento, che dovrebbe essere graduato - secondo me - alle effettive condizioni della persona disabile. Questa delega, per varie ragioni, in passato non è stata mai esercitata. Bisogna verificare se adesso sia possibile riprendere questo cammino verso il riordino degli emolumenti. Si tratta di un compito che fa tremar le vene ai polsi, poiché la platea è molto grande e viviamo in una condizione di risanamento economico. Pongo con forza, tuttavia, all'attenzione del Governo questo problema, che non si può eludere. Cominciamo, signor Ministro, a svolgere qualche ricerca sull'attuale situazione,
magari a mettere in agenda questo tema, per capire dove si possa arrivare.
Torno a ripetere che si deve cercare di collocare la questione in posizione centrale. Il problema, infatti, è che la disabilità, in questi ultimi anni soprattutto, è stata scavalcata, come tema centrale di discussione del sociale, da altre problematiche che sembrano più di moda, più emergenziali. Queste ultime, invece, interessano indubbiamente un minore numero di cittadini italiani e inoltre non hanno il risvolto di complessità rappresentato dal fatto di entrare nelle famiglie, come avviene invece per il problema della disabilità.
Una maggiore attenzione, anche mediatica e culturale, a questo tipo di problemi va indubbiamente cercata: si tratta di un dovere nei confronti dei cittadini più deboli di questo Paese.
MARIELLA BOCCIARDO. Signor presidente, nel ringraziare il Ministro, desidero attirare l'attenzione su un impegno che il
Presidente Berlusconi ha preso con tutti coloro che soffrono di malattie rare e con tutte le loro famiglie. L'impegno è quello di arrivare, in tempi brevi, a una legge di iniziativa parlamentare che regoli finalmente la materia e varare un piano nazionale delle malattie rare. È un iter che, peraltro, è già iniziato presso la Commissione sanità del Senato. Vorrei anche aggiungere che, in fase di stesura del programma elettorale, ho presentato, proprio all'ufficio programma, una mia proposta di piano nazionale sulle malattie rare.
Il problema delle malattie rare rappresenta un'emergenza sanitaria, non solo in Italia, bensì in tutta Europa. Fino ad oggi ne sono state individuate oltre settemila e purtroppo il numero è destinato a crescere. In Europa le persone colpite da una malattia rara sono 30 milioni; in Italia sono 2 milioni. Se consideriamo il contesto familiare, non meno di 6 milioni di persone sono coinvolte in questo problema e attendono dalla politica risposte chiare e concrete. La Commissione europea si prepara a emanare alcune raccomandazioni ai Paesi membri. Lo farà nel secondo semestre di quest'anno sotto la presidenza di turno francese; una presidenza che è molto attenta alle problematiche delle malattie rare (la Francia, già dal 2004, si è dotata di un piano nazionale sulle malattie rare, che ha fornito ottimi risultati).
La raccomandazione della Commissione europea conterrà certamente l'invito ai Paesi membri a dotarsi di un piano di intervento nazionale su tali malattie. In Italia, il primo e ultimo provvedimento legislativo in materia risale al 18 maggio 2001. Fu proprio un decreto del Governo Berlusconi ad affrontare per la prima volta il problema. Sono passati ormai sette anni ed è necessario completare l'opera di quel decreto, alla luce delle nuove conoscenze scientifiche, di quanto non ha funzionato e di quanto ancora occorre fare. Ricordo, inoltre, che proprio nell'ultimo Consiglio dei ministri del Governo Prodi fu approvato il decreto Turco, che aggiungeva ulteriori 109 malattie rare alle 581 già riconosciute, ai fini della rimborsabilità. La Ragioneria dello Stato - come appunto anche lei ha ricordato ieri - ha verificato, tuttavia, che questo decreto manca della necessaria copertura.
La necessità di elaborare un piano nazionale delle malattie rare è ormai ineludibile. I nodi da sciogliere, i punti critici da affrontare, non sono pochi. Ne accenno alcuni; li consideri, signor Ministro, un contributo alla sua iniziativa, il «libro verde» di cui ha parlato ieri e che io ritengo davvero interessante. Le associazioni che si occupano di malattie rare denunciano da tempo che le persone colpite da queste malattie non godono di uguali diritti. C'è quindi, alla base di ogni intervento su questo tema, un principio di equità da garantire. Equità di accesso alla diagnosi, al trattamento e all'assistenza. Ognuna di queste patologie rappresenta infatti un problema a se stante e non tutti questi problemi vengono affrontati nello stesso modo, sia dal punto di vista terapeutico, sia dal punto di vista dell'esenzione dei costi e dell'assistenza. Le principali criticità, relative al trattamento per le persone con
malattie rare, sono legate al mancato rimborso di farmaci in fascia C e dai diversi approcci regionali relativi al rimborso per le persone con malattie rare non incluse nei livelli essenziali di assistenza (LEA). Questi diversi approcci hanno portato a disuguaglianze regionali, rispetto ai farmaci rimborsati, che sono a mio parere inaccettabili. Non solo: si dovrà porre fine alla diversa classificazione, quindi al diverso trattamento, delle malattie rare. Non possono esserci più malattie di prima o di seconda classe. Ad esempio, alcune malattie della pelle sono drammaticamente invalidanti e devono essere curate in ospedale, ma inspiegabilmente esse vengono considerate minori. È importante che ogni farmaco, ogni sussidio paramedico o parafarmaceutico, ogni esigenza di ricovero ospedaliero, anche in day hospital, sia esente da costi allorché si tratti di malattia grave, rara ed invalidante.
Nel corso degli ultimi anni, l'Italia ha intrapreso svariate iniziative in questo ambito,
in collaborazione con le associazioni di malati. Tali iniziative vanno incentivate e sostenute adeguatamente.
Un altro obiettivo che ci dobbiamo porre, è il miglioramento dell'assistenza sanitaria destinata alle malattie rare, che rappresenta una vera e propria impresa per la sanità pubblica, in ragione dei dati epidemiologici, delle conseguenze di tali patologie sulla qualità della vita dei pazienti e sulle loro famiglie, nonché delle sfide che le ricerche devono affrontare nei campi della diagnosi e del trattamento.
Credo che sia necessario aumentare le conoscenze sulle malattie rare attraverso la revisione del curriculum universitario dei medici e degli operatori sanitari e sociali. Credo che sia necessario aumentare anche la formazione, poiché, ahimè, spesso ancor oggi, di alcune malattie rare che si conoscono da anni e anni, certi medici non sospettano nemmeno l'esistenza.
Credo sia importante creare pochi, ma validi centri specializzati di riferimento, dove la persona affetta da una malattia rara possa trovare risposte precise, percorsi terapeutici efficaci, sostegno reale al suo viaggio nella sofferenza.
Credo che la ricerca, sia farmacologia che clinica, vada sostenuta con fondi adeguati alla drammaticità del problema.
