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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissioni Riunite (V Camera e 5a Senato)
1.
Martedì 5 ottobre 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

Audizione del Ministro dell'economia e delle finanze (Attività conoscitiva preliminare all'esame dello schema della Decisione di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, ai sensi dell'articolo 118-bis, comma 3, del Regolamento della Camera e dell'articolo 125-bis, comma 3, del Regolamento del Senato):

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 12 14 30
Baretta Pier Paolo (PD) ... 13
Bitonci Massimo (LNP) ... 23
Boccia Francesco (PD) ... 29
Borghesi Antonio (IdV) ... 17 18
Ciccanti Amedeo (UdC) ... 18
Duilio Lino (PD) ... 28
Galletti Gian Luca (UdC) ... 21 30
Marsilio Marco (PdL) ... 23
Morando Enrico (PD) ... 25 27
Tremonti Giulio, Ministro dell'economia e delle finanze ... 4 14 17 18 20 21 23 24 25 26 27
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l’Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud Libertà e Autonomia-Partito Liberale Italiano: Misto-Noi Sud LA-PLI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Repubblicani, Azionisti. Alleanza di Centro: Misto-RAAdC.

COMMISSIONI RIUNITE
V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E
5a (PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, BILANCIO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 5 ottobre 2010


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 12,50.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro dell'economia e delle finanze.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame dello schema della Decisione di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, ai sensi dell'articolo 118-bis, comma 3, del Regolamento della Camera e dell'articolo 125-bis, comma 3, del Regolamento del Senato, l'audizione del Ministro dell'economia e delle finanze, Giulio Tremonti.
Tale audizione sarà la prima di un breve ciclo dedicato ai contenuti dello schema della Decisione di finanza pubblica presentato dal Governo il 30 settembre scorso, che rappresenta il primo documento di programmazione predisposto ai sensi della legge n. 196 del 2009, la nuova legge di contabilità e di finanza pubblica.
Come è scritto nella premessa dello schema, la prima Decisione di finanza pubblica dovrebbe risultare anche l'ultima a essere concepita in questi termini e con questi contenuti. Il 7 settembre scorso, infatti, il Consiglio Ecofin ha deciso l'avvio dal 2011 del cosiddetto semestre europeo, apportando le conseguenti modifiche al Codice di condotta sull'attuazione del Patto di stabilità e crescita.
Il semestre, come sappiamo, avrà inizio a gennaio e terminerà a luglio. Entro tale termine dovrà essere definita la programmazione in materia economica e finanziaria a livello dei singoli Paesi dell'Unione europea attraverso una stretta interlocuzione con le istituzioni comunitarie.
Gli strumenti europei della programmazione saranno i Programmi di stabilità, fortemente innovati nei contenuti, e i Programmi nazionali di riforma per il perseguimento degli obiettivi della Strategia 2020 per la crescita e l'occupazione. In questi due atti, e soprattutto nel primo, sono necessariamente destinate a confluire tutte le scelte fondamentali in materia di programmazione economica e finanziaria adottate a livello nazionale.
La Decisione di finanza pubblica, che pure presenta contenuti più ampi, in grado di riflettere in maniera più fedele lo stato della finanza pubblica rispetto al vecchio Documento di programmazione economico-finanziaria, nasce quindi già vecchia. Inoltre, l'anticipo della manovra finanziaria attuata con il decreto-legge n. 78 del 2010 comporta che essa non possa che replicare un quadro di finanza pubblica già noto e ribadire la validità delle misure adottate con il suddetto decreto-legge.
Devo rilevare come lo schema della Decisione non rechi alcuni dati e informazioni indicati dalla legge n. 196 e, in particolare, non figurino indicazioni circa l'attuazione delle leggi di spesa di carattere


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pluriennale, manchino le relazioni programmatiche per ciascuna missione di spesa del bilancio dello Stato e non sia stato, infine, allegato il programma delle infrastrutture strategiche. Il Ministro dell'economia e delle finanze ha garantito che tali lacune informative saranno a breve colmate.
Credo, inoltre, che dovremo ovviare quanto prima a un'altra lacuna di carattere politico e istituzionale, che riguarda il coinvolgimento delle autonomie territoriali nelle procedure di finanza pubblica. L'anticipo della manovra finanziaria ha, di fatto, impedito un tempestivo confronto con le regioni e gli enti locali nella scelta relativa alla ripartizione degli obiettivi, con riferimento soprattutto alle misure relative al Patto di stabilità interno.
La necessità di reagire alla crisi con tempestività ed efficacia ha ostacolato un confronto che, tuttavia, rappresenta un elemento innovativo qualificante la legge n. 196 e che non potrà non connotare anche la disciplina del semestre europeo.
Al fine di assicurare una discussione di tali questioni innanzitutto in sede parlamentare, le Commissioni bilancio hanno previsto l'audizione dei rappresentanti delle autonomie territoriali in merito alla Decisione di finanza pubblica.
Ritengo - e concludo - che, per ovvie ragioni, sarebbe assai interessante acquisire dal Ministro un aggiornamento e una valutazione in merito a quanto si sta decidendo a Bruxelles in ordine al pacchetto di sei proposte legislative con le quali si intende dare attuazione alle linee di rafforzamento della governance economica concordate in sede di Consiglio europeo, a partire dalle prospettate modifiche al Patto di stabilità e crescita, con importanti riflessi sui contenuti del semestre europeo.
Ricordo, peraltro, che sui temi del coordinamento delle politiche economiche e, in particolare, sul semestre europeo le Commissioni riunite bilancio e politiche dell'Unione europea della Camera hanno approvato un ampio documento il 30 luglio scorso.
Do la parola al Ministro Tremonti, ringraziandolo per avere accettato il nostro invito.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Ringrazio a mia volta per l'intenso grado di presenza e di partecipazione, nonché per la solennità dell'ambientazione di questa audizione, nella sala della Lupa.
Il mio intervento verte essenzialmente su due punti: la Decisione di finanza pubblica in Italia e il Patto di stabilità e crescita in Europa.
Sul Patto di stabilità e crescita in Europa, per chiarire ex ante i termini e rispondere a domande giuntemi sul punto oggetto di discussione e di attenzione in questi giorni, ossia quello del debito pubblico, voglio precisare che, se si dovessero modificare le regole, queste entrerebbero in vigore a partire dal 2016 nel quadro, comunque, di un procedimento di approvazione delle modifiche basato sulla logica della codecisione col Parlamento europeo.
Credo che questo spostamento sull'asse temporale di almeno cinque anni dia al tema una dimensione meno attuale di quanto mi è sembrato di cogliere, con la citazione di numeri piuttosto casuali, in questi giorni. Cercherò, tuttavia, di essere più specifico.
In primo luogo, i suddetti due punti, la Decisione di finanza pubblica e il Patto di stabilità e crescita, sono formalmente distinti, ma sostanzialmente e politicamente connessi. Questa è la ragione della formula realistica e icastica con cui inizia la Decisione, che è la prima e l'ultima; la prima perché si tratta del primo atto in applicazione di una legge appena entrata in vigore, la legge n. 196 del 2009 di riforma della contabilità pubblica, l'ultima perché è in atto una discussione sugli strumenti di politica economica in Europa.
Per quanto riguarda i contenuti della Decisione concernenti l'economia italiana, rinvio al testo trasmesso al Parlamento, con la specifica che, con riferimento alla finanza pubblica, quasi tutto è definito in una logica triennale e che le previsioni che abbiamo formulato per il triennio, basate


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sui dati che sistematicamente riceviamo, da ultimi quelli trasmessi dall'ISTAT, ci assicurano la più assoluta conformità agli obiettivi.
Siamo, dunque, assolutamente in linea con gli obiettivi. È un processo che viene osservato costantemente in Italia, in Europa e in tutte le sedi internazionali; abbiamo, pertanto, ragione di ritenere che gli obiettivi stabiliti per l'anno 2010 saranno assolutamente centrati.
Naturalmente siamo aperti a una discussione anche su questi punti, però, ripeto, le linee di finanza pubblica contenute nella Decisione sono quelle definite nel documento esaminato nel marzo di quest'anno in Parlamento e approvato dalla Commissione europea lo scorso giugno, e incorporano, altresì, le misure recate dal decreto-legge n. 78 del 2010. Non vediamo e non prevediamo scostamenti rispetto agli obiettivi, con i quali siamo totalmente e assolutamente in linea.
Con riferimento agli aspetti di politica economica, che pure dovrebbero far parte della Decisione di finanza pubblica, abbiamo preferito non formulare particolari indicazioni al riguardo. Infatti, è piuttosto assurdo che adesso cominciamo a tratteggiare, per il nostro Paese, gli obiettivi di politica economica per il prossimo triennio, quando in Europa sta cambiando tutto il meccanismo di decisione.
La sessione di bilancio, che secondo il nuovo modello europeo può iniziare nei primi mesi dell'anno, prevede un processo di decisione fortemente diverso da quello tradizionale, pur rinnovato in Italia con la legge n. 196 del 2009. Si tratta di un processo sul quale credo che sia opportuno riflettere in questa sede, perché riguarda direttamente la funzione dei Parlamenti nazionali e, in particolare, di quello italiano.
Ciò non vuol dire che non ci sia bisogno di prendere decisioni di politica economica; all'opposto, vi è un fondamentale bisogno di tali decisioni, ma esse possono e devono essere formulate seriamente solo sul paradigma europeo e coerentemente con la nuova sessione di bilancio.
Vengo allo scenario nel quale ci troviamo. La crisi della Grecia ha portato il sistema dell'Eurozona, ma anche il coté politico dell'Europa sull'orlo dell'abisso nel secondo fine settimana dello scorso maggio. Da allora è iniziato un processo di reazione e ricostruzione.
La struttura dell'azione politica sviluppata, a partire dal verificarsi di tale crisi, in Europa con un crescente grado di coordinamento, e in previsione di scenari avversi che possono di nuovo manifestarsi in altre parti d'Europa diverse dalla Grecia, ma non in Italia, si configura come segue, prendendo la forma e l'azione di un quadrilatero.
Un lato è rappresentato dalla nuova politica della Banca centrale europea (BCE), una politica che riteniamo comunque conforme alla lettera e alla sostanza del trattato, nonché coerente con la missione costituzionale e istituzionale della BCE, ma un po' diversa rispetto a prima. Si tratta, cioè, di un'azione di più intensa difesa della nostra moneta.
Sarebbe inappropriato configurare l'attuale azione della BCE come simile a quella della Bank of England o della Federal Reserve, ma certamente la sua sarà un'azione di difesa della moneta non sperimentata prima e successiva alla svolta dall'Ecofin della metà del maggio scorso.
Il secondo punto di una linea è la costituzione di un fondo europeo. Preparando questo intervento, sono andato indietro nel tempo. Ricordo che il 9 ottobre del 2008, nel mio intervento nell'Aula della Camera per riferire sulla crisi, formulavamo la proposta di un fondo europeo, in una logica di prevenzione e azione comune che già in tale data ritenevamo strategicamente e politicamente migliore e più efficace rispetto a interventi specifici ed ex post.
Si delineava l'immagine, poi diventata piuttosto usuale, dell'estintore e della casa del vicino, con riferimento alla necessità di agire per fronteggiare insieme la situazione


