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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissione XII
1.
Mercoledì 25 giugno 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Palumbo Giuseppe, Presidente ... 3

Audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di competenza (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):

Palumbo Giuseppe, Presidente ... 3 12 15 16 27
Bossa Luisa (PD) ... 19
Di Virgilio Domenico (PdL) ... 16 19
Grassi Gero (PD) ... 13 15
Miotto Anna Margherita (PD) ... 16
Sacconi Maurizio, Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali ... 3 13
Turco Livia (PD) ... 23
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE XII
AFFARI SOCIALI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 25 giugno 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE PALUMBO

La seduta comincia alle 12,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di sua competenza.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, l'audizione del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, sulle linee programmatiche del suo dicastero, per le parti di sua competenza.
Ringrazio il Ministro Sacconi per essere venuto. I problemi che affliggono il Ministero della salute, del lavoro e delle politiche sociali sono tantissimi, per cui eravamo molto ansiosi di sentire le sue dichiarazioni programmatiche.
Do la parola al Ministro Sacconi.

MAURIZIO SACCONI, Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali. Signor presidente, ritengo assolutamente importante l'atto con cui usualmente inizia una legislatura, cioè la declinazione da parte del ministro incaricato del programma delle attività e soprattutto della visione alla quale intende ispirare le complessive azioni di governo e di riforma del settore affidato.
Il Governo Berlusconi ha ereditato una disciplina dell'organizzazione dei ministeri che nasce, come sapete, anni orsono da una riorganizzazione prodotta dal ministro Bassanini, ripresa poi da un emendamento approvato verso la fine della scorsa legislatura. Può essere opinabile l'organizzazione sotto un'unica direzione politica di più competenze. Se un errore, a mio avviso, ha commesso quel Governo, in particolare il senatore Bassanini, è stato quello di confondere l'unicità di direzione politica, che in alcune fasi può essere importante, con l'orientamento all'integrazione delle stesse amministrazioni.
Credo che le amministrazioni debbano essere organizzate secondo una loro autonomia funzionale e possano, però, sulla base di specifiche fasi politiche, essere sottoposte ad un'unica direzione politica.
Faccio un esempio. Gli inglesi, come accade anche almeno in un altro Paese, per lunghi periodi hanno deciso - mi interessa il metodo più che la sostanza - di conferire un'unica direzione politica alla salute, all'educazione e al lavoro, senza peraltro mescolare le organizzazioni, che rimangono caratterizzate da autonomie funzionali.
Analogo è il nostro intento. Nel momento in cui abbiamo ereditato questa articolazione delle funzioni politiche, intendiamo dare unicità di direzione politica ad amministrazioni che è opportuno conservino una propria autonomia funzionale.
Mi riferisco soprattutto all'area del lavoro e della previdenza sociale nonché all'area della salute. A me, scettico, un giorno un vecchio amico - l'attuale senatore


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Umberto Veronesi, che credo concorse a quella decisione del Governo di centrosinistra - addusse tutta una serie di argomentazioni a sostegno dell'unica direzione politica. Le sue ragioni erano prima di tutto di carattere scientifico, ma anche di carattere politico. Non voglio riprenderle, ma voglio limitarmi soprattutto a considerare un'utilità nella direzione politica unitaria, che vogliamo valorizzare. Il nostro modello sociale, soprattutto in una stagione di grandi cambiamenti che necessariamente lo investe e lo sottopone a pressioni dal punto di vista della sua stessa sostenibilità in ragione di tanti fattori (primo tra i quali l'andamento demografico) nonché a pressioni relative a domande e a bisogni che appaiono insoddisfatti, deve essere ripensato e riformato, ovviamente non con un atto unico, bensì tramite un processo graduale.
Non mi riferisco qui solo al modello sociale italiano, ma penso anche più in generale a quello europeo anche se con punti di partenza diversi nei diversi Paesi.
A questo scopo, ribadisco a voi ciò che ho detto ai colleghi parlamentari nell'omologa Commissione del Senato e nelle Commissioni lavoro di entrambe le Camere, la nostra intenzione è di proporre un «libro verde», secondo il modello europeo. Il «libro verde» è uno strumento agile, molto stringato, di consultazione. Non si tratta, quindi, di un documento chiuso. Lo scopo, infatti, vuole essere quello di condividere quanto più sia possibile, magari anche con l'opposizione, la visione di un nuovo modello sociale.
Può non essere difficile condividere la visione, vuoi perché essa inevitabilmente si limita a concetti di carattere generale, ma anche perché mi permetto di ritenere che nell'attuale Parlamento, almeno da questo punto di vista, sussistano le condizioni per un atteggiamento di coesione nazionale.
Ovviamente, questo «libro verde» si rivolge non solo al Parlamento, ma anche alle regioni, agli attori sociali, professionali, ai quali chiederà deduzioni e osservazioni, per arrivare a un'ipotesi più compiuta.
Credo non si tratti di un esercizio vano o meramente comunicazionale. Penso invece che, se realizzato con tempestività e semplicità, esso possa consentire - anche nel gioco dialettico tra maggioranza e opposizione, tra Governo e Parlamento - di misurare e di verificare la coerenza degli atti rispetto a quel modello.
Il Governo stesso si mette in mora rispetto a quella visione, poiché sarà costretto spesso a contraddirsi. Citando un personaggio famoso, il percorso sarà inevitabilmente a zig zag, l'importante è che la prospettiva sia luminosa. Che sia chiara, cioè, la direzione di marcia.
Le contraddizioni possono insorgere e possono essere variamente giudicate, ma io credo (farò alcuni esempi a questo proposito) all'utilità di questo percorso che, come ho detto, vuole essere semplice e breve.
L'ipotesi sulla quale chiederemo un confronto è quella del passaggio da un modello che possiamo, in sintesi, definire di tipo risarcitorio (cioè un modello che interviene, prevalentemente, nel momento in cui il bisogno si è formato e quindi si caratterizza tramite interventi segmentati in corrispondenza dei diversi bisogni), ad un modello che aspira a intervenire anch'esso sul ciclo di vita della persona (potrei dire: dal concepimento alla morte naturale), ma con l'aspirazione a produrre la massima autosufficienza della persona, fornendo a quest'ultima la capacità di affrontare il percorso di vita in termini quanto più possibile robusti e attrezzati, tali da consentire alla persona stessa di ridurre al minimo i fattori di rischio che determinano, genericamente, una condizione di bisogno.
Questa ipotesi è facile da enunciare, ma un po' più complicata da realizzare. Si va diffondendo un'idea di welfare che potremmo chiamare della prevenzione e delle opportunità, il welfare che implica la responsabilità della persona alla quale esso stesso offre opportunità. Un modello che significa anche promozione di stili di vita, di occupabilità ai fini dell'inclusione permanente nel mercato del lavoro.


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Dal punto di vista della politica della salute, un'implicazione che sottolineo e alla quale vogliamo ispirarci è quella di non volerci limitare a riconoscere la centralità della persona, ma di far corrispondere a questo concetto basico - credo da tutti noi condiviso - soprattutto l'idea che la persona venga sostenuta da un sistema sanitario in grado di mantenere la capacità di presa in carico lungo tutto l'arco della vita. Come tale, deve trattarsi di un sistema molto più fluido, più continuo e meno segmentato di quanto oggi non sia.
La politica della salute non coincide con l'intero welfare, ma è larga parte di esso; rappresenta una quota significativa di quell'intervento che vuole essere rivolto all'antropologia stessa della persona. Per essere tale, la stessa politica che in senso più stretto si rivolge alla salute non può non avere la caratteristica che ho appena segnalato, come conseguenza della visione illustrata.
Se lavoriamo lungo questa ipotesi di un continuum, tuttavia, dobbiamo rimuovere i tanti fattori di segmentazione che a ciò si oppongono e costruire una protezione affidata non soltanto al Servizio sanitario nazionale, ma anche a molte di quelle reti comunitarie gestite da attori diversi, quali il volontariato e i soggetti privati incaricati di pubbliche funzioni che si rapportano in termini di convenzione e di collaborazione formalizzata con lo stesso Servizio sanitario nazionale. L'importante è che la persona circoli nel modo più fluido ed efficace all'interno di questo sistema.
Conseguenza di questa visione è stata ad esempio la mia richiesta, soddisfatta, che nei provvedimenti intrapresi nei giorni scorsi fosse compresa la copertura del rinnovo relativo al sistema delle convenzioni per la medicina generale. Tale copertura era stata richiesta dalle stesse regioni che hanno in corso un negoziato, e mi auguro che, anche grazie a queste risorse, sarà possibile innalzare il sinallagma convenzionale e includere nella nuova convenzione l'uso dell'information technology, che rappresenta una strumentazione fondamentale per quel continuum, per quella fluidità nella presa in carico della persona. Mi riferisco, per esempio, all'anamnesi su supporto informatico; alla trasmissione dell'anamnesi stessa da un medico personale ad un altro medico; al passaggio alla medicina territoriale; alle procedure di ingresso e uscita in un plesso ospedaliero, magari per un bisogno acuto e quant'altro. Si tratta di misure di cui si parla da tempo, alle quali non possiamo non conferire un'accelerazione.
Vogliamo inoltre accelerare la ricetta elettronica, che non viene ripresa dagli atti di Governo dei giorni scorsi solo perché il relativo processo è stato da noi ereditato e si è ritenuto che non avesse bisogno di una specifica ulteriore normativa.
Dobbiamo nondimeno rinegoziare la convenzione con le farmacie. In piena continuità, ritengo, con un'impostazione già data dal ministro Turco, pensiamo che anche in questo caso debba innalzarsi il sinallagma convenzionale e che la collaborazione delle farmacie al Servizio sanitario nazionale debba essere molto più intensa, in vista di una capacità produttiva molto più intensa e continua, ma anche molto meno segmentata.
La farmacia è un punto di riferimento parasanitario e può esserlo sempre di più. Mi piace fare un riferimento alle terapie del dolore, affinché possa essere sviluppato un servizio domiciliare, tanto più se abbinato all'autorizzazione alle farmacie per la produzione di oppiacei. Una lettura più attenta alla dimensione dell'umano nella stessa politica della salute può vedere questi soggetti caricati di una funzione molto più significativa. A questo proposito, mi permetto di pensare a molto di più che una semplice deregolazione, non riferendomi soltanto all'appropriatezza della prescrizione, o della distribuzione dei farmaci (in particolare di quelli etici), bensì a tutto il complesso di servizi che si possono organizzare in quell'ambito.
Ho riportato solo due esempi, per illustrare il tipo di percorsi che devono essere sostenuti nell'ambito della nostra visione generale del problema.
Non possiamo dimenticare che il servizio sanitario e la politica della salute,