Signor Ministro, mi auguro che la sua azione di Governo apra un nuovo scenario di speranza per tutti coloro che soffrono di malattie rare e che finalmente chi è affetto da una malattia rara non si senta più «figlio di un dio minore».
«Raro» non vuol dire «diverso», bensì, per me, «speciale». Mi permetto di concludere il mio intervento rileggendo l'incipit di una lettera inviata, nel novembre del 2007, dalla Federazione italiana malattie rare (UNIAMO) all'allora ministro Turco e che ancora oggi è il più semplice, il più drammatico appello che si possa fare. Lo faccio mio, perché ne condivido la profonda drammaticità: «Signor Ministro, ci vogliono sette anni per diagnosticare una malattia rara, sette anni in cui il malato sente che la sua vita se ne sta andando, senza capire il perché. Non sa dove cercare la cura e, quando forse la trova, non si può curare, perché non c'è che chi produce il farmaco giusto. Intanto, tutto intorno frana: la famiglia, il lavoro e la vita...».
LAURA MOLTENI. Il mio intervento politico, oggi, è incentrato su alcuni punti cardine delle politiche sociali care al mio gruppo, la Lega Nord. Le priorità programmatiche individuate dal Ministro Sacconi, trovano significativo riscontro in quelli che ormai da tempo sono gli orientamenti della Lega Nord nel settore sanitario e sociale. Federalismo sanitario, contrasto all'inefficienza della spesa, promozione della qualità e continuità delle prestazioni assistenziali, misure a tutela della vita e in particolare della vita nascente, sono infatti solo alcune delle linee guida che da tempo la Lega Nord ha perseguito come punto di riferimento costante della sua azione politica in ambito socio sanitario.
La politica di solidarietà deve essere inquadrata in un'ampia azione finalizzata a garantire la coesione sociale come condizione stessa dello sviluppo. L'organizzazione del sistema delle politiche sociali, nelle sue finalità e obiettivi, non può prescindere dal considerare il principio della sussidiarietà orizzontale e verticale, principio che costituisce lo strumento politico per riavvicinare la vita delle istituzioni alla vita di cittadini, il paese legale al paese reale, l'economia alla società.
È necessario mettere in moto una politica diretta a dare un segno decisivo di cambiamento, volta innanzitutto a permettere alla nostra società di riappropriarsi di quei principi e valori insiti nella tradizione etica e culturale del nostro Paese. Riappropriarsi dei valori fondanti della nostra società significa in primo luogo riaffermare la forza insita nell'istituzione della famiglia, volano delle generazioni future e pilastro su cui si fondano le comunità locali, il sistema educativo, le strutture di produzione di reddito e il contenimento delle forme di disagio sociale. Parliamo, ovviamente, della famiglia riconosciuta dalla nostra
Costituzione, ex articolo 29: una società naturale fondata sul matrimonio. Per noi è irrinunciabile l'esigenza di difendere la Famiglia, quella con la «effe» maiuscola, non a parole, bensì con atti e scelte politiche chiare. È doveroso garantire il diritto di ogni persona a formare una famiglia, o ad essere inserita in una comunità familiare; sostenere il diritto delle famiglie al libero svolgimento delle loro funzioni sociali; riconoscere l'altissima rilevanza sociale e personale della maternità e della paternità; sostenere in modo più adeguato la corresponsabilità dei genitori negli impegni di cura e di educazione dei figli; promuovere e valorizzare la famiglia come struttura sociale primaria di fondamentale interesse pubblico; attuare le condizioni necessarie affinché, nell'ambito della stessa famiglia, possa realizzarsi la compresenza di più generazioni, favorendo
la permanenza della persona anziana nel nucleo familiare.
È necessario e urgente affrontare in maniera sistematica la prima e più importante esigenza della famiglia: quella di esistere.
L'obiettivo principale deve essere infatti quello di incentivare la natalità attraverso una serie di strumenti che intervengano nella fascia di età più delicata del bambino, fino al compimento del terzo anno di età. Delicata sia in termini educativi, sia in termini di richieste di attenzioni e cure. Delicata, per la maggior difficoltà nella conciliazione delle esigenze familiari con quelle lavorative.
In Italia la Costituzione ha operato una scelta assai chiara tra famiglia fondata sul matrimonio, espressamente riconosciuta dagli articoli 29 e seguenti e altre forme di rapporto fra le persone. Tuttavia nel nostro Paese il numero dei matrimoni risulta essere in forte diminuzione. A partire dagli anni '80, decennio in cui è stato raggiunto il maggior numero di unioni matrimoniali - 312.272 nel 1989 - si sono registrati sempre meno matrimoni tanto che, nel 2002, ne sono stati celebrati solo 265.635. Ci si sposa meno, ma anche più tardi. I giovani rimangono ormai per un tempo sempre maggiore a casa dei genitori. Le cause sono molteplici, infatti non sempre si tratta di una scelta. Tutto il ciclo di vita individuale si è infatti progressivamente spostato in avanti, con la conseguenza di aver determinato un inevitabile allungamento dei tempi che cadenzano gli eventi decisivi della vita del singolo. Si lascia più tardi la famiglia di origine, ci si
sposa più tardi, si fanno figli più tardi. L'età media di chi mette al mondo il primo figlio è aumentata di circa tre anni in un ventennio e si assesta ormai sui trenta anni nelle ultime generazioni.
La piaga della denatalità affligge il nostro Paese. L'invecchiamento della popolazione dipende non solo dall'allungamento della vita, ma anche dal crollo del tasso di fecondità; si è infatti registrato un decremento del numero medio dei figli per donna. Da livelli pari a 2,1, prossimi all'equilibrio demografico, si è arrivati a un valore minimo di 1,18 nel 1995, decrescendo con continuità. Infatti, in un mondo nel quale tutti in qualche modo si sentono giovani e la giovinezza si istituzionalizza, a farne le spese sono proprio coloro che anagraficamente rientrano nei canoni oggettivi della gioventù. Se noi non interveniamo in modo urgente, saremo condannati a un destino di precarietà, dove l'incertezza e la instabilità caratterizzeranno la nostra esistenza. Il nobile desiderio dei giovani di volere contribuire al bene comune, in piena autonomia e indipendenza, sposandosi e mettendo al mondo dei figli, si infrange
dinanzi a problematiche di difficilissima soluzione.
Investire nella famiglia può essere oggi un ottimo strumento per garantire le pensioni future. Già da tempo, infatti, stiamo sperimentando l'esistenza di una sorta di imbuto capovolto, ove rischiano di essere pochi i giovani che contribuiscono e che contribuiranno alle pensioni, rispetto all'enorme numero dei pensionati già esistenti e che cresceranno nel tempo in modo esponenziale. Chi pagherà queste pensioni? Investire oggi sulla famiglia significa investire sul futuro del Paese, con la doppia valenza che più persone lavorano,
più soldi ci saranno nelle casse del Paese e non si ricorrerà allo strumento dell'indebitamento. È necessario ovviare la tendenza ad avere una base contributiva minima dovuta alla mancanza di nascite con politiche più efficaci a favore della famiglia.