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di crisi che coinvolge un singolo Paese, al fine di evitare che la crisi si propaghi anche in altri Paesi. Quell'ipotesi di fondo, formulata forse troppo presto nell'ottobre del 2008 e poi indicata in termini di discussione politica come un insuccesso dell'azione del Governo italiano, in realtà è stata realizzata nel maggio del 2010, esattamente con i criteri che suggerivamo allora.
I due punti, la BCE e la costituzione del fondo, entrambi con una funzione di difesa, integrano dunque una linea di difesa della nostra moneta da fattori esterni di instabilità che possono prendere la forma combinata della speculazione e della sfiducia, entrambe negative, la speculazione in quanto tale e la sfiducia forse ancora di più perché a volte, trainata dalla speculazione, porta a effetti di criticità potenzialmente rilevanti.
Il quadrilatero presenta un'altra linea, che si sviluppa tra altri due punti.
Il primo riguarda le nuove politiche di responsabilità che si attuano in Europa e il secondo la sessione di bilancio europea. Tali due punti sono parti di una linea coerente con quella di difesa dall'esterno, ma relativa alla disciplina interna.
Per quanto riguarda le nuove politiche europee, è evidente che in tutti i Paesi europei, da nord a sud e da est a ovest, si attuano politiche diversamente denominate, ma comunque definite in termini di rigore e di responsabilità sui bilanci pubblici.
Ciò deriva dall'evidente considerazione che l'Europa è un continente che produce più debito che ricchezza, più deficit che prodotto interno lordo, e che non può andare avanti così. La crisi, che non è una congiuntura negativa - questo forse è stato uno dei fattori che hanno deviato e alterato i termini della discussione politica - non si gestisce con strumenti anticongiunturali, ma con un cambiamento di paradigma e di sistema. Se dovessi usare una metafora per descrivere quanto accaduto, direi che la crisi ha segnato un colpo sul gong dell'Europa, decretando la fine delle rendite non formalmente, ma sostanzialmente coloniali che abbiamo avuto ancora dopo la fine delle colonie politiche.
Per decenni abbiamo, infatti, collocato i nostri prodotti e i nostri titoli dove volevamo e ai valori che volevamo, ma la globalizzazione e la crisi hanno totalmente modificato la geografia politica ed economica del mondo. Un cambiamento così forte non poteva che produrre effetti anche sulle strutture e sulle classi politiche di tutti i Paesi, compresa l'Europa, la quale non poteva restare fuori, e infatti è coinvolta.
In tutta Europa si attuano, dunque, politiche di rigore, mirate a ridurre i deficit e i debiti e a selezionare le voci di spesa. Naturalmente si tratta di politiche articolate e diverse a seconda delle strutture dei diversi Paesi, ma fondamentalmente comuni nella cifra politica della responsabilità.
Se posso svolgere una sintesi, è dappertutto diffusa e comune la consapevolezza che non ci può essere crescita senza stabilità dei conti. Su questo punto dobbiamo essere assolutamente chiari: non esiste una scelta tra rigore e crescita, perché l'uno tiene l'altra e viceversa. Il deficit non crea crescita, ma solo diseguaglianza e povertà per le generazioni presenti e future, il che modifica radicalmente il software politico applicato nei decenni passati. Non si tratta, dunque, di due quadranti indipendenti, ma di due termini dello stesso problema e della stessa soluzione.
La Decisione di finanza pubblica sintetizza le politiche di rigore attuate in Italia a partire dal giugno del 2008 con la prima manovra di finanza pubblica avente carattere triennale, sviluppate poi con successivi interventi e chiuse per quest'anno con la manovra di luglio. Ciò significa che presenteremo, in base alla legge n. 196 del 2009 di riforma della contabilità, una legge di stabilità - la vecchia legge finanziaria - esclusivamente tabellare, che recepisce i numeri del decreto-legge n. 78 e, naturalmente, i dati strutturali e fondamentali del bilancio in essere.


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Il quarto punto del quadrilatero è la sessione di bilancio. La logica seguita da allora con successivi interventi del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, della task force da esso incaricata, una struttura composta dai ministri del tesoro europei, della Commissione europea, dell'Eurogruppo e dell'Ecofin porta a un percorso in atto che si sviluppa come segue e che è appena iniziato, innescato dalla decisione dei Capi di Stato e di Governo.
Tutti gli estremi temporali possono essere lasciati agli atti, ma, in sintesi, è chiaro che, dopo la crisi della Grecia e in un contesto in cui è difficile affermare altro se non che siamo ancora in terra incognita, siamo in presenza di un continente geografico, di un mercato comune basato sul criterio della libertà di mercato, di una moneta comune e, quindi, non possiamo continuare con 27 politiche economiche diverse.
Il grado di coerenza delle politiche economiche deve crescere; non è sufficiente la strumentazione che abbiamo messo in campo finora, la quale, da una parte, è basata su una logica ex post, nel senso che si monitora se nei Paesi dell'Unione europea il rapporto tra deficit e prodotto interno lordo ha superato o meno il 3 per cento, ma solo successivamente piuttosto che in una fase precedente, anche se esiste una vigilanza.
Inoltre, non ci si può basare sulla Strategia di Lisbona, che, come è ormai opinione diffusa, trascende nella metafisica irrilevanza. Attualmente si può sempre sostenere che esiste la Strategia di Lisbona, ma ovunque in Europa, anche negli ambienti più profondamente europeisti, quali la Commissione europea, si è consapevoli che non è stata un successo.
Dobbiamo fare di più e in modo diverso; è questa la logica della «sessione di bilancio europea», la quale si sviluppa, per quanto ci è dato di sapere adesso, nei termini che seguono.
In primo luogo, entro la fine di ciascun anno e verso l'intervallo che va da gennaio ad aprile, tutti i Paesi devono presentare due documenti, diversi a seconda che siano Paesi che adottano o meno l'euro: lo Stability Program e il National Reform Program.
Bisogna lavorare su tali documenti già da questi giorni entro l'anno, in modo da presentarli nell'intervallo tra gennaio e aprile. L'agenda è sperimentale e non è ancora definita: può essere che si convenga su un'accelerazione nella presentazione di tali documenti, ma noi immaginiamo piuttosto realistica l'ipotesi di iniziare a predisporre tali documenti il prima possibile, con una sessione che si apre tra gennaio e a aprile, in modo da definire orientamenti di politica comune recepibili nei Parlamenti nazionali secondo una tempistica che vede, nella media, lo sviluppo delle sessioni di bilancio tra giugno-luglio e settembre-ottobre.
Per l'Italia riteniamo sufficiente e viene, in generale, ritenuto sufficiente quanto verrà definito in termini di Stability Program, vale a dire la dinamica dei conti pubblici.
Deve essere riscritta in tutti i Paesi, compresa l'Italia, nella diversa logica del coordinamento europeo la linea del National Reform Program. La sessione di bilancio europea significa il coordinamento delle politiche in sede comune europea, la presentazione di un documento nazionale, la discussione collettiva del documento di ciascun Paese, il contributo alla discussione e una funzione di controllo della Commissione ed eventualmente di altri partner europei.
Stiamo già iniziando esperimenti di questo tipo: in sede Ecofin esiste un processo di analisi di un Paese condotto insieme con la Commissione da altri due o tre Paesi. Siamo all'interno di questo processo come Paese attivo e anche come Paese controllato, consigliato e analizzato da altri Paesi. Si tratta di un processo che simula quella che dovrebbe essere poi, in uno scenario più organico, più ampio e meno sperimentale, la sessione di bilancio europea.
Devono essere, quindi, presentati in sede europea documenti nazionali, che vengono discussi in una logica di coerenza