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peraltro, si confrontano con drammatici - possiamo così qualificarli - problemi di sostenibilità.
Le tendenze sono ben note. C'è un dato, tra tutti, che colpisce e che è generalmente accettato: entro il 2050 la spesa sanitaria potrebbe più che raddoppiare rispetto a oggi.
Ci troviamo in un Paese nel quale il rapporto costi-benefici presenta, assieme, le esperienze migliori e peggiori dei Paesi industrializzati. Credo di non esagerare in questa diagnosi.
Certamente, rileviamo le esperienze migliori, mentre le peggiori che riscontriamo sono tra le peggiori in assoluto, tanto che la seconda posizione che ci viene riconosciuta da OMS e OCSE, probabilmente, senza queste ultime diventerebbe una prima posizione.
La spaccatura esistente fra nord e centro-sud è la caratteristica più evidente del nostro sistema sanitario. Si tratta probabilmente di una semplificazione, utile però per segnalare una pesante anomalia che fa rabbia al solo considerarla. Ci si chiede perché, se da una parte si realizza l'eccellenza, dall'altra non si riesca a fare altrettanto.
Il tema del governo ottimale della spesa non è riservato ai ragionieri, non riguarda solo il Ministero dell'economia e delle finanze, in relazione alle sue compatibilità e al patto di stabilità che ci lega ai paesi dell'Unione europea. Questo tema riguarda direttamente coloro che intendono garantire la qualità dei servizi su tutto il territorio nazionale nonché l'effettività di un sistema equo.
Il sistema, oggi, equo non è. Per la verità, non lo è mai stato e, come ben sappiamo, non si riscontra un'equa fruizione da parte dei cittadini.
Ebbene, la risposta alla quale ci vogliamo ancorare è quella della responsabilità. Non pensiamo che esista altro modo per organizzare una soluzione.
La risposta della responsabilità, dal canto suo, si realizzerà soprattutto con il federalismo fiscale, che in larga misura coincide appunto con la politica della salute.
Come sapete, già a settembre si terrà una sessione istituzionale. Il Governo ha annunciato la produzione di tre provvedimenti istituzionali: il provvedimento per Roma capitale, il codice delle autonomie e il federalismo fiscale vero e proprio.
Sapete anche che lo schema - che mi auguro sarà frutto di un'intesa con le regioni - stabilisce che ogni regione, qualunque sia la sua capacità impositiva, venga messa in condizione (a regime, cioè dopo la fase transitoria) di poter disporre di entrate, dirette o derivate, corrispondenti ai livelli delle prestazioni cui si vuol fare riferimento, misurati secondo costi standard e non secondo la spesa storica. La transizione è legata quindi al progressivo assorbimento del criterio della spesa storica che, come sappiamo, nega la responsabilità.
Questo percorso tende, a regime, necessariamente a produrre parità di capacità. Quindi, si tratta evidentemente di un regime solidale.
Una regione, cioè, che mostra un'insufficiente capacità impositiva viene integrata, ma non più in relazione al vizio storico, quanto piuttosto in relazione ai costi standard ai quali facciamo riferimento per i livelli essenziali delle prestazioni.
Esistono anche le sanzioni, il primo livello delle quali è l'aumento della capacità impositiva, peraltro fino ad una certa soglia, oltre la quale sarebbe odioso punire le imprese e i cittadini che hanno la disgrazia di avere quegli amministratori.
Oltre quella soglia, si prevede quello che chiamiamo il «fallimento politico». Come avviene per il fallimento civilistico, al superamento di determinati indicatori scatta il commissariamento e i libri non vengono portati in tribunale, bensì davanti al popolo elettore. Quegli amministratori dovrebbero considerarsi - valuteremo i profili di costituzionalità - come sostanzialmente ineleggibili almeno per un mandato, o comunque per un certo lasso di tempo, così come è inibito il fallito dall'intraprendere immediatamente.
La prospettiva di questo federalismo non deve essere affrontata soltanto in


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termini punitivi, ovverossia con la prospettiva di una punizione verso i negligenti. Il percorso che ho illustrato avrà una sua gradualità: non passeremo dal criterio della spesa storica al criterio dei costi standard, dalla mattina alla sera. Proprio per questo, tuttavia, è importante fin da subito - oggi stesso, a questo scopo, incontro gli assessori delle regioni - organizzare una «cabina di pilotaggio» molto più robusta di quella che, sin qui, siamo riusciti a mettere in piedi.
Badate, la mia non intende essere una critica. So bene che l'impegno è gravoso e che esiste una grossa differenza fra il parlare e l'agire. Dovremo comunque organizzare questa robusta «cabina di pilotaggio» che deve prevedere soprattutto (si tratta di un'impostazione che ho ereditato) un accordo con le regioni più solide, non per abbandonare le altre, ma, al contrario, proprio perché la cabina non può non tararsi sulle migliori pratiche, così da cercare di diffonderle.
So che gli esperimenti di gemellaggio non sono sempre riusciti, ma non mi riferisco solamente a quelli. Mi riferisco piuttosto a un sistema centrale che passa anche per la revisione - vedremo poi in che forma - dell'Agenzia nazionale dei servizi sociosanitari regionali.
La cabina di pilotaggio deve disporre di un vero sistema di monitoraggio della spesa. Da questo punto di vista il Ministero dell'economia e delle finanze mi sembra essersi via via attrezzato (sopratutto nelle regioni più a rischio, più indebitate e più impegnate in percorsi di rientro) per l'avvio di una buona capacità di monitoraggio e, allo stesso tempo, di valutazione - azienda per azienda - dei servizi erogati e della qualità di questi ultimi. È necessario disporre di due robusti sistemi di informazione e monitoraggio relativi a queste due facce della stessa medaglia, in modo da poter orientare quanto più le attività di razionalizzazione, riorganizzazione, conduzione ed efficientizzazione.
Si tratta, in definitiva, di realizzare un servizio di accompagnamento che, tuttavia, già nel tempo intermedio deve essere anche corredato da sanzioni. Il Presidente del Consiglio e il Ministro dell'economia e delle finanze del precedente Governo avevano avviato gli atti per la messa in mora di alcune regioni, in applicazione del patto per la salute. Quest'ultimo, come sapete, viene confermato al 100 per cento, nel senso che la manovra dei giorni scorsi è una manovra «a zero» sull'anno 2009. Nel bene e nel male, tutto ciò che era nel patto per la salute viene ereditato.
La scelta è stata compiuta anche allo scopo di mantenere intatti i meccanismi di responsabilizzazione che il patto per la salute stesso prevedeva. Quando parliamo di ipotesi di sanzioni quali il commissariamento, in base al patto per la salute e ai precedenti accordi, noi non ci riferiamo ovviamente al solo indebitamento storico delle regioni, giacché gli stessi criteri rimarranno validi anche per il domani e per i futuri amministratori.
I percorsi virtuosi sono relativi a ciò che si è ereditato, cioè ai piani di rientro che si sono liberamente sottoscritti e che si devono rispettare. Non possiamo non ipotizzare meccanismi sanzionatori!
Le esperienze di questi anni, anche quelle relative al patto della salute, per molti aspetti sono state positive. Guardando bene, rileviamo momenti nei quali forse la tensione è caduta, anche perché nel periodo di fine legislatura si è aperta, anche se non annunciata con certezza, una nuova prospettiva elettorale in certe aree. Avrete capito che uno dei riferimenti è al territorio in cui ci troviamo, ossia alla regione Lazio, sebbene anche in Sicilia esista una questione aperta, come vi è ben noto.
Alcuni aspetti, peraltro, mi impressionano particolarmente: da vecchio «lavorista» rimango colpito dal fatto che si eroghino contratti integrativi di secondo livello e si spendano fondi integrativi (che peraltro sono alimentati dal relativo blocco del turn over) in situazioni che sono fallite.
Non conosco un'azienda metalmeccanica che sia sul punto di fallire e che stipuli un contratto integrativo e che eroghi somme per la produttività.


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Allo stesso modo, non conosco un'azienda che si trovi in una condizione fallimentare che faccia investimenti nuovi, che apra un nuovo capannone, o, nel nostro caso, avvii un nuovo plesso ospedaliero, oltre tutto in un contesto di eccesso di posti letto per abitante, anche se esigenze di rinnovo potrebbero effettivamente sussistere.
Ugualmente, non conosco un'azienda fallita che stabilizzi precari. È sempre nobile l'atto di stabilizzazione del rapporto di lavoro precario, ma non si tratta di atti tipici di un'azienda in condizione fallimentare.
Ho riportato questi esempi per mostrare che la deterrenza è essenziale.
Le deterrenze vanno utilizzate con intelligenza, con pazienza, ma guai a rinunciarvi, anche nella fase intermedia, che vogliamo sottolineata ancor più da un'azione di accompagnamento.
Ci incontreremo con le regioni, quindi, anche per declinare compiutamente l'anno 2009, quindi la fase conclusiva del patto.
Vorrei a questo punto aggiungere una considerazione a parte. Ciascuno di noi è segnato dalle esperienze che ha vissuto. Da questo punto di vista, per fortuna, vengo da una provincia che ha tre aziende sanitarie: due in attivo e una in pareggio, secondo l'ultimo bilancio. Una condizione performante che non nasce dal nulla. Avendo cominciato la mia militanza politica all'età di 18 anni, ho fatto in tempo a vivere negli anni Settanta e Ottanta la chiusura di tutti i piccoli ospedali di mandamento. Vengo da una provincia plurimandamentale, suddivisa anche orograficamente, in cui ciascuno dei mandamenti era molto affezionato al proprio ospedale, spesso derivante da lasciti e carico di una storia nobile di gestioni che spesso erano state generose.
Non fu facile chiudere. Ricordo i passaggi. Li ho ricordati in particolare quando, recentemente, mi sono trovato a partecipare all'inaugurazione di una struttura territoriale che si è realizzata dopo aver realizzato una chiusura, non prima, que. Si è chiesto a quella comunità di fare una scommessa: occorreva chiudere posti letto, per dare vita a una struttura territoriale. Alla fine, tutti sono stati contenti.
Abbiamo ricordato a tutti le tensioni che accompagnarono la chiusura di quel plesso ospedaliero marginale, per poter arrivare poi a questa meravigliosa struttura territoriale che tutti abbracciavano con convinzione.
Sono convinto che le regioni non debbano essere lasciate a sé stesse in queste operazioni, che la cabina di regia centrale debba accompagnarle, aiutarle e che occorra una forte campagna di informazione (in fondo non difficile) per far comprendere qual è l'interesse primario del cittadino, anche e soprattutto nel momento di un bisogno acuto: quello di raggiungere (a prescindere, entro centro limiti, dalla distanza e talora anche dai limiti territoriali) un punto di eccellenza, in cui il servizio sia corrispondente alla gravità del suo bisogno nonché alla sua aspettativa.
Questa razionalizzazione riguarda non solo il pubblico, ma anche il privato, che non potremo non considerare con maggiore attenzione, sia dal punto di vista dei criteri di accreditamento (le recenti vicende ci inducono a riflettere), sia proprio come metodologia di accreditamento. Di fatto, le patologie più estreme possono verificarsi in un'azienda erogatrice privata che pure corrisponde effettivamente a tutti i requisiti della normativa attuale, fino ad arrivare a uno dei casi di cui recentemente si è discusso.
Abbiamo bisogno di guardare oltre i requisiti strutturali, di individuare profili diversi, come per esempio gli esiti. Dovremmo essere in grado di farlo per le singole figure mediche, anche per avere migliori criteri di selezione dei nostri primari, ma non entro adesso in tutti i risvolti che la discussione potrebbe sollecitare.
Soprattutto, penso che gli erogatori privati debbano partecipare al processo di razionalizzazione. Non possiamo, cioè, dare per acquisita una rigidità che non deve sussistere in una componente esterna, flessibile per definizione. L'outsourcing ha un gran pregio: è flessibile. Guai se lo traducessimo in una rigidità! Dobbiamo allora pensare a meccanismi di