Abbiamo l'esempio delle politiche messe in atto in questi anni in altri Paesi europei, tra tutti la Francia che, in pochi anni, è riuscita ad invertire il trend demografico negativo grazie ad interventi mirati e a considerare la famiglia come parte integrante dello Stato, al centro di una politica di sicurezza sociale.
Le politiche per la famiglia in Francia hanno avuto come obiettivo la ridistribuzione, sia orizzontalmente che verticalmente, del reddito, per compensare i costi dovuti alla crescita dei figli. Nel sistema francese, infatti, le famiglie con più di un figlio ricevono contributi per la crescita dei figli e quelle con reddito più basso possono beneficiare anche di altre forme di sostegno, come contributi per l'alloggio, per libri scolastici e addirittura per le vacanze. Importantissimo, inoltre, il cosiddetto pacchetto PAJE che prevede un contributo economico a favore della prima infanzia, a partire dal settimo mese di gravidanza fino al compimento del terzo anno di età.
Gli italiani, se interrogati sul numero ideale di figli, la pensano come i francesi, gli svedesi o i tedeschi, ma quando poi si passa dai desideri alla realtà, la condizione italiana precipita rispetto a quella di gran parte dell'Europa. I motivi sono noti e di facile individuazione. La situazione economica, l'esistenza o meno di adeguati servizi sociali, i tempi della vita familiare e di quella professionale, la qualità del sistema educativo, la disponibilità di alloggi adeguati ai livello di reddito delle nuove generazioni.
Va data la dovuta attenzione a tutti i membri della famiglia, anche agli anziani e alle persone diversamente abili, perché possano esprimere al meglio le loro capacità. Investire sulla famiglia e sulle persone all'interno della famiglia, significa nel tempo ridurne i costi: i maggiori costi sociali ai quali saremo inevitabilmente, invece, chiamati ad assolvere. Tali interventi richiederanno uno sforzo economico rilevante, ma dovuto, poiché prioritario. Quindi, uno dei cardini principali della politica della Lega Nord è la protezione, la valorizzazione e lo sviluppo dei nuclei familiari come istituzione base irrinunciabile per garantire la salvaguardia dei principi e dei valori necessari per l'educazione dei figli.
In tal senso, è arrivato il momento di conferire piena attuazione all'articolo 31 della Costituzione, il quale sancisce che la Repubblica agevola, con misure economiche e altre provvidenze, la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi.
È triste ammetterlo, ma tale principio, fondamentalmente sancito dalla Carta costituzionale, non sempre ha trovato un'appropriata attuazione.
In tema di sanità, la coincidenza di intenti e di intendimenti con il Ministro Sacconi rappresenta una ulteriore conferma di quel percorso di risanamento e ristrutturazione del Servizio sanitario nazionale, che appare ad oggi irrinunciabile, al fine di conciliare la tendenza costante all'aumento dei bisogni con il problema della perdurante limitatezza delle risorse disponibili.
Nel confermare questa sinergia di azioni e di obiettivi con il dicastero del Ministro Sacconi, riteniamo opportuno richiamare l'attenzione su quegli obiettivi e indirizzi che rappresentano, a nostro parere, un'assoluta priorità programmatica e, in primo luogo, sul tema del federalismo sanitario. Il modello perseguito dalla Lega Nord è ispirato ad una equa divisione di compiti e responsabilità tra lo Stato centrale e le regioni, che devono essere messe nelle condizioni di scegliere come organizzare il servizio, pur nel rispetto dei principi ispiratori del sistema rispondendo in prima persona di eventuali inefficienze o iniquità.
In sostanza, non ci accontentiamo di un riferimento solo formale all'autonomia e alla inderogabile responsabilità per le regioni, come previsto dal patto per la salute
siglato il 28 ottobre 2008 dall'allora Ministro Turco con le regioni, se tale riferimento significa ancora una volta ripiani a piè di lista per le regioni in disavanzo. Siamo consapevoli che la situazione debitoria di alcune regioni continua ad essere assolutamente problematica, ma non siamo disposti ad accettare che tali inefficienze, o inerzie, ricadano ancora una volta sulle regioni virtuose.
È essenziale, in questa prospettiva, ripensare alle misure sostitutive o sanzionatorie dello Stato, affinché sia garantito che la copertura degli eventuali disavanzi gestionali, maturati a livello regionale, avvenga esclusivamente con il ricorso a misure regionali di contenimento delle spese o di ristrutturazione del servizio.
In questo senso, condividiamo le dichiarazione del Ministro Sacconi quando osserva che il problema della cosiddetta lacerazione tra nord e sud non è tanto un problema di inadeguatezza delle risorse disponibili. A questo risultato erano, peraltro, giunte anche le Commissioni di inchiesta parlamentare istituite sul tema nelle passate legislature. Piuttosto si tratta di un problema di efficienza gestionale, rispetto al quale può risultare effettivamente determinante la diffusione della best practice, sperimentata nelle regioni più virtuose.
In linea più generale questo passaggio, nel senso dell'autonomia e della responsabilità regionale, presuppone che sia contestualmente realizzata la riforma del federalismo fiscale. L'esigenza, ormai improrogabile, di dare attuazione al nuovo articolo 119 della Costituzione impone di abbandonare il tradizionale meccanismo di finanziamento del Servizio sanitario nazionale basato sul riparto tra regioni di risorse che, pur qualificate come proprie delle regioni, continuano a essere nazionali nella loro definizione e disciplina. Il cosiddetto federalismo fiscale, introdotto nel decreto legislativo del 18 febbraio 2000, n. 56, ha infatti legato in maniera inscindibile il finanziamento del Servizio sanitario nazionale al complessivo equilibrio economico finanziario, sicché l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione è destinata a incidere in maniera sostanziale sul meccanismo di riscossione e attribuzione delle risorse destinate all'erogazione dei
livelli essenziali assistenza.
In particolare, dovrebbe essere promosso un percorso di progressiva dismissione dei trasferimenti statali nei settori di competenza regionali, attraverso l'attribuzione a ciascuna regione della titolarità delle entrate necessarie a finanziare il servizio, fermo restando il fondo perequativo previsto dallo stesso articolo 119 della Costituzione. La garanzia dell'autonomia di entrata e di spesa di ciascuna regione è infatti destinata, in ultima istanza, a promuovere quel processo di responsabilizzazione dei diversi livelli di governo della sanità che, come si è visto, è presupposto irrinunciabile per una crescita sostenibile del sistema.
