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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissioni Riunite
(III-IV Camera e 3a-4a Senato)
12.
Giovedì 11 ottobre 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Cirielli Edmondo, Presidente ... 2

Comunicazioni del Governo sulle missioni internazionali e gli interventi di cooperazione in corso:

Cirielli Edmondo, Presidente ... 2 9 13 17 21 24
Di Paola Giampaolo, Ministro della difesa ... 6 21
Evangelisti Fabio (IdV) ... 15
Gidoni Franco (LNP) ... 14
Mogherini Rebesani Federica (PD) ... 15
Pianetta Enrico (PdL) ... 16
Pistelli Lapo (PD) ... 11
Ramponi Luigi (PdL) ... 13
Tempestini Francesco (PD) ... 16
Terzi di Sant'Agata Giuliomaria, Ministro degli affari esteri ... 2 17
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, Democrazia Cristiana): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA; Misto-Iniziativa Liberale: Misto-IL.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) - IV (DIFESA) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E
3a (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE) - 4a (DIFESA) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di giovedì 11 ottobre 2012


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE
DELLA CAMERA DEI DEPUTATI EDMONDO CIRIELLI

La seduta comincia alle 9,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Comunicazioni del Governo sulle missioni internazionali e gli interventi di cooperazione in corso.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca le comunicazioni del Governo sulle missioni internazionali e gli interventi di cooperazione in corso.
Ricordo che l'articolo 10-bis della legge 24 febbraio 2012, n. 13 prevede che i Ministri degli affari esteri e della difesa, con cadenza quadrimestrale, rendano comunicazione alle Commissioni parlamentari sullo stato delle missioni in corso e degli interventi di cooperazione allo sviluppo e al sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione.
Ringraziamo i ministri per aver offerto la loro disponibilità e la Presidenza della Camera dei deputati, che ci ha consentito di svolgere questo importante incontro pur essendo sospesi i lavori parlamentari delle Commissioni per via dell'apposizione di fiducia da parte del Governo. Ai fini di un ordinato svolgimento dei lavori, invito i gruppi a far pervenire al più presto alla presidenza l'elenco dei propri componenti che intendono intervenire.
Do, quindi, la parola al Ministro degli affari esteri, Giulio Terzi di Sant'Agata.

GIULIOMARIA TERZI DI SANT'AGATA. Ministro degli affari esteri. Grazie, signor presidente. Desidero, innanzitutto, salutare i presidenti delle Commissioni che intervengono a questa riunione e tutti gli onorevoli e i senatori presenti.
La finalità dell'azione di politica estera del Governo, anche attraverso le missioni di pace, è la promozione degli interessi fondamentali del nostro Paese nel campo della sicurezza, ma anche in quello dello sviluppo dei rapporti economici e della tutela ad ampio raggio dei valori fondamentali ai quali si spira l'attività internazionale dell'Italia. È per questo che il Governo investe in modo considerevole nelle missioni di pace con componente sia militare sia civile. In questo senso, è molto importante l'audizione di oggi, come quelle che l'hanno preceduta, per continuare ad avere un dialogo con il Parlamento, che ritengo estremamente costruttivo e che ci fornisce dei contenuti e degli indirizzi politici essenziali all'azione del Governo.
In estrema sintesi, oggi la presenza dei nostri militari all'estero - su questi aspetti sarà poi più specifico il collega Giampaolo Di Paola - riguarda 6.770 unità di personale militare e 100 persone civili. Per quanto riguarda le missioni dell'Unione europea, su un totale di 1.390 unità di personale civile distaccato dagli Stati membri, l'Italia ne fornisce 60. Tra le missioni militari europee, la più consistente è certamente la missione navale Atalanta, alla quale contribuiamo con


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l'unità ammiraglia nave San Giusto, con 330 marinai, su un totale di 16 unità navali che partecipano alla missione, la quale ha uno spiegamento complessivo di 1.354 militari.
Per quanto riguarda le operazioni terrestri, l'Italia contribuisce con 10 addestratori, su un totale di 130, all'impegno per la Somalia. Siamo il sesto contributore. Invece, il contributo all'operazione Althea, in Bosnia, è ormai ridotto a 4 addestratori. Sul versante NATO, abbiamo 5.449 unità. Siamo il quarto contributore alle missioni in Afghanistan e in Kosovo. Inoltre, sul versante ONU, abbiamo 1.143 unità, soprattutto in Libano nella missione UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon). Infine, vi sono altre missioni specifiche. Per esempio, 40 esperti civili sono impegnati nelle missioni dell'OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) dai Balcani alla Georgia.
In alcuni di questi casi, si tratta di numeri esigui, che intendiamo, però, mantenere perché hanno un significato di presenza e di ruolo politico, ma anche di contributo in termini della conoscenza e della capacità del modello italiano di fare peacekeeping, che è importante per noi valorizzare e continuare a sostenere in un'ottica di strategia complessiva. Quindi, l'importanza della nostra presenza non è sempre e soltanto in relazione ai numeri che abbiamo.
Vi è un enorme sforzo in questo ambito. Abbiamo, infatti, continuamente bisogno di mantenere vivo l'interesse, anche dell'opinione pubblica, sul dato fondamentale che ha per il nostro Paese partecipare ed essere anche traente in molte di queste iniziative e missioni di pace. Tuttavia, purtroppo dobbiamo confrontarci con una situazione di bilancio che rende sempre più difficile il reperimento di risorse finanziarie.
Venendo ai singoli casi, direi di cominciare dalla Siria, che è la crisi che ci preoccupa maggiormente, non soltanto perché la guardiamo più da vicino, ma anche nella sua enorme esposizione umanitaria, politica e regionale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno portato all'interruzione dell'attività degli osservatori internazionali, per cui abbiamo ritirato i cinque ufficiali che avevamo messo a disposizione dell'ONU per la Siria. Come sappiamo, il tentativo di mediazione di Kofi Annan è stato bruciato e attualmente sosteniamo attivamente l'azione dell'inviato speciale Lakhdar Brahimi.
Abbiamo, inoltre, partecipato al core-group degli «Amici della Siria» che la collega americana Hillary Clinton ha convocato a New York, a margine dell'Assemblea generale dell'ONU del 28 settembre, per indicare gli ultimi sviluppi di un'azione diplomatica multilaterale, della quale l'Italia è stata parte molto attiva. È stata una riunione di impulso, nel modo più corale e sostenuto possibile, all'obiettivo di spingere tutte le correnti di opposizione a trovare finalmente una loro agenda comune e un senso comune nel porsi all'interno del Paese come alternativa politica, rispetto ai terribili eccidi che stanno avvenendo e al confronto militare sul terreno.
Peraltro, è stato molto impressionante sentire quanto è difficile la situazione dalla voce di alcuni di testimoni, che venivano direttamente dai comitati di coordinamento all'interno del Paese, che si stanno sempre più radicando, soprattutto nella parte occidentale della Siria. Uno di loro ha detto che, nel momento in cui aveva lasciato il Paese, gli è giunta notizia che alcuni suoi colleghi coinvolti nell'attività dei comitati di coordinamento sono stati arrestati, proprio per il fatto che lui aveva lasciato il Paese, e non si sapeva bene che fine avessero fatto.
Il problema di trovare unitarietà nella galassia molto frastagliata delle forze di opposizione è stato riaffermato a New York. Per parte nostra, a titolo nazionale, questo tema è stato oggetto di una riunione nelle settimane scorse a Roma, che ha visto la partecipazione di una sessantina di delegati venuti sia dall'esterno sia dall'interno dalla Siria, non soltanto del Syrian National Council, ma anche componenti cristiane e curde, con le quali personalmente e con i miei collaboratori,


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soprattutto con l'inviato speciale per il Medioriente, continuiamo ad avere rapporti. Tra l'altro, nelle prossime ore vedrò ancora alcuni di questi esponenti, sempre con la finalità di mantenere un sostegno di carattere politico a questo percorso così difficile e sofferto di gestione della crisi siriana.
La dimensione umanitaria è quella che tocca maggiormente non soltanto gli interessi nazionali, ma soprattutto le nostre coscienze di cittadini di un'Italia che vuole essere dimostrazione ed elemento traente nel soccorrere questa ormai grande massa di rifugiati che si trova nelle condizioni di affrontare l'inverno in campi molto precari in Giordania, in Libano e in Turchia. Si tratta ormai di oltre 350.000 persone. Per questo motivo, ho chiesto al mio inviato per le questioni umanitarie, onorevole Margherita Boniver, di recarsi, come recentemente ha fatto, in quell'area per dare un senso di solidarietà e per poterci riferire in dettaglio sulla situazione nei campi.
A questo proposito, abbiamo svolto degli interventi. In particolare, abbiamo sollecitato e sostenuto un importante intervento umanitario dell'Unione europea, ma ci sarà molto di più da fare nei prossimi mesi anche per cercare di sostenere la stabilità e la localizzazione di questa massa di rifugiati là dove si trovano, in attesa di poter rientrare nelle loro case, senza farne oggetto di pericolosi traffici, magari anche di essere umani, le cui avvisaglie abbiamo già cominciato a intravedere in alcuni episodi, con natanti che sono arrivati sulle nostre coste con qualche siriano a bordo. Del resto, vi è stato anche un flusso più importante che ha riguardato persino i Paesi del nord dell'Unione europea.
La massa d'urto della crisi siriana riguarda essenzialmente il Libano. Conosciamo la fragilità di questo Paese per le sue condizioni sociali, ma soprattutto per la diversa composizione culturale. Le forze politiche vivono in un complicatissimo equilibrio nel sostegno del Primo Ministro. L'iniziativa del Presidente libanese di avviare un dialogo nazionale viene sostenuta dall'Unione europea e, in particolare, dall'Italia. Ci auguriamo, quindi, che produca dei risultati. Il primo risultato al quale guardiamo, anche se è estremamente complicato da raggiungere, è la proposta di strategia nazionale di difesa, che dovrebbe comportare anche la cessione e la possibilità di far confluire l'armamento di Hezbollah in quello dell'esercito nazionale libanese.
La presenza italiana è di fondamentale importanza. Vi è un grande apprezzamento per l'opera del generale Serra. In tre mandati, abbiamo avuto due generali italiani che hanno fatto e stanno facendo uno splendido lavoro. Quindi, credo che questo sia un ritorno molto positivo per il nostro Paese e per la nostra politica estera.
Scendendo più a sud, il processo di pace israelo-palestinese, che è molto condizionato dalle vicende di politica interna su entrambi i lati, è attualmente caratterizzato da una situazione di stallo nel dialogo, che si è determinata a causa di condizioni che vengono poste e che non riescono a essere superate per riattivare, appunto, il dialogo. Il Presidente Abu Mazen ha preannunciato la richiesta di un voto sulla statualità palestinese in Assemblea generale, richiesta che preoccupa noi europei, che la vediamo come una mossa che potrebbe non solo complicare l'atmosfera di insieme in un'Assemblea generale già caratterizzata da difficoltà e da crescente separatezza di orientamenti sulla questione nucleare iraniana e su quella siriana, ma anche essere un elemento non positivo per far ripartire il dialogo e il negoziato tra i due versanti, che è la cosa veramente importante.
Per parte nostra, ci concentriamo, sia a titolo nazionale che sul piano europeo, per dare fiducia e alimento anche all'economia palestinese, soprattutto nel tentativo di influire e di sostenere gli israeliani nell'alleviare le misure di controllo sull'Area C, tema al quale tiene molto il Primo Ministro Fayyad, ma anche l'inviato speciale Tony Blair. Su questo, per la verità, da qualche settimana si notano già cenni di qualche progresso che potrebbe aiutare