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collettiva. L'obiettivo di un Paese può non coincidere con quello della comunità degli altri Paesi e, quindi, può essere richiesto a tale Paese di modificarlo in funzione di una regia e di una visione più collettiva.
Si potrebbe affermare che si tratta di una devoluzione di poteri costituzionali dal basso verso l'alto, dai Parlamenti nazionali a una sede comunitaria? Sì, ma credo che tale considerazione vada corretta tenendo conto che poi le decisioni vengono prese nei Parlamenti nazionali. Certamente è un trasferimento di funzioni, di dati, di comunicazione e di osservazione che ha una sua intensità politica e su cui c'è il consenso di tutti i Paesi.
Per quanto riguarda la possibilità di sviluppare, all'interno della sessione di bilancio europea, una diversa interpretazione del Patto di stabilità e crescita, occorre tenere conto che sul punto è in atto una complessa discussione, che è appena iniziata e vede diverse ipotesi a confronto.
La discussione è interessante, ma non occorre drammatizzare, perché stiamo parlando di un processo in atto, che dovrà essere vagliato dai vari Parlamenti nazionali, nella logica di codecisione, ed entrerà in funzione, se mai lo farà, a partire dal 2016, quindi fra cinque anni. Ciò non vuol dire che non ci sia una logica di impegno e di considerazione rispetto a tali argomenti.
Gli argomenti che il Governo italiano svilupperà nella sede della task force, dell'Ecofin, del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo e poi in successive discussioni di questi organi e che dovranno essere anche oggetto del lavoro del Parlamento europeo sono, in estrema sintesi, i seguenti.
Se andiamo ad analizzare i casi di crisi, vediamo che quella attuale è stata essenzialmente causata da una caduta delle strutture delle finanze private, vale a dire delle strutture bancarie, da attivi non esistenti o capaci di produrre effetti drammatici, da passività non allineate con le attività, da immobili sopravvalutati, da carte di credito utilizzate in una logica inappropriata e da tante altre fattispecie, tutte inerenti alla finanza privata, dalle banche alle assicurazioni, fino al deficit di risparmio compensato con l'illusione della plastica.
Se questa è l'origine della crisi, come abbiamo visto in tanti Paesi del nord, del centro, dell'est e dell'ovest dell'Europa, è chiaro un primo punto, ossia che il debito pubblico non è l'input, ma l'output delle crisi.
Non voglio essere frainteso: il debito pubblico è una grandezza che va fatta oggetto della massima considerazione possibile e rappresenta potenzialmente un fattore critico, ma l'esperienza di questi anni di crisi ci indica che essa non ha avuto origine dal debito pubblico, ma dalle strutture della finanza privata. L'effetto di crescita del debito pubblico è stato secondario e dovuto alla scelta di trasferire sul debito pubblico le criticità che si erano manifestate nel settore privato.
Se volete, dietro tale processo ci sono scelte politiche che a noi sono state risparmiate, perché non abbiamo dovuto compiere interventi di questo tipo. È evidente, però, che dietro questa scelta c'è stata quella di considerare sistemico tutto il settore bancario.
In altri tempi e in altri Paesi non è stato così: la crisi del 1929 in America è stata gestita salvando la parte industriale e commerciale delle banche e non quella speculativa, salvando le industrie e le famiglie. La gestione della crisi di questi tempi in America e in Europa, dove è stato necessario, ma non in Italia, risente della scelta di considerare sistemico tutto il sistema bancario, speculazione compresa.
Si tratta di una scelta politica, che però contiene certamente in sé l'idea di salvare nell'insieme la struttura della finanza, compresa la parte di speculazione. Non fu così e non poteva essere necessariamente così nel 1929.
Il secondo punto è che, se si va a vedere solo il debito pubblico, sul quale ricadono gli effetti della crisi, della caduta della finanza privata, si finisce per dare sempre la colpa ai Governi e liberare dalla colpa


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il sistema della finanza privata, alla quale vanno invece imputate le colpe degli effetti della crisi.
Il debito cresce a valle in tutta Europa non perché i Governi attuano politiche di deficit spending - alcune tentazioni sono permanenti anche solo nella logica degli stimoli ai consumi - ma fondamentalmente perché, come ripeto, è stata compiuta la scelta di salvare i sistemi bancari nel loro insieme, speculazione inclusa.
Esistono, quindi, problemi di debito pubblico e di attuazione delle politiche da parte dei Governi, ma l'ossessione per il debito pubblico non deve essere la ragione di assoluzione delle vere cause della crisi, che sono radicate nella struttura della finanza privata.
Ripeto che i debiti pubblici sono una grandezza fondamentale di riferimento, ma che non possono essere l'unica.
Illustro l'altro argomento che noi facciamo valere. Da più parti si afferma che è fondamentale introdurre una regolamentazione del mercato finanziario. È giusto e fondamentale e, infatti, l'Europa sta predisponendo una nuova regolamentazione di controllo e di limite alla finanza.
Ciò significa che la finanza è importante e strategica e che va controllata. Non si può controllare, però, solo la finanza pubblica, ma si deve controllare anche quella privata e l'ipotesi che noi stiamo sviluppando, e che già comincia a trovare forte considerazione anche nei documenti ufficiali, dati l'origine della crisi e il suo possibile sviluppo, è quella di mettere sotto osservazione, con tutto l'apparato possibile di regole ex ante ed ex post, non solo l'insieme della finanza pubblica, ma anche quello della finanza privata.
La categoria che noi vogliamo sia introdotta e che è stata introdotta con la formula di other factors, riguarda il fatto che la sostenibilità di un sistema non è data solo dalla sostenibilità delle finanze pubbliche, ma anche da un insieme più vasto.
Sulle finanze pubbliche, peraltro, va considerata la proiezione futura della prevedibile spesa pensionistica o per welfare. In merito possiamo confermare che le considerazioni, i calcoli e le proiezioni relative all'Italia sono assolutamente confortevoli e migliori rispetto a quelli di tanti altri Paesi, i quali naturalmente noi vorremmo, nell'interesse comune, che fossero nella nostra posizione, mentre non vorremmo essere nella loro.
Va, inoltre, considerato l'altro lato della finanza privata, ovvero il quantum di risparmio, il quantum di patrimonio, la struttura complessiva dei sistemi bancari e finanziari.
Porto un esempio: esistono Paesi che hanno un basso debito, ma non hanno risparmio, Paesi che hanno un basso debito pubblico, ma un altissimo debito privato, Paesi che hanno strutture bancarie francamente meno solide della nostra.
La nostra posizione non è di difesa dell'Italia, come forse qualcuno con una mentalità da provinciale può pensare, ma è una posizione che riteniamo corrisponda al bene e all'interesse comune. Se si vuole valutare seriamente la sostenibilità di un sistema, si deve guardare tutto e non solo una parte. Se si guardano solo le finanze pubbliche come se fossero l'epitome, il principio e la fine di tutto, si sbaglia, perché le lezioni che vengono dalla crisi, da ultimo da un Paese del nord posizionato nell'Atlantico, ci mostrano che tutto è causa di quella crisi tranne il debito pubblico, che di tutto è colpevole tranne che della crisi.
Se nel suddetto Paese il deficit annuale è del 30 per cento ed è in crescita, non è perché il suo Governo ha compiuto politiche di deficit spending - forse ne ha compiute un po' perché con la crisi ha aumentato i sussidi - ma fondamentalmente perché la crisi è venuta dal lato della finanza bancaria.
Questo non ci sembra un discorso privo di senso; è un discorso che noi riteniamo, invece, profondamente sensato e che si sta sviluppando e configurando. Cominciamo a riscuotere consenso e considerazione in molte sedi e in molte forme e già nel documento della Commissione europea, che è una bozza che poi deve passare alla


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task force, la quale riferirà all'Ecofin, all'Eurogruppo e ai Capi di Stato e di Governo, esiste un catalogo di fattori che vengono considerati importanti e da ponderare insieme al debito pubblico. Si tratta degli squilibri commerciali, delle riserve, delle riforme delle pensioni, del risparmio, dello stock di patrimonio, della funzionalità complessiva del sistema. Non si può prendere una parte e non il tutto; si deve prendere il tutto, compresa anche la parte del debito pubblico.
In questi termini, che dovranno essere considerati progressivamente quando prenderà forma, entro il 2016, e solo a partire da tale anno, la nuova versione del Patto di stabilità e crescita, abbiamo ragione di ritenere che la posizione dell'Italia sia straordinariamente confortevole.
Peraltro, se si afferma che il debito pubblico è importante, invitiamo a consolidare nel debito pubblico il bilancio di tutte le società veicolo pubbliche, che in molti Paesi sono gestite fuori bilancio. Tali società veicolo, per una vecchia convenzione, sono lasciate fuori dai bilanci pubblici, ma per struttura economica devono esservi incluse. Prendendole in considerazione, credo che nel club del 100 per cento arrivino molti grandi Paesi europei, il che già modifica i termini della questione. Si tratta di Paesi che magari hanno strutture di patrimonio e di risparmio o strutture bancarie più deboli, e non più forti, delle nostre.
Noi sosteniamo, pertanto, che il debito pubblico va considerato nel suo livello e nella sua dinamica; queste parole sono scritte nei documenti di finanza pubblica. Occorre vedere quanto cresce repentinamente. Il debito pubblico italiano è cresciuto solo perché è diminuito il prodotto interno lordo, non perché abbiamo compiuto politiche di spesa pubblica; infatti, la dinamica di crescita del debito pubblico italiano è assolutamente diversa e molto meno infelice rispetto a quella di altri Paesi e credo che i rapporti che verranno prodotti a breve dal Fondo monetario internazionale lo confermeranno.
Occorre, dunque, tenere conto del debito pubblico, del suo livello, della sua dinamica e delle cause che ne determinano la crescita e consolidare il tutto, comprese tutte le società veicolo pubbliche fuori bilancio. È facile affermare che il debito pubblico è composto solo dalla struttura pubblica, lasciando poi fuori società veicolo enormi che in questo periodo hanno accumulato ulteriore debito. Tutto va considerato insieme.
La media europea del rapporto tra debito e prodotto interno lordo è già salita - credo - al 90 per cento e salirà ulteriormente con questo giusto esercizio di consolidamento.
Guardiamo poi tutti gli altri fattori, non nell'interesse dell'Italia, ma del sistema, perché non è ragionevole considerare una sola grandezza come se fosse la causa di tutto.
Vi illustro quanto cerco di far comprendere ai miei colleghi dell'Eurogruppo, di cui faccio parte dal 2001. Ricordo che tutti guardavamo l'arrivo del nemico, il debito pubblico, dalla porta. La crisi, invece, è venuta dalla finestra, alle spalle, dal sistema privato.
La discussione si sta sviluppando in questi termini. Noi riteniamo che la posizione del nostro Paese sia estremamente ragionevole e siamo convinti che essa si svilupperà ulteriormente. Il processo è in atto e, come ho ricordato, riguarda più o meno tutte le logiche di tanti Paesi. Naturalmente sarà decisivo anche il ruolo del Parlamento europeo, che in questo processo riveste una funzione di codecisione.
Nell'insieme, noi riteniamo che lo scenario sia questo, ma siamo nel 2010, se non sbaglio, e dobbiamo gestire la finanza e l'economia per gli anni 2011, 2012, 2013, nella logica del triennio. Quella di finanza pubblica è definita nel documento che è oggetto di discussione.
Come dovremmo sviluppare il National Reform Program? Stiamo cominciando a lavorare e a stabilire contatti con le parti sociali e con le forze economiche. Non ho il ruolo di suggerire metodi di lavoro in Parlamento, ma sarebbe molto importante