L'attuazione del federalismo fiscale implica inoltre il riconoscimento, in capo alle regioni, di più ampi margini di manovra anche sotto il profilo delle entrate derivanti dall'applicazione e riscossione dei ticket. Ad oggi, il sistema delle compartecipazioni appare assolutamente caotico giacché, a fronte della regionalizzazione dei ticket sui farmaci, la determinazione del ticket sulla diagnostica e la specialistica continua a dipendere fortemente dal livello centrale. Situazione questa che, sicuramente, non favorisce un effettivo governo della spesa a livello regionale. Un esempio lampante del paradosso di fondo, che informa l'intero sistema delle compartecipazioni, lo si desume dall'ultima vicenda del ticket di 10 euro a ricetta, introdotto dalla legge finanziaria 2007 sulle prestazioni sanitarie diagnostiche e di specialistica ambulatoriale.
Tale ticket, infatti, ha rischiato di produrre delle distorsioni nel sistema delle compartecipazioni al Servizio sanitario nazionale, che non solo si traducono nella disaffezione dei cittadini nei confronti del sistema pubblico, ma che oltretutto rischiano di compromettere l'equilibrio economico delle stesse regioni. Rispetto alla politica delle compartecipazioni, la Lega auspica quindi che, in questa legislatura, si riesca a giungere a un riordino complessivo
della materia, orientato nel senso della progressiva regionalizzazione di questo importante, ma anche delicato, strumento di responsabilizzazione nell'accesso alle prestazioni.
La politica di responsabilizzazione delle singole regioni e di definizione di nuovi interventi strutturali contro le inefficienze di sistema, implica anche l'esigenza di adottare nuove logiche di responsabilizzazione delle singole strutture erogatrici. Gli obiettivi di ristrutturazione del servizio, secondo criteri di efficienza operativa, di efficacia e appropriatezza nell'erogazione delle prestazioni, possono infatti essere perseguiti solo attraverso meccanismi destinati a operare dal basso verso l'alto, in un circuito virtuoso atto a coinvolgere in prima istanza i diretti responsabili della corretta gestione del servizio.
In termini operativi, gli obiettivi di cui sopra possano essere perseguiti attraverso il potenziamento del sistema dei controlli, rivolto a tutti gli operatori, pubblici e privati, del sistema. In particolare è importante iniziare finalmente a discutere di controlli, non solo sotto il profilo fiscale e contabile, ma anche dal punto di vista della qualità delle prestazioni. Potrebbe essere interessante valutare un sistema di monitoraggio costante dell'accreditamento delle strutture, entrando in una logica anche di integrazione del servizio offerto dal pubblico e dal privato, con la messa in rete dei servizi e con CUP come centri unici di prenotazione. Altri suggerimenti potranno seguire nelle prossime Commissioni.
Il sistema dei controlli rappresenta un tema assolutamente complesso, che presuppone un lavoro di lungo periodo, finalizzato in prima battuta all'elaborazione di indicatori di processi e di esito, ma senza il quale difficilmente si riuscirà a garantire ai cittadini prestazioni appropriate ed anche efficaci.
Sempre in tema di controlli, appare prioritario soffermare l'attenzione sul rischio clinico, individuando comuni percorsi di prevenzione dell'errore, atti ad evitare che si ripropongono i noti casi di malasanità che finiscono per alimentare una sfiducia endemica del paziente nei confronti del sistema.
Avviandomi alle conclusioni, merita una valutazione positiva la programmazione degli interventi diretti alla tutela delle persone non autosufficienti illustrata dal Ministro. Il problema della non autosufficienza sta assumendo toni sempre più allarmanti sotto il profilo sociale ed economico, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione, dell'elevato numero di incidenti sulle strade e sui luoghi di lavoro, del processo di disaggregazione del contesto familiare tradizionale, dell'incremento delle patologie degenerative legate all'inquinamento ambientale.
L'urgenza di tali questioni impone una presa di posizione netta da parte del legislatore, affinché tutti i cittadini si sentano partecipi di un progetto globale, solidaristico, volto ad affrontare un problema che coinvolge l'intera società.
È necessario, infatti, pensare alle persone non autosufficienti in termini di centralità dei bisogni ai quali si devono fornire delle risposte efficaci, tese alla valorizzazione dei potenziali della persona e non soltanto incentrate nella misurazione dei deficit.
Il bisogno di salute deve essere quantificato in relazione a ciò che una persona potrebbe fare se venissero posti in essere quegli interventi capaci di contrastare o ridurre un deficit e di abbattere quelle barriere che costituiscano un handicap apparentemente insormontabile per la persona con disabilità. Un progetto di riforma del sistema deve partire dalla centralità della persona, al fine di valutare e di rilevare le capacità residue e i bisogni del singolo, seguendo un procedimento inverso rispetto alla tradizionale tendenza di partire dalle risorse collettive per poi arrivare agli stanziamenti a favore del singolo. Al contempo, però, è necessario il coinvolgimento della famiglia.
Quanto ai temi che il Ministro Sacconi ha definito «eticamente sensibili», essi rappresentano, com'è noto, un campo di intervento che sta particolarmente a cuore alla Lega Nord.
Due sono le priorità indicate dal Ministro rispetto alle quali esprimiamo assoluta condivisione: piena applicazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 e correzione delle linee guida sulla legge 19 febbraio 2004, n. 40. Sul tema dell'interruzione volontaria di gravidanza, ci limitiamo a segnalare che, rispetto all'esigenza di sollecitare la piena attuazione di una legge non completamente applicata, la Lega Nord ha presentato già nelle passate legislature una proposta di legge sulla riforma dei consultori familiari. Sono passati trenta anni da quando è entrata in vigore la legge quadro n. 405, del 19 luglio 1975, con la quale furono istituiti i consultori familiari, nati sotto l'influenza del dibattito sulle rivendicazioni per l'emancipazione della donna che ha caratterizzato gli anni '70 e che hanno imposto l'attenzione dell'opinione pubblica e la necessità di un luogo di dialogo e di informazione sulla sessualità, sulla procreazione e sulla
contraccezione.
Nelle intenzioni del legislatore, le attività consultoriali avrebbero dovuto offrire un vasto programma di consulenza e un servizio globale alla donna, alle coppie, ai nuclei familiari, in tutti quei settori tematici legati alla coppia, alle problematiche coniugali, genitoriali, ai rapporti e legami interpersonali familiari nonché alla procreazione responsabile.
Pur ponendo l'accento sul valore storico, che hanno rappresentato per la nostra società, è doveroso riconsiderare il lavoro svolto e l'attuale ruolo dei consultori familiari nel nostro Paese, alla luce anche dei notevoli cambiamenti sopravvenuti nell'attuale contesto socioculturale.
Il consultorio ha inoltre assunto in questi anni, anche a seguito della riforma sanitaria, di cui alla legge 23 dicembre 1978, n. 833 e successive modificazioni, la struttura di servizio marcatamente sanitario, in cui si sono privilegiati gli interventi di tipo ginecologico e pediatrico, a discapito della vocazione di ispirazione sociale. I consultori familiari devono, quindi, riqualificarsi sempre di più, evitando una rigida settorializzazione e riduzione al pur importante, ma non esclusivo, ambito sanitario di competenza.