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a sostenere una ripresa dell'economia palestinese, entrata in profonda crisi per motivi generali collegati all'andamento congiunturale, ma anche alle difficoltà finanziarie che sta avvertendo l'Autorità palestinese; basti pensare che ha addirittura sospeso il pagamento dei salari da oltre due mesi.
L'Italia mantiene i suoi contributi nell'area con la missione UNTSO (United Nations Truce Supervision Organization) e con la Temporary International Presence (TIP) a Hebron, di cui abbiamo assunto il comando dal 1o ottobre scorso.
Riguardo al Sinai, abbiamo visto le problematicità del controllo di sicurezza in quest'area. Il Presidente Morsi, negli incontri bilaterali che abbiamo avuto, anche durante la sua visita a Roma, ha dichiarato ripetutamente di vedere il Sinai come un'area sulla quale la statualità egiziana si esercita completamente, di cui ha piena responsabilità e che intende mantenere pacifica, anche nel quadro dell'attuazione del trattato di pace tra Egitto e Israele, di cui, appunto, ha confermato la validità, quindi l'intenzione del suo Governo di rispettarlo pienamente. Nel Sinai vi è anche la missione Multinational Force and Observers, istituita a garanzia della Pace di Camp David, di cui siamo parte e nella quale intendiamo continuare a essere.
Anche se non vi è una nostra presenza, come in altri luoghi, vorrei menzionare la Libia per l'importanza che ha in termini di spiegamento complessivo di risorse che abbiamo assicurato da parte italiana, con una collaborazione a livello di Ministero della difesa, dell'interno, della giustizia e dello sviluppo economico; per quanto riguarda l'azione del Ministero degli esteri, abbiamo dato un forte sostegno alla creazione di una missione delle Nazioni Unite e di una missione PESD (Politica europea di sicurezza e difesa comune), entrambe le quali stanno cominciando a lavorare in modo efficace.
Il quadro della situazione interna è complesso e si è reso ancora più difficile nelle ultime settimane sul piano politico, dopo l'impossibilità per il Presidente designato Bouchakour di creare un governo di coalizione, per le difficoltà tragicamente emerse sul piano della sicurezza con l'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens a Bengasi e, successivamente, con i confronti che abbiamo visto fra ex lealisti e forze regolari libiche nei confronti di Abu Walid.
Ci auguriamo che la situazione politica sia in via di assestamento, con la necessità prioritaria di affrontare, appena si sarà assestata, la grande tematica dalla sicurezza interna, per la quale l'Italia intende continuare a contribuire nelle forme che conoscete (controllo dei confini, institution building e via dicendo).
Sull'Afghanistan, lascerei la parola al Ministro Di Paola, che anche ieri è stato a un incontro importante in cui si è parlato - avete sentito le sue dichiarazioni - del processo di transizione, che è un impegno a lungo termine del nostro Paese, come degli altri Paesi donatori.
Comunque, consideriamo non reversibili i risultati ottenuti in questo Paese negli ultimi dieci anni, nel senso che non dobbiamo permettere di tornare a situazioni quali quelle che avevano caratterizzato il regime talebano; è necessario, quindi, mantenere le conquiste sociali che sono state fatte sul piano dell'educazione, del trattamento delle donne e anche dell'avvio di una forma di democrazia in questo Paese. Tuttavia, è certo che anche questo quadro poggia molto sulla sicurezza interna e sull'empowerment dalle forze nazionali afgane.
Gli ultimi due punti riguardano l'Africa. In primo luogo, abbiamo la situazione nel Sahel, che è molto preoccupante. Auspichiamo che si possa organizzare rapidamente una forza di pace ECOWAS (Economic Community Of West African States) oppure sostenuta dal gruppo che si chiama «Gli amici del campo». A questo proposito, l'opposizione dell'Algeria pare sempre più determinante perché questo Paese ha delle sensibilità molto specifiche nella lotta al terrorismo in tutta la regione del Sahel, per cui sta riflettendo con quali modalità poter accettare che si metta a punto una forza


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autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma composta da membri dell'ECOWAS, che dovrebbe contare circa 3.300 peacekeeper ed essere spiegata all'interno del Mali, con una finalità di stabilizzazione, ma anche di contributo al dialogo che dovrebbe aver luogo con gli islamisti moderati - se si possono definire così - esistenti.
Delle tre grandi componenti di Islam politico esistenti, due sicuramente sono di tipo jihadista, mentre una è probabilmente più aperta al dialogo, quindi la forza di stabilizzazione dell'ECOWAS potrebbe avere proprio la funzione di favorire un avvio di percorso politico che riporti alla prospettiva di unità e di stabilità politica nel Mali.
Un altro tema discusso a margine dell'Assemblea generale a New York ha riguardato la Somalia. C'è stato un mini-vertice con la partecipazione a distanza del presidente eletto, che non ha potuto essere fisicamente a New York, ma che parlava da Mogadiscio, e di molti primi ministri africani. L'unico Primo Ministro europeo presente è stato il Presidente Monti, che ho accompagnato. È stata molto apprezzata la sua partecipazione ai lavori, visto che l'Italia continua ad avere e avrà un ruolo sempre più fondamentale nel processo di riconsolidamento costituzionale del Paese. Io stesso avrei dovuto visitare Mogadiscio proprio ieri, ma ho dovuto cambiare i programmi su richiesta somala, per impegni all'estero che erano sopravvenuti per il Presidente. Intendo, comunque, recarmi nel Paese nelle prossime settimane.
Anche in questo caso, la nostra partecipazione si sviluppa sul piano della sicurezza, finanziando una parte del contingente di AMISOM (African Union Mission in Somalia) e collaborando all'addestramento di 200 unità di polizia robusta somala, che ha luogo a Gibuti. Siamo, poi, presenti in tutti i fori internazionali, a cominciare dalla convocazione dell'International Contact Group on Somalia, a Roma, nello scorso luglio.
Concludo il mio intervento, lasciando la parola al Ministro della difesa.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Ministro della difesa. Grazie, presidenti, signori senatori e signori deputati. Cercherò di essere breve per lasciare spazio, come d'abitudine, alle vostre domande.
Oggi, parlare di missioni militari internazionali significa - questo è un punto chiave - parlare della sicurezza dell'Italia. Infatti, la sicurezza dell'Italia e degli italiani non si assicura solo all'interno dei nostri confini. Quella che oggi genericamente chiamiamo homeland security si assicura anche e in maniera significativa al di fuori degli stretti confini nazionali, ovvero all'estero e nel contesto degli sforzi della collettività internazionale. Essere parte di questi sforzi è, dunque, un elemento importante della nostra sicurezza in Italia.
Per parlare di sicurezza internazionale, inoltre, si deve anche discutere dei fattori che la condizionano; significa, quindi, contrasto al terrorismo e a tutte le forme di fanatismo ed estremismo; vuol dire contribuire alla sicurezza delle linee di comunicazione in senso lato, ovvero all'uso legittimo degli spazi internazionali, che sono fondamentali per il commercio internazionale, quindi per la nostra sicurezza, oltre che per il nostro benessere; significa stabilizzare o aiutare a stabilizzare le aree che sono in conflitto o escono da conflitti, la cui instabilità si riverbera sulla sicurezza nel nostro territorio; significa, infine, contribuire ad attuare quel principio - che il Ministro Terzi conosce certamente meglio di me - di responsibility to protect, ovvero la responsabilità di proteggere, che ormai si è affermato nell'ambito delle Nazioni Unite, con la presenza nelle aree dove questo principio viene violato.
Ecco, tutto questo significa sicurezza internazionale e questi sono i compiti che le nostre missioni internazionali, sia nelle componenti militari che civili, contribuiscono a fornire. Questi sono - ripeto - elementi essenziali della nostra sicurezza. Spero che siate pienamente consapevoli di questo concetto, altrimenti tutto lo sforzo importante che l'Italia fa, con le sue missioni internazionali, militari e non, con gli


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oneri e le responsabilità che questo comporta e con il ruolo che ne discende, non avrebbe senso.
È innegabile che la componente militare è una parte essenziale di questo sforzo. Non è la sola, ma è importante. D'altra parte, proprio perché quando ci sono zone di crisi anche la cooperazione non militare necessita di una componente di sicurezza che viene fornita dalle forze militari e di polizia, questo sforzo richiede e ha richiesto uno strumento militare adeguato.
Se oggi svolgiamo queste missioni con qualità, dignità e responsabilità è perché abbiamo sviluppato le capacità dello strumento militare che ci hanno lasciato in eredità coloro che sono venuti prima di noi e anche chi di voi ha contribuito a costruirlo. Credo, peraltro, che sia anche nostra responsabilità lasciare in eredità, per le missioni internazionali che ci saranno tra cinque, dieci o quindici anni, anche se nessuno di noi sa dove e come, uno strumento altrettanto capace. Ritornerò su questo punto alla fine del mio intervento.
Per quanto riguarda l'attuazione delle missioni internazionali in corso, comincio parlando dell'Afghanistan. Infatti, come ha anticipato il Ministro Terzi, ieri a Bruxelles vi è stata la riunione dei Ministri della difesa della NATO e si è parlato soprattutto di due temi, Afghanistan e Kosovo. Per la precisione, la riunione coinvolgeva sia la KFOR (Kosovo Force) sia l'ISAF (International Security Assistance Force) della NATO, quindi vi erano tutti i Paesi che vi partecipano. Vi assicuro che stare seduto a un tavolo con cinquanta Paesi - questo è il formato di ISAF - dà il senso del coinvolgimento non soltanto dei Paesi dell'Alleanza, che certamente svolgono un ruolo fondamentale, ma di un ben più vasto impegno. Lo stesso dicasi per il Kosovo, ancorché con numeri minori.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, è venuto fuori un forte messaggio di determinazione a continuare la strategia di Chicago, di cui l'Italia è parte responsabile e codecisionale. Non si tratta - come a volte si dice - del Ministero della difesa o del Ministro Di Paola; non è il Ministro che decide se siamo o staremo in Afghanistan, ma è il Paese, attraverso le scelte del Governo, avallate dal Parlamento.
La transizione continua, secondo quella road map che porterà alla fine del 2014 a passare la responsabilità di tutto il territorio alle forze di sicurezza afgane. A novembre, dopo le dichiarazioni del Presidente Karzai che dovrebbero avviarla, è previsto l'inizio della quarta fase dalla transizione, cioè la quarta tranche di distretti e province che passeranno sotto la leadership afgana. Quando questo avverrà, quindi entro la fine dell'anno, circa il 90 per cento della popolazione afgana sarà in distretti la cui guida di sicurezza è affidata alle forze afgane.
Continua, comunque, questo sforzo di assistenza. In questa fase, si tratta di fornire soprattutto i cosiddetti «abilitatori», cioè quelle capacità particolari che i Paesi dell'Alleanza e di ISAF dispongono e di cui, invece, le forze di sicurezza afgane ancora difettano. In questo quadro, è stata approvata da parte di tutti i cinquanta Paesi la nuova fase, che sarà che il post 2014. Difatti, alla fine del 2014 si concluderà la missione ISAF, ma la comunità internazionale, sia a Chicago sia con gli impegni successivi a Berlino e a Tokyo, su richiesta del Governo afgano, sta pianificando una fase post ISAF, che consisterà in una missione di addestramento, advising e assistenza. La nuova missione ha assunto questo acronimo tecnico proprio per delinearsi come intervento non di combattimento, ma, appunto, di assistenza, consiglio e addestramento.
L'Alleanza atlantica e i suoi partner hanno approvato quella che si chiama in termine tecnico Initiating Directive (NID) che stabilisce i contorni per consentire alle autorità militari di sviluppare la pianificazione. La missione post 2014 sarà, dunque, una missione non di combattimento, ma di assistenza e di training perché la comunità internazionale e gli stessi afgani ritengono che sia necessario, una volta che la missione ISAF sarà terminata, continuare ad assisterli, non soltanto militarmente