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se anche in tale sede si avviasse una discussione su questa agenda, che dobbiamo scrivere per punti, con la specifica che essa deve essere coerente con lo Stability Program.
Dovrebbe essere, inoltre, un documento scritto in inglese, non per snobismo linguistico, ma perché il programma deve essere preciso e non può essere il tipico vecchio documento contenente vaghe intenzioni. Troppo spesso nel nostro Paese i documenti di area economica sono scritti senza numeri o hanno come unico numero quello delle pagine. Il documento dovrebbe essere scritto seriamente, con numeri che si parlano tra finanza pubblica e privata. Non sarebbe credibile un documento che inventasse le coperture, perché non passerebbe e sarebbe, anzi, un elemento negativo per il nostro Paese. Va redatto, dunque, un documento serio sullo sviluppo.
Quale potrebbe esserne la traccia? Il primo punto, non nell'ordine politico o della rilevanza, è il nucleare.
Tutti i Paesi industriali - noi siamo la seconda manifattura d'Europa e la prima pro capite - vivono un drammatico problema di energia. Quando siamo accusati di crescere meno di altri Paesi, ci si dimentica il fatto che il nostro prodotto interno lordo è calcolato tenendo conto di quanto paghiamo di import sull'energia. È difficile avere in Italia gli stessi numeri di un Paese che possiede l'energia, che sia data dal carbone o dall'energia nucleare.
Si può anche affermare che sia meglio avere i mulini a vento, ma poi non si può reclamare di avere un prodotto interno lordo inferiore ad altri Paesi, perché senza tali forme di energia il PIL è naturalmente, in natura rerum, un po' più basso.
Il secondo punto è la dimensione delle imprese. L'osservazione che ci viene dall'esperienza e dalla visione attuale è che nel nuovo mondo, nella competizione globale, la competizione è tra giganti. La straordinaria performance dell'export tedesco deriva dal fatto che si tratta di giganti che trattano con giganti. La Germania ha dieci grandi complessi industriali e tratta da gigante con altri giganti. In Cina si recano dieci giganti tedeschi, anche bancari.
Da noi la situazione è un po' più complicata, perché la massa del nostro PIL è composta da imprese più piccole, di dimensione più ridotta, che hanno comunque una straordinaria vitalità e che si stanno orientando verso mercati diversi e più connaturati alla loro dimensione. Oggettivamente, però, esiste per noi, ed è strutturale, un problema dimensionale delle imprese.
Il Governo ha tentato di attuare una strategia, che però va sviluppata, configurando normativamente il sistema delle reti di impresa, in modo che, ferma l'identità delle imprese, ci sia una maggiore unità. È partito il grande fondo pubblico e privato di sostegno alla media impresa, dal quale ci attendiamo risultati sostanziali. È appena stato approvato dalla Banca d'Italia.
Credo anche che dovremmo intervenire per riorganizzare la rete dell'assistenza alle imprese italiane all'estero. Siamo piccoli all'interno e un po' confusi all'estero. Se razionalizziamo - è una decisione che va presa in sede politica - ciò è sicuramente positivo.
L'altro punto riguarda le regole. La competizione non è più solo tra giganti, ma anche tra giganti disuguali, e noi, come arcipelago Europa, competiamo con sistemi che hanno apparati istituzionali diversi dal nostro. Il quantum di regole che continuiamo ad approvare è eccessivo e non competitivo; dobbiamo svolgere, quindi, un serio ragionamento sulle regole. Ciò non significa selvaggia deregulation, ma razionalizzazione delle regole.
Porto un esempio: le opere pubbliche in Italia sono ferme perché nel sistema delle riserve vincono le imprese che hanno non più ingegneri, ma più avvocati e le opere compensative sulle opere pubbliche sono un bancomat per cui se un sindaco non chiede almeno tre rondò e tre palestre, significa che non conta nulla.
Occorrono anche regole specifiche interne, ma fondamentalmente il grande obiettivo, credo in tutta Europa, è


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less regulation e better regulation. Io direi anche stop regulation. L'obiettivo è quello di ridurre il carico delle regole. Le regole necessarie sono un investimento, quelle addizionali sulle piccole questioni sono oggettivamente un costo che non possiamo più permetterci. La battaglia per il diritto è fondamentale per lo sviluppo.
Vi è poi la grande questione meridionale. Siamo un Paese duale, in cui il centro-nord dell'Italia conta 40 milioni di abitanti, più o meno quanto un medio Paese europeo quali la Polonia o la Spagna. In quest'area del Paese vi è un livello di produttività e di ricchezza probabilmente superiore alla media europea. Anche per dar conto della realtà, ritengo che sia impossibile avere strutturato per tanti anni questo livello di ricchezza senza avere doti di produttività, idonee università e capacità di competere.
Il problema non è solo di investire, certo anche nel centro-nord occorre investire, ma è fondamentalmente dato dal fatto che 20 milioni di italiani vivono in una condizione diversa, con un livello di ricchezza che non cresce ed è inadeguato e non per colpa di un singolo Governo. Trovo sempre di straordinario rilievo gli scritti del professor Nicola Rossi su questo tema, caratterizzati da grande onestà intellettuale.
È proprio il tipo di politica che non funziona e deve essere cambiato. La spesa non può più essere decisa dalla periferia verso il centro, dal piccolo ente verso il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), ma deve essere decisa e concentrata dal centro sulle grandi opere. Lo Stato deve realizzare le opere pubbliche e garantire la sicurezza; non può fare un po' di tutto e male.
Ciò pone in gioco la questione delle regioni. La questione meridionale non è la somma degli interessi delle regioni meridionali, ma è una questione nazionale.
Stiamo costruendo la Banca per il sud, con le complessità tipiche della struttura di un sistema bancario, stiamo lavorando con grande impegno con la Società Poste italiane SpA e con le Banche di credito cooperativo e stiamo cercando di realizzare quanto non è stato realizzato finora, cioè ricostruire un sistema bancario.
Dobbiamo realizzare le opere fondamentali. Non è un problema di fondi. Qualcuno sostiene che il Fondo per le aree sottoutilizzate è stato usato come un bancomat: lo si può affermare, ma non è così, perché a me non risulta che Napoli o L'Aquila siano nel nord dell'Italia. La parte non utilizzata dei fondi per il Meridione è ampiamente sufficiente per ripartire le risorse concentrando le energie su grandi opere per il sud.
Un'iniziativa che stiamo studiando con i ministri competenti è mirata a investire più che possiamo - e possiamo - sulla scuola. Se c'è un punto fondamentale su cui investire il capitale umano è proprio questo. Stiamo studiando un sistema per ricostruire, in una parte iniziale e simbolica, il sistema dell'istruzione, per esempio attraverso borse di studio, tanto per gli scolari e per gli studenti, quanto per gli insegnanti.
Se esistono un capitale e una prospettiva nel Mezzogiorno, questi sono la scuola e l'educazione. Dobbiamo costruire le strade e le scuole ed è quello che stiamo facendo.
Possiamo chiedere all'Europa deroghe, e lo stiamo facendo, per le zone franche, per aree a bassa fiscalità e a bassa regolamentazione, eccezioni rispetto a regole europee pervasive. Speriamo di ottenere eccezioni su tutti questi punti.
Vorremmo, inoltre, detassare o costituire voucher per le imprese che svolgono ricerca nelle università, come in Inghilterra. Stiamo studiando quel modello.
Credo che sull'agenda per lo sviluppo ci sia spazio per una discussione che vada oltre i punti che ho sommariamente tratteggiato in modo incompleto e che dovrebbe e potrebbe vederci impegnati insieme nei prossimi mesi. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie, Ministro Tremonti.
Procediamo nel modo seguente: inizialmente darei la parola a un rappresentante per ogni gruppo, partendo ovviamente dai


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capigruppo, cui chiedo la disponibilità. Successivamente potrebbero intervenire coloro che rimanessero eventualmente esclusi in questa prima fase.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

PIER PAOLO BARETTA. Signor Ministro, tutto il ragionamento che ci apprestiamo a svolgere è basato su un assunto, ossia che noi stiamo discutendo su un documento, che approveremo mercoledì prossimo in Aula, sostanzialmente inutile, perché superato da due eventi, uno di carattere politico e l'altro di carattere istituzionale. Quello politico è dato dal fatto che praticamente tutti gli interventi del Governo sono stati già realizzati nella manovra di luglio, tanto che prevedete una legge di stabilità composta dalle sole tabelle. Quello istituzionale consiste nella presa d'atto che le regole europee superano di fatto la pregnanza della Decisione di finanza pubblica.
Francamente, è confutabile che tutto sia stato risolto, come potrebbe sembrare nella discussione che stiamo tenendo. Essendo questo il Parlamento della Repubblica e non un convegno di giovani studenti, forse avremmo bisogno di sapere quali sono le linee con le quali il Governo italiano interviene nella attuale situazione economica del Paese, che non ci sembra francamente brillante.
Abbiamo dati di crescita complicati. Nella Decisione di finanza pubblica voi avete previsto un leggero incremento della crescita, dello 0,2 per cento per il 2010 rispetto al dato contenuto nella Relazione unificata sull'economia e la finanza pubblica (RUEF), ma prevedete, anche, un calo della crescita stessa dello 0,2 per cento per ciascuno degli anni 2011 e 2012, essendo state riviste le relative previsioni dall'1,5 per cento all'1,3 per cento.
In relazione ai dati delle entrate, prevedete anche voi una riduzione del gettito, una situazione quindi problematica.
Disponiamo, inoltre, dei dati delle spese. Non voglio dilungarmi coi numeri, ma mi chiedo quanti dei tagli apportati alle spese siano strutturali e possano venire a conforto degli interventi appena illustrati, per esempio in riferimento alla scuola, ma anche quanti, invece, non sono affatto strutturali e comporteranno, pertanto, il cosiddetto «effetto rimbalzo». Penso, per esempio, ai tagli sugli stipendi del pubblico impiego.
Abbiamo i dati sul reddito delle persone e delle famiglie, i dati sull'occupazione, sui consumi e sulla produzione industriale.
Non voglio sostenere che il Paese non abbia le possibilità di uscire dalla crisi; le ha e deve esercitarle tutte. Ci sono qua e là timidi segnali di ripresa, ma a me pare che il quadro nel quale stiamo dibattendoci rischi di essere probabilmente recessivo in assenza di interventi efficaci. Non mi sembra che, con la previsione di una legge di stabilità di fatto priva di novità, siamo in condizioni di affermare che ci sia una politica economica del Governo.
Passo al secondo elemento. È vero che l'Europa sta cambiando le regole del gioco e che sicuramente una revisione della legge n. 196 del 2009 andrà compiuta, pur essendo stata appena emanata. Ciò non dipende dal fatto che tale legge rappresenti una cattiva riforma delle norme di contabilità nazionale; è una buona riforma, ma che impatta oggi su un quadro nuovo e più ampio in materia di procedure di bilancio.
Le regole europee, però, sono di due ordini. Il primo è relativo alle questioni della governance. Francamente, credo che occorra svolgere una discussione sulle conseguenze di queste scelte di governance sul nostro Paese, che mi sembrano un po' più problematiche di come ci viene prospettato, ossia con una sostanziale assenza di conseguenze.
La sola regola che fissa il limite del 60 per cento del rapporto fra debito e prodotto interno lordo, dentro la quale rientrano quasi tutti i Paesi, rende obbligata una riduzione del disavanzo indipendentemente dalle condizioni economiche. Questa regola comporta effetti diversi a seconda delle condizioni obiettive dei Paesi