Per rispondere a queste problematiche è necessario che, all'interno del consultorio, si rafforzino interventi di tipo sociale e psicologico, di consulenza giuridica che, nella loro interazione continua, possano costituire un valido riferimento per la donna e per la famiglia. Uno degli obiettivi principali che il gruppo della Lega Nord intende perseguire, è quello di dare realizzazione ai principi di sostegno all'istituzione familiare e alla genitorialità, che attraversano oggi un momento di crisi profonda. In questi anni infatti sono emerse, nell'ambito delle tematiche che il consultorio si trova ad affrontare, problematiche e patologie nuove e sempre più gravi che richiedono iniziative, interventi e prestazioni professionali altamente qualificate, specializzate e che offrono alla persona una risposta esaustiva solo se svolti da equipe.
In tutta la loro gravità si presentano, oggi, i casi di pedofilia, abuso e violenza sessuale. I genitori evidenziano maggiori difficoltà nell'assolvimento delle competenze di cura e di educazione dei figli. Le conflittualità intraconiugali e intrafamiliari sfociano in sofferti procedimenti di separazione o di divorzio. Sono sempre più evidenti gli episodi di maltrattamento e di violenza intrafamiliare. Il disagio preadolescenziale e giovanile rappresenta una costante emergenza poiché, oltre alle problematiche e alle patologie di salute mentale, di tossicodipendenza nonché di dipendenza in senso lato, sono emerse problematiche connesse con l'alimentazione: obesità, bulimia e anoressia. In Italia due bambini al giorno vengono fatti oggetto di abusi sessuali. Negli ultimi anni le violenze sui minori sono cresciute di oltre il 90 per cento. I casi di pedofilia del nostro Paese sono 21.000 all'anno e 50.000 i siti a sfondo
pedofilo che, si stima, possono essere contattati su Internet. Questi dati, anche se vanno considerati per difetto, giacché, com'è ovvio, molti casi sfuggono alle statistiche, mostrano uno scenario quantomeno allarmante.
Vi è un altro aspetto, che non va trascurato, in tema di salvaguardia dei diritti dei minori, della difesa della vita e della dignità della donna che, come Lega Nord, intendiamo affrontare in questa legislatura: mi riferisco alla crescita esponenziale dei casi di abbandono di neonati nei giardini e nei cassonetti, neonati destinati quindi a morte quasi sicura. È importante infatti che proprio i consultori siano tenuti alla promozione di campagne informative e preventive sulla possibilità, riconosciuta per legge dal comma 1 dell'articolo 30 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000, n. 396, che stabilisce che nel nostro Paese si può partorire in forma anonima e assistita, garantendo in questo modo alla donna e al bambino le migliori opportunità di sopravvivenza nel rispetto di una libera decisione.
Si rende urgente e non più procrastinabile una riforma dei consultori familiari che dimostri, nei fatti, una particolare attenzione e sensibilità ai diritti dei minori e della famiglia e che sia fortemente impegnata nella tutela sociale della genitorialità e del concepito. Di qui l'intendimento di garantire il ruolo partecipativo delle famiglie e delle organizzazioni di volontariato a difesa della vita per l'espletamento delle attività consultoriali. Si intende dunque dare nuova linfa vitale a ciò che già era bene esplicitato nelle intenzioni del legislatore che, nel 1975, aveva emanato la legge n. 405 - ovvero la legge sull'assistenza alla famiglia, l'educazione alla maternità e alla paternità responsabili, l'educazione per l'armonico sviluppo fisico e psichico dei figli e per la realizzazione della vita familiare -, ma che nei fatti è stato residualmente attuato. Nei consultori, a nostro avviso, non sempre
viene pienamente attuato il diritto della donna di ricevere valide alternative all'aborto. C'è chi sostiene che sarebbe un'ingerenza nella scelta della donna. Tuttavia, proprio secondo quanto stabilito dagli articoli 2 e 5 della legge del 23 dicembre 1978, n. 194, l'assistenza da dare alla donna in gravidanza deve essere attuata con l'informazione sui diritti spettanti alla gestante, sui servizi sociali sanitari e assistenziali a lei riservati, sulla protezione che il mondo del lavoro deve assicurare a tutela della gestante.
In conclusione, quanto al problema della fecondazione assistita, riteniamo assolutamente prioritaria la revisione delle linee guida relative alla legge 19 febbraio 2004, n. 40. Tema questo che abbiamo già affrontato in una mozione al Governo depositata nei primi giorni della legislatura. Mi limito ad osservare che, a queste priorità legate alla vita nascente, se ne aggiungono altre legate, più nello specifico, alla vita fino alla morte naturale. Il riferimento è in particolare al tema della promozione delle cure palliative come strumento di prevenzione dell'eutanasia in tutte le sue forme, e in generale quale strumento di contrasto al dolore.
CARMINE SANTO PATARINO. Non le nascondo, signor Ministro, che ieri, mentre il suo intervento volgeva alla fine, si stava affacciando in me qualche preoccupazione, in quanto non avevo sentito il sostantivo «ricerca». Poi tutto è stato superato e mi ha ancor più tranquillizzato il fatto che lei abbia detto di voler trattare questo argomento per ultimo, ma non in quanto fosse all'ultimo posto, occupando la ricerca, invece, un posto di primaria importanza nel suo Ministero.
Nel mio intervento partirò da quel nuovo modello sociale, che lei giustamente dice di volere ripensare con metodi e sistemi nuovi. Tra questi, per esempio, il «libro verde» di consultazione, per una coesione nazionale attraverso un rapporto dialettico non solo tra maggioranza e opposizione, tra Governo e Parlamento, ma anche con le regioni e con altre istituzioni, nell'ottica della prevenzione, della opportunità, della responsabilità. Si punta all'obiettivo che ciascuna regione venga messa in condizione di disporre di risorse occorrenti per fare fronte ai propri bisogni reali, facendo leva sul principio della responsabilità, non solo - come lei ha detto - in termini punitivi, ma anche in termini
propositivi, con un'adeguata e autorevole «cabina di pilotaggio» che deve certamente tenere sotto continuo controllo la spesa, ma deve poter fare anche di più.
Lei, signor Ministro, ha parlato di una commissione incaricata di svolgere le più opportune e approfondite indagini per verificare l'efficienza, lo stato delle cose, regione per regione (oserei dire: ASL per ASL). A quella commissione potrebbe essere affidato però anche un altro compito, che potrebbe essere svolto anche da altre commissioni: uno studio approfondito, serio, concreto, su tutto il territorio nazionale, dal quale partire per garantire al nostro Paese un sistema sanitario di altissimo livello. Tutto ciò non solo per tener fede al patto per la salute e assicurare a tutti gli italiani del nord, del centro e del sud, prestazioni e servizi di qualità a cui i cittadini - evitando costosi, sfibranti e dolorosi viaggi della speranza o della disperazione - possano affidarsi con la massima fiducia e senza il timore di entrare una struttura dalla quale si esce bene solo se ti aiuta la fortuna. Occorre mettere in condizione tutte le regioni di
essere ovunque all'altezza del compito, per soddisfare al massimo e al meglio la domanda interna, nonché - perché no! - per diventare punto di riferimento, nel campo della sanità, per altre aree geografiche.