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- questo non sarà, infatti, l'aspetto principale - ma soprattutto attraverso un'assistenza alla governance, allo sviluppo e sostegno finanziario.
Dopo il 2014, le forze di sicurezza afgane avranno, infatti, bisogno dell'assistenza anche finanziaria. Come sapete, a Chicago, il Presidente del Consiglio ha trasmesso l'indicazione del Governo italiano di essere parte di questa missione, i cui termini, le forme e i modi non saranno decisi oggi, ma nel corso del 2013. Saranno, quindi, il nuovo Governo e il nuovo Parlamento a valutare quale tipo di impegno l'Italia dovrà tenere.
Le forze di sicurezza afgane stanno progredendo notevolmente. Ci sono certamente problemi, tuttavia, a oggi, sono arrivate a circa 350.000 unità, hanno cioè raggiunto l'obiettivo prefissato. Ovviamente, una cosa sono i numeri, un'altra è la loro capacità operativa, quindi il 2013 e il 2014 saranno gli anni in cui questo livello di forze stabilizzato dovrà sviluppare le capacità per consentire pienamente, dal 1 gennaio 2015, di assumersi in pieno la responsabilità.
C'è, comunque, una forte determinazione. Il piano è on time; non ci sono accelerazioni, ma stiamo procedendo esattamente come tutti insieme abbiamo deciso a Chicago. Questa è la realtà. In definitiva, vi sarà una riduzione progressiva delle forze nel 2013 e nel 2014, secondo un piano generale e secondo tempi coordinati. L'Italia intende muoversi lungo queste linee, con una riduzione progressiva delle forze nel 2013 e nel 2014, che sarà più leggera nel 2013 e molto accentuata nel 2014, quando si arriverà alla fine. Queste, però, non sono decisioni unilaterali. È chiaro che, in teoria, un Paese potrebbe fare ciò che ritiene più opportuno; ogni Paese è sovrano. Si tratta, però, di decisioni prese in maniera coordinata con gli altri e in relazione alla valutazione della situazione di sicurezza.
Il 2013 sarà ancora un anno importante affinché le forze di sicurezza afgane possano raggiungere un maggior livello operativo. Ecco perché la riduzione del 2013 dovrà essere sì significativa, ma più leggera rispetto, invece, alla diminuzione più massiccia che avverrà nel 2014 e che dovrà portare ad azzerare la missione ISAF e pervenire al livello, che verrà deciso in tempi successivi, di questa nuova missione.
Si è parlato molto - presumo che la questione sarà oggetto anche di alcune vostre domande - dei famosi insider attack, ossia di quella tattica adottata dagli insorgenti che, mascherati da forze di polizia afgane, hanno sparato, producendo sia feriti che morti, tra le forze di ISAF. Si tratta certamente di un fenomeno preoccupante e doloroso; tuttavia, è una nuova tattica che gli insorgenti usano per cercare di erodere il morale e la coesione degli alleati. È chiaro che strategicamente è un messaggio molto forte perché sparano contro chi sta lì per assisterli. A ogni modo, il fenomeno è stato esaminato; sono state poi prese varie misure per contrastarlo e, difatti, negli ultimi mesi è in decisa diminuzione. Non ci illudiamo che episodi simili non si ripetano, ma sono certamente in deciso calo.
Per quanto riguarda la riunione sul Kosovo, si è preso atto del fatto che la situazione è decisamente migliorata. Tuttavia, il dialogo politico tra Pristina e Belgrado, sotto l'egida dell'Unione europea, ancora non si è sviluppato positivamente, quindi c'è bisogno della presenza della comunità internazionale per mantenere stabile il Kosovo, in particolare, nel nord di Mitrovica, dove la presenza di KFOR è un elemento indispensabile di stabilità.
L'auspicio è che nel corso del 2013 e successivamente, dal 2014 in poi, ci possano essere le condizioni per una progressiva riduzione dei livelli di presenza di KFOR. In questo contesto, come sapete, l'Italia ha fornito, in aggiunta allo zoccolo duro della nostra presenza di circa 500 unità, un battaglione di riserva operativa, che è stato schierato in teatro fino al 30 settembre del 2012 e che è stato rimpiazzato dall'altro battaglione di riserva operativa, quello austro-tedesco. Non si prevede, però, un'esigenza di reimpiego del nostro battaglione di riserva nel 2013, a meno


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che la situazione non debba cambiare drasticamente. Pertanto, nel 2013 la nostra presenza in Kosovo si consoliderà sullo zoccolo duro di circa 500 unità.
La presenza italiana nel contesto della missione UNIFIL che, tra l'altro, ha l'aspetto più vistoso nel comando del generale Serra, è considerata indispensabile, a maggior ragione alla luce di quello che sta avvenendo nelle aree confinanti e in Siria. Pertanto, il nostro impegno dovrà ragionevolmente durare nel tempo perché con altri Paesi - ma ciò vale soprattutto per l'Italia - il nostro rappresenta un alto valore aggiunto.
Inoltre, nell'Oceano indiano e a largo della Somalia continua la missione in funzione di antipirateria. Qualche settimana fa ero a Cipro, dove c'è stata la riunione informale dei Ministri della difesa dell'Unione europea. In quell'occasione, il comandante della missione, l'ammiraglio inglese Potts, pur rimarcando i notevoli progressi che sono stati fatti nella lotta alla pirateria in quel bacino, ha messo in guardia i Paesi europei dal non allentare la guardia perché ancora non abbiamo raggiunto un quadro di piena stabilità.
D'altra parte, tale situazione ci sarà solo quando - come ha detto il Ministro Terzi - sarà risolta la vicenda della Somalia, che è il cuore del problema. In questo contesto, contribuiamo alle missioni dell'Unione europea sia per la stabilizzazione della Somalia, nella missione dell'Unione europea EUTM di addestramento delle forze di sicurezza, che si svolge in Uganda, sia nella nuova missione EUCAP Nestor di aiuto ai Paesi costieri della regione (come Seychelles, Kenia e Gibuti) affinché possano costruire delle loro capacità per gestire la sicurezza delle loro acque. In particolare, in questa missione dell'Unione europea, di tipo civile, ma con una presenza militare, contribuiamo con degli elementi di staff.
Per quanto riguarda l'altra area che negli ultimi giorni sta emergendo all'attenzione - cioè il Sahel, in particolare il Mali e il Niger - c'è una missione europea di tipo civile, EUCAP Sahel, per la quale abbiamo offerto un ufficiale dell'Arma dei carabinieri, che è stato selezionato come capo ufficio operazioni della missione. In questo momento, si tratta, quindi, di presenze limitatissime, la cui entità dipenderà da come si svilupperanno queste missioni.
Questo è il quadro degli impegni prevalenti. Naturalmente, come già detto dal Ministro Terzi, continuerà la nostra presenza nelle missioni di osservazione in Georgia, nel west Sahara e nell'MFO in Sinai, presenze che sono altrettanto significative. Peraltro, quando diciamo di voler ridurre o di voler venire via, tutti affermano che occorre stabilizzare e evitare di dare segnali negativi. Insomma, queste presenze vengono richieste, sia a Rafah sia in altre aree.
Oggi, facciamo tutto questo in maniera responsabile, apprezzata e capace perché abbiamo sviluppato nel tempo uno strumento militare. Abbiamo, quindi, il dovere e la responsabilità di far sì che, domani, fra cinque, dieci, quindici o vent'anni, questo strumento militare possa avere la capacità di continuare a onorare gli impegni che il prossimo Parlamento sovrano prenderà. Per fare questo, sapete che è in discussione al Senato - ma spero che sarà trasmesso presto alla Camera - un disegno di legge di revisione dello strumento militare. Vorrei che fosse chiaro che questo provvedimento è indispensabile - ovviamente, nell'ambito di un quadro di risorse finanziarie molto stringente e limitato; non facciamo sogni, ma fatti - per assicurare uno strumento efficace per domani.
È necessaria, quindi, questa riforma per consentire alle forze di sicurezza italiane di poter lavorare con capacità, professionalità e dignità nelle missioni che un domani il Parlamento chiederà. C'è, quindi, bisogno di fare oggi quello che i nostri padri hanno fatto ieri. Pertanto, vi invito caldamente a portare avanti, nell'ambito di questa legislatura, il disegno di legge-delega sullo strumento militare. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio i ministri delle loro relazioni. Prima di dare la


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parola ai colleghi che si sono iscritti a parlare, vorrei svolgere alcune considerazioni.
Innanzitutto, signori presidenti, colleghi parlamentari e signori ministri, sinceramente, mi sarei aspettato che fosse stata fornita anche qualche notizia sulla vicenda di nostri marò, rapiti dalle autorità indiane in spregio del diritto internazionale. Nonostante gli sforzi da parte del Governo italiano - e, segnatamente, del Ministro Terzi, che ringrazio - nei confronti del Governo indiano, devo rimarcare che manca un'analoga azione nei confronti dell'ONU, ossi l'organismo deputato per eccellenza alla risoluzione dei conflitti internazionali. Vorrei, quindi, sapere se ci sono iniziative in tal senso da parte del Governo italiano per contrastare questo atto di pirateria internazionale. Se, infatti, non riusciamo a garantire la libertà personale dei militari che mandiamo in giro in missione, credo che si ponga un problema grave.
Passo ora a un altro aspetto, che è stato toccato in maniera ampia e diffusa. Mi riferisco al problema della Turchia e della Siria. Vorrei capire se nell'ambito della NATO ci sia già una posizione chiara riguardo una eventuale azione militare nei confronti della Siria perché è ormai evidente che dal territorio turco partono delle azioni militari da parte degli oppositori di questo Paese.
Credo che non serva un grande esperto di politica militare o estera per capire che questo può provocare una reazione da parte del Governo siriano. Allora, se ci fosse effettivamente la decisione di impegnarsi militarmente nei confronti della Siria - cosa che potrei anche condividere per le gravi violazioni dei diritti umani che stanno verificandosi in quel Paese - dovremmo saperlo, anche perché la NATO è impegnata, in base all'articolo 5 del Trattato, a difendere la Turchia. Insomma, vorrei capire qual è lo stato dell'arte del dibattito sull'impegno militare della NATO in Siria.
Inoltre - mi sembra che in parte sia stato accennato, ma credo che il punto vada approfondito - è evidente che gli Hezbollah non resteranno a guardare il loro principale alleato versare nelle attuali condizioni, potendo provocare anche un coinvolgimento immediato nella situazione del Libano e quindi di Israele. Al riguardo, vorrei dunque sapere se sono state adottate tutte le misure di massima sicurezza e di allerta per il nostro contingente in Libano.
Sull'Afghanistan, la linea politica decisa dal Governo è assolutamente condivisibile. Mi sembra, peraltro, che stia dando anche positivi risultati. Vorrei, però, segnalare che in Campania, è rientrata da poco la Brigata Garibaldi e ho avuto modo di incontrare molti militari impegnati negli avamposti di Bala Baluk e Bala Murghab, che lamentano una situazione di grande pericolo. Mi sembra che uno di questi due avamposti sia stato anche abbandonato. Vorrei capire se possiamo affermare che il Governo italiano impiega tutte le risorse per garantire la massima sicurezza, soprattutto sul versante tecnologico-militare, dei nostri contingenti.
Da ultimo, anch'io sono stato a Cipro, come il Ministro Di Paola, insieme a una delegazione mista delle Commissioni affari esteri e difesa. C'è stato un dibattito importantissimo, in cui abbiamo avuto modo di capire che, effettivamente, c'è una discussione avanzata sul problema della PESC e della PESD e su quello dell'implementazione di queste politiche da parte dell'Unione europea. Su questo punto, peraltro, è stata avanzata la richiesta di svolgere un'apposita sessione per discutere dello stato di avanzamento di questa importante iniziativa dell'Unione europea.
Vorrei però sapere se il Governo italiano è impegnato anche sulla questione cipriota. Ricordo che un paese dell'Alleanza atlantica occupa da un trentennio con ingenti forze militari un Paese dell'Unione europea. Mi chiedo, quindi, se non sia arrivato il tempo di sostituire eventualmente queste truppe con un contingente dell'Unione europea o dell'ONU che possa garantire in tale Paese il pieno rispetto dei diritti umani.