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e mi chiedo che conseguenze possa avere per il nostro, che sta faticosamente cercando di uscire dalla crisi, come tutti, ma che presenta problemi anche particolarmente complessi.
Non c'è dubbio, inoltre, che una linea esclusivamente di sanzioni e non di incentivi finisca per accentuare tale aspetto.
Oltre alle questioni della governance, che presentano gli effetti descritti, si pone quella del semestre europeo. Ritengo sufficiente constatare il fatto che l'Europa ci indichi che il primo semestre è quello del 2011 per mettermi nell'ottica che siamo di fronte a un cambio di scenario, tanto che esiste uno scadenzario di interventi già previsti per i mesi da gennaio ad aprile 2011, all'interno del quale noi dobbiamo attenerci ad alcuni adempimenti per affrontare il confronto con l'Europa. Non credo che ne siamo esentati; non ne vedo i motivi e non vedo come potremmo esserlo.
Per andare al nodo centrale della questione, poiché mi pare che, anche in base al ragionamento che lei ha sviluppato, effettivamente siamo di fronte a un quadro che si sta modificando rapidamente, anche in relazione al rapporto con l'Europa, le chiederei che ci concentrassimo su questo aspetto e che quindi, prima del 12 novembre prossimo, termine entro il quale voi dovrete presentare all'Europa le linee di riferimento dell'azione del Governo che poi porteranno allo scadenzario stabilito per i primi mesi del 2011, si tenga una discussione in Parlamento.
Visto che la decisione di finanza pubblica, come è stato rilevato, è superata, e che, per quanto concerne gli interventi di politica economica, valgono gli interventi contenuti nel decreto-legge n. 78, propongo di concentrarci sulla nuova dinamica dei rapporti con l'Europa.
Dal momento che voi dovete presentare entro la scadenza che ho citato un documento che definisce le linee di azione del Governo italiano, vorrei che il Parlamento sia messo nelle condizioni, come lo è oggi, di svolgere una discussione su tali linee. Ovviamente chiedo che essa venga tenuta prima della trasmissione di tale documento ai competenti organi comunitari, in maniera tale che le Commissioni bilancio e il Parlamento in generale entrino nel merito delle linee che il Governo italiano presenterà all'Europa per tempo.
Ciò potrebbe anche ristabilire, signor Ministro, un rapporto di normalità col Parlamento. Abbiamo dolorosamente assistito ad alcune leggerezze nella gestione dei rapporti col Parlamento. Gliene cito due per non farla lunga.
In primo luogo, la legge n. 196 prevedeva che entro il 15 settembre la decisione di finanza pubblica dovesse essere presentata e ciò non è avvenuto. Non abbiamo polemizzato e abbiamo chiesto che fossero rispettati i tempi, ma resta il fatto che si tratta di un vulnus.
Il secondo caso, forse più serio, è che, mentre la legge n. 196 prevedeva che insieme alla decisione venisse presentato l'allegato infrastrutture, esso non è stato presentato, ma oggi ne abbiamo letto i dettagli nel più importante quotidiano economico nazionale.
Lei si rende conto che il mancato rispetto delle regole crea strappi nei rapporti che stiamo cercando di mantenere tra il Parlamento e il Governo ed è per questo che, pur sottolineandole tali comportamenti da parte del Governo nei confronti del Parlamento, rivolgo totalmente l'attenzione alla prossima discussione, che le chiedo venga tenuta in tempi brevi. Voi dovrete presentare entro il 15 di ottobre prossimo la legge di stabilità, che, per le ragioni che avete spiegato, sarà composta da pochi interventi, mentre la vera partita si giocherà, a questo punto, sulle linee di indirizzo della politica economica dell'Italia che presenterete all'Europa.

PRESIDENTE. Adottiamo il metodo di domanda e risposta, che mi sembra il più efficace.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Onorevole Baretta, nell'incipit il suo intervento era basato su un artificio retorico per il quale avrei


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sostenuto che tutto è risolto. Non ho affatto affermato ciò. Parliamo, dunque, di ciò che ho detto io e di ciò che ha detto lei.
Questo non è il tempo né la sede per una discussione retrospettiva su quali erano le politiche non recessive ma di stimolo suggerite e su quali sarebbero stati gli effetti se alcune proposte fossero davvero state attuate in via legislativa in questi anni.
Credo, personalmente, che avremmo avuto effetti più negativi che positivi. Sta ora emergendo l'impressione netta che tutte le politiche di stimolo che venivano chieste non avrebbero dato buoni risultati. La parola stimolo è già in sé pittoresca, perché un conto sono le politiche keynesiane, un altro gli stimoli ai consumi, eppure tanti hanno chiesto stimoli ai consumi e alla domanda, suggerendo, ad esempio, di detassare le tredicesime.
Tutto ciò era il prodotto di una visione congiunturale, ma la situazione attuale non è tanto una congiuntura avversa, quanto un fenomeno diverso. Non è questo il luogo e la sede per andare indietro e compiere un'analisi di ciò che qualcuno ha proposto e se sia stato meglio non attuare tali proposte in questi anni.
Vediamo la situazione da adesso in avanti. Lei parla del limite del 60 per cento del rapporto tra debito e prodotto interno lordo e torna sul discorso del debito. Le espongo la situazione in termini diversi da come ho cercato di fare prima. Se si legge il trattato di Maastricht, che è alla base del Patto di stabilità e crescita, si vede che vi è un numero per il deficit e una formula diversa, semantica e non numerica, per il debito. Per il deficit è scritto «3 per cento», mentre per il debito «at a satisfactory pace», con una formula diversa e più ampia, diversa dalla fissità di un numero.
Un altro punto, se vuole un po' giuridico, ma comunque di peso, è che ubi lex voluit, dixit. Se nel trattato di Maastricht è indicato il «3 per cento» per il deficit e non per il debito, è inappropriato far rientrare dalla finestra ciò che è stato escluso dalla porta.
Chi chiede la regola del «3 per cento» anche in relazione al debito deve tenere conto di questo dato e devo farlo considerando che a quella correzione si arriva se non si passa un altro esame, ossia quello del debito, ma anche di tutti gli altri fattori. Si tratta della strategia che abbiamo seguito e proposto e che ci sembra che alla fine verrà applicata; non è automatico che, nel caso in cui il debito superi la percentuale del 60 per cento del prodotto interno lordo, si debbano automaticamente introdurre le correzioni indicate.
Mi permetto di ricordare ancora che le correzioni scatterebbero dal 2016, ma anche in tale data esse si applicheranno se non saranno soddisfatti gli altri criteri. In caso contrario, ciò non avverrà, essendo sufficiente una riduzione satisfactory del debito e il percorso sul deficit.
Gli altri sono, come ripeto, fattori che giocano tutti in senso positivo per l'Italia. Il trattato di Maastricht pone un numero per il deficit e una formula non numeraria per il debito. Non chiediamo di includere nella formula elementi quali l'arte, la scienza, l'ambiente o fattori estetici, ma altri numeri e non solo un numero.
Siamo stati anche un po' depistati dal fatto che, a un dato punto, si è affermato che l'Italia vuole considerare il debito privato degli altri Paesi. Noi vogliamo considerare anche il debito privato, ma soprattutto il risparmio, il patrimonio, la strutturalità del sistema bancario, le pensioni, le riserve, gli sbilanci della bilancia commerciale. Tutti questi fattori ci portano a prevedere che lo scenario che andrà in discussione nel 2016 non sarà negativo per l'Italia; le nostre considerazioni saranno utili per tutta Europa, quindi anche per gli altri Paesi, altrimenti non si è capito la vera lezione che ci impartisce la crisi.
In merito alle politiche di sviluppo, per essere molto franchi, in Europa si confrontano due modelli e due idee. C'è il modello «tedesco», per usare un termine