Abbiamo tutto ciò di cui c'è bisogno per essere all'altezza del compito. I nostri operatori sanitari sono tra i migliori del mondo. Vanno messi nelle condizioni giuste per poter lavorare, fare ricerca, per migliorare la qualità dei servizi e delle prestazioni e ampliare, attraverso lo scambio, il confronto e la trasmissione della scienza, la conoscenza e l'utilizzo delle tecniche e degli strumenti di avanguardia. Ogni regione italiana può così diventare un modello. Il Mezzogiorno d'Italia, che oggi può apparire come una delle zone in ritardo o soltanto un grande serbatoio di utenza che si sposta da una parte all'altra - quando accade in Italia, il danno è limitato, ma quando invece l'utenza va addirittura all'estero, il danno è maggiore - ove fosse adeguatamente attrezzato e fossero presenti anche strutture di eccellenza (parlo, per esempio, dell'area della Puglia che guarda al Mediterraneo), potrebbe diventare un
grande punto di riferimento per una zona, quella del Mediterraneo appunto, che oggi è certamente in guerra, ma che non potrà esserlo per sempre. Una volta pacificata, quest'area potrà guardare al proprio nord, rappresentato dal sud dell'Europa, e potrà guardare con un'attenzione particolare al nostro Mezzogiorno.
Del resto, non solo il Mezzogiorno, ma tutte le regioni italiane, ove fossero sistemate in questa maniera, potrebbero far sì che la sanità non si trovi ancora soltanto tra le voci negative del bilancio, ma addirittura fra le voci caratterizzate dal segno «più».
MARIA ANTONIETTA FARINA COSCIONI. Signor Ministro, innanzitutto la ringrazio per il tempo che ci sta dedicando. Tralascio i punti sui quali sono d'accordo con lei e incentrerò il mio intervento su alcuni aspetti che lei ha trattato.
Comincio con la legge n. 194 del 1978. Lei signor Ministro, insieme ad altri esponenti del Governo e della maggioranza, ha sostenuto la necessità di fare una sorta di «tagliando» alla legge, per un suo eventuale aggiornamento. Nulla da eccepire su un monitoraggio dei risultati della legge. Ma in questa sede - non intendo fare processi alle intenzioni - mi limito a osservare che gli aborti clandestini, rispetto alla situazione anteriore alla legge, sono sensibilmente diminuiti. Di conseguenza la legge ha salvato letteralmente la vita di tantissime donne e le ha risparmiate anche da gravi lesioni e da traumi fisici e psichici. Credo che questo dato vada tenuto presente e sottolineato.
Sono convinta, signor Ministro, che il Governo debba operare perché innanzitutto sia garantito, nelle strutture sanitarie, un adeguato numero di medici e di personale non obiettore. In Italia è noto che una altissima percentuale di obiettori compromette l'effettiva applicazione della legge n. 194 ed è stato più volte documentato
come l'obiezione di coscienza venga spesso opposta, oltre che per i convincimenti personali, anche per interessi diversi. Per questo motivo, come esponente della delegazione radicale nel Partito Democratico e come copresidente dell'Associazione Luca Coscioni, le chiedo se non ritenga opportuno istituire, quanto prima, un registro dei cosiddetti obiettori di coscienza che si rifiutano di praticare l'interruzione volontaria di gravidanza nelle strutture ospedaliere pubbliche. Credo che sia opportuno, necessario ed urgente concentrare le interruzioni volontarie di gravidanza negli ospedali di primo e di secondo livello, allo scopo di favorire il confronto, la professionalità e la qualità delle prestazioni, come accade in tutti i settori della medicina, non essendo più accettabile che le interruzioni volontarie di gravidanza siano relegate al mero volontariato individuale di qualche medico.
Per quanto riguarda il dato che illustra come la pratica dell'aborto sia più diffusa tra le donne immigrate rispetto alle italiane, credo che esso sia da imputare alla minore informazione sulle possibilità contraccettive. Dunque, la sollecito a farsi promotore di specifiche campagne di informazione sulla contraccezione. Più in generale, credo che sia sbagliato e controproducente, ritenere il personale non obiettore un qualcosa di simile a macchine abortive. Credo, al contrario che proprio quel personale abbia doti di sensibilità ed apertura maggiori rispetto a quanti si dichiarano per principio contrari all'aborto, essendo i non obiettori realmente aperti a qualunque soluzione che la donna poi decida di adottare nella propria autonomia e non sostenitori e partigiani di un'unica soluzione.
La piena attuazione della legge n. 194 e, in generale, la libera scelta della maternità che si dice di voler garantire - quindi, come ho già detto, in linea di principio sono d'accordo con lei - significa innanzitutto garantire che la donna possa scegliere, in piena autonomia e consapevolezza, se e quando concepire e fare un figlio, ed evitare che sia colpevolizzata se invece decide di interrompere la gravidanza. Auspico che il Governo voglia tutelare e garantire questo principio, anziché restringere gli spazi di questa autonomia e consapevolezza e intenda operare perché siano ulteriormente tutelati e garantiti.
Da sempre, signor Ministro, come Radicali, ci battiamo contro la piaga degli aborti clandestini e crediamo che l'unica autentica politica antiaborto, sia costituita da una diffusa e capillare informazione sugli anticoncezionali. Quindi, se dovessi riassumere con uno slogan, direi: «più contraccezione, meno aborti». Questa era, del resto, la nostra parola d'ordine fin dagli anni Cinquanta.
Un'altra osservazione riguarda la legge n. 40 del 2004. Lei ha già annunciato interventi correttivi delle linee guida che il precedente titolare del Ministero per la salute ha emanato, così come la legge espressamente prevede. Lei ha anche annunciato che il Governo intende rafforzare le pratiche sanitarie di prevenzione dell'infertilità e della sterilità e che intende promuovere la ricerca sulla crioconservazione dei gameti.
Centotrenta parlamentari della maggioranza e dell'UDC hanno depositato una mozione, per chiedere di ritirare le linee guida alla legge n. 40, emanate dall'allora Ministro Livia Turco, definendolo un provvedimento contestabile nel merito e nel metodo, che rischierebbe di promuovere un'inaccettabile cultura eugenetica, in quanto scardinerebbe i principi della legge n. 40, travisando l'intento terapeutico che essa tentava faticosamente di conservare. Osservo che il Ministro Turco era intervenuta seguendo le indicazioni e i pareri dell'Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità, nonché tenendo presenti le sentenze dei tribunali di Firenze e di Cagliari in seguito alla decisione del TAR del Lazio che ha cancellato la norma nelle linee guida che vietava la diagnosi preimpianto.