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Do ora la parola ai collegi deputati e senatori che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

LAPO PISTELLI. Vorrei partire con una mozione d'ordine o con una sorta di suggerimento per dare sostanza politica e parlamentare a queste apprezzate audizioni, rispetto alle quali i due ministri si sono sempre resi molto disponibili, fin dall'inizio del Governo Monti.
Credo che, anche se siamo agli sgoccioli della legislatura, sarebbe opportuno che smontassimo l'agenda per punti all'ordine del giorno. Il rischio è, infatti, quello di fare un giro dell'Atlante, dicendo una parola per ciascuna area del pianeta, senza riuscire a toccare in profondità nessun tema, vanificando la presenza dei ministri e, al tempo stesso, non riuscendo a cogliere fino a dove potremmo contribuire alla definizione di una linea politica insieme al Governo.
Il rischio è di fare tanti touch-and-go su molte questioni che richiederebbero maggiore attenzione, rispetto alle quali segnalo - come sapete, visto che talvolta ci incontriamo in altre sedi, dallo IAI (Istituto affari internazionali) allo ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) - che negli ultimi mesi si stanno intensificando le sedi di riflessione proprio per smontare l'agenda pezzo per pezzo.
Detto questo, faccio cinque considerazioni, inesorabilmente molto sintetiche.
In primo luogo, sullo strumento militare condivido molto quanto ha detto il Ministro Di Paola, soprattutto con riferimento all'eredità del passato. È oggettivo che, durante la lunga e complessa transizione politica italiana, la nostra partecipazione alle missioni militari internazionali sia diventata - mi permetto di dirlo - quasi uno strumento di supplenza, specie nei momenti di maggiore difficoltà, di una nostra presenza di politica estera. Quando eravamo maggiormente orientati sul dibattito interno, essere in quei contesti ha garantito uno standard di dignità e di credibilità del Paese.
È vero, però, che oggi le preoccupazioni del Ministro vanno contemperate con la stagione oggettiva di crisi economica e di tagli a cui tutti siamo sottoposti, per cui un primo punto che vorrei portare alla discussione di queste Commissioni, insieme al Governo, non soltanto nei convegni esterni al Parlamento, è la ricerca condivisa di criteri nella scelta delle molte missioni a cui siamo chiamati a partecipare, in modo da riuscire a contemperare lo strumento in quanto tale, la politica estera del Paese e i tagli di bilancio.
Condivido, per esempio, che tagliando le piccole missioni, che spesso sono state considerate «tagliabili» proprio in quanto piccole, si risparmiava poco e si vanificava un'esperienza importante per alcuni ufficiali, accrescendo il livello qualitativo del nostro esercito. Non sempre, quindi, quando si provvede al taglio o alla scelta delle nostre partecipazioni si agisce con razionalità, specialmente quando si affida al dibattito al caso. Invece, invito tutti noi, nell'arco dei prossimi tre mesi, a riflettere su criteri oggettivi che permettano a questo Parlamento e al prossimo di fare le proprie scelte. Basti pensare a ciò che è successo un anno fa riguardo al Libano, quando molte voci in Parlamento ritenevano quella missione non prioritaria. Oggi, invece, ci rendiamo strategica.
In secondo luogo, nell'arco del grande mondo arabo che il Ministro Terzi ha toccato in molte delle sue affermazioni, mi limito a dire che l'area in cui, politicamente, il nostro Paese deve fare maggiori investimenti perché gli compete e ha qualche strumento in più è il Maghreb arabo.
In queste ultime settimane abbiamo verificato, soprattutto nella cronaca, l'emergere di motivi di preoccupazione. Peraltro, prima la cronaca ha illuminato molto le rivoluzioni arabe; poi le ha coperte; oggi, invece, le riscopre per gli episodi negativi da Bengasi in poi. Credo, invece, che non dobbiamo perdere la sostanza di quel processo. È in corso un gigantesco processo di empowerment di una società che prima non l'aveva. C'è uno scontro politico fra un Islam moderato, che si assume responsabilità, e uno minoritario, sconfitto nelle urne, che cerca la rivincita armata.


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Ebbene, dobbiamo stare su questo campo perché, a seconda di chi vincerà lo scontro dell'Islam politico, cambierà molto la geopolitica del Mediterraneo. Non possiamo, quindi, accontentarci di descrizioni sommarie, ma dobbiamo stare al fianco di quei nuovi governi, in Libia, in Egitto e altrove, che stanno facendo una durissima e inedita battaglia per quella cultura politica e religiosa.
Peraltro, approfitto dell'occasione per rivolgere, almeno dai banchi di questa Commissione che si riunisce in audizione, le nostre congratulazioni e i nostri migliori auguri a Romano Prodi, recentemente nominato da Ban Ki-moon inviato speciale per il Sahel, di cui si è discusso poc'anzi.
La terza questione riguarda Israele e la Palestina. Signor Ministro, è chiaro che nessuno di noi ha le chiavi per una risoluzione del più antico e longevo conflitto irrisolto del mondo moderno. Mi limito a dire - citando Fayyad a Davos - che mai il processo di pace è stato tanto in un vicolo cieco. Non si tratta di schierarsi, ma sappiamo che, per un verso, c'è una politica dei fatti compiuti che il Governo israeliano persegue con molta ostinazione (penso al tema degli insediamenti) e, per l'altro, c'è la questione della maggiore disarticolazione sul campo palestinese, che non trova un tavolo negoziale a cui sedersi e che soffre della delusione per i Paesi arabi confinanti che non si sono, di fatto, schierati a sostegno di questa questione, ma si sono concentrati sulle proprie transizioni domestiche.
C'è un problema di riconciliazione tutta formale e non sostanziale tra Hamas e Fatah, che lei conosce bene, e c'è addirittura dentro Hamas l'ulteriore disarticolazione fra Gaza e Doha, non più Damasco, cioè tra Haniyeh e Meshaal. In questo quadro, non mi preoccuperei tanto del fatto che una presenza o un invito palestinese alla comunità internazionale di adottare decisioni ci metta in difficoltà, ma proverei - come si fa spesso in questi casi - a mettermi nelle scarpe dell'interlocutore. Si tratta di interlocutori che in questo momento sono isolati, disperati e senza prospettive, per cui il loro ultimo problema è turbare i sonni degli europei o degli americani. Insomma, hanno il problema di capire come uscire da questo vicolo cieco. Dunque, noi tutti abbiamo il dovere di aiutare le due controparti a uscire dal vicolo cieco in cui il negoziato si è infilato.
Lo stesso vale - penultimo punto - per la Siria. Signor Ministro, mi pare evidente che se mettiamo in serie le audizioni che abbiamo fatto negli ultimi mesi, ci rendiamo conto che tutto, passando il tempo, si è soltanto complicato; si è intricata la dimensione militare; il token delle vittime è sempre più elevato; si è aggravata la dimensione umanitaria e quella politica nell'articolazione dell'opposizione.
Il fatto che due giorni fa qatarini e sauditi abbiano deciso di sospendere le forniture di armi «pesanti» all'opposizione perché non si fidano più neanche dell'uso che ne viene fatto da alcune sue parti, testimonia quanto il conflitto si è complicato. Anche in questo caso, non abbiamo le chiavi del conflitto da soli, ma, sebbene non vi chieda una risposta pubblica, soprattutto per alcune parti di questa domanda, credo che ciascuno debba fare la propria parte: la Turchia perché è implicata direttamente; la Russia perché la evochiamo spesso; e infine - anche se so che risulterà urticante per alcuni - l'Iran, che è uno degli osti con cui bisogna fare i conti, se si vuole parlare legittimamente di una transizione in varie forme.
Peraltro, sappiamo che molte diplomazie, anche quando non lo riconoscono pubblicamente, hanno sempre tenuto un filo parallelo di dialogo e di interlocuzione. Ecco, se non parliamo di questi interlocutori per risolvere o per avviare a soluzione la questione siriana, faremo soltanto, di mese in mese, l'aggiornamento del numero delle vittime, ma sul piano politico non ne usciremo.
Da ultimo, vengo all'Afghanistan. Accetto la premessa, che abbiamo fatto nostra in modo bipartisan, che non ci sono iniziative unilaterali o fughe in avanti. Tra l'altro, non è questa la sede in cui valutare se il grado di addestramento quantitativo


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e qualitativo degli afgani proceda. Siamo, però, tutti preoccupati delle morti «green on blue» che vediamo.
A questo proposito, vorrei soltanto dire ai due ministri, in questo caso, in particolar modo al Ministro Di Paola, che questa è probabilmente la penultima audizione a cadenza trimestrale prima che questo Parlamento venga sciolto. In passato, vicende come la nostra partecipazione in Iraq o anche in Afghanistan sono state oggetto di laceranti dibattiti di politica interna. Credo che non sia questo il caso, il che, però, non toglie che prima che questo Parlamento vada al suo rinnovo sarebbe utile che avessimo con precisione - cioè uscendo dal criterio generale a cui ha accennato - il calendario ad oggi prevedibile delle presenze italiane in Afghanistan, con riferimento al décalage quantitativo del 2013 e del 2014 e con una valutazione più accurata e più precisa di cosa vuol dire il dopo missione.
Infatti, un dopo missione che cambia sigla, cartello e missione sociale, ma prevede la presenza di addestratori e consiglieri renderà necessario - come rivelano gli ultimi incidenti - anche qualcuno che protegga i consiglieri e gli addestratori. Cambierà il formato e la sigla, ma non cambieranno alcune esigenze di sicurezza. Dico questo perché è opportuno che, nel poco tempo che abbiamo a disposizione, il Parlamento e il Governo condividano fino in fondo le carte che ci sono sul tavolo. Grazie.