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inappropriato, rappresentato da un modello di export-led, per il quale lo sviluppo si realizza con l'export. Ciò comporta che alcuni Paesi sembrano in realtà due, perché la parte legata all'export va bene, mentre quella che non si basa su di esso è ferma.
Noi portiamo avanti l'idea dello sviluppo basato anche sulla domanda pubblica per investimenti, ossia degli eurobond. Mi permetto di ricordare che durante il semestre italiano di Presidenza dell'Unione europea, nel 2003, siamo stati i primi a riproporli, mentre altri ne parlavano in forma letteraria e non politica. Il primo atto politico di richiesta di eurobond è stato attuato dal Governo italiano nel 2003, in sede di presidenza europea.
Si è registrato poi un crescente consenso. Il Governo italiano nel settembre del 2008 ha proposto la costituzione del fondo Margherita, con il contributo delle Casse depositi e prestiti dei vari Paesi europei, al fine di prefigurare un nucleo potenziale di eurobond. Abbiamo proposto il fondo europeo, che di fatto potrebbe rappresentare tale nucleo.
Si tratta di un cammino complesso e lungo, che pone in gioco una dialettica politica fondamentale. Che cosa si può chiedere e proporre, a questo punto, superando molti ostacoli, al Parlamento europeo? La risposta sono gli eurobond, vale a dire la domanda pubblica per investimenti europei in infrastrutture, difesa e in tutti settori che hanno una leva economica molto forte e creano anche identità del continente.
Se la domanda è come promuovere lo sviluppo su scala europea, noi siamo, come credo anche molti di voi, su questa linea. Non basta un Paese; l'Unione europea è costituita da 27 Paesi. Non basta un'idea, ne occorre una condivisa. In Europa si confrontano modelli, culture e storie diverse da un Paese all'altro.
Se posso rubarvi un minuto, se prendiamo in considerazione gli Stati uniti d'America, ci rendiamo conto che gli Stati americani rappresentano certamente entità politiche rispettabili - quali Texas, Wyoming, Massachusetts - ma se poi prendiamo in considerazione l'Europa, vediamo che dietro ciascuno dei nomi dei vari Paesi che la compongono, si trovano secoli di storia e di letteratura distinti per ognuno di essi; vi sono Paesi che sono stati imperi. È difficile combinare insieme Paesi con una propria identità.
Un Paese può essere importante e avere alcune idee, che però funzionano se sono condivise. L'idea degli eurobond, una riedizione del vecchio piano Delors morta e ripresa nel 2003, sta ripartendo. Ne ha parlato il Presidente della Commissione europea Barroso, ma non è facile attuarla. Chiedetelo all'ex Presidente della Commissione europea Prodi, per la sua esperienza.
Il fondo Margherita è partito improvvisamente. Non pensavamo che un'idea lanciata in Europa in settembre fosse approvata in dicembre e ora sta cominciando a funzionare.
Per quanto riguarda l'Italia, credo davvero - l'ho affermato e lo ripeto - che dobbiamo lavorare insieme sull'agenda rappresentata dal National Reform Program. Ho letto in merito all'esperimento messo in atto ieri con le forze economiche e sociali, anche se ancora non ne conosco i contenuti specifici. Come metodo di lavoro è stato straordinariamente efficace.
Si può affermare che un'iniziativa sia prioritaria rispetto all'altra, però si tratta di un metodo molto serio e già rientrante nel «software europeo». Per esempio, un aspetto che a me sembra importante è la specifica attenzione ai numeri, non una discussione a vanvera o a caso, ma definita dalla concreta e oggettiva fattibilità delle politiche da realizzare. Se anche ci si mettesse d'accordo in Italia su un'iniziativa non fattibile, gli altri Paesi comunque la bloccherebbero.
Il sistema europeo è anche un sistema competitivo; non ci sono solo partner che vedono con grande favore lo sviluppo competitivo di un Paese. A volte si ha l'impressione che ci sia competizione anche


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nella struttura europea, e, quindi, un grado di severità che a volte è oggettivo e a volte è motivato da competitività.
Se il Parlamento istituisce una sessione specifica sulle riforme coerenti con lo Stability Program, che è già definito e al quale non ci sono alternative, nonché con i numeri di finanza pubblica, credo che ciò sia nell'interesse del Governo, del Parlamento e del Paese.

ANTONIO BORGHESI. Signor Ministro, condivido assolutamente l'idea che questa sia una crisi strutturale, mondiale e paradigmatica, che ha spostato l'asse economico dall'Atlantico al Pacifico, però, di fronte a ciò, non possiamo accettare che il Governo non ci dia una prospettiva di intervento per modificare previsioni che sono, francamente, molto povere e limitate.
Il nostro è un Paese che non solo non è cresciuto negli ultimi 15 anni, ma che, per vostra ammissione, non è in grado di crescere nei prossimi. Sembra quasi che siamo in attesa che accada qualcosa, senza però che ci sia un progetto del Governo perché la situazione si modifichi.
Credo che esista una strada principale di intervento, che è rappresentata dalla diminuzione delle tasse, sia ai contribuenti persone fisiche, perché evidentemente ciò stimolerebbe il circuito della domanda interna, sia, verso l'esterno, alle imprese, essendo l'unico modo che conosco perché esse riprendano a investire e ricreino occupazione.
Immagino già la domanda che potrebbe essere formulata rispetto a tali proposte: come facciamo e dove prendiamo i quattrini? Ci sono alcune idee, ma occorre il coraggio politico per attuarle; per esempio, si potrebbero abolire le province. Potrebbe essere una misura.
Occorre il coraggio politico di prevedere un blocco vero e reale all'utilizzo delle cosiddette «auto blu», non le misure adottate dal Ministro Brunetta. Si potrebbero risparmiare diversi miliardi di euro ogni anno.
Occorre considerare l'idea che forse la tassazione del 12,50 per cento per le rendite speculative è insufficiente e va adeguata al resto d'Europa, naturalmente non per i titoli pubblici.
Occorre progredire nell'idea di una lotta all'evasione fiscale, per esempio ai paradisi fiscali. In merito, osservo che l'Italia è l'unico Paese che non ha stipulato accordi bilaterali con i Paesi considerati paradisi fiscali in uscita dalla black list, con conseguenze che, a mio giudizio, possono essere discutibili per la lotta all'evasione del nostro Paese.
Perché, signor Ministro, non esiste un progetto, che può anche contenere le misure che ho descritto o uno alternativo, ma esiste solo l'idea che per far crescere, ma chissà quando, il Paese occorre basarsi semplicemente sul controllo della spesa?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Ci sarebbero tante considerazioni da svolgere, ma mi attengo allo specifico.
Lei identifica come fonte di copertura per una drastica riduzione delle imposte la soppressione delle province e delle «auto blu». Sono molto interessato a tutti questi argomenti.
In base ai dati che abbiamo, ferma la tempistica di queste mutazioni istituzionali, il risparmio derivante dalla soppressione delle province non sarebbe enorme. Per inciso, esse figurano nella Costituzione e, quindi, non si tratterebbe solo di sopprimere le province, ma di modificare la Costituzione.
Se lei vuole agire a Costituzione invariata - mi pare che ci sia la parola province nella Costituzione, ma forse è un mio errore - dovrebbe concentrare...

ANTONIO BORGHESI. Signor Ministro, la loro soppressione mediante una modifica costituzionale era già prevista in un provvedimento legislativo iscritto all'ordine del giorno dell'Aula.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Non voglio difendere le province, però mi limito a ricordare che figurano nella Costituzione.


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A lei è capitata l'avventura umana di percorrere una strada provinciale? Se anche vengono soppresse le province, non vengono eliminati i costi delle strade e delle scuole. Le ricordo che l'assetto storico di questo Paese, che compie 150 anni, prevede che le competenze relative alle scuole di grado inferiore spettino ai comuni, quelle relative alle scuole superiori spettino alle Province, quelle in merito alle strade vicinali spettino ai comuni.
Se si sopprimono le province, non si eliminano le strade o le scuole e, quindi, il risparmio che ne deriva, secondo me, non supera 100 o 200 milioni di euro. Non mi sottraggo, però, al suo rilievo che, dal lato simbolico e qualitativo, ha un valore. Stiamo parlando, però, di messaggi politici e non di numeri economici. Una riforma fiscale e sostanziale postula cifre molto superiori e tempi diversi.
Per quanto riguarda le «auto blu», lei ha assolutamente ragione nel condannarne l'abuso, ma non si risparmiano numerosi miliardi di euro. Anche quello è un fatto simbolico. Se, però, lei esegue conti diversi sul valore d'uso, il leasing e il costo annuale delle «auto blu», sarei essenzialmente interessato. Per province e «auto blu» restiamo in attesa di documentazioni e riflessioni.
Sono convinto che vadano ridotte e che comportino un costo che può risultare insopportabile per i cittadini, ma la riduzione rappresenta un fatto politico e simbolico e non un fatto economico rilevante, purtroppo, altrimenti la soluzione sarebbe semplice. Province e «auto blu» vanno sicuramente ridotte o soppresse, o comunque occorre cercare di ottenere dei risparmi nella loro gestione, e, in relazione alle «auto blu», anche contingentate, ma da tali interventi non si ricavano, purtroppo, numerosi miliardi di euro.
Un punto tecnico interessante è quello dei paradisi fiscali. Non stipuliamo trattati con i Paesi che rappresentano dei paradisi fiscali perché nessun Paese serio lo fa. Dalla Corea, dove si sta preparando il prossimo G 20, giunge la condanna nei confronti di moltissimi di questi Paesi e l'invito a definire un meccanismo assimilabile a una sorta di «cordone sanitario». Se lei legittima questi Paesi, legittima anche le loro prassi.
Sa perché in molti Paesi europei non si paga la cosiddetta «euroritenuta»? Si tratta delle disposizioni recate dalla direttiva 2003/48/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, sul risparmio, per la quale l'Italia votò contro, perché sapeva che era un abuso, che avrebbe legittimato la prassi che ora le illustro.
È molto semplice. Se si va in una banca di un Paese europeo e si depositano pochi soldi, viene applicata l'euroritenuta, mentre, se si è un cliente con un capitale un po' cospicuo, la stessa banca offre la società box di un paradiso fiscale. Vi si depositano, cioè, i soldi e la banca sostiene di non conoscere l'effettivo beneficiario.
Per questo motivo stiamo cercando di condurre una politica non di accordo, ma di contrasto con tali Paesi. Non è un segno di favore, ma l'opposto: non vogliamo condurre una politica che legittimi quei Paesi e li favorisca.
Se, però, lei ha un elenco dei paradisi fiscali con cui stipulare trattati sul modello indicato dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), lo inviamo all'OCSE...

ANTONIO BORGHESI. Francia, Gran Bretagna e Germania ne hanno stipulati.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. A noi non risulta. La logica OCSE è diversa, anche perché è stata commessa un'ingenuità, sostenendo che si è un Paese white list se si sottoscrivono almeno 12 trattati. Paesi che hanno siglato un trattato con l'Uzbekistan, il Kazakistan e la Repubblica di San Marino non coincidono con uno standard accettabile, che verrà modificato.
Se lei ha alcune idee, però, ce le riferisca, in modo che le studiamo e le sottoponiamo all'OCSE. Sarebbe di grande interesse svolgere una riflessione in merito.

AMEDEO CICCANTI. Signor Ministro, la ringraziamo per l'ampia relazione.