Anche solo ipotizzare che tutto ciò abbia potuto portare ad una cultura eugenetica è il segno della poca serietà e della faziosità, ma anche della letterale
ignoranza che il dibattito può raggiungere. Quelle usate nella mozione dei colleghi del centro destra sono espressioni forti e, per inciso, credo infondate. Non guasta dunque fare un po' di chiarezza. L'emanazione delle linee guida ha posto la parola fine ad una situazione di mancato rispetto della legge. Si tratta di un provvedimento che, pur nella sua limitatezza - io non ne sono completamente soddisfatta - costituisce comunque un passo avanti verso la scelta autonoma e responsabile della donna, pur nei margini strettissimi ed angusti previsti dalla legge n. 40. L'avere eliminato, per esempio, il divieto di analisi preimpianto non limitata all'analisi osservazionale, altro non fa che recepire le sentenze della magistratura da un lato, mentre dall'altro fornisce un quadro di maggiori garanzie per i portatori di malattie genetiche trasmissibili.
Definire tutto questo cultura eugenetica è, semplicemente, una distorsione. Più che intervenire per peggiorare una situazione già difficile per le coppie che intendano accedere alla fecondazione assistita, come di fatto suggerisce la mozione del centro destra, penso che si debba operare perché le linee guida siano estese anche a pazienti non sterili e non solo a chi è affetto da HIV o epatite. L'essere usciti da questo stato di illegalità è stato salutato da polemiche, attacchi e condanne. Dico con chiarezza che non solo cercheremo di contrastare le iniziative di quanti vogliono un ritorno al passato, ma opereremo perché siano ulteriormente ampliati i margini, strettissimi, lasciati dalla legge n. 40, convinti come siamo che la modifica profonda e radicale della legge rappresenti una condizione indispensabile.
Siamo aperti al confronto e al dialogo con tutti, senza scomuniche, condanne o anatemi. In questo siamo confortati per esempio dall'importante e significativa presa di posizione del professor Giuseppe Testa, dell'Istituto europeo di oncologia, che su Tuttoscienze invita ad evitare interventi legislativi che ostacolino l'intero ambito della ricerca. I divieti ad ampio spettro svuotano di senso lo stesso strumento giuridico. Altra cosa è, invece, un attento regime di regolazione che indirizzi l'evoluzione sia della scienza, sia della società, oltre alle nostre concezioni dell'essere genitori. Meglio di così non si potrebbe dire. Credo che sia profondamente sbagliato contrastare, opporsi ad aggiornamenti che possano garantire e tutelare il legittimo desiderio delle coppie di avere un figlio non affetto dalla malattia di cui sono portatori.
Lei, signor Ministro, ha parlato solo di alcuni aspetti che riguardano la vita di una persona, tralasciando la complessità di altri, non meno importanti. Penso per esempio alle situazioni drammatiche nelle corsie degli ospedali, o fra le mura domestiche, ma pur sempre relegate nella clandestinità; alle decisioni di fine vita prese da medici e da familiari, più che dai malati. Temo che la clandestinità ancora una volta costituisca il presupposto della discriminazione. Ci sono persone che vorrebbero poter porre fine alla propria sofferenza ma sono completamente e letteralmente disarmate, costrette, se sono fortunate, ad affidarsi alla pietà di un medico, di un familiare od un amico; sono fatti, signor Ministro, diffusi ma clandestini. Ignorarli non è certamente la scelta migliore: è semplicemente ipocrisia. Sono convinta che sia necessaria un'indagine conoscitiva, anche anonima, che possa costituire un contributo di chiarezza
alla discussione sulle decisioni di fine vita. Un'indagine conoscitiva che, le chiedo, sia il suo Ministero a svolgere.
BENEDETTO FRANCESCO FUCCI. Signor Ministro, la ringrazio innanzitutto per la esauriente relazione - che condivido pienamente - ad alcuni aspetti della quale vorrei riallacciarmi.
Lei ha parlato di un anomalo rapporto, nella situazione sanitaria, tra nord e sud. Si tratta di un dato innegabile: il deficit sanitario italiano è ammontato, nel 2007, a 3,2 miliardi di euro e questo enorme deficit è distribuito in maniera disorganica su tutto il territorio nazionale. Per esempio, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana sono regioni considerate - a ragion veduta - virtuose, con
punte di eccellenza sanitaria di livello internazionale. Con rammarico, lo stesso non può dirsi di realtà quali Puglia (la mia regione), Lazio e Campania.
Abbiamo quindi un'Italia che è evidentemente spaccata in due, tra nord e sud. Si parla tanto di federalismo e gli avversari di tale ipotesi dicono che questo contribuirà a lasciare ancora più indietro il sud. Però bisogna guardare alla realtà dei fatti e già oggi in primo luogo, proprio sul piano sanitario, il Mezzogiorno vive in una drammatica condizione di arretratezza e disagio nei confronti del nord. Un esempio delle inefficienze che incancreniscono la sanità meridionale è dato ancora dalla mia regione, la Puglia. Qui il deficit registrato alla fine del 2007 era di 200 milioni di euro, pari a circa il 6 per cento del deficit totale italiano.
I deficit in alcune regioni si sono accumulati non solo per le inefficienze dei governi locali (consentitemi ancora di rivolgere lo sguardo alla mia regione in cui il nuovo piano sanitario è stato appena varato dalla giunta Vendola con ben due anni di ritardo rispetto al mandato contenuto nella legge regionale n. 25 del 2006), ma anche per gli effetti perversi dell'assistenzialismo statale, dei fondi distribuiti a pioggia alle regioni. L'assistenzialismo dal centro alla periferia deresponsabilizza i territori ed è, in ultima analisi, nemico di quella che dovrebbe essere una trasparente forma di controllo da parte dei cittadini sulla sanità delle loro regioni. Oggi, infatti, gli aiuti per ripianare i deficit regionali giungono da Roma e nei cittadini (cosa, questa, in fondo del tutto comprensibile e inevitabile) non si forma una percezione diretta del legame fra tasse pagate e prestazioni sanitarie scadenti.
Al contrario, siamo convinti che, con un federalismo fiscale virtuoso e solidale, i cittadini conoscerebbero lo scopo per il quale sono utilizzate le loro tasse regionali.
Ecco perché, a nostro modesto avviso, sono forti due esigenze: rapportare il finanziamento della spesa sanitaria a una compiuta analisi delle reali necessità della popolazione, con riferimento agli aspetti demografici sociali e orografici delle singole regioni e affermare il concetto di responsabilità, pur senza tralasciare l'importanza del necessario spirito di sussidiarietà tra Stato ed enti locali.