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tariffazione che premino la qualità e che accompagnino all'uscita dal mercato gli erogatori marginali, così come vogliamo fare anche nel pubblico. Nel caso del privato ciò si può ottenere senza le rigidità che, inevitabilmente, la gestione diretta può porre.
Non possiamo non uniformare la somma degli erogatori pubblici e privati anche a criteri generali di rapporto posti letto-abitante. La somma finale non può essere indifferente, anche se non si tratterà dell'unico criterio da utilizzare, in quanto sarà affiancato ad esempio dalla massa critica minima dimensionale nonché da criteri di complementarietà qualitativa che, ovviamente, devono essere i primi a essere considerati.
Per il 1o gennaio dell'anno 2009 abbiamo un appuntamento: ereditiamo la «spada di Damocle» del ticket sulla specialistica. È nostra intenzione non perseguire quella soluzione. Abbiamo dichiarato che, pur ereditando un patto che non abbiamo voluto - per principio - modificare, intendiamo comunque individuare una soluzione assieme alle regioni. Mi limito a questo. Ne parleremo anche questa sera con gli assessori regionali e parteciperò personalmente a tale incontro proprio per questo scopo. Cercheremo di trovare una soluzione per corrispondere ai circa 830 milioni di euro ed utile ad evitare un tipo di ticket che non risponde al percorso qualitativo che - credo - tutti condividiamo.
Ulteriori temi di discussione sono sicuramente quelli della selezione dei direttori generali e dei primari, della scadenza della fase transitoria dell'attività «intra moenia», del contratto della dirigenza medica che stiamo cercando di accelerare e che partecipa della più generale caratteristica negativa della contrattazione collettiva pubblica, consistente nella sua biennalità, che mi auguro sarà presto superata. Altro aspetto negativo consiste nel mettere la dirigenza in coda, come una sorta di soluzione di risulta rispetto al contratto collettivo di settore. Credo che si tratti di un errore destinato a penalizzare inevitabilmente la dirigenza. In ogni caso, ci adoperiamo affinché questo contratto venga chiuso quanto prima, per ragioni evidenti.
Siamo interessati a confrontarci (anche perché il confronto non può che essere tra maggioranza e opposizione, se pensiamo alla necessità di relazione con le regioni) su principi e criteri che migliorino la selezione dei direttori generali.
Non credo che il problema sia rappresentato da chi li nomina, ma dalle regole, in base alle quali si determina il confronto fra le diverse candidature e i requisiti di base per accedere alla candidatura stessa, tali da irrigidire la griglia entro la quale la scelta deve essere compiuta.
Più complicato penso sia il problema della selezione dei primari, che però è drammaticamente presente.
Nominato un direttore generale, questi ovviamente deve operare, sulla base di adeguati impulsi, nel modo più responsabile. È molto importante che egli sia indotto a scegliere il meglio, tramite un confronto basato su indicatori che facciano riferimento agli esiti dell'attività professionale delle persone candidate.
Quanto all'intra moenia, ho avuto modo, in altre occasioni, di dire che esistono in teoria tre soluzioni. Una di esse è molto italiana e consiste nella proroga, alla quale intanto si ricorre. Come citavo inizialmente, si procede a zig zag, anche se la prospettiva vuole essere luminosa.
Un'altra soluzione è il ritorno alla situazione quo ante. Non posso già fin d'ora esprimere un giudizio, ma conosciamo la situazione e sappiamo come essa ragionevolmente potrà essere risolta nei mesi che mancano all'appuntamento.
La terza soluzione - le nomino tutte e tre, sottolineando che il Governo non ha scelto e che vuole farlo attraverso un confronto in Parlamento e anche con gli attori professionali e le regioni - è quella della flessibilità. Vale dire che ciascun direttore, ciascuna azienda, in rapporto a ciascun interlocutore, può negoziare ciò che è meglio dal punto di vista dell'interesse di quei determinati cittadini, in rapporto a quella precisa specialità, in quel determinato contesto, in quelle determinate


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condizioni e quant'altro. Non escluderei un'ipotesi, nel novero delle possibilità, legata a questo tipo di flessibilità che, tanto per capirci, non deve essere assoluta. Lascio tale ipotesi alla vostra riflessione.
Più in generale, penso che ci siano le condizioni, probabilmente, anche per un intervento normativo a consolidamento della professione medica. È molto importante che, nei giorni scorsi, si siano tenuti gli stati generali della professione medica e che, in nome di quel superamento delle segmentazioni dal lato dell'offerta, si verifichi un superamento analogo anche nell'ambito di questa fondamentale professione. Se dal lato della domanda dobbiamo mettere al centro il cittadino, non possiamo non porci il problema di riproporre una maggiore centralità della professione medica all'interno della struttura dell'offerta.
Penso che temi come l'accesso, la formazione specialistica, la formazione iniziale e quella continua, la definizione del rischio professionale, la stessa organizzazione ordinistica, i confini tra la professione medica e le altre professioni che chiamiamo paramediche, rappresentino materia che possa condurre a un testo unico, o forse a interventi più mirati e semplici. Un qualche tipo di intervento appare comunque necessario. Non amo il ricorso troppo facile allo strumento legislativo, ma in questo ambito non ne escludo l'utilità.
Questo Governo, come sapete, crede nella funzione ordinistica (che certamente può essere aggiustata attraverso una riforma) e non ritiene che il mercato possa mai rappresentare la prima tutela degli utenti di servizi professionali in generale e di quelli con tali caratteristiche in particolare.
La prima tutela e la prima istanza non può non essere affidata all'ordine professionale, della cui organizzazione, peraltro, si può discutere.
Chi, come me e come gran parte di coloro che appartengono a questa maggioranza, ha una confidenza di lunga data con la cultura del mercato, non scivola nei vizi dei neofiti. Abbiamo tanti difetti, ma non ci entusiasmiamo nei confronti del mercato in quanto tale. Affermo ciò in linea del tutto generale: il mercato è fondamentale, è dentro una cultura alla quale facciamo riferimento, ma non deve suscitare entusiasmi che possono essere solo la conseguenza di un impatto dell'ultima ora.
Finisco con due brevissimi riferimenti alla prevenzione e alla ricerca.
Il modello e la visione di cui ho parlato all'inizio conferiscono un grande valore a entrambe. Le poche parole che vi dedico non significano una proporzionale minore attenzione.
Prevenzione e ricerca sono mainstreaming. Come tali richiedono interventi specifici, ma rappresentano una costante del modo di governare la politica della salute.
Abbiamo declinato l'ipotesi di cinque o sei priorità e adesso stiamo rivedendo i criteri di un piano che abbiamo ereditato. La ricerca biomedica è stata salvaguardata dai tagli dei giorni scorsi e credo che occorreranno significative innovazioni dal punto di vista delle integrazioni dei fondi affidati a diverse amministrazioni (soprattutto al Ministero dell'università e della ricerca e al Ministero della salute, del lavoro e delle politiche sociali). Credo che sia importante pensare a valorizzare gli IRCCS (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) anche come entità di ricerca territoriale. Penso a un metodo - ne convenivo l'altro giorno con il senatore Marino - che viene definito di peer review, diverso da quello dall'alto verso il basso che tradizionalmente viene utilizzato. Spero a tal proposito di proporvi presto un incontro specifico sulla ricerca biomedica e sulle sue potenzialità anche di spin off cioè, di concorso allo sviluppo industriale innovativo.
Infine, vi abbiamo chiesto una delega, nell'ambito del provvedimento dei giorni scorsi, per la rivisitazione di tutti gli enti esperti di cui disponiamo. Questa rivisitazione corrisponde a ciò di cui dicevo prima: più robusti ed efficaci strumenti a supporto della capacità di pilotaggio centrale.
Tra questi problemi si inserisce anche quello dell'AIFA (Agenzia italiana del farmaco),


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non solo in relazione a un'indagine giudiziaria in corso. Come voi sapete, al netto di alcune situazioni patologiche, che gli stessi inquirenti hanno considerato in qualche misura isolate, anche se indicatrici di una qualche insufficienza di controllo della catena amministrativa, l'inchiesta della magistratura è tutta rivolta a profili di efficienza, particolarmente rilevante in un ente che svolge i compiti ben noti. Abbiamo garantito ai cittadini che non sussistono pericoli per la salute: questa è la prima verifica che abbiamo voluto far eseguire, chiedendo a una Commissione di indagine - a prescindere dalla dimensione penale che non ci appartiene - di considerare gli aspetti dell'efficienza non solo e non tanto in termini di capacità manageriale, ma anche in termini sistemici. È opportuno condurre una riflessione in proposito, a distanza di alcuni anni dalla precedente indagine.
La Commissione fornirà gli esiti nei prossimi giorni. Ho chiesto di anticipare, anche alla luce del provvedimento di sospensione cautelare che è stato adottato e che, a maggior ragione, impone delle scelte. Pensate che il direttore generale è stato sospeso per due mesi, ma la sua sospensione coincide con il momento nel quale avremmo dovuto decidere se mantenerlo o cambiarlo. Siamo oggettivamente costretti, pertanto, a tenere conto del provvedimento cautelare, seppure esso sia temporaneo. In ogni caso, ci faremo orientare dalla Commissione di indagine che è stata da noi stessi incaricata, sollecitati da un'indagine che ha come scopo la maggiore efficienza di un'importante agenzia. Esprimiamo fiducia nell'attività della magistratura, che procede per il suo corso. A noi tocca garantire tempestivamente l'efficienza, per cui le valutazioni conseguenti sono rinviate al momento nel quale disporremmo delle informazioni, come vi ho detto, già alla fine di questa settimana. Cercheremo poi di concordare con le regioni le soluzioni da adottare.
Approfitto della vostra pazienza per aggiungere una breve postilla sulla legge n. 194 del 1978 e sulla legge n. 40 del 2004, cioè su temi delicatissimi.
Riguardo alla legge n. 194 del 1978, abbiamo ribadito che vorremmo sollecitarne e promuoverne la piena attuazione, individuando un'attuale insufficiente applicazione, sotto diversi punti di vista. Non possiamo non inserire tutta questa riflessione in una politica fortemente rivolta alla natalità. La visione che vi proporremo ha come titolo «La vita buona nella società attiva». Il concetto di società attiva implica alti tassi di natalità e, d'altronde, la società attiva è la condizione per la sostenibilità del modello sociale. Essa infatti allarga la base dei contribuenti, ma soprattutto è una società nella quale le persone esprimono di più il proprio potenziale. La società attiva è quella in cui i meccanismi riproduttivi della società stessa sono dinamici, non si contraggono. Esiste in essa un contesto a favore della persona, della famiglia, della natalità. In tale contesto e nel rispetto della condizione della donna che si trova a dover affrontare un dramma di questo genere, vogliamo guardare alla piena applicazione della legge in tutti i sensi, anche quando si rivelano carenti i servizi che la legge stessa prevede con riferimento all'interruzione di gravidanza. Una lettura a tutto campo, quindi, del requisito di piena applicazione della legge.
Per quanto riguarda la legge n. 40 del 2004, stiamo riflettendo sulle linee guida ereditate. Lo stiamo facendo - doverosamente, se mi è consentito precisarlo - anche in punta di diritto, sebbene mi renda conto che il diritto, nel suo formalismo, deve fare i conti con profili maledettamente sostanziali e che arrivano perfino a toccare aspetti etici. Il tema dell'eugenetica, a mio avviso, è immanente. Si tratta poi di stabilire dove si situi effettivamente il punto di contatto, però non ho dubbi che si tratti di un tema immanente a questa legge. Speriamo che si evitino conflitti pregiudiziali - attraverso i quali si esprimono, cioè, visioni diverse - e vorremmo lavorare quanto più all'interno della disciplina vigente. Ricordo che si è svolto un referendum, promosso dai proponenti proprio a partire dalla convinzione che le norme non presentassero


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determinati contenuti. Non possiamo dimenticare, nella stessa interpretazione della norma, quello che fu il dibattito referendario e l'esito dello stesso referendum. Sono fiducioso nell'aiuto che la scienza e la ricerca potranno dare per superare molti problemi di carattere etico. Non è possibile non guardare con interesse, per esempio, a tutto il tema della ricerca sulle cellule staminali adulte, considerando come questa evoluzione sembri destinata a far superare contrasti che si sono manifestati.
Chiedo ulteriore comprensione, ma mi è venuto in mente solo adesso il tema dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Non entro nel merito dell'atto, certamente rilevante, che fu prodotto. Osservo solo, anche qui in punta di diritto, che quando l'atto fu consegnato alla Corte dei Conti (presso la quale ancora giace), pur essendo formalmente compiuto, esso era privo di un requisito che, come sappiamo, la stessa Corte dei Conti per prima ha immediatamente rilevato: mi riferisco alla bollinatura della Ragioneria che, se non ricordo male, ha valutato in un miliardo di euro la maggiore spesa. Non è difficile prevedere - di fatto e per ragioni oggettive - che quei LEA non esistono. Non solo in questo momento non sono entrati in funzione, giacché la Corte dei Conti non li ha registrati, ma non è difficile prevedere che la Corte stessa ci chiederà le ragioni di quella mancata bollinatura e che la Ragioneria ovviamente confermerà (ne abbiamo dialogato anche nei giorni scorsi).
Per gli anni 2010 e 2011 abbiamo previsto non un taglio, bensì un incremento della spesa di quasi 5 miliardi di euro in 2 anni. Un'evoluzione della spesa che rallenta, rispetto al rapporto con il PIL nominale, ma che ammonta pur sempre a 5 miliardi di euro in più. Discuteremo nei prossimi giorni assieme alle regioni, intorno a questa fase successiva al patto della salute, nell'ambito di un tavolo diverso da quello della Conferenza Stato-regioni e comunque nel contesto del negoziato del Governo nel suo complesso con tutte le regioni, allo scopo di vedere come affrontare il prossimo patto per la salute, alla luce di tutte le considerazioni svolte in precedenza.
La tematica dei LEA e delle regole ulteriori con le quali stringere la gestione del patto saranno collocate in quel contesto.
Certamente ho trascurato e dimenticato altri temi; me ne scuso, così come mi scuso di essere stato prolisso. Non era mia intenzione, ma in questo caso il neofita mi auguro sia perdonato.