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Mi consenta una considerazione sull'intervento che ha svolto sulle province, che mi permetto di contestare. Non si chiede di abolire le province, ma di ridurle. Se si riducono le province, la Costituzione non c'entra nulla e lei lo sa, anche perché nella riunione del Consiglio dei ministri che ha preceduto il varo del decreto-legge n. 78 del 2010 è stata approvata una norma, che poi è scomparsa in sede di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento governativo, sulla riduzione delle province. Lei era, dunque, ben consapevole che a Costituzione vigente le province possono essere ridotte.
Esiste un interessante studio condotto dal professor Boccalatte, che si basa sui dati della Corte dei conti, la quale esercita, come lei sa, un controllo sui conti degli enti territoriali, dal quale risulta che dal dimezzamento delle province e quindi dalle minori esigenze per il funzionamento dei predetti organi istituzionali, si ottengono risparmi per un importo di 1 miliardo e 200 milioni di euro. Le farò avere lo studio che il professor Boccalatte ha condotto per l'Istituto Bruno Leoni, che lei conosce molto bene.
Tale fatto, però, è relativo. Non rilevo soltanto la riduzione che si avrebbe nella spesa pubblica per effetto della soppressione di tali organi istituzionali, che sicuramente avrebbe un pregio, signor Ministro, ma osservo che tale pregio sarebbe superiore alla riduzione del numero dei consiglieri comunali apportato con il decreto-legge n. 2 di quest'anno e con la legge finanziaria 2010. I risultati sarebbero sicuramente migliori.
Secondo lei con tali misure non si risolvono i problemi legati ai numeri della finanza pubblica, ma si fa, per così dire, uno spot. Ammetterà, allora, che sulla diminuzione dei consiglieri comunali si è fatto uno spot e non un'iniziativa seria per incidere sui dati della spesa pubblica.
Vi è un processo di razionalizzazione. Tenga conto che 11 regioni su 20 hanno una popolazione inferiore ai 2 milioni di abitanti, ma esistono almeno 10 province con popolazione superiore a un milione di abitanti. Da ciò emerge una valutazione: se possono esserci 10 province con popolazione sopra un milione di abitanti, in grado di gestire in modo razionale un territorio, per quale motivo non si può, per esempio, pensare agli effetti indotti di risparmio della spesa pubblica che si otterrebbero con la soppressione di tutti gli uffici periferici dello Stato che hanno una dimensione di carattere provinciale?
Penso alla Ragioneria generale dello Stato, agli uffici del Ministero dell'economia e delle finanze, alle questure, alle prefetture e via discorrendo. Se esiste una prefettura a Firenze che governa un territorio e una popolazione superiore a un milione di abitanti, non capisco perché non ci possa essere una sola prefettura anche in Liguria, in Umbria o in Basilicata.
Questo è un discorso che riguarda la spesa pubblica in modo molto più consistente delle poche centinaia di milioni di euro che lei citava, ma è un dato legato a una riforma che non le sfugge, perché conosce bene la materia.
Vengo, però, alla domanda, molto brevemente, data l'ora. Conosco, apprendendo da varie pubblicazioni che si sono interessate a lei in quest'ultimo anno, alcune sue dichiarazioni e alcuni suoi importanti interventi, del 1994 o anche precedenti, nei quali prefigurava una riforma fiscale.
Dal 1994 abbiamo iniziato a conoscere il ministro, anzi lo studioso, Tremonti, uno dei migliori fiscalisti italiani, che si è cimentato sullo studio di una riforma fiscale possibile per cambiare, dal punto di vista della redistribuzione del reddito e di giustizia sociale, l'attuale sistema.
Sono passati 18 anni, signor Ministro, e questa riforma fiscale non è stata realizzata. Lei ha avuto - per così dire - panno e forbici in mano nel gestire la politica fiscale di questi ultimi 18 anni, nella metà dei quali ha governato, ma nessuna traccia della riforma fiscale.
Alcune importanti misure - considerarle riforme è esagerato - per combattere l'evasione fiscale sono state adottate adesso con il decreto-legge n. 78 del 2010,


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ma avrebbero potuto benissimo essere emanate prima. Chiedo perché non si sia pensato di farlo.
L'unica riforma tributaria che si sta per realizzare, o che forse si realizzerà, è quella del federalismo fiscale, che non ha voluto lei, ma le è stata imposta dalla Lega Nord. Non possiamo non riconoscere alla Lega Nord il significato di questa riforma. Se dovessimo attribuirla a lei, faremo un torto alla Lega Nord.
Mancano i numeri di questa riforma tributaria e lei lo sa bene. Pensare che si vari una riforma tributaria con la quale si introduce il federalismo fiscale, che riguarda il rapporto tra Stato ed enti territoriali, e che non ci sia contemporaneamente - anche per le implicazioni che già lo stesso federalismo fiscale lascia intravedere sia sulle imposte sul patrimonio, sia su quelle sulle persone fisiche - un progetto di riforma tributaria più complessivo mi lascia certamente intendere che su questo punto qualcuno abbia deposto ogni velleità.
Lei ha parlato della scuola come di una delle priorità. Poi ho sentito parlare di sicurezza. Discutendo di federalismo fiscale, abbiamo sentito parlare dell'introduzione della cosiddetta «cedolare secca» sugli affitti. Da anni sentiamo menzionare, anche dal Governo, perché fa parte del vostro programma, il cosiddetto «quoziente familiare», ma si tratta di riforme che richiedono una copertura finanziaria mediante maggiori entrate.
Non so se sia attendibile il dato che stima in 400 miliardi di euro l'ammontare di imponibile non dichiarato a fini fiscali. In base ad alcuni dati mancherebbero all'appello fra i 100 e i 120 miliardi di euro ogni anno.
Vorrei conoscere se lei inizierà questo percorso, partendo dalla riforma tributaria, che è la riforma principale per poter raggiungere tutti gli obiettivi, per quanto riguarda sia la tenuta dei conti pubblici, sia lo sviluppo dell'economia, e qual è il suo programma per i prossimi tre anni di legislatura.
Non vorrei che si ricadesse nella dinamica legata alla campagna elettorale e che andasse tutto «a babbo morto» come si suol dire, rinviando l'attuazione di tali misure.
Un'ultima valutazione. Lei ha parlato di regole essenziali e della necessità di favorire lo sviluppo del mercato, per quanto sempre regolato, riducendo le regole addizionali e riconoscendo solo quelle essenziali. Le regole essenziali sono quelle del mercato, salvo alcune per evitare posizioni dominanti. Credo che ciò sia il risultato di una visione legata all'economia sociale di mercato.
Sui servizi pubblici locali e sulle liberalizzazioni ho notato molte timidezze da parte sua. Per quali motivi? Non li conosco e, quindi, glieli chiedo. Vorrei sapere quali idee ha per il futuro per liberalizzare ulteriormente i mercati e per favorire una loro maggiore apertura. Grazie.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Se non ricordo male, nella scorsa legislatura abbiamo avuto delle discussioni che avevano proprio a oggetto la situazione di alcune province.
Ho affermato che le province sono previste dalla Costituzione e che essa non ne preclude l'accorpamento. Un conto è vivere nei comuni montani o in campagna, dove la provincia è un microcosmo compiuto, un altro è vivere in una metropoli, dove forse la categoria più adatta è quella dell'area metropolitana o dintorni.
Si sono verificati abusi e ci sono alcune province che operano come holding, a volte comprando in borsa, da soggetti privati, le azioni di società quotate proprietarie delle autostrade. È sicuramente un mondo su cui intervenire. Mi limito a sostenere che tutti gli interventi vanno comunque misurati dai numeri e con i numeri.
I numeri sono molto importanti, anche 100 o 200 milioni di euro lo sono, ma sono piuttosto simbolici. Non conosco studi che stimano un risparmio di 1 miliardo e 200 milioni di euro, ma non credo che corrispondano alla verità. I numeri che abbiamo davanti sono molto più bassi.


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Non intendo difendere situazioni che sono percepite negativamente nell'opinione pubblica e nel sentimento comune. È importante tener conto di tali giudizi, perché, se si chiedono grandi sacrifici, si deve anche trasmettere un messaggio in tal senso, ed è la ragione per cui nella manovra estiva abbiamo compiuto riduzioni di spesa che ci sembravano importanti, anche come fatto simbolico. Sono state compiute in tutti i Paesi d'Europa.
Per inciso, una delle questioni più divertenti in cui mi imbatto riguarda i tagli lineari delle dotazioni di bilancio. Non esiste Paese in Europa che non si comporti come noi, rilevando che esiste una parte della spesa pubblica non comprimibile o non «aggredibile», per usare un sinistro termine di finanza pubblica, e una parte, invece, riducibile. Su quest'ultima tutti i Paesi - l'Inghilterra, che è il Paese più avanzato da sempre in tale metodologia, ha applicato recentemente tali riduzioni - prevedono un obiettivo rigido e la flessibilità delle spese per il funzionamento dei ministeri, esattamente come abbiamo fatto noi.
Lo stesso accade in Germania, in Canada e in Svezia. Quando sento parlare di operare i tagli, evitando quelli lineari, significa che non c'è la volontà di tagliare le spese, perché basta osservare come si comportano gli altri Paesi d'Europa per constatare che i tagli sono tutti operati come abbiamo fatto noi: c'è un obiettivo percentuale nella parte riducibile e poi l'autonomia dei singoli ministeri.
Da ultimo, quello che rappresenta il modello di riferimento per tutti, la Treasury inglese, si comporta in questo modo. Quando sento alcuni maestri che si oppongono ai tagli lineari, dunque, rilevo che è solo un modo per conservare la spesa pubblica o per ignorare le pratiche che vengono condotte in tutti gli altri Paesi.
Poiché si tratta di un refrain quasi ossessivo, torno a ribadire che la tecnica che abbiamo utilizzato noi...

GIAN LUCA GALLETTI. Intervengo perché il discorso mi interessa molto. Lei ha ragione sull'Inghilterra, però ricordo che l'allora Ministro dell'economia Gordon Brown elaborò la Spending review già dal 1997.
Se si arriva a un punto nel quale si è già effettuata la riqualificazione della spesa pubblica, il taglio lineare è l'ultima spiaggia che resta. Se, però, prima non si è elaborata la Spending review...

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Lei cita metodologie non più all'avanguardia. Il metodo adottato da Gordon Brown è radicalmente superato dalla tecnica in atto adesso, che consiste, come ripeto, nella scelta di tagli percentuali con l'autonomia dei ministeri. Ogni ministro...