PRESIDENTE. Colleghi, poiché il Ministro Terzi alle 10,30 deve andare via, è necessario contenere i tempi, se vogliamo ascoltare la sua replica. Inizialmente avevamo ritenuto di non dover contingentare i tempi, ma è chiaro che d'ora in avanti bisogna che gli interventi non superino i cinque minuti, altrimenti non saremo in grado di sentire il Ministro.

LUIGI RAMPONI. Ringrazio, innanzitutto, i ministri per la chiarezza dell'esposizione. Desidero esprimere soddisfazione perché finalmente si parla delle missioni prima di approvare il decreto che le rifinanzia. Quindi, grazie a entrambi.
Avrei alcune considerazioni e domande da rivolgere al Ministro Terzi. Per quanto riguarda la Siria, quando vi è stato l'incontro a New York con tutti i componenti dell'opposizione, è stato toccato il problema delle comunità cristiane? Chiedo questo perché una delle maggiori preoccupazioni è che, a un certo punto, la sostituzione dell'attuale Governo con uno voluto dai rivoltosi possa determinare il sorgere di notevoli problemi per la comunità cristiana.
Inoltre, è confortante il fatto che il Presidente dell'Egitto abbia confermato di mantenere il trattato con Israele. Tutti ricordiamo che all'epoca della rivoluzione egiziana uno dei sospetti era che l'uscita di Mubarak dalla scena politica determinasse delle conseguenze negative proprio nei confronti dei rapporti con Israele. Questo è, dunque, confortante.
Riguardo alla Libia, sono state ristabilite le relazioni economiche che avevamo?
Per il Sahel, l'andamento che ha indicato in prospettiva è quello di interventi di forze locali, sostenute eventualmente dall'esterno, senza impegnare più in maniera così massiccia contingenti nazionali. Ha toccato, poi, la questione della Somalia, che è certamente una delle aree per noi essenziali, anche per precedenti relazioni. Tuttavia, non ha detto nulla sulla tensione che permane fra Etiopia ed Eritrea. Ecco, le sarei grato se potesse dire qualcosa su questo.
Per quanto riguarda il Ministro Di Paola, debbo dargli atto che, coerentemente con quanto ha detto all'inizio del suo dicastero, è riuscito, in una situazione economica difficile, a mantenere e tutelare il sostegno, la preparazione, l'adeguata professionalità e capacità operativa delle operazioni di pace. Gli do atto di questo e lo ringrazio.
Rispetto all'Afghanistan è confortante quanto ha detto, tuttavia non si può negare - stando alle ultime notizie - che la situazione non sta evolvendosi de plano verso un abbandono progressivo e sereno. Infatti, non si è riusciti a dare vita a quel tentativo di contatto con i talebani che


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sarebbe stato una importante garanzia per il successivo sviluppo della situazione.
Continua, peraltro, a esservi una debolezza del governo Karzai. Lei ha detto che alla fine dell'anno il 90 per cento dell'area sarà sotto la sua guida, ma il suo è un controllo molto teorico e molto spesso non sostenuto dalla maggioranza della popolazione, soprattutto in determinate zone.
C'è, poi, il discorso degli infiltrati, che lei ha toccato. Debbo dire che questo è un problema rilevante perché - come lei ha detto - segna un cambio di tattica, ma, paradossalmente, credo sia meglio che tale fenomeno si manifesti oggi e non in un altro momento. Infatti, si sarebbe potuta avere un'infiltrazione silenziosa nell'ambito delle file del già completo, in termini numerici, esercito afgano, da far poi esplodere proprio nel 2014. Non oso immaginare cosa potrebbe accadere se, nel momento in cui si cedesse completamente agli afgani il controllo del territorio, scoppiasse questo fenomeno, con una presenza massiccia di infiltrati. Insomma, forse, paradossalmente, è meglio così.
Per quanto attiene al Libano, le Commissioni difesa del Senato e della Camera hanno svolto una missione in tale Paese e hanno avuto la sensazione che i libanesi siano preoccupati molto di più della situazione siriana e dei suoi influssi negativi di quanto non lo siano nei confronti di Israele, che costituisce la ragione della presenza del nostro contingente. Peraltro, hanno espresso anche il desiderio di allargare la responsabilità del contingente alla sicurezza di tutta l'area siriana. Non credo che si arriverà a questo. Comunque, confermo che anche noi abbiamo avuto la sensazione della grande gratitudine del Libano nei confronti dell'Italia.
Per i Balcani, lei ha detto che in Kosovo vede una possibile riduzione dell'impegno italiano. Non è la prima volta che si dice ciò. Credo, però, che sarà molto difficile perché le ragioni per le quali i locali chiedono che rimanga la missione non sono mutevoli e non hanno prospettive. Le ragioni sono il conflitto religioso tra serbi, albanesi e musulmani, che è una situazione che permarrà. Invece, credo che dovremmo farci interpreti del fatto che non si può continuare, dopo quindici anni, a essere presenti per un'ipotetica ed eventuale conflittualità. Ritengo, quindi, che sia il momento di ritirarci perché non ci sono speranze che cambi la situazione, ma è comunque ora che il Kosovo cammini da solo.
Infine, sulla missione Atalanta, vorrei dire che è vero che è essenziale mantenere la presenza navale, ma vorrei che venisse anche considerato che da quando le navi sono difese direttamente da squadre di appartenenti al Reggimento San Marco non abbiamo avuto più un attacco. C'è stato sì il noto triste episodio dei marò, ma comunque non si trattava di un attacco. Ha, quindi, grande importanza non solo la presenza delle navi, ma quanto è stato deciso sulla loro difesa diretta. Grazie.

FRANCO GIDONI. Sulla vicenda dei marò, condividiamo e ci associamo alle parole dette dal presidente Cirielli. Attendiamo, dunque, con curiosità la risposta.
Sull'Afghanistan, capisco che il Ministro di Paola ribadisca il principio del together-in, togetter-out. Dopodiché, ha detto che l'operazione si svolge on time. Tuttavia, per chi guarda da fuori, sembrerebbe che la restituzione dei territori - come ha anche accennato il presidente Cirielli - stia avvenendo in maniera molto più veloce rispetto a quanto poteva presupporsi in passato, quando si era detto che si sarebbero restituiti una volta che fossero stati stabilizzati.
In sostanza, è vero che ci stiamo ritirando e che li stiamo restituendo al controllo delle autorità locali, ma è anche vero che stiamo facendo saltare alcuni dei nostri avamposti, proprio per paura che cadano in mano ai talebani. In più, anche sull'addestramento dei contingenti sembrerebbe che i numeri siano inferiori rispetto a quella che dovrebbe essere per una riduzione non significativa per il 2013. Insomma, l'impressione di chi guarda dal di fuori è che forse ci si sta attrezzando per completare la transizione non tanto alla fine del 2014, ma prima.


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Per quanto riguarda il Ministro Terzi, nella sua relazione ha dedicato un breve passaggio alla Libia. In realtà, questo Paese ha collaborato, anche in maniera significativa, alla cacciata di Gheddafi e alle conseguenti situazioni che si sono create. L'impressione è che non mettiamo altrettanto impegno nella stabilizzazione del Paese. Qual è, quindi, il nostro impegno in questo momento per riportare la Libia a una situazione di normalità? Grazie.

FABIO EVANGELISTI. Ringrazio i rappresentanti del Governo che sono intervenuti. Qualcuno prima di me, pur facendo parte di questa maggioranza che sostiene l'Esecutivo tecnico, ha già avuto modo di manifestare, in maniera molto più garbata di quanto sia capace di fare io, una certa delusione rispetto alle relazioni che sono state proposte.
Mi perdoni la franchezza, Ministro Terzi, ma la sua è stata una panoramica a volo d'uccello sulle situazioni difficili di questo nostro mondo. Mi sembra che sia mancata un'analisi, almeno su alcune realtà. Penso soprattutto alla Siria e alla riflessione sulle «coperture», ovvero sulle relazioni che permettono a quel regime di restare ancora in piedi, nonostante il pronunciamento di altri livelli internazionali, per non parlare della situazione difficile che coinvolge un Paese NATO come la Turchia. Mi limito a questo. Spero che questa osservazione possa essere interpretata anche come una domanda.
Per quanto riguarda, invece, il Ministro Di Paola - con il quale nei giorni scorsi ho anche polemizzato - devo dire che da parte sua c'è stato un maggior sforzo di analisi. Mi rimane, però, un dubbio. Ritorno alla domanda della polemica delle scorse settimane, quando il Ministro ha rilasciato un'intervista a Panorama, in cui rilanciava oltre il 2014 la nostra presenza in Afghanistan.
Ora, questo è un tema che non riguarda soltanto la forza politica che rappresento, l'Italia dei Valori, che da tempo insiste per un ritiro delle nostre truppe da quel teatro, ma è un problema che l'intero Paese e anche il Parlamento hanno posto, immaginando una possibile exit strategy da quella realtà prima - non dopo - del 2014. Del resto, non siamo stati neanche originali in queste affermazioni. Tuttavia, sarebbe opportuno che questo venisse chiarito, anche se devo dire che questa mattina ho colto qualche elemento più marcatamente positivo perché mi sembra che sia stato confermato che entro la fine del 2014 avverrà il ritiro. Sarei, comunque, lieto di avere una precisazione. Grazie.

FEDERICA MOGHERINI REBESANI. Sarò telegrafica perché abbiamo poco tempo e mi ritrovo pienamente nell'intervento del collega Pistelli. Vorrei solo aggiungere che la premessa fatta dal Ministro Di Paola - cioè la necessità di riaffermare la responsibility to protect e di capire che assicurare la stabilità globale risponde a un nostro interesse nazionale - è ampiamente condivisa ed è frutto di un lavoro sedimentato negli anni. Comprendo, però, l'esigenza di riaffermare questo ragionamento in tempi di tagli ai bilanci come quello che stiamo attraversando, che potrebbero mettere in discussione la nostra capacità di rendere operative le scelte politiche che vengono fatte.
Credo, però, che questo ragionamento sia tanto più forte quanto più si accompagni a una riflessione non unilaterale, che il Governo italiano potrebbe portare nelle sedi internazionali, su come efficacemente articolare la responsibility to protect. Ciò è dimostrato sia dal caso Siria, in modo drammatico, ma anche da quello dell'Afghanistan. Su quest'ultimo, la mia impressione - spero di sbagliarmi - è che la situazione sia più complicata rispetto agli insurgents che si mascherano da forze dell'ordine. Temo, insomma, che il quadro sia più intricato, dopo 11 anni di presenza militare.
Come ha giustamente detto il Ministro Terzi, sono stati fatti enormi progressi, che abbiamo tutto il dovere di rendere irreversibili. Pertanto, credo che sia giusto prevedere, dopo il 2014, un altro tipo di presenza internazionale, anche perché sono gli afgani e, in particolare, le donne,


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a chiederlo. Tuttavia, credo che sia all'ordine del giorno di tutti i Governi, innanzitutto di quelli della coalizione di cui facciamo parte, una riflessione a livello internazionale su come si rende efficace ed effettiva la responsibility to protect in questo mondo, con scelte di lungo periodo, più lungimiranti e non soltanto militari.
Ritengo che faccia bene l'Italia a proporre o partecipare a una discussione su come si modifica la nostra partecipazione alle missioni internazionali. Temo che, al contrario, un atteggiamento solo difensivo di quello che, pur di buono, abbiamo fatto in questi anni possa collocarci «fuori fase» rispetto al dibattito internazionale, di cui sicuramente i ministri hanno piena consapevolezza.
Penso, però, che vada fatto un discorso anche a livello nazionale. È vero, infatti, che questo è un tema su cui in questo periodo l'opinione pubblica è più distratta (anche perché ha altre cose, forse anche più gravi, a cui pensare), ma è anche vero che ritorna rapidamente d'attualità perché riguarda la preoccupazione sulla nostra presenza sulla scena internazionale. Insomma, è nostro dovere fare per tempo un ragionamento serio su questo tema, senza tentazioni di manicheismo da una parte o dall'altra. Grazie.