PRESIDENTE. Penso che lei non sia assolutamente un neofita né della politica né dei problemi politici sociali e socio-sanitari che sono importanti per il nostro Paese. Lei ha toccato quasi tutti i temi del nostro sistema socio-sanitario facendo una premessa sull'organizzazione complessiva dei ministeri con una direzione e una regia generale che va, a suo modo di vedere, mantenuta.
Brevemente, sono d'accordo con quasi tutto quello che ha detto: sulla spaccatura fra nord e sud; sul sistema più equo che deve essere sicuramente attivato; sulla responsabilità nell'ambito del federalismo fiscale. Si tratta in quest'ultimo caso di un tema importante: sono favorevole a una legge che mantenga il coordinamento centrale dei controlli che necessariamente devono essere eseguiti, diversamente non sarebbe possibile neppure erogare le sanzioni (ad esempio, i commissariamenti) laddove necessario. Nessuno me ne voglia per questo, ma se in altre regioni non si riescono a realizzare le misure da lei ricordate nel caso della sua zona di provenienza (ormai, bene o male, coloro che lavorano in questo settore, noi compresi, le conoscono) a causa dell'incapacità di politici e amministratori locali, ben venga un commissariamento che riesca a mutare la situazione.
Lei ha ricordato i temi del monitoraggio, della valutazione e dell'accreditamento. Ci siamo già occupati del problema dei primari e dei manager. Stiamo ripresentando il progetto di legge sul cosiddetto «governo clinico» che regolamentava in maniera nuova e più efficace, secondo noi,


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la scelta di queste figure. Il problema dell'intra moenia va sicuramente affrontato e lei ha presentato tre ipotesi. Vedremo quale sarà la migliore, quella attuabile nel tempo, poiché esistono difficoltà effettive che bisogna tenere in considerazione.
Grande importanza riveste il problema della ricerca. Lei ha annunciato un incontro specifico che io, provenendo dal campo della ricerca, ritengo importantissimo, giacché senza ricerca e senza innovazione non esiste sviluppo nel campo della salute e della sanità.
Sull'AIFA non mi pronuncio: vedremo quello che succederà.
Aggiungo due argomenti che, probabilmente, arriveranno al più presto all'attenzione della nostra Commissione. Riprenderemo in esame un progetto di legge sul parto che risale al periodo 2001-2006 e che non fu approvato. Esso fu ripresentato nel 2006-2008, ma non venne nuovamente approvato. Cercheremo di riproporlo ancora una volta, anche perché in Italia, questo è un problema che mi tocca personalmente, l'incidenza percentuale dei tagli cesarei è elevatissima rispetto al resto di Europa. Dovremmo cercare di capire il perché e se la situazione possa essere eventualmente migliorata.
Vorrei terminare con un accenno al problema degli ECM (Educazione continua in medicina): pregherei il ministero di esaminarlo con molta attenzione, in quanto attualmente - è una mia opinione personale - essi non forniscono le prestazioni attese, per cui ritengo necessaria una riorganizzazione di questo sistema. Ho le mie idee al riguardo e, quando se ne parlerà, potremo discuterne per cercare di migliorare il settore fondamentale dell'aggiornamento della classe medica e paramedica. Senza un efficace aggiornamento, non miglioreremo mai le nostre strutture e non diminuiremo neppure le spese sanitarie, dato che queste due cose vanno sempre appaiate.
Do ora la parola ai colleghi che intendano porre quesiti e osservazioni.

GERO GRASSI. Ringrazio il ministro per la sua pacata riflessione. Mi auguro che egli intenda mantenere con la Commissione affari sociali una continuità di rapporto, magari addirittura preventiva rispetto agli iter amministrativi e legislativi.
Cercherò di svolgere qualche riflessione, senza alcuna pretesa di esaustività tenendo presente che altri colleghi interverranno.
Non voglio fare polemica, né partecipare alla disputa filosofica o accademica relativa all'accorpamento del ministero della salute. Rispetto quanto dichiarato dal ministro. Certamente in una nazione civile la salute rappresenta un settore fortemente trasversale, rispetto ai diversi momenti sociali, culturali ed economici. Tuttavia, la salute in Italia, negli anni attuali si è sganciata da quel concetto di ospedalocentrismo tipico degli anni Quaranta e Cinquanta. Pertanto, senza polemica (come dichiaravo ieri nel corso dell'intervento in Commissione), temo che l'accorpamento non sia soltanto conseguenza della legge Bassanini, che è stata interpretata in una direzione che non era l'unica possibile. La visione che è alla base dell'accorpamento non necessariamente comporta la riduzione dei ministeri tramite l'accorpamento del ministero della salute al ministero del lavoro. Si poteva fare diversamente e, se fosse dipeso da me, avrei accorpato diversamente.

MAURIZIO SACCONI, Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali. Mi perdoni se interloquisco, ma quando, all'inizio della legislatura 2001-2006, compimmo una scelta diversa, dovemmo utilizzare uno strumento legislativo. Ciò a controprova dell'eredità rigida di una legge. Emanammo un decreto-legge, nel 2001, per separare ministeri accorpati.

GERO GRASSI. Ribadisco che in nessun luogo è scritto che lavoro e salute si dovessero accorpare. Comunque, la mia obiezione si riferiva a un tema leggermente diverso: personalmente avrei accorpato con un differente criterio e ciò rientra nelle diversità di opinione. Mi rendo


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conto che il Ministro difende un provvedimento che lo vede protagonista, mentre probabilmente io ne difendo un altro, del quale non è protagonista chi parla, quanto piuttosto il cittadino che ha diritto alla piena attuazione degli articoli 32 e 3 della Costituzione! Ritengo che l'accorpamento metta in forse la tenuta dello Stato nei confronti di questi due articoli, per me imprescindibili.
Il Ministro ha citato il secondo posto dell'Italia, facendo riferimento ai dati OMS e OCSE, relativamente allo stato della salute nel nostro Paese. Mi permetto di fare osservare che quel secondo posto non è conseguenza di una sanità che funziona con picchi diversi a seconda delle zone del paese. Quel secondo posto - non la ritengo semplicemente una mia interpretazione - è conseguenza dell'altissima qualità del personale sanitario e parasanitario esistente in Italia nonché della gratuità del Servizio sanitario nazionale. Ricordo che quest'ultima è frutto di anni difficili, gli anni Settanta, nei quali le contraddizioni ci hanno offerto tutto e il contrario di tutto. Ricordo che fu un Ministro della salute veneto che, negli anni Settanta, fece partire il Servizio sanitario nazionale gratuito erga omnes. Attenzione, quindi, giacché quel secondo posto è purtroppo conseguenza di una logica economica, tanto è vero che il primo posto è occupato dalla Francia. In Francia, infatti, il diritto alla prestazione sanitaria non è gratuito, bensì risarcitorio. Così, l'obbligo per il cittadino di chiedere il risarcimento induce quest'ultimo a non effettuare la prestazione sanitaria. Non auspico che in Italia il momento risarcitorio possa prevalere sulla gratuità della prestazione sanitaria, che assicura oggi a tutti non solo un diritto alla salute come espressione verbale dettata dalla Costituzione, bensì - io credo - un diritto alla salute concreto e attuato.
Le faccio serenamente notare, signor Ministro, che nei due anni passati abbiamo accompagnato tutta l'attività del Ministro Turco, al quale - fra tanti altri - riconosciamo il grande merito di aver tentato di attribuire alla sanità italiana il volto di una persona che soffre, che ha bisogno e che chiede aiuto. Per noi la sanità non può essere incentrata né sugli operatori, né sugli interessi diversi che pure intorno a tale settore ruotano. La sanità deve essere incentrata, esclusivamente, sulla persona.
Qui mi piace sottolineare senza polemica - condividendo peraltro un suo passaggio in cui lei ha parlato di professionalità dei direttori generali - che appartengo al novero di coloro che auspicano addirittura una scuola dei direttori generali. Voglio ricordare al Ministro che, nella scorsa legislatura, uno dei primi provvedimenti messi in atto è stata l'abolizione di una norma che fa male alla politica, secondo la quale gli ex consiglieri regionali e gli ex deputati, sulla base di una presunzione di onniscienza sanitaria, potevano svolgere il ruolo di direttore generale. Le ricordo questo dettaglio non tanto per darle modo di interpretare polemicamente il mio dire, quanto perché non credo alla possibilità di una disputa ideologica sulla sanità. Non credo che possano esistere una sanità di centrodestra e una di centrosinistra. Credo semplicemente che esistano una sanità che funziona, e una che non funziona. Mi auguro che la seconda presto venga debellata e cancellata dalla nostra storia.
Il cittadino che si rivolge al Servizio sanitario nazionale, per esempio nel caso di un problema oncologico, ha il diritto - indipendentemente dalla zona geografica in cui è stato costretto a nascere - di ricevere prestazioni uguali, in quanto cittadino dello Stato. Nella scorsa legislatura abbiamo ereditato, ad esempio, nel settore oncologico una serie di input economici che si fermavano a nord di Roma. Lo ricordo, ancora una volta, non in senso polemico, ma solo in quanto mi serve per passare alla sottolineatura del tentativo - riuscito in molte occasioni - del Ministro Turco di accorciare le distanze della sanità italiana. Non lo ricordo solo per il revival di un passato del quale sono orgoglioso, ma anche per il futuro. Mi spiego meglio: per noi non fu una scelta facile cancellare l'ipotesi di costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Glielo dice un meridionale,


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un pugliese: quel ponte avrebbe ricongiunto fisicamente l'Italia, ma in tempi di difficoltà economica ritenemmo che l'abolizione della costruzione del ponte sullo stretto avrebbe potuto orientare una notevole massa di danaro su bisogni maggiori ed emergenti vissuti nel Mezzogiorno. Quando lei sottolinea la differenza tra picchi di sanità differenziati, condivido una tale attestazione, ma aggiungo che non sempre, in sanità, l'input economico è conseguenza di sanità eccellente. Basti pensare alla regione Sicilia: è una delle regioni che più spende in sanità, ma non credo che offra uno dei migliori servizi.
Sono orientato a trasmetterle la necessità che sui LEA e sul diritto alla salute si debba recuperare rispetto a un passato derivante anche da una distribuzione di quota capitaria che persiste nelle differenze. Credo infatti che le differenze esistenti fra le diverse città italiane siano da un lato il frutto di opzioni intelligenti da parte di chi ha accorpato, ha operato bene e ha anticipato scelte lungimiranti, mentre dall'altro lato ci sono stati ritardi. Tuttavia, credo anche che lei debba caricarsi della responsabilità di operare una revisione della quota capitaria. Legittimamente, lei potrebbe chiederci come mai questa operazione non sia stata realizzata dal Governo precedente. Le rispondo che tale mancanza si può far risalire a due aspetti: uno di natura temporale, l'altro più politico. Abbiamo tentato, nella legislatura scorsa, ma il tempo concesso non è stato sufficiente. Sulla mancata revisione della quota capitaria, che spesso sottende all'accorciamento delle differenze esistenti fra diverse zone d'Italia in materia di sanità e all'innalzamento della qualità e della quantità dei LEA, esistono inoltre ragioni che prescindono dall'appartenenza politica e che sono frutto di egocentrismi geografici e territoriali.
Lei sa bene che difficilmente la Conferenza Stato-regioni vedrà protagoniste, nella revisione della quota capitaria, regioni come l'Emilia-Romagna, la Toscana, la Lombardia, il Veneto, la Liguria e il Piemonte.
Non cito a caso queste regioni, bensì le nomino perché esse, trasversalmente rappresentate e con una guida politica difforme, di fatto sono le regioni che, in difesa di posizioni ottimali già conquistate, impediscono che si possa redistribuire un'economicità che ci aiuti nel recupero di un ritardo del sistema sanitario che in alcune zone d'Italia è evidente.
Nella scorsa legislatura - mi fa piacere sentirlo ripetere da lei e ora lo sottolineo in forma un tantino più brutale - avevo dichiarato che se, da un lato, riteniamo che la sanità meridionale vada accompagnata in una maggiore crescita (quindi chiediamo, non in maniera assistenzialistica, maggiore redistribuzione economica), dall'altro lato siamo totalmente disponibili ad accompagnare questa richiesta con il dovere di immaginare poteri sostitutivi dello Stato - in occasione di inadempienze, ritardi, o sacche di residuale amministrazione negativa - rispetto al recupero di tali ritardi.
Lei parlava di commissariamento. Brutalmente, accentuo questa visione e rilancio: poteri sostitutivi rispetto a fenomeni distonici, nei confronti dei quali non possiamo transigere.