Lei ha fatto un accenno molto serio a quello che è il rapporto tra pubblico e privato, rapporto che è balzato in prima pagina dopo lo scandalo della clinica Santa Rita e che fatto quindi balenare il problema della trasparenza nei rapporti tra sanità pubblica e sanità privata convenzionata. Questo è un tema delicato poiché nel periodo 2001-2005, secondo uno studio della Cattolica, il privato for profit ha guadagnato il 2,3 per cento di quota nel mercato della sanità, rispetto al pubblico. Un punto importante di partenza è costituito dalle proposte avanzate dal sottosegretario Fazio in Parlamento, nel corso delle informative sul caso Santa Rita, che non possiamo non condividere. Mi riferisco a un aumento, dal 2 al 10 per cento, della quota di cartelle cliniche controllate nel settore del privato convenzionato, nonché a una riforma ottimale del sistema dei controlli, prendendo come base, per una
discussione costruttiva, il sistema di un'agenzia indipendente, come nell'esperienza americana.
Mi preme porre l'accento su quanto lei ha riferito in merito alla legge n. 194 del 1978, cui la collega che mi ha preceduto ha rivolto tanta attenzione. Essa è composta da due parti: la prima, riguarda la prevenzione degli aborti (articoli da 1 a 6); la seconda parte regola la possibilità di abortire. Nessuno pensa - sarebbe anacronistico farlo - di mettere in discussione una legge che consente alle donne di abortire. Tuttavia è inspiegabile che, oggi, la legge n. 194 veda quasi del tutto non applicata la parte sulla prevenzione. Anche la relazione annuale su tale legge, depositata in Parlamento dal precedente Ministro della salute Turco, negli ultimi giorni della passata legislatura, auspicava una piena applicazione della legge e chiedeva in modo testuale il potenziamento dei consultori quali servizi primari di prevenzione del fenomeno abortivo.
Anche il primo rapporto sullo stato di salute delle donne in Italia, presentato in marzo dal Ministero della salute, afferma la necessità di promuovere il ruolo dei consultori, con l'obiettivo di averne uno in ogni distretto per sei mattine e cinque pomeriggi a settimana. La legge n. 194, quindi, va applicata per intero: questo si chiede. Ciò va fatto non solo per ragioni etiche, ma anche per un motivo molto concreto. Infatti, come ha ben detto lei stesso signor Ministro ieri, una società attiva passa attraverso un aumento della natalità. E già oggi l'Italia, definita dall'Istat come il Paese più anziano di Europa - a causa di un indice di vecchiaia che non ha uguali tra gli altri 26 Paesi dell'Unione europea e che nel 2001-2006 è lievitato del 10 per cento - sta diventando l'esatto opposto di ciò che dovrebbe essere, appunto una società attiva.
Infine, mi consenta anche di ricordare un problema che sta emergendo, soprattutto nel meridione: l'aumento di richieste di aborto da parte delle donne immigrate. Bisogna far sì che le strutture mediche siano in grado di accoglierle ma, soprattutto, di aiutarle nella fase della prevenzione.
Ha fatto riferimento, signor Ministro, alla questione dell'intramoenia e dal dibattito di ieri è emersa un'interessante discussione. Lei ha formulato tre ipotesi, non ultima quella di pensare anche ad un modello flessibile dell'intramoenia, e ha lasciato aperto il campo a qualunque tipo di collaborazione e di decisione. Tuttavia, me lo consentirà anche da medico quale sono, è necessario riflettere sul fatto che oggi, in vaste aree del Paese, specialmente nel meridione, l'intramoenia è materialmente impossibile da praticare, poiché molti medici non sono messi nelle condizioni concrete per poterla attuare come avviene, e da molto tempo, in molte altre parti della Nazione. Prima di parlare quindi di possibili riforme, il che va di per sé benissimo, è necessario che si ponga l'accento sulla attuale legislazione sull'intramoenia perché venga applicata, laddove si decidesse di praticarla, in modo rigoroso e
integrale.
È giusto, come lei ha detto, anche pensare a una rivisitazione circa le modalità di nomina dei vertici delle ASL e dei primari. L'attuale sistema di nomina di dirigenti e primari delle ASL non funziona perché, a mio modesto avviso, si va da un estremo all'altro, in molti casi senza una via di mezzo. Infatti, spesso le nomine avvengono o per una logica esclusivamente clientelare, legata a richieste che partono dal territorio, oppure risponde a una ricerca spasmodica dei cosiddetti «colpi ad effetto», per esempio chiamando persone da fuori sede, ritenute di grande competenza, ma che molte volte, allo stato dei fatti, dimostrano di non avere alcun aggancio e alcuna preparazione sulle necessità prioritarie del territorio.
Tali eccessi avvengono perché spesso i direttori generali godono di eccessivo potere discrezionale. È necessario, quindi, che, nella nomina dei dirigenti, le influenze politiche rimangano fuori e che vengano invece premiate, ove possibile, le professionalità qualificate locali, anche senza escludere comunque, qualora ciò sia davvero opportuno, la possibilità di coinvolgere professionalità esterne al territorio.
Mi è piaciuto il riferimento fatto ieri dal presidente sulla questione del parto in Italia. Sono ostetrico e quindi sono stato sollecitato in prima persona. È vero che in Italia si fa molto ricorso ai tagli cesarei, con le relative implicazioni. Il rapporto sullo stato di salute delle donne in Italia offre il seguente dato: l'incidenza dei tagli cesarei è stata del 38,2 per cento nel 2005. L'Italia è ai primi posti in Europa e nel mondo. Circa il 70 per cento dei parti con taglio cesareo avviene in strutture private e accreditate. Pur ribadendo la fondamentale importanza del protagonista principale nella vicenda sanitaria - la paziente - mi si consentirà di rivolgere un attimo l'attenzione alle situazioni vissute dagli operatori sanitari, cioè al punto di vista del medico. Essi, (soprattutto nel Mezzogiorno, non dobbiamo dimenticarlo) avrebbero necessità di poter contare su strutture e supporti medici all'altezza, che invece
molte volte vengono a mancare. In questo momento parlo anche in virtù
dell'essere stato per trenta anni in trincea, fino a due mesi fa, nelle sale parto e nelle sale operatorie. Proprio in queste situazioni di disagio il medico si trova, da solo, a dover prendere decisioni, senza un'organizzazione amministrativo-legale interna dell'ospedale che lo garantisca da eventuali ripercussioni della decisione presa, pro o contro il taglio cesareo. Sappiamo quanti sono i procedimenti legali a carico di molti medici che hanno agito in perfetta buona fede e in perfetta sintonia con quanto le necessità del momento richiedevano. Mi ha fatto piacere, signor Ministro, il suo riferimento alla necessità di rivisitare questo aspetto legislativo. Il tutto, sono certo, nell'ottica di ridare serenità a quel rapporto medico-paziente che il nostro servizio sanitario, anche se osannato, molte volte invece ha trascurato.
PRESIDENTE. Il Ministro deve adesso lasciarci per cui rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.
La seduta termina alle 15,05.