ENRICO PIANETTA. Grazie, signori ministri. Vorrei porre tre domande secche.
In primo luogo, siccome siamo presenti in Kosovo e nei giorni scorsi è stato qui a Roma il presidente serbo Nikolic, vorrei sapere se si è discusso delle prospettive in relazione, appunto, al Kosovo.
La seconda domanda riguarda la Somalia. È stata citata da entrambi i ministri, però vorrei un ulteriore approfondimento, anche perché c'è un nuovo Presidente e un nuovo Parlamento e per noi è sempre stata un'area di grande attenzione. Vorrei - ripeto - un ulteriore approfondimento, anche in prospettiva della visita che farà il Ministro.
Non posso che ritornare ancora sulla Siria perché è un Paese strategico in quest'area. Kissinger ha sempre detto che non si fa la pace in Medi Oriente se non lo vuole la Siria. Non c'è dubbio che un asse principale di contrasto è all'interno del mondo arabo tra il versante sunnita e quello sciita alawita. Da questo punto di vista, sono stati molto attivi i Paesi sunniti (l'Arabia saudita, ma anche la Lega araba nel suo complesso e il Qatar), anche perché ci sono evidentemente delle ripercussioni all'interno dei singoli Paesi. Penso al Libano, alla Giordania e alla stessa situazione di Hamas nei rapporti con Damasco e Teheran, nonché a tutti i rapporti con la Turchia.
Allora, da questo punto di vista, se c'è questa dimensione dinamica del mondo arabo, è indubbio che l'Occidente - sto pensando, in particolare, all'Unione europea - non stia svolgendo un ruolo, anche perché forse gli Stati Uniti sono in fase elettorale; ciò, fermo restando che devo apprezzare in pieno l'attività dell'Italia. Basti pensare ai 60 delegati che sono venuti a Roma per discutere e quant'altro. Tuttavia, mi sembra che ci sia un atteggiamento meno determinato di quello che necessiterebbe a livello europeo e, quindi, occidentale. Ecco, vorrei comprendere meglio questo aspetto, proprio in una dimensione strategica della nostra funzione nei confronti di un'area così importante, visto che la Siria rappresenta sempre il pilastro di quel settore del Medio Oriente. Grazie.

FRANCESCO TEMPESTINI. Vorrei porre una domanda secca al Ministro Terzi, a cui, peraltro, l'avevo già rivolta in occasione dell'ultima audizione che abbiamo avuto modo di fare al Senato, qualche tempo fa. Il quesito nasce da un'osservazione dell'onorevole Pistelli, che condivido. A proposito della crisi siriana, mi rendo conto del contesto nel quale la domanda si pone, cioè nel quadro della questione iraniana, in relazione alla problematiche del nucleare, del rapporto tra Israele e Iran, del ruolo degli Stati Uniti e quant'altro.
Tuttavia, saremmo fortemente interessati a conoscere il filo di un ragionamento - non dico una posizione definita - che può essere sviluppato da un Paese come l'Italia per quello che riguarda la questione


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iraniana nelle sue molteplici definizioni e caratterizzazioni. È un tema che penso dobbiamo affrontare, non considerando l'Iran come una sorta di tabù. In presenza di una politica di sanzioni, il tema iraniano può essere rimosso, ma sino a quando? Questo sarebbe un modo di ragionare che non ci porterebbe molto lontano.
Pur non prevedendo che si possa arrivare a delle conclusioni, saremmo molto interessati a conoscere il filo di un ragionamento del Governo rispetto a una questione che è decisiva perché la crisi siriana, che si sta drammatizzando ogni giorno di più, ha bisogno di uno sbocco politico, che è fatto di tante cose, tra le quali certamente questo ingrediente. Ecco, saremmo interessati ad avere un approfondimento del Governo intorno a questa tematica molto complessa, ma che penso occorra affrontare in termini molto problematici e attenti, senza ignorare il tema, cosa che sarebbe sbagliata. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola al Ministro Terzi per la replica.

GIULIOMARIA TERZI DI SANT'AGATA. Ministro degli affari esteri. Grazie, cercherò di condensare il più possibile i temi che sono stati evocati e che richiederebbero qualche minuto in più. Mi spiace di questa compressione di spazi, ma ribadisco la mia disponibilità e quella dei miei collaboratori - so, infatti, di audizioni importanti che sono state fatte anche dai direttori generali competenti e soprattutto dall'inviato speciale per il Mediterraneo e il Medio Oriente - per ulteriori approfondimenti.
Per quanto riguarda il Sahel, vorrei dire una cosa che avrei dovuto dire all'inizio, ma che è stata travolta dalla sintesi che ho cercato di fare. Esprimo grande soddisfazione per la nomina a Under-secretary-general per il Sahel nella persona del presidente Prodi. Questo è uno sviluppo molto significativo non soltanto perché riconosce il lavoro fatto dal presidente Prodi sul piano dell'azione in Africa, dei rapporti fra Unione europea e Unione africana, sulle tematiche del peacekeeping e su tutte le iniziative di mediazione e di contatto che ha portato avanti anche all'esterno dell'ufficialità, ma perché dà il senso di un impegno a tutto campo e coerente del Segretario generale dopo la riunione sul Sahel, alla quale ha partecipato il Presidente del Consiglio Monti, a margine dell'Assemblea generale.
Si tratta di una figura - quella dell'inviato speciale - che avrà il coordinamento con tutte le agenzie e le strutture del Segretariato e che coincide perfettamente con l'impegno del Governo italiano, in via bilaterale, ma anche attraverso l'Unione europea, di stabilizzare e riportare quest'area su un piano di sviluppo, di evoluzione politica e anche di visione d'insieme fra i Paesi limitrofi, giocando la carta dell'ECOWAS, ma soprattutto quella della legalità che verrà da una decisione del Consiglio di sicurezza.
Peraltro, vorrei sottolineare la rilevanza per il Governo italiano della decisione che è stata evocata dall'onorevole Pistelli, in una prospettiva di azione complessiva in un'area che - com'è stato rilevato anche dal senatore Ramponi - riveste un'importanza strategica per gli interessi nazionali.
Riguardo ai marò, è una questione che lascia tutti allibiti nel Paese e tra le personalità di Governo. È sconcertante il fatto che uno Stato di diritto come l'India non riesca a esprimere, con un minimo di coraggio - diciamo la verità - necessario per le condizioni politiche locali, un giudizio sulla giurisdizione, a livello di Corte suprema, in tempi rapidi, chiari e definiti, che consenta ai nostri uomini di tornare a casa.
La sentenza viene rinviata con delle motivazioni procedurali. Attendiamo questo pronunciamento con fiducia, ma anche con preoccupazione per i tempi che vengono presi nel definirlo. Le nostre posizioni sono cristalline e limpide sul piano del diritto. La giurisdizione, nelle due dimensioni che abbiamo sostenuto - cioè l'applicazione della Convenzione di Montego Bay e, in generale, dei princìpi di


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diritto internazionale sulla sovranità in alto mare - è chiarissima. Altrettanto chiara è la sovranità funzionale.
Il tema è stato portato in tutte le istanze. Ho contato più di cento interventi specifici fatti da me, dal Presidente del Consiglio, dalla diplomazia italiana, dal Ministro della difesa, nelle sedi internazionali, con riconoscimenti di principio e documenti che sono stati modificati su nostra iniziativa per affermare questo principio.
All'Assemblea generale, quando si è parlato di questo tema, c'è stato un ulteriore passo del sottosegretario De Mistura, che era presente, con il Ministro degli esteri Krishna per affermare questo principio. Ora, se nel sistema giuridico indiano c'è cognizione dei valori fondamentali - e noi crediamo che ci sia - la sentenza deve andare soltanto in una direzione, che è quella a noi favorevole.
Le Nazioni Unite sono state adite in molti contesti. Ho citato l'Assemblea generale. Ne ho, poi, parlato al Segretario generale nuovamente in dettaglio un paio di settimane fa. Ci riserviamo, nel caso del worst-case scenario, diverse altre azioni a livello internazionale perché, a quel punto, si aprirebbe, tecnicamente, anche sul piano legale, una controversia fra Stati e, quindi, dovrebbe essere esperito un certo gradiente di azioni internazionali che si aprono in questo caso. Tuttavia, non voglio neanche immaginare che questo accada.
Sulla Siria, si tratta di una questione di grande complessità. Non credo di essere stato silente su questo tema, anzi è forse quello che ha occupato più spazio nei miei interventi parlamentari e pubblici e nelle cose che ho scritto sulla stampa nazionale e che ho detto anche attraverso i media. Ho espresso la posizione del Governo italiano in ogni modo possibile, con tutti gli approfondimenti che credo siano necessari.
È, tuttavia, dovuto un approfondimento sulla situazione politica interna e sugli assetti del regime di questo grande Paese, che è veramente fondamentale per la pace in Medioriente, ma anche per tantissime altre cose. Del resto, è fondamentale di per sé perché è un Paese con una ricchezza culturale, con una tradizione di ruolo regionale molto forte e soprattutto con una tradizione antica di rapporti e di amicizia con l'Italia.
Quello che è avvenuto con i massacri genocidari effettuati dal regime contro la popolazione ha lasciato prima sconcertati e poi offesi i componenti della comunità internazionale, ancora più quelli che avevano avuto con la Siria delle consuetudini di rapporti positivi.
L'analisi attuale evidenzia la necessità di contribuire a mantenere unito strutturalmente questo grande Paese mediorientale, sul piano territoriale, ma anche attraverso la ricerca di una nuova omogeneità istituzionale, affinché tutte le forze etniche, civili e culturali si possano riconoscere in un nuovo equilibrio del post Assad. Per fare questo, stiamo lavorando. Difatti, è una delle questioni che ci occupa in assoluto maggiormente in termini di azione di politica estera. Stiamo lavorando per dare solidità a un'alternativa.
Il regime non è più rispondente a quella che può essere la Siria del futuro. Questo è ormai chiaro forse anche all'interno della stessa componente alawita, nella quale, come in tutte le altre componenti etnico-culturali del Paese, ci sono delle voci che ostacolano questo regime, con questo metodo di repressione, che - dobbiamo dirlo - è stato certamente aiutato dall'esterno. È vero che si è aiutata la resistenza e l'insorgenza, ma ricordiamo che per quasi un anno le manifestazioni erano pacifiche ed erano controllate da spari di cecchini dei tetti; poi, via via, con gradienti sempre più gravi, si sono attuate addirittura operazioni di pulizia etnica nei quartieri di Aleppo, di Dara e di Hama. Vi è stato, poi, l'eccidio di Hama, addebitato dal regime alle forze dell'insorgenza. Ci è voluto un giornalista investigativo per dimostrare che fosse tutto falso.
Vi è, quindi, un contesto di grande difficoltà, rispetto al quale l'Italia si presenta come un Paese che vuole mantenere un suo impulso positivo sulla questione umanitaria, ma anche e soprattutto sul piano politico. Le carte che sta giocando