PRESIDENTE. Invito a contenere gli interventi nel tempo di dieci minuti, un quarto d'ora, così da dare a tutti l'opportunità di parlare. Il ministro si tratterrà fino alle 14,30.

GERO GRASSI. Signor presidente, capisco la necessità di sintesi, però questa è la prima audizione del ministro e rispetto ad un tema così delicato, organico e trasversale - credo che non si debba comprimere il dibattito.

PRESIDENTE. Il mio è soltanto un invito.

GERO GRASSI. In ogni caso, l'audizione del ministro del precedente Governo si è tenuta nell'arco di cinque sedute. Siccome non avremo quotidianità di rapporti, signor presidente, mi consenta di trasferire al ministro le necessarie osservazioni.


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Detto questo, accolgo l'invito e proseguo per brevi flash.
Venendo dunque al disegno di legge sulla qualità e la sicurezza del Servizio sanitario nazionale, riteniamo che tale provvedimento rappresenti un'occasione seria per avvicinare le distanze e qualificare tale servizio.
Lei, signor ministro, ha parlato anche - come vede, si fa fatica a comprimere il dibattito - di federalismo fiscale, espressione che il Presidente del Consiglio ha ammorbidito aggiungendo il termine «solidale». Voglio raccogliere la sfida del federalismo, poiché non appartengo a coloro i quali oppongono un «no» preventivo. Tuttavia, vorrei capire - lei lo ha accennato, ma stando ai giornali, o al dibattito politico, le notizie sono diverse e frastagliate - come il federalismo recuperi le diversità esistenti, ad oggi, fra le regioni italiane. Possiamo immaginare un punto di partenza uguale per tutti, ma i ritardi rispetto a quest'ultimo, nella sua relazione, non mi sembra assolutamente che siano stati colmati.
Credo che lo sforzo che il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali deve compiere, prima di avviare il federalismo fiscale, debba necessariamente essere quello di concedere la possibilità, alle regioni che a quel federalismo arrivano con ritardi notevoli e sostanziali, di partire da un livello di sostanziale uguaglianza.
Anche in questo caso, vorrei sottolineare un punto spesso sottaciuto: quando si chiede il recupero dei ritardi, ciò non significa mettere in atto una forma di egoismo territoriale a favore delle proprie regioni di appartenenza, bensì attuare l'articolo 3 della Costituzione nonché evitare che i ritardi di alcune regioni incidano negativamente anche sulle regioni più avanzate, che presto si troveranno a offrire salute a tutta l'Italia, se è vero che un pezzo della nostra Italia oggi, quello meridionale, soffre di questa mancanza e di questo ritardo.
Ritengo che il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali debba accompagnare questa crescita, debba seguire questo sviluppo e debba preoccuparsi, sotto tutti i punti di vista, di recuperare questo ritardo. Penso che con il federalismo si abbia la possibilità di compiere questo cammino, ma il federalismo va concretizzato attraverso proposte chiare, non con notizie giornalistiche che oggi parlano di decurtazioni economiche destinate a penalizzare maggiormente chi, allo stato attuale, ha di meno. Recepisco l'invito del presidente e mi fermo qui.

PRESIDENTE. Onorevole Grassi, la ringrazio e mi scuso. Spero che il ministro, potrà essere presente qui in Commissione non solo domani, ma anche in altra successiva occasione, naturalmente in base alle sue disponibilità.

DOMENICO DI VIRGILIO. Signor presidente, intervengo sull'ordine dei lavori. Sono d'accordo con il collega Grassi. Ringrazio il ministro per la sua esposizione, ma l'importante è discutere le linee programmatiche illustrateci e io, come ho già accennato, mi aspetto che il ministro torni altre volte.
Proporrei di non mettere un limite a domani e di programmare ulteriori incontri, poiché ognuno di noi, giustamente, vuole esprimere fino in fondo, anche se sinteticamente, le proprie posizioni.

ANNA MARGHERITA MIOTTO. Signor presidente, per ragioni di tempo, facendo un torto alla complessa e ampia relazione che il ministro ha illustrato questa mattina, concentro l'attenzione su due questioni che mi sembrano importanti, in quanto rivelatrici di un'impostazione che mi fa nascere molti interrogativi. Le due questioni riguardano la premessa e i tre esempi che il ministro ha fatto.
In verità, non avendo sentito parlare di assistenza, di sociale e quant'altro, ritengo che le relative proposte programmatiche siano state ricondotte all'interno del progetto di «libro verde» che, di fatto, propone una visione del nuovo modello sociale, sul quale si potrà sicuramente aprire un'interessante discussione. Però, proprio a partire da questo impegno del Governo,


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traggo alcune piccole e modeste conclusioni in grado di evidenziare preoccupanti contraddizioni.
Premetto che è bene partire dalla necessità di superare un aspetto e una logica risarcitoria, per promuovere le opportunità. Perché ciò si realizzi, tuttavia, occorre capovolgere l'ottica dell'elenco delle politiche alle quali stamani abbiamo prestato attenzione. Infatti, essendo troppo concentrati sul contingentamento dell'offerta, si finisce per smarrire il profilo della nuova domanda. Su questo argomento non ho sentito dire nulla.
Pertanto, non si può parlare di un welfare delle opportunità, se non ci si pone il problema di una revisione drastica del sistema dell'offerta e di un'attenzione particolarmente sviluppata nei riguardi della domanda. Intendo dire che, senza una programmazione che parta dai bisogni, si fa fatica a organizzare l'offerta con criteri universalistici, che garantiscano il principio dell'equità a cui si è fatto riferimento. Riporto alcuni piccoli esempi, per evidenziare la contraddizione nella quale si rischia di cadere. Passare a un modello di welfare delle opportunità significa, come giustamente ha riconosciuto il ministro, parlare di presa in carico globale. Aggiungo, dal canto mio, che questo significa anche parlare di continuità di cure e di un modello socio-sanitario fortemente integrato. Esattamente il contrario di quello che accade laddove si incentivano modelli organizzativi che propongono e promuovono, invece, il finanziamento sulle prestazioni.
Parlare di passaggio da un modello risarcitorio a un modello delle opportunità, significa guardare a politiche integrate al lavoro, all'ambiente, al sistema complessivo dei diritti che, quindi, richiama alla mente riforme che vanno in direzione esattamente opposta, quando addirittura non siano state completamente insabbiate o trascurate. Parlo dell'immigrazione, o delle politiche dei bonus e della non autosufficienza, della quale non ho sentito parlare.
Il rischio è quello che, preoccupati come siamo di contenere la spesa, non ci accorgiamo che l'esplosione delle contraddizioni insite ai modelli prestazionali e ai pagamenti a tariffa comporta una deriva per il sistema sanitario che, in verità, paga la malattia e non finanzia la salute.
Troppo facile sarebbe il riferimento ai recenti fatti di Milano.
Arrivo ora alla seconda questione che mi sembra rilevante, da questo punto di vista. Penso che debbano essere date risposte - e queste, ministro, non le ho sentite - a tre grandi questioni che attraversano il nostro sistema socio-sanitario, in un Paese che peraltro ha raggiunto risultati importanti nelle graduatorie soprattutto per le ragioni a cui, un attimo fa, il vicepresidente Gero Grassi ha fatto riferimento. È bene rivendicare gli alti livelli delle graduatorie, ma non dimentichiamoci che questi sono stati raggiunti grazie soprattutto agli operatori del settore.
Ci sono tre grandi questioni, ripeto, sulle quali non ho sentito esporre una strategia politica di welfare. Esse riguardano in primo luogo l'ambito dei diritti, in secondo luogo le risorse e da ultimo i poteri.
Sono tre ambiti nei quali servono le grandi innovazioni di cui, appunto, non ho sentito parlare.
Quanto ai diritti, brevemente, si parla di liste d'attesa e di livelli essenziali, di come estendere e ampliare questi ultimi, che nel sociale non esistono. Si parla del tema dell'appropriatezza, che è strategico al fine di garantire che un servizio sanitario mantenga le caratteristiche di un sistema equo e universale.
Queste sono questioni che incrociano tutti i giorni i problemi del quotidiano delle aziende sanitarie e che vedono - ahimè - i cittadini, con una prescrizione in mano, vagare da un CUP a un call center. Si tratta di questioni sulle quali, naturalmente, le scelte di finanziamento del fondo sanitario creano preoccupazioni, determinano una grande apprensione, in quanto anche una piccola riduzione del fondo si traduce in un affievolimento del diritto alla salute. Se i LEA non vengono garantiti, si configura una forma di ticket occulto pagato dai cittadini: quando si


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allungano le liste di attesa è evidente che nasce immediatamente il conflitto, per ciascuno di noi, tra il pagare la prestazione o attendere un determinato numero di mesi. Si pone in definitiva la questione di affrontare alcune tematiche che sembrano ormai croniche, ma che vanno fronteggiate con grande rapidità. In questo ambito è compreso anche il tema della non autosufficienza, su cui non è stato fatto il minimo accenno.
Il secondo capitolo riguarda le risorse. Anche da questo punto di vista, spero che lei abbia condotto una qualche battaglia in Consiglio dei ministri - avrei preferito averne notizia anche sui giornali - per impedire che nel decreto n. 93, sul quale il Governo porrà la fiducia stasera, venissero scippati i fondi dell'INAIL. Insomma, servono più risorse per gli investimenti in sanità: tecnologie, strutture da ammodernare, ricerca. Naturalmente, il primo capitolo riguarda i professionisti.
Bene il «governo clinico» da un lato, ma che si provveda anche al riconoscimento della prima risorsa del sistema sanitario, che è rappresentata dai professionisti.
Il terzo nodo riguarda i poteri. Ci poniamo il problema che nel sistema sanitario oggi, dove prevale il profilo aziendalistico, sono totalmente espunti da molte delle leggi regionali (che, naturalmente, recepiscono le riforme nazionali) i poteri dei sindaci e delle comunità locali, amplificando, dall'altro lato, lo strapotere che deriva ai direttori generali dal rapporto di nomina da parte del presidente della giunta regionale, o dalle giunte regionali, a seconda dei diversi orientamenti che nelle varie regioni sono stati assunti.
In verità, i territori vengono privati della possibilità di concorrere ai livelli di programmazione locale, che oggi sono ridotti al minimo.
Se non si dà forza alla legge n. 328 del 2000, le comunità locali rischiano di essere espulse anche dai poteri di programmazione che loro competono, in base alla Costituzione, riguardo alle tematiche relative all'assistenza.
Su queste tre grandi questioni serve un processo riformatore molto forte, ma anche un'azione di Governo, d'intesa con le regioni, altrettanto decisa.
Come dicevo, le tre affermazioni che lei ha fatto sono rivelatrici di uno spostamento più sulle preoccupazioni dell'offerta che della domanda, cioè su un approccio un po' subalterno al mercato.
Lei ha fatto, peraltro, un'affermazione importante, sotto questo riguardo, peraltro solo di principio. Nei fatti, le cose vanno diversamente. Lei infatti dichiara che è inutile fare un investimento su un'azienda improduttiva. Tuttavia, l'azienda sanitaria esiste in virtù del fatto che essa è prevista dalla programmazione. Domandiamoci piuttosto in quale senso riteniamo che essa sia improduttiva; da quale punto di vista si debba misurare la non produttività di un'azienda di questo tipo; per quali motivi in un'azienda del genere il rapporto fra ampiezza del territorio, numero di residenti e offerta di servizi che devono essere organizzati renda i costi molto elevati. Lei sa bene, tra l'altro, che quest'ultimo rapporto non costituisce un parametro efficiente, in quanto, come dimostrano tutti i sistemi sanitari più evoluti al mondo, in realtà si spende molto di più (Commenti del ministro Sacconi).
Esatto, lei viene da una regione dove il sistema sanitario è ben organizzato, ma sa anche che se mettiamo a confronto due aziende sanitarie, ad esempio una del territorio trevigiano e una della montagna bellunese, non si riescono a fare confronti, soprattutto in termini di costi.
È evidente che parlare di produttività in questo senso crea qualche problema.
Lei ha illustrato anche un esempio in cui si è inaugurata una bella struttura territoriale dopo la chiusura dei centri locali esistenti, non prima. In sanità si dovrebbe fare esattamente l'opposto, diversamente, se si apre un servizio territoriale dopo che si è chiuso il servizio residenziale inutile, o l'ospedale che era un doppione, probabilmente in quel periodo ci sono dei diritti che non vengono garantiti o prestazioni che vengono negate. In questo caso, è l'appropriatezza che deve


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orientare le scelte. Se sono cambiati i bisogni, prima si organizza l'offerta sul territorio e poi sarà facilissimo, doveroso in quel caso, chiudere l'ospedale, giacché si è data, in termini di offerta, la risposta più adeguata a quel bisogno che è mutato.
È stato fatto anche l'esempio dei processi di razionalizzazione che devono interessare erogatori pubblici o privati, parlando delle tariffe, indicando la necessità di fare uscire i marginali. In verità dobbiamo domandarci sotto quale punto di vista le varie realtà siano marginali. So bene che esistono strutture che possono risultare improduttive dal punto di vista puramente economico, ma dobbiamo misurare tali realtà sempre in funzione della garanzia del diritto alla salute di cittadini che vivono, talvolta, in territori dove le difficoltà (di natura geomorfologica, ad esempio) possono purtroppo portare a un grande dispendio di risorse. Tuttavia, non è quello il parametro che fa orientare le scelte di programmazione, tantomeno le scelte di politica sanitaria.
Quando parliamo di salute, sappiamo che i paragoni con il mercato non reggono mai, perché vanno in direzione esattamente opposta agli obiettivi di un sistema sanitario. Quest'ultimo compie la propria missione se produce salute, mentre il mercato - come sappiamo - svolge la propria missione nel momento in cui fa tante prestazioni e guadagna molto. Ciò vuol dire che, se ci sono tante prestazioni (in un sistema in cui i bisogni, peraltro, sono in aumento), laddove tali prestazioni non siano legate all'appropriatezza, forse esse servono per arricchire qualcuno. Non certo per garantire salute.
Il Governo politico, in questo settore, non può che mettere la programmazione al primo punto. La programmazione si avvale, sempre e in ogni caso, di due grandi valutazioni politiche: i livelli essenziali di assistenza e il profilo dei bisogni che vogliamo garantire in attuazione dell'articolo 32 della Costituzione.

LUISA BOSSA. Signor ministro, la ringrazio per essere intervenuto questa mattina: questo ci aiuta molto. Ritengo che questa discussione, per l'importanza degli argomenti, abbia bisogno di tempi più lunghi di quelli che, oggi, ad essa dedichiamo. Lei ha molto parlato di sanità - comprensibilmente - e molto poco delle politiche sociali, rimandando - come lei ha precisato nella sua introduzione - a un «libro verde». Tuttavia, a proposito di queste politiche sociali, lei ha affermato che il vostro obiettivo è di passare da un sistema di tipo risarcitorio a un sistema - lo dico senza provocazione, ho semplicemente capito così - inibitorio, nel senso che al bisogno stesso si inibisce di emergere, di farsi bisogno.
Per esempio, volete attuare pienamente la legge n. 194 del 1978. Ciò non può che farci piacere. Tuttavia, mi chiedo con quali servizi e con quali strumenti di prevenzione intendiate farlo. Nel decreto-legge che voteremo - anzi, noi non lo voteremo - tra poco, intitolato «Disposizioni urgenti per la salvaguardia del potere d'acquisto delle famiglie», per il 2008 al suo ministero vengono sottratti 60,1 milioni e, dal 2010, 165 milioni di euro. Vorremmo semplicemente essere tranquillizzati per il futuro. Vorremmo essere sicuri che questo nuovo modello sociale, di cui lei si è fatto portavoce, mettesse al centro della vostra politica non linee economico-finanziarie di tipo aziendalistico, bensì linee che vanno ancora una volta - speriamo sempre - ad esercitare diritti costituzionalmente garantiti, e quindi esigibili.
Vorremmo qualche sua riflessione in merito a questo aspetto.

DOMENICO DI VIRGILIO. Signor presidente, condivido pienamente le linee programmatiche svolte dal ministro con grande competenza. Logicamente, egli ha affrontato gran parte dei temi della sanità e non ha potuto che essere sintetico.
Io cercherò di essere sintetico ugualmente, ma desidero affrontare alcuni problemi, partendo dall'aspetto economico, poiché lei, signor ministro, ha molto insistito su questo problema. Abbiamo un fondo sanitario nazionale che, pur ammontando a circa 100 miliardi di euro, e pur essendo incrementato di 5 miliardi di


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euro nel 2010-2011, non è in grado di rispondere a tutte le richieste. Si tratta di una situazione che non trova riscontro in alcun altro Paese nel mondo, compresi gli Stati Uniti. Ricordo, quando partecipai al G8 della sanità, in qualità di sottosegretario per la sanità, che il ministro della salute statunitense mi disse che il suo Paese destinava alla sanità il 16 per cento del PIL.
Occorre trovare, in attesa di quel federalismo fiscale che dovrà risolvere questi problemi, sistemi che si aggiungano alla fondamentale lotta agli sprechi, che rileviamo a macchia di leopardo.
Come dipartimento sanità, ancora sotto l'insegna di Forza Italia, proponemmo di studiare il problema della mutualità integrativa. Questo aspetto economico è importante, anche perché oggi i cittadini italiani, di loro tasca, integrano la spesa, globalmente, per altri 50 miliardi di euro.
A questo punto s'inserisce il problema del ticket. Lei ha già dichiarato anche alla stampa, nel suo intervento a Fiuggi, che non si tratta di un fondo inserito nei programmi del Governo. Ne sono contento. Rilascerò interviste, chiarendo la mia posizione (che non è certamente così autorevole come la sua) secondo la quale il ticket non rappresenta il sistema migliore per frenare le prestazioni o per incrementare le entrate. Forse, esso potrebbe avere un effetto deterrente: una sorta di mini ticket volto a ridurre unicamente il rischio di abuso di farmaci.
Non vediamo nel ticket un sistema giusto e che possa essere favorevole all'introito. Da questo punto di vista, senza polemica, volevo ricordare la nostra contrarietà al ticket sulle prestazioni di pronto soccorso. L'allora ministro Turco è oggi presente e confermerà che già mi dichiarai contrario all'epoca della precedente finanziaria. Il ministro Turco ricorderà che, allora, si voleva istituire il ticket addirittura sul codice bianco, mentre poi è rimasto limitato al codice verde.
Il cittadino, nel territorio, non trova (specialmente nel fine settimana) una possibilità di soluzione anche a piccole situazioni. Basta una piccola ferita a un dito e subito si corre al pronto soccorso. Se ne potrebbe fare a meno, se nel territorio esistesse una realtà che andasse a soddisfare una giusta richiesta dei cittadini.
Altri nodi sono costituiti dalle visite specialistiche, oppure dalla penalizzazione, di cui se ne parla poco, se un cittadino non ritira i risultati di esami già compiuti.
Anche da questo punto di vista, signor ministro, lei deve insistere sulla via dell'informatizzazione, in quanto è il medico a prescrivere gli esami: il cittadino va a farli nel laboratorio convenzionato, o in ospedale, e poi tornerà dal medico per conoscere gli esiti.
Non esiste niente di più semplice che il laboratorio comunichi i risultati per via telematica al medico, che poi fornirà la risposta al cittadino.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO CICCIOLI

DOMENICO DI VIRGILIO. Si eviterebbe questa vera e propria mannaia, si eviterebbero storture e anche molte perdite di tempo.
Sull'intra moenia, lei ha sommariamente elencato tre scenari possibili.
Sappiamo benissimo che il 31 gennaio 2009 scade la proroga che avevamo chiesto e che il ministro Turco aveva concesso. Il tempo non sarà, comunque, assolutamente sufficiente. Sarò brevissimo: su questo argomento, le leggi non sono pronte, così come non lo sono le strutture.
Credo che neanche con una nuova proroga, che pare comunque indispensabile, le strutture ospedaliere, universitarie, delle ASL, saranno in grado di fornire spazi per la libera professione.
Ricordiamoci che la legge parla di spazi per un ricovero pari al 5-10 per cento dei letti, separati.
Questa è la legge attuale. Ebbene, modifichiamola nel senso di una maggiore flessibilità!
In questa Commissione, nella XIV legislatura, svolgemmo un'indagine conoscitiva lunghissima e fu pubblicato un volume enorme. I risultati, riguardo all'aspetto