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Lakhdar Brahimi sono importanti e poggiano sul seguito del documento di Ginevra, con i 6 punti, che, peraltro, sono tutti regolarmente inapplicati. Tuttavia, continuiamo a credere alla validità di questo piano, che porta un coinvolgimento anche della parte del regime e di conseguenza degli attori esterni, a cominciare dalla Russia e dall'Iran, che stanno nel campo di Bashir Assad.
In questo equilibrio, le Nazioni Unite stanno cercando di ricomporre un percorso ragionevole verso una soluzione politica. Ciò nonostante, tutto si blocca per un'incapacità di evoluzione soprattutto da parte dei membri permanenti Russia e Cina, che sinora non hanno mostrato, neanche sulle questioni umanitarie, di volere autorizzare una risoluzione del Consiglio di sicurezza che aprisse maggiormente l'accesso al Paese e obbligasse politicamente il regime ad accogliere gli aiuti umanitari. Ecco, le posizioni da parte dei due membri permanenti che sono più preoccupati di qualsiasi forma di intervento, anche soltanto per portare gli aiuti da parte della comunità internazionale, hanno creato questa situazione di stallo nella quale Brahimi sta così difficilmente operando.
In merito al rapporto con l'Iran, evocato dall'onorevole Tempestini, devo dire che anche questo Paese è stato un punto di riferimento tradizionale della diplomazia italiana e continua a esserlo. Infatti, abbiamo una presenza diplomatica a Teheran che continua a essere apprezzata, per la capacità di dialogo e perché esprime la voce del Governo italiano, anche in questo difficile momento di forte pressione delle sanzioni sull'economia iraniana e soprattutto sul regime. D'altra parte, il mantenimento di questo ruolo, anche in questa situazione, ha determinato la richiesta canadese di poter essere da noi rappresentati nei confronti della leadership iraniana per il prosieguo dell'attività necessaria dopo la chiusura della loro ambasciata.
A ogni modo, è certa la nostra appartenenza a una posizione europea che sta cercando di portare Teheran al tavolo del negoziato, facendo pressioni sulla leadership attraverso le sanzioni, per evitare uno sbocco che nessuno auspica, tanto meno l'Italia, cioè quello di una potenziale azione militare intesa a fermare il programma nucleare iraniano. Questa è una possibilità che vediamo con grandissima preoccupazione e che deve essere assolutamente evitata perché avrebbe degli effetti fortemente destabilizzanti non soltanto per la regione, ma ben al di là. Pertanto, è con questa visione che l'Italia continua a mantenere un rapporto e un dialogo serio e costruttivo con l'Iran e con diversi esponenti del regime, ma senza elementi di distinguo o di spaccatura rispetto alla linea consolidata dell'Unione europea, che apprezziamo e sosteniamo.
Sulla Libia, mi è stata rivolta una domanda sul futuro dei nostri rapporti economici. Dalla dichiarazione di Tripoli del gennaio scorso, per tutto il periodo di vigenza del Consiglio nazionale transitorio, ma anche dopo le elezioni del 7 luglio e ancora fino alle ultime ore, abbiamo mantenuto un rapporto intenso con la leadership del Consiglio nazionale transitorio e poi con i principali protagonisti della vita politica libica emersi dalle elezioni.
Siamo in contatti con loro. D'altra parte, una piccola manifestazione concreta di quanto aperto e costruttivo sia questo dialogo è stata la positiva soluzione, nel giro di poche ore, per la seconda o terza volta, di un incidente di pesca, sebbene più grave degli altri, che si è verificato in acque contestate del Golfo della Sirte.
Siamo il Paese che segue la Libia più da vicino, che è visto dal mondo libico come il partner prioritario sul piano politico, della sicurezza ed economico. Abbiamo contatti quotidiani sulla questione dei crediti, delle infrastrutture, dell'esecuzione dei grandi lavori. Alcune imprese hanno ricominciato a lavorare e a essere pagate dai partner libici. Il tema della sicurezza, che ho già menzionato nel mio intervento di apertura, è di fondamentale importanza. Per quanto riguarda i contratti, sta andando avanti il contratto per il border management. Lavoriamo insieme ai partner


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delle istituzioni internazionali, con la missione PESD, soprattutto per l'institution building.
Ciò nonostante, in Libia c'è un enorme lavoro da fare. Non esiste un'amministrazione vera e propria, né ci sono interlocutori sufficientemente formati e inseriti nei diversi gangli dell'amministrazione. Questo è, quindi, un tema di cui dovremo continuare a parlare. Comunque, è un Paese nel quale intendiamo continuare ad avere un ruolo molto importante. Sul piano dell'energia, ad esempio, abbiamo la soddisfazione di vedere che i flussi di approvvigionamento dalla Libia sono tornati ai livelli pieni pre-rivoluzione. Ciò vuol dire che ci sono diversi attori. L'ENI, per esempio, sta facendo un ottimo lavoro, come altre aziende del settore energetico, anche per quanto riguarda attività collaterali di cooperazione e di formazione.
Per quanto riguarda, invece, Somalia, Etiopia ed Eritrea, rappresentano un punto centrale dell'azione di politica estera italiana in Africa. Cerchiamo di continuare un'azione paziente, ma, sebbene vorremmo, è molto difficile vedere riattivato il dialogo fra Etiopia ed Eritrea. Parliamo costantemente di questo. Il post Meles Zenawi è in continuità. Il nuovo Primo Ministro è Desalegn, già Ministro degli esteri, con cui avevo e ho continuato ad avere un buon rapporto. Il nuovo Governo etiopico si pone la questione della stabilità della Somalia come una priorità della sua politica estera e si collega all'azione del Kenya, dell'Uganda e degli altri Paesi dell'area attraverso AMISOM, con dei risultati di sicurezza che stanno avendo degli esiti positivi.
Per quanto riguarda la nostra azione, c'è un sostegno forte al nuovo Presidente, la cui elezione ha rappresentato un'indicazione promettente su quello che la società somala riesce a esprimere, al di là degli equilibri clanici e dei consueti condizionamenti di quelli che una volta si chiamavano «i signori della guerra». Il Presidente è espresso da un'ampia fascia della società civile, non particolarmente condizionata da interferenze esterne, ed ha la personalità per avviare un Governo che possa dare delle prospettive a questo Paese, nel senso di ricostituire una sua unità e identità nazionale.
Un ultimo appunto brevissimo riguarda la visita del Presidente Nikolic. Si è parlato soprattutto di Kosovo negli incontri che ho avuto a Roma, come nell'incontro che ho avuto con lui e con il Ministro degli esteri a fine luglio a Belgrado. Il punto fondamentale per Nikolic è che non venga posta, nella riattivazione di questo dialogo a livello politico, la condizione di un riconoscimento immediato o a termine del Kosovo, che è un presupposto impossibile. Il punto di vista italiano è che questo vincolo non ci sia e non ci debba essere. I sei punti individuati nel novembre dell'anno scorso dall'Unione europea sono quelli sui quali si deve lavorare, dei quali quattro sono in buona fase di avanzamento.
Inoltre, l'indicazione che il Presidente serbo ha dato di voler portare a livello di Primo Ministro la delegazione che parla con la delegazione kosovara è un buon segno. Ho riscontrato che questa decisione è stata apprezzata anche da parte kosovara perché ho incontrato, a margine dell'Assemblea generale, il Primo Ministro kosovaro Thaci, che mi ha confermato la sua volontà di entrare nel negoziato lui stesso per cercare di dirimere le controversie. In questo senso, ritengo che ancora per un certo tempo la presenza di KFOR sia un dato fondamentale. Del resto, ne ha parlato ripetutamente proprio il Presidente serbo, anche in senso di riconoscimento al ruolo dell'Italia nella protezione delle minoranze.
Concludo dicendo che l'aspetto della protezione delle minoranze religiose è fondamentale a tutto campo per l'Italia. Abbiamo svolto delle azioni alle Nazioni Unite e all'Unione europea e affermiamo questo principio con decisione con l'opposizione siriana. Sotto questo aspetto, vorrei rassicurare l'onorevole Evangelisti: è per noi un elemento di preoccupazione fondamentale il rispetto che tutte le componenti dell'opposizione siriana, oltre che del regime, devono avere per le minoranze


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religiose, a cominciare dai cristiani. Su questo tema, ho molti contatti con i leader delle comunità cristiane in Siria.
Lo stesso vale per la Libia e per la fase costituente della Tunisia e dell'Egitto; si possono fare sempre le stesse considerazioni sull'importanza che annettiamo al rispetto delle minoranze.
Per quanto riguarda il Kosovo, Nikolic ha espresso molto apprezzamento sul ruolo che KFOR ha avuto in passato e continua ad avere per la protezione delle minoranze serbe e della componete ortodossa del Paese. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie, signor Ministro, anche per l'esaustività delle sue risposte. Do ora la parola al Ministro Di Paola.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Ministro della difesa. Grazie, signor presidente. Sarò breve perché molte risposte sono già state fornite dal Ministro Terzi. Procederò per temi, cercando di rispondere a tutti gli interventi, anche se non sempre individualmente.
Riguardo all'individuazione dei criteri per selezionare le missioni da sostenere, mi permetto di dissentire, se ho capito bene la domanda. Non è vero che le piccole missioni sono sacrificate, infatti oggi nel decreto che proroga le missioni ce ne sono più di venti, anche se parliamo sempre delle quattro più importanti. Ora, tenuto conto che nelle missioni principali vi sono circa 5.500 persone, altre 7-800 sono impegnate in quelle cosiddette «piccole», ma queste non sono sacrificate per niente. Su questo, quindi, onorevole Pistelli, mi sento di dissentire.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, è chiaro che il processo non è de plano. Senatore Ramponi, se fosse così, forse non ci sarebbe neppure bisogno di essere lì. Tuttavia, si sta procedendo secondo quanto è stato programmato, senza anticipi, né ritardi. Qualcuno ha paura degli anticipi e qualcun altro dei ritardi; invece, le transizioni stanno avvenendo secondo quanto previsto, per questo ho detto che a novembre ci aspettiamo che il Presidente Karzai annunci l'inizio della quarta tranche della transizione, che raggrupperà un numero importante di distretti e province, soprattutto quelle sulle frontiere, che sono tra le più problematiche.
Quando si inizia la transizione non vuol dire, però, che quella provincia è stabilizzata. Ricordo che la transizione è un processo che dura dai 12 ai 18 mesi. Significa, quindi, che ci sono le condizioni iniziali perché poi, nell'arco di questo periodo, si possano avere dei progressi. Quindi, in questo senso, siamo nei tempi.
È vero che abbiamo lasciato agli afgani alcune basi. Ciò è parte di questo processo di progressiva cessione di responsabilità in certe aree. D'altra parte, se c'è un drawdown, a certo punto, bisogna inevitabilmente trasferire certe capacità e certe basi agli afgani e concentrarsi su altre parti; altrimenti, non ci sarebbe drawdown, ma rimarremmo come siamo. Questo, però, non è abbandono, ma cessione agli afgani di certe realtà.
Onorevole Evangelisti, la ringrazio per la sua squisita cortesia, ma cerco di non essere evasivo. Quando presenteremo il prossimo decreto-legge sulle missioni ci saranno i numeri. Confermo fin da ora che sono pronto a venire qui per illustrarlo in dettaglio, con tutte le decisioni che verranno prese. In questo momento, non posso fornirvi dei dati numerici perché non sono ancora maturi. Ho dato, tuttavia, delle indicazioni. Poi, quando ci sarà il decreto-legge che dirà cosa si farà nel 2013, è chiaro che saranno illustrati i numeri anche in relazione all'Afghanistan.
In questo momento, posso dire che ci sarà un drawdown nell'ordine del 25-30 per cento nel 2013, mentre il successivo 70-75 per cento vi sarà nel 2014. Questi numeri corrispondono alla valutazione del percorso in atto e dello stato della sicurezza da parte del comando della NATO. Inoltre, bisogna tener conto del fatto che l'Italia - piaccia o meno - ha una responsabilità in più rispetto ad altri Paesi perché abbiamo un comando regionale. Ugualmente, in altre zone ci sono gli americani; a Kabul vi sono i turchi e nel nord i tedeschi. Avere la responsabilità regionale significa che non possiamo, a