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economico, erano penalizzanti al massimo nei riguardi del Servizio sanitario nazionale. Non ricordo le cifre esatte, ma a fronte di un introito, mettiamo ad esempio, di mille euro, se ne spendevano magari cinquemila.
Mi sembra quindi che il tema dell'intra moenia, da un lato, rispetti la libertà del cittadino di scegliere dove farsi curare e di farsi curare, questo è fondamentale. Dall'altro, però, esso rispetta la facoltà concessa al medico di esercitare la libera professione dopo avere assolto il proprio compito in maniera concreta e corretta, e beninteso dopo avere timbrato il cartellino, poiché l'ubiquità e le prestazioni contemporanee non sono ammissibili. Bisogna essere severissimi con chiunque commetta questo reato! Siamo più favorevoli a una certa flessibilità, giacché sicuramente non arriveremo ad una decisione comune secondo la quale tutte le ASL saranno in grado di riservare gli spazi completi.
Vengo rapidamente al terzo argomento, cioè al problema del rischio management e della malasanità. Lei lo ha accennato: non si tratta soltanto della clinica Santa Rita. Ho avuto modo di ribadire anche in Assemblea, al sottosegretario Fazio, che gli episodi di malasanità - che condanniamo fermamente - avvengono un po' dappertutto: al nord, al sud, al centro. Tali episodi vedono come protagonisti speculatori della sanità che devono essere condannati (quando la magistratura avrà, logicamente, le prove concrete) in quanto la salute non può ammettere una tale presenza. Dall'altro lato, i medici devono essere ben responsabilizzati nella formazione, non solo scientifica, ma anche etica e deontologica.
Bisogna assolutamente non guardare con occhio benevolo, né passar sopra a quei pochi medici che si comportano in maniera maldestra e che abusano del loro compito, scordandosi non solo il giuramento di Ippocrate, ma anche l'essenzialità del rapporto di fiducia tra medico e paziente.
Da questo punto di vista, abbiamo già proposto (lo ripresentiamo nel testo di legge sul «governo clinico»), la presenza in ogni struttura sanitaria di un'unità di rischio che preveda competenze diverse, alla presenza di un ingegnere che si possa occupare delle macchine, in modo che non succeda più quanto è accaduto a Castellaneta, con lo scambio tra azoto e ossigeno.
Parliamo di un'unità di rischio che sappia valutare, struttura per struttura, giorno per giorno, quello che è il rischio clinico in rapporto sia all'atto medico, sia all'uso di tecnologie sempre più avanzate.
In questo modo ridurremo sempre di più il problema della malasanità e eviteremo le attuali 15 mila denunce all'anno, la maggioranza delle quali poi non ha seguito, ma che tengono in ansia sia il cittadino che aspetta anni per sapere se sarà risarcito, sia il medico che aspetta con altrettanta ansia e paga gli avvocati.
Probabilmente sarebbe utile, anche qui, prevedere una sala di conciliazione - la si chiami come si vuole - una specie di giudice di pace, in ogni struttura, che possa risolvere le diatribe sul risarcimento del cittadino, parlo logicamente nel civile, quando si tratti di piccole cifre, così che non si debba aspettare la risoluzione della lite per anni.
Un'altra osservazione riguarda la questione delle cellule staminali. A fine giugno, signor ministro, scade l'ordinanza del ministro Turco e, prima ancora, del ministro Sirchia, sulla donazione del cordone ombelicale.
Esiste la diatriba della donazione autologa e rinuncio in questo momento a leggere vari interventi scientifici pubblicati da varie società, dell'American College of Obstetricians and Gynecologists, in cui si dice che la possibilità dell'utilizzo autologo sono remote.
L'utilità è maggiore quando si dona a una banca pubblica o a una banca privata, così come succede per la società americana per il trapianto di midollo osseo.
Insomma, le evidenze scientifiche non sono univoche.
Personalmente, credo che occorra una cauta apertura anche nei riguardi dell'uso


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autologo, quando si evidenzino dimostrazioni scientifiche della reale utilità di questa pratica.
Non si deve essere assolutamente chiusi, bensì fornire garanzie al cittadino, che oggi ricorre alla donazione all'estero in quanto non sussistono cognizioni ben precise.
Nel quadro di una sua eventuale ordinanza in proposito, le chiedo di mantenere un cauto ottimismo e una cauta apertura anche a questo uso.
Da parte nostra, abbiamo presentato, a prima firma del sottoscritto, e ripresentato un articolato sulla donazione del cordone ombelicale che prevede anche questi aspetti. Speriamo che si possa trovare un accordo con l'opposizione. In questa Commissione, per fortuna si lavora nella stragrande maggioranza dei casi molto bene e in grande assonanza, poiché, lo ripeto, la salute non può conoscere ideologie.
Passo al problema della non autosufficienza, che signor ministro, richiamo alla sua attenzione.
È inutile dire che tutti vogliamo invecchiare, invecchiare meglio possibile, con i conseguenti problemi. In Italia vivono 2 milioni 800 mila persone non autosufficienti o disabili, le quali non hanno dai LEA (non possono avere, non è colpa di nessuno) risposte alle proprie necessità.
Il disabile e il non autosufficiente non deve stare in ospedale, dobbiamo favorire al massimo che stia a domicilio, purché siamo vicini alle famiglie con un'assistenza domiciliare totale e integrata e dando alle famiglie che hanno questa necessità un bonus da spendere per acquistare quelle prestazioni che i LEA non forniscono.
Certamente la carta per anziani, che il ministro Tremonti ha annunciato, è un piccolo passo significativo, ma non risolve questo problema.
Anche in questo caso, abbiamo ripresentato un disegno di legge sulla non autosufficienza che prevede una spesa non indifferente, che tuttavia si può affrontare per gradi, in modo da arrivare ad assicurare un sacrosanto diritto a tutti questi anziani.
Vorrei richiamare la sua attenzione anche sul problema del fumo. Lei non ne ha accennato, ma sono particolarmente sensibile al tema perché avevo ereditato dal ministro Sirchia la relativa delega.
Signor Ministro, faccia in modo che la legge che ci hanno invidiato in Europa e che Francia e Spagna ci hanno positivamente copiato, venga attuata e migliorata, se possibile. Infatti, patologie quali il cancro del polmone e l'enfisema, possono essere prevenute se lottiamo contro il fumo, nel rispetto della libertà del cittadino.
Signor ministro, concludo sulla meritocrazia: non bisogna avere pietà, il direttore generale non può scegliere un primario da un elenco infinito di idonei, come oggi la legge consente.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE PALUMBO

DOMENICO DI VIRGILIO. È possibile che, anche in buona fede, un manager scelga un primario perché gli offre delle garanzie.
Ma, probabilmente, potrebbe non essere questo il primario migliore dal punto di vista professionale. È ben vero che il primario, oggi, debba essere anche un manager, debba saper condurre anche economicamente la propria divisione. Lo sono stato per ventun anni - forse sono stato un cattivo primario, non lo so, lascio il giudizio ai miei collaboratori -, ma l'economia e la capacità manageriale non può rendere secondari gli aspetti tecnici, deontologici e professionali.
Anche qui, nel «governo clinico», prevediamo che il primario venga scelto al massimo tra tre candidati, oppure addirittura risulti vincitore di un concorso svolto da una commissione composta di persone esterne all'azienda e, possibilmente, anche esterne alla regione.
Termino sull'età pensionabile. È ora di finirla anche con questa discriminazione! Sono un ospedaliero e non vado contro gli universitari, ma gli universitari non hanno un cervello diverso da quello degli ospedalieri.


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Non si comprende perché i primi vadano in pensione a settanta o settantadue anni, mentre gli ospedalieri no.
Secondo me, dobbiamo uniformare l'età pensionabile intorno ai settanta anni, dal momento che si vive meglio e più a lungo, pur sostenendo esami attitudinali dopo i sessantacinque anni. Non possiamo infatti ammettere l'esercizio di gravi responsabilità da parte di un primario o di un cattedratico affetto da patologie che non gli permettano di esercitare la funzione.
Bisogna assolutamente addivenire all'età pensionabile comune a tutti e noi proponiamo il limite unico di settant'anni. Termino con l'augurio che il contratto dei medici, scaduto e riscaduto, possa trovare una conclusione rapida. Mi farà inoltre piacere discutere immediatamente del nuovo contratto e non aspettare due anni dalla scadenza per parlarne di nuovo.

LIVIA TURCO. Ringrazio il signor Ministro. Intendo la sua esposizione, anche il tono e la disponibilità come volontà di ricercare su un tema cruciale come quello della salute e delle politiche sociali tutte le convergenze possibili. Per quanto ci riguarda, noi siamo favorevoli a risolvere in primo luogo i problemi delle persone.
Mi auguro che sia definitivamente chiusa la fase in cui, sul tema della salute, si rilevava appunto uno scontro di visioni.
Mi auguro inoltre - così intendo la conferma del valore del patto per la salute - che il punto di riferimento rimanga il Sistema sanitario pubblico universalistico e solidale.
Ovviamente il dialogo richiede pazienza e quindi sarà importante che lei torni qui ogni volta che sarà sollecitato. Ricordo che, le volte in cui sono venuta in Commissione, ne ho sempre ricavato un'occasione di arricchimento.
Molte cose sono state dette dai colleghi e dalle colleghe, quindi volevo soltanto fare qualche sottolineatura e poi rivolgere alcune domande.
La sottolineatura è la seguente: credo che sia importante, in un approccio, proporre una visione. La visione risulta poi misurata anche nella coerenza, negli atti concreti, e quindi le porremo fin da subito proprio il tema della coerenza tra una visione e gli atti concreti, come peraltro hanno già fatto i miei colleghi e colleghe.
Non possiamo che essere d'accordo rispetto a una visione del welfare che sia fortemente integrata, a una visione del welfare che superi il modello risarcitorio e categoriale per guardare alla persona, al ciclo della vita, alla capacità di autosufficienza della persona. Non possiamo che essere fortemente d'accordo su un welfare attivo.
Siamo molto d'accordo, anche perché non si comincia adesso. Vorrei sottolineare che il welfare delle opportunità non rappresenta una proposta nuova. Il welfare delle opportunità ha sedimentato un'idea e innovazioni che sono scritte nel nostro ordinamento e che andrebbero, molto di più, tenute in considerazione e applicate.
Non applicate in senso tecnico, bensì proprio a partire dalla cultura che ne è alla base.
Mi riferisco alla legge quadro sulla rete integrata dei servizi sociali, la n. 328 del 2000, un provvedimento che mantiene tutta la sua validità, proprio nell'ottica di un welfare della persona, di un welfare attivo. Le preannuncio che su questo tema la chiameremo in causa ripetutamente, poiché si tratta di un provvedimento di impianto culturale che, benché affidato in larga misura alle regioni, risulta utile proprio per la costruzione di un welfare attivo.
Si tratta di un provvedimento che ha bisogno, ad esempio, di essere realizzato oggi con la definizione dei livelli essenziali di assistenza in campo sociale, i LIVEAS.
Per la realizzazione di tutto ciò, esiste un patrimonio di elaborazioni e di esperienze in campo regionale e territoriale. Sarebbe importante compiere una sintesi e sarebbe importante fare ciò che, purtroppo, non è stato fatto dal precedente Governo e cioè di istituire i livelli essenziali di assistenza anche in campo sociale.
Sicuramente, un pezzo importante del nostro ordinamento, che promuove una concezione attiva della sanità, è anche la


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legge n. 833 del 1978 e successivi aggiornamenti. Cade in questi giorni il trentennio di questa importante riforma. Credo che sia utile non soltanto celebrarla, ma vedere come, attraverso azioni di ammodernamento, renderla sempre più efficiente.
Ma quello che mi premeva sottolineare è che questo welfare delle opportunità dovrebbe arricchirsi di un altro concetto, che è il welfare delle capacità, le capability. «Lazzaro, alzati e cammina!»: promuovere tutte le capacità delle persone. Ciò richiede poi una coerenza che, in effetti, vorremmo vedere nel concreto.
La coerenza sta nella costruzione di un mix scuola-lavoro-salute.
Per quanto riguarda la scuola, si parte dalla scuola della prima infanzia. Studi importanti ci dicono come, per prevenire lo svantaggio sociale, bisogna incidere sui processi cognitivi che si formano nei primi tre anni e quindi quanto sia strategica la scuola dell'infanzia.
Per quanto riguarda la salute, come è stato detto, tutto ciò significa presa in carico, continuità assistenziale, medicina territoriale.
Questo welfare delle capacità e delle opportunità, che richiede il massimo di integrazione, ha bisogno, però, che insieme a scuola, lavoro e salute, sia molto forte il pilastro della rete integrata dei servizi, con un'integrazione ancora più forte fra servizi sociali e servizi sanitari.
Non credo che si possa costruire una reale capacità attiva delle persone, che si possa realizzare un welfare delle opportunità, se non si crea l'ambiente favorevole affinché ciascuna persona possa dare il meglio di sé. Ciascuna persona: le più forti, ma anche le più fragili.
Ribadisco: sicuramente è importante la scuola, sicuramente lo è il lavoro, però esiste questo ulteriore pilastro che nel nostro Paese stenta ad affermarsi, cioè la rete integrata dei servizi.
Essa significa sostegno alla normalità della vita delle famiglie, predisposizione di quelle opportunità (dai servizi di sollievo, ai servizi socio-educativi, al mutuo aiuto delle famiglie), che concretamente possono prevenire il disagio, la malattia e promuovere l'attività.
Nell'ambito della disabilità, per esempio, quanto sono preziosi quei centri riabilitativi, quelle forme di inserimento lavorativo, quei centri di aiuto, quei servizi riabilitativi che anche alle persone più fragili forniscono l'opportunità di dare un contributo alla comunità!
Non posso dimenticare quanto abbia imparato, per esempio, dalle madri e dalle famiglie con ragazzi portatori di disabilità intellettiva, quando chiedevano che fossero forniti questi servizi riabilitativi in quanto strumento affinché i loro figli potessero dare il proprio contributo alla comunità.
Questo pilastro del welfare, la rete dei servizi, pensiamo che sia un pezzo troppo importante, fondamentale, per rendere concreto quel principio dell'opportunità.
Questa è la coerenza che chiediamo: che la rete integrata dei servizi non possa essere affidata soltanto al volontariato, al mutuo aiuto e non possa essere affidata solo alla filantropia.
La rete integrata dei servizi è oggi in gran parte affidata agli enti locali.
Chiediamo al Governo di sostenere la rete integrata dei servizi locali con la definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale.
La rete integrata dei servizi locali non può vedere gli enti locali privati di risorse. Questo è un tema che la riguarda, signor ministro.
Abbiamo bisogno che gli enti locali dispongano delle risorse per poter promuovere questi servizi di presa in carico, di sostegno alla normalità della vita delle persone, di inserimento attivo.
Mi associo anch'io a quanto è stato detto qui.
Ci dispiace molto e ci ha colpito vedere che questo provvedimento, che parla di sostegno al potere d'acquisto delle famiglie, sia finanziato attraverso la riduzione del fondo per le politiche sociali.
Questo fondo per le politiche sociali va potenziato, è un bambino in fasce che continua a rimanere in fasce e deperisce sempre di più. Va potenziato, diversamente