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differenza di un altro Paese, andare via improvvisamente; pertanto, il nostro drawdown deve essere - se mi è permessa questa affermazione - ancora più responsabile.
Quanto al dopo, a Chicago il Presidente Monti ha espresso un orientamento, che fa parte della decisione collettiva che è stata presa, ovvero che ci sarà un post ISAF. Tale orientamento è stato confermato non solo dall'Enduring partnership firmata tra la NATO e l'Afghanistan, ma anche dall'accordo bilaterale che l'Italia - in questo caso, il Presidente Monti come capo del Governo - ha firmato con il Presidente Karzai in Italia per una enduring strategic partnership. Abbiamo, quindi, un impegno a continuare ad assistere questo Paese nel tempo.
A Tokyo, quando si è parlato del famoso «decennio della trasformazione», si faceva riferimento a un impegno della comunità internazionale a sostenere l'Afghanistan in forme diverse - che non vuol dire inviare 100.000 uomini - per un decennio, in cui prenderanno sempre più peso le forme di sviluppo, aiuto alla governance e, nella misura in cui sarà necessario, di assistenza di tipo militare (advising e mentoring).
In questo momento, non essendo ancora definita la dimensione di quella che sarà la missione post ISAF, come si fa a dire quale sarà eventualmente il contributo italiano? Non si può che esprimere il concetto di un orientamento a esserci. Prima si dovrà definire, nel corso del 2013, la missione complessiva, cosa che faranno tutti i Paesi dell'Alleanza e di ISAF e dopo, in quel contesto, si definirà il tipo di partecipazione che l'Italia vorrà assicurare. In quel momento, poi, il Governo maturerà un suo atteggiamento e successivamente il Parlamento esprimerà le sue valutazioni. Questa, però, non è evasività perché per ogni cosa c'è il suo momento.
Quanto al Kosovo, il Ministro Terzi ha già espresso la valutazione secondo cui oggi, soprattutto nel nord, la presenza di KFOR è indispensabile. Rispetto l'opinione del senatore Ramponi, ma non ci troviamo d'accordo su questo. C'è il desiderio di tutti, compreso il nostro, di poter ridurre questa presenza appena sarà possibile, ma al momento attuale non è considerato possibile né dai kosovari, né dai serbi. Questa è la realtà. D'altra parte, finché la missione europea EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo), nel suo complesso, non riuscirà a far crescere il dialogo politico, è chiaro che la presenza di KFOR viene vista ancora come elemento stabilizzante e rassicurante.
Per quanto riguarda la Somalia, nell'ambito della partecipazione alle iniziative dell'Unione europea, stiamo cercando di sviluppare dei programmi di addestramento con i somali. Oggi, realizziamo il progetto in Uganda con la missione EUTM, ma siamo d'accordo con le autorità somale per stabilirci a Gibuti. Infatti, recentemente abbiamo approvato, con il Governo locale, la presenza di una base logistica italiana a Gibuti, che serve non solo come sostegno logistico alle missioni antipirateria, ma consente anche di poter svolgere, oggi, in condizioni di maggior sicurezza i programmi di addestramento alle forze di sicurezza somale.
Se l'Unione europea è in Uganda e noi andiamo a Gibuti dipende dal fatto che oggi nel territorio della Somalia non ci sono ancora le condizioni di sicurezza; altrimenti, dovremmo mandare un contingente per proteggere gli addestratori. Pertanto, quando queste condizioni matureranno si potranno svolgere i programmi di addestramento direttamente in Somalia.
Lo stesso dicasi per la Libia. In questo momento, come ha detto il Ministro Terzi, ancora non c'è il Governo libico. C'è un Primo Ministro designato che ha presentato una lista di ministri che non ha ancora trovato il consenso in Parlamento. Insomma, c'è ancora una situazione di fragilità degli interlocutori politici. Di conseguenza, oggi tutti i programmi che abbiamo discusso con i vari ministri o sottosegretari dell'epoca trovano un'oggettiva difficoltà di implementazione in una realtà istituzionale che non è ancora consolidata.
Insomma, si cerca di fare quello che si può, anche fuori dalla Libia. Per esempio, in questo momento a Vicenza, presso il famoso


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CoESPU (Centro di Eccellenza per le Stability Police Units), i Carabinieri italiani stanno addestrando 30 poliziotti libici, appartenenti alla Gendarmeria libica per la sicurezza delle infrastrutture strategiche. Si tratta di poliziotti addetti soprattutto alla sicurezza delle infrastrutture petrolifere, ma anche di alcune entità chiave del Governo. Adesso stiamo lavorando a Vicenza perché in Libia in questo momento non ci sono le condizioni sufficienti per farlo. È, però, già previsto di fare dei piani più intensivi in Libia con le stesse forze libiche, quando ci saranno delle condizioni migliori.
Per quanto riguarda l'antipirateria, il senatore Ramponi ha perfettamente ragione quando dice che i nuclei di protezione armata sono un elemento fondamentale. Non c'è dubbio su questo, ma - come ho sempre detto - sono l'elemento fondamentale di un pacchetto complessivo che include la presenza navale, le azioni per stabilizzare la Libia e per formare le forze marittime del Puntland, del Kenya e delle Seychelles.
Sui marò, non mi dilungo perché ne ha parlato diffusamente il Ministro Terzi. Voglio solo dire che, anche se sui giornali non se ne parla tutti i giorni, noi i nostri marò li stiamo seguendo tutti i giorni, come è giusto che sia. Ci mancherebbe, del resto, che così non fosse. C'è una presenza costante di cinque o sei persone che dal 15 febbraio, quando è avvenuto il fatto, sono in India. Quindi, i marò sono sempre seguiti, come è giusto che sia, e noi siamo fiduciosi. Certo, ci piacerebbe che la sentenza fosse già arrivata, ma siamo fiduciosi che la Corte suprema indiana si esprima presto. D'altra parte, la giustizia indiana ha i suoi tempi e non è che in altri Paesi - non mi riferisco a nessuno in particolare - la giustizia sia più veloce. Comunque, questa non vuole essere una giustificazione.
Per quanto riguarda il Libano, in questo momento Hezbollah si sta comportando in maniera ragionevole, forse valuta i pro e contro. Tuttavia, l'ONU e la missione UNIFIL non sono così naïf da non aver alzato il livello di attenzione, prendendo tutte le precauzioni. In questo momento, però, è chiaro che è nell'interesse sia israeliano sia libanese che la parte sud rimanga la più tranquilla possibile. È loro interesse che non succeda nulla e questa è per noi la migliore garanzia.
Non sempre quello che ci viene detto rappresenta la realtà. Tuttavia, io, come voi che siete stati in Libano, parlando con il Presidente e il Primo Ministro, ho sentito dire che il sud del Paese è la parte più sicura perché è nell'interesse di tutti che almeno lì non succeda niente, visto che dalle altre parti ci sono problemi.
Per quanto riguarda, inoltre, il problema della Turchia e della Siria - rispondo al presidente Cirielli - è chiaro che la Turchia, come qualunque Paese, ha dei piani di difesa. Anche la NATO aveva dei piani di difesa della Turchia, ma non riguardavano certamente la difesa contro la Siria. Su richiesta del Consiglio atlantico, si stanno, pertanto, adattando a una minaccia che può venire dalla Siria. In questo momento, si stanno predisponendo eventuali piani di difesa, ove dovesse degenerare la situazione. In questo momento, la Turchia è in grado di fronteggiare la situazione da sola e non sta richiedendo assistenza militare ai sensi dell'articolo 5. A norma dell'articolo 4, che prevede la consultazione, ha richiesto, però, di impegnare il Consiglio atlantico in una valutazione dalla situazione.
Infine, per rispondere all'onorevole Mogherini, riguardo alla responsibily to protect, attualmente si tratta di un concetto politico. Tuttavia, l'evoluzione degli interventi e delle missioni da esclusivamente militari a civili-militari, con il cosiddetto «comprehensive approach», è una prima risposta. Peraltro, ricordo che alla Conferenza di Tokio, la cosiddetta «Donor Conference» la comunità internazionale ha firmato un documento. C'erano 80 partecipanti; 50 nazioni di ISAF, più altri 30 interlocutori (tra cui la Corea, il Giappone, le Nazioni Unite, la Banca mondiale). Insieme al Governo afgano, tutti hanno firmato l'impegno di dare risorse in cambio di alcune garanzie, come la protezione dei diritti umani, delle donne e


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così via. È chiaro che una presenza della comunità internazionale non solo economica, ma anche di assistenza militare, dopo il 2014, è una garanzia a vantaggio di quei diritti e di quei princìpi. Del resto, il Presidente Karzai dovrà affrontare le elezioni del 2014, quindi staremo a vedere cosa succederà.
Per concludere, la riconciliazione è un elemento fondamentale, che ci preoccupa. Si tratta, però, di un processo che non può che essere interamente in mano agli afgani, poi - volendo essere più preciso - forse c'è qualcosa che si sta muovendo, ma oggi non si vede. Del resto, a volte in questi processi ci sono delle trattative, dei contatti e dei dialoghi sotto il tappeto, che emergono al momento opportuno. Proprio perché sono sotto il tappeto, so che ci sono, ma non so quali livelli di avanzamento abbiano raggiunto. Comunque, su questi temi quello che non appare alla luce del sole non si può dire che non stia avvenendo. Grazie.

PRESIDENTE. Signor Ministro, nel ringraziare anche lei dell'esaustività delle risposte, vorrei precisare che non intendevo dire che la Turchia fosse in difficoltà dal punto di vista militare. Mi preoccupavo che accadesse ciò che è successo in Libia, quando la Francia e l'Inghilterra la bombardarono e poi non siamo stati costretti a intervenire.
Nel ringraziare nuovamente i Ministri Terzi e Di Paola, dichiaro conclusa la seduta.

La seduta termina alle 11.

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