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non si costruisce il welfare delle opportunità, che non è soltanto l'inserimento lavorativo, ma anche l'accompagnamento alla normalità della vita delle famiglie. Esso non è neanche soltanto la concessione di un aiuto per chi è in condizione fragile.
Questo è l'aspetto che volevamo sottolineare, vado oltre per brevità e vengo al patto per la salute e al finanziamento del sistema sanitario. Sono d'accordo con lei: abbiamo affrontato questo tema. L'altra faccia dell'equità è l'efficienza e noi abbiamo affrontato, lei lo ha riconosciuto, i piani di rientro. Il patto per la salute ha esattamente questo obiettivo.
Sappiamo che costruire l'unitarietà del sistema sanitario pubblico ha come obiettivo ineludibile quello per cui ciascuna regione del nostro Paese diventi capace di essere autosufficiente, di essere virtuosa e di promuovere equità ed efficienza.
Misure come quelle volte a rafforzare l'iniziativa centrale, nella direzione di coinvolgere le regioni più virtuose in azioni di gemellaggio, non sono decollate. Non lo sono, sia perché chi avrebbe bisogno di essere sostenuto non accetta di essere sostenuto, o non riconosce di dover essere sostenuto, sia perché da parte di chi è più forte (quantomeno do conto del periodo che ho vissuto), non era sufficientemente convinto di doverlo fare.
Quindi, un meccanismo che renda in qualche modo cogente questa assunzione di responsabilità, per promuovere l'autosufficienza di ciascuna regione, è sicuramente importante.
Efficienza ed equità ci chiedono, però, di avere molto chiaro un discrimine: un conto sono le politiche di sostenibilità finanziaria, quelle che cercano appunto un equilibrio virtuoso tra efficienza ed equità, un altro sono le politiche di razionamento. Queste ultime subordinano alla compatibilità finanziaria il bisogno di salute.
Bisogna invece trovare un equilibrio, certo è molto faticoso, tra quello che è il bisogno di salute e la compatibilità finanziaria.
Il patto per la salute è stato proprio questo, il trovare un equilibrio e non il subordinare al vincolo finanziario aprioristicamente determinato il bisogno di salute. Il trovare un equilibrio tra il bisogno di salute e il vincolo finanziario. Non a caso, il merito di quel patto è stato di invertire una tendenza al definanziamento, e di dotare il fondo sanitario pubblico di risorse adeguate per i livelli essenziali di assistenza. Le cifre scritte nella finanziaria, che conoscete, sono da 90 a 102 miliardi per il finanziamento dei LEA, accompagnate a un'azione di contenimento della crescita, che è passato dal 7 per cento allo 0,8 per cento.
Nonostante tutto, si è avuto un aumento delle risorse per i livelli assistenziali di assistenza, poiché l'obiettivo è stato esattamente quello di adeguare il fondo ai bisogni di salute.
Un altro aspetto importante è rappresentato dagli investimenti, per 23 miliardi.
Le domande che le rivolgo sono le seguenti: vorrei sapere a che punto sono gli accordi di programma che avevamo stipulato e gli accordi di programma per gli investimenti.
Sui LEA sono un po' stupita da quanto lei ci ha detto in questa sede, poiché il decreto è stato firmato dal Presidente del consiglio e dal Ministro dell'economia e delle finanze.
Quest'ultimo ha firmato quel DPCM sulla base di una discussione che effettivamente si era instaurata tra Ragioneria, regioni e il Ministero della salute, conclusasi con un parere positivo dell'ufficio legislativo.
Lei sa che quel provvedimento è stato frutto di un lavoro molto lungo, condiviso con le regioni, che ha visto anche un coinvolgimento di competenze, di attori sociali.
Quindi le chiedo cosa intendete fare, rispetto a questo provvedimento, poiché quello che si verificò fu un'eventuale imperfezione tecnica o, più chiaramente, una discussione all'interno del Ministero dell'economia e delle finanze. Fu espressa una riserva della Ragioneria, che fu superata all'ufficio legislativo, tanto è vero che il ministro ha firmato quel documento.


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Le domando di approfondire questo aspetto, e soprattutto domando come intendiate procedere nei confronti di un aggiornamento dei LEA che era stato frutto di un lavoro molto accurato.
Mi pare che, se il problema è quello di una coerente valutazione dei costi, l'occasione di un aggiornamento del patto per la salute possa essere anche questo: un'occasione per definire come affrontare il tema dei LEA.
Rispetto all'intra moenia, lei parla di flessibilità, che io intendo però nell'ambito dell'applicazione della legge vigente, che fu accompagnata da un lavoro istruttorio fatto al Senato. Fu un provvedimento discusso all'unanimità e, soprattutto, sconsiglierei una flessibilità in grado di fornire un alibi alle regioni per essere inadempienti.
L'applicazione della legge prevede che le regioni si dotino di strumenti legislativi per consentire l'esercizio dell'intra moenia. Consideriamo la libera professione un'opportunità per il cittadino e un diritto del medico, ma essa deve avvenire nell'ambito di un sistema sanitario pubblico, con adeguate regole.
Quel provvedimento legislativo, con molta fatica e però in modo molto condiviso, aveva messo a regime questa materia.
Se la flessibilità è nell'attuazione di questa norma, ebbene discutiamone.
Mi permetto di raccomandare che, però, questa flessibilità non significhi appunto un alibi. Le regioni devono fare la loro parte, fino in fondo, e non tentino di lasciare incompiuto il completamento e la messa a punto di un provvedimento legislativo.
Vorrei sapere inoltre se il provvedimento sul riparto del fondo sulla non autosufficienza sia andato in porto, poiché si trattava di risorse sicuramente non adeguate al tema della non autosufficienza, e tuttavia rappresentavano uno stanziamento significativo.
Vorrei sapere anche a che punto è l'applicazione del provvedimento sulla sanità penitenziaria nonché della norma della legge finanziaria riguardante l'indennizzo per i danneggiati da emotrasfusione. Le chiederei, per quanto attiene alla politica della ricerca, di aprire sicuramente una discussione. Credo che sia molto importante, per quanto riguarda la politica della ricerca, avere sia investimenti adeguati, sia anche molta trasparenza e capacità di valutazione dei risultati che si ottengono.
Infine, sono molto dispiaciuta che un'iniziativa innovativa come il centro nazionale per la salute dei migranti e le malattie della povertà, che abbiamo costruito insieme a tre regioni, Sicilia, Puglia e Lazio, si veda di fatto cancellati i finanziamenti per i prossimi anni 2009 e 2010.
Avevamo preparato un emendamento, ci siamo molto raccomandati e mi raccomando a lei: questa è una struttura preziosa, incardinata nel San Galicano, che fa un'attività meritoria per quanto riguarda l'assistenza agli immigrati.
È un nostro punto di eccellenza, non a caso costruito non solo con le regioni ma anche con l'Organizzazione mondiale della sanità.
È veramente increscioso e ci lascia senza parole vedere che le risorse stanziate, i 10 milioni del 2009 e quelli dell'anno successivo, vengono in qualche modo depennati.
Non potete fare una cosa di questo tipo, non potete cancellare una struttura così preziosa e così innovativa, costruita ripeto d'intesa con le regioni e con l'Organizzazione mondiale della sanità.
Infine siamo rimasti senza parole anche nel vedere cancellato il fondo per l'integrazione degli immigrati. Anche su questo mi auguro che nel nostro Paese inizi una discussione nuova, una discussione fuori dagli scontri e dalle ideologie, che sia coerente con il binomio «legalità e integrazione». Sappiamo che l'integrazione è l'altra faccia della legalità, ma allora perché cancellare le risorse per il fondo per le politiche di integrazione?
Le politiche di integrazione per gli immigrati sono parte della politica del welfare: fate in modo che queste risorse vadano davvero all'integrazione degli immigrati. Diversamente, mi chiedo quando potrà iniziare una politica di integrazione, se questa non può avvalersi di risorse


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costanti e certe. Non è sufficiente garantire risorse, eppure le risorse ai comuni sono fondamentali per fare le politiche di integrazione degli immigrati.
Infine, sui giornali oggi leggiamo che state predisponendo un provvedimento per la regolarizzazione delle badanti. Leggo che i criteri che adottate riguardano gli anziani e i disabili. Chiedo perché, in una società a natalità zero e che ha molto bisogno di bambini, ci si limiti a disabili e anziani senza estendere anche al lavoro familiare dedito ai bambini.
Mi auguro che si tratti semplicemente di un'anticipazione giornalistica che appartiene al folklore, diversamente sarebbe difficilmente comprensibile come si possa operare una distinzione tra un lavoro familiare che si occupa di anziani o di disabili, e quello che si occupa dell'accudimento dei bambini.
So benissimo che esiste un carico del lavoro di assistenza a disabili e anziani che è di maggiore fatica e di maggiore gravità, ma in un Paese a natalità zero l'attenzione ai bambini mi sembra assolutamente da mettere sullo stesso piano dell'attenzione alle persone anziane e alle persone più fragili. Aggiungo un'ultimissima considerazione rispetto alla legge e ai temi etici.
È apprezzabile l'affermazione secondo cui si intende far applicare le leggi.
Ho apprezzato quando lei, parlando delle linee guida, ha detto che farete una valutazione in punta di diritto, che ritengo sempre auspicabile.
Ritengo anche auspicabile che questa valutazione si avvalga, come dice la legge all'articolo 7, del Consiglio superiore della sanità, dell'Istituto superiore di sanità e anche di una accurata competenza giuridica.
Io mi sono avvalsa della competenza giuridica del Ministero della salute, al quale ho riconosciuto una memoria storica, quindi anche la capacità di accompagnare il ministro nella valutazione specifica di tipo giuridico. Per quanto riguarda le linee guida, infatti, il problema è eminentemente di questo tipo.
Le linee guida, sulla base della legge n. 40 del 2004, così come sono definite, rappresentano uno strumento tecnico vincolante per la struttura e le tecniche, ma non possono interpretare la legge.
Questo è il quesito al quale, dal punto di vista giuridico, bisogna dare una risposta.
Credo che le linee guida in vigore, se valutate da un punto di vista giuridico - in punta di diritto, come richiamava lei - dimostrano di essere state molto coerenti con gli articoli della legge e con quanto la legge prevede agli articoli 1, 13, 14 e nell'articolo 7, quando si parla dello strumento linee guida.

PRESIDENTE. Grazie, ringrazio il Ministro Turco per l'esauriente relazione svolta e rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle 14,30.

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