GIAN LUCA GALLETTI. Che avviene dopo la Spending review. Anche scientificamente non è un discorso campato in aria, ma possiamo discuterne in altra sede.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Le posso assicurare che la tecnica che abbiamo applicato è largamente usata. Ogni Paese ha il suo ordinamento, però la percentuale di riduzione e la flessibilità interna ai singoli ministeri è assai diffusa. Quando si effettua la Spending review, lo scopo è identificare la parte riducibile della spesa; una volta identificata, si agisce applicando il metodo della rigidità percentuale e salvaguardando la flessibilità per i ministeri.
Ringrazio per le citazioni biografiche, però lei ricorda che io sono stato alle leve di potere. In realtà, sono stato ministro, nel 1994, solo da giugno a dicembre, perché poi ci fu una traumatica caduta del Governo.
Nel 1994 oggettivamente - vorrei svolgere con lei una riflessione politica - c'era un mondo diverso. C'era la lira, non c'era la globalizzazione, e avevano effetto politiche nazionali e il determinismo nazionale era il termine di riferimento per lo sviluppo e per la crescita. Non esisteva l'Europa.
Ricordo che la copertura finanziaria della legge sulla detassazione degli utili


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reinvestiti fu «bollinata» dalla Ragioneria generale dello Stato per correntezza; fu considerata, cioè, una legge non adeguatamente coperta, in quanto la formula di copertura era quella «macroeconomica», vale a dire teneva conto degli effetti positivi sul sistema economico delle misure adottate. Proposta da noi, tale copertura era considerata «bollinabile» solo per correntezza, poi, quando furono introdotti gli incentivi auto dal successivo Governo, diventò invece ortodosso il metodo della copertura «macroeconomica».
Era un altro mondo. Sentire adesso, nella letteratura di altra parte - che sul Libro bianco del 1994 sulla riforma fiscale disse di tutto e di peggio - che bisogna passare dalle persone alle cose, dal centro alla periferia, è una questione culturalmente di grande rilievo, ma se si va a vedere che cosa si diceva allora di quel Libro bianco, è un po' paradossale. Questo serve a rilevare che il cambiamento delle idee occupa un po' di tempo.
Sono stato poi ministro nel 2001, nel 2002 e nel 2003. Nel 2003, finito a ridosso del semestre europeo, c'erano i partiti, un sistema politico molto forte e determinato. Il Ministro non eseguiva, ma non era autonomo.
Dal 2003 in poi io fui - citazione confidenziale e autobiografica - totalmente commissariato, perché intervenivano altri fattori. Nel 2004 fui invitato a lasciare il Governo.
Quindi, a parte i sei mesi del 1994, parliamo di due anni e mezzo, un periodo in cui non si poteva determinare ciò che si voleva e si pensava.
Sono tornato e ho varato la legge finanziaria 2006, che fu oggetto di considerazioni bipartisan non negative, sia pure retroattive, però non era in auge il discorso di riforma.
Adesso il mondo è radicalmente cambiato. La prima domanda che pongo è: in quale altro Paese si è discusso e si sono emanate effettivamente riforme fiscali? Finora in nessuno. Mi sbaglierò, ma in Germania, in Francia e in Inghilterra, pur essendo inserite nei programmi e nelle logiche di prospettiva grandi riforme fiscali, la crisi ha determinato una dimensione di responsabilità e di prudenza.
Stavo cominciando a lavorare al tema nel periodo tra gennaio e marzo, poi si è verificata la crisi della Grecia e abbiamo dovuto gestire all'estero e in Italia questo problema.
Adesso dobbiamo e possiamo ricominciare, ma, se la domanda è se si vara la riforma fiscale in deficit, la risposta è che non si può. Se la si vuole emanare con coperture di diverso tipo, rispondo che non stanno in piedi.
Dobbiamo cominciare di nuovo ora a riprendere un discorso di riforma fiscale. La prima questione che abbiamo visto, e che è impressionante, è che esistono due grandi aggregati, due colonne: uno è il sistema fiscale e l'altro il sistema sociale, da un lato l'Agenzia delle entrate e dall'altro l'INPS. Ci sono meccanismi di non conoscenza o di interdipendenza che devono essere studiati.
Lei, onorevole Ciccanti, parla della famiglia. Sono convinto, e lo proveremo, che l'assistenza per la famiglia condotta in Italia è attualmente superiore a quella attuata in altri Paesi, però è segmentata in forme di intervento eterogenee e operata da soggetti non specificamente fiscali.
Sono convinto che il nostro primo obiettivo sia di capire come funziona il fisco e come funziona l'INPS, il quale stanzia per la spesa sociale all'incirca 100 miliardi di euro all'anno, o un po' meno, anche per la famiglia.
Dato l'obiettivo di prevedere un sistema giusto per la famiglia, si deve anche considerare il lato sociale e non solo quello fiscale. Noi stiamo lavorando per capire dov'è il confine tra Stato fiscale e Stato sociale, che devono integrarsi. Anche questo sarà un lavoro straordinario da compiere in Parlamento, un lavoro di una complessità incredibile. In 30 anni si sono stratificati meccanismi non coordinati tra di loro: in un determinato anno si applicava una detrazione, nell'anno dopo veniva attribuito un assegno, in quello successivo


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era prevista una deduzione, in quello dopo ancora veniva concesso un titolo di assistenza.
Il nostro è un Paese in cui si detrae tutto o quasi tutto. Il catalogo delle detrazioni e delle deduzioni occupa pagine. Un'ipotesi è che, se si vuole continuare così, si può. Oppure si vuole un'aliquota molto più bassa su una base imponibile che non include più la famiglia, il lavoro e la ricerca? In tal modo si riduce enormemente la base imponibile e si abbattono le aliquote.
Non si possono compiere salti nel vuoto, non si possono inventare coperture. Stiamo contrastando l'evasione fiscale e i risultati di cassa sono crescenti e, per alcuni versi, molto importanti. Non si elimina di colpo, però: i comuni daranno un contributo molto importante quando saranno coinvolti.
Stiamo lavorando e dobbiamo lavorare anche sulla riforma fiscale, però dobbiamo farlo seriamente e cercando di capire qual è lo spettro ampio, che non è solo la curva fiscale, ma anche la struttura del welfare. Poi si può stabilire di voler continuare così, oppure, proporre ipotesi alternative.
Sul punto delle liberalizzazioni, credo che il Governo abbia prodotto un buon testo. So che è stata avanzata la richiesta di indire un referendum in merito alle disposizioni che toccano l'argomento ancestrale dell'acqua.
Il vero discorso non è liberalizzare i servizi pubblici, anche fondamentali. Mi riconosco in quel testo e non credo che ponga un problema vero sull'acqua, ma il tema non è solo quello delle liberalizzazioni. Questo è un sistema in cui tutto è bloccato. Qualora si debbano tutelare valori fondamentali, ciò è giusto, ma nel caso ci siano norme sulle zucchine, ad esempio, magari queste sono superflue.
Del federalismo fiscale sono profondamente convinto. Lo stiamo attuando e nel pomeriggio di oggi abbiamo in programma una riunione con le regioni e con i comuni. Alla sua garbata e insinuante ipotesi, onorevole Ciccanti, rispondo, quindi, assolutamente di no. Ne sono convinto.
Lei mi ha citato cortesemente per il Libro bianco sulla riforma fiscale. Nel 1996 ho scritto un libro sul federalismo fiscale. Se ne trovo una copia, gliela mando.

MASSIMO BITONCI. Nel mese di luglio scorso - era presente anche lei - si è tenuto un incontro tra Governo, ANCI e UPI in merito allo schema di decreto legislativo sull'autonomia finanziaria dei comuni e delle province.
In tale sede è stato condiviso un documento nel quale si fa riferimento anche a una possibile revisione del Patto di stabilità interno per gli enti locali già per il 2011, fermi restando, come affermava lei, i previsti obiettivi di finanza pubblica.
Lei pensa che sia possibile una ridefinizione del Patto di stabilità interno e che si possa attendere, quindi, un miglioramento o una modifica di tale Patto, che, come lei sa, sta provocando un grave problema di blocco dei pagamenti, accentuando quindi la crisi delle piccole e medie imprese, fornitrici di opere e servizi per la pubblica amministrazione?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Stiamo discutendo di questa materia con i comuni e le regioni, con ANCI e con gli organismi rappresentativi delle regioni.
Lei sa che il meccanismo attuale del Patto di stabilità interno è stato inventato da un precedente Governo e che tutti ormai concordano nel ritenerlo non particolarmente efficace. Era meglio quello che esisteva prima, anch'esso non elaborato da noi. Fu una scelta sperimentale che si è rivelata non particolarmente felice. Peraltro, non ricordo quante volte il Parlamento ha già modificato il Patto di stabilità interno.
Adesso forse si troverà la «quadra», fermi però i saldi di bilancio. Abbiamo varato la manovra a luglio e siamo appena in ottobre: non intendiamo emendarla.

MARCO MARSILIO. Sebbene alcuni interventi dell'opposizione ci abbiano stimolato


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a svolgere riflessioni su una diminuzione delle tasse, sul «quoziente familiare» e via elencando, temi che credo stiano a cuore a tutta la maggioranza e senz'altro al Popolo della Libertà, ci rendiamo conto che in tempi di crisi e di tagli alle spese è molto difficile occuparsene. Condividiamo, quindi, l'atteggiamento prudenziale da parte del Governo di valutare con attenzione per individuare il momento di intervenire anche con queste misure, che comunque auspichiamo e che sappiamo che anche il Governo è pronto ad adottare nel momento in cui ciò si rendesse possibile.
Volevo sviluppare una riflessione, approfittando del fatto che tutti i ragionamenti che stiamo svolgendo sulla Decisione di finanza pubblica e sul quadro generale dell'economia italiana partono dallo scenario europeo, fortemente condizionato dalla crisi emersa in primavera, dall'aggressione della speculazione nei confronti della Grecia e, quindi, dalla tenuta della zona euro, che era stata messa a rischio dalla stabilità di tale Paese.
Pochi giorni fa il Primo ministro cinese si è recato in Grecia a sottoscrivere, in maniera molto plateale, una sostanziale assicurazione nei confronti dei titoli di tale Paese, dichiarando anche a chiare lettere - è riportato su tutti i quotidiani - che è interesse della Cina garantire la stabilità dell'euro.
Da un lato, possiamo tutti trarre un sospiro di sollievo, nel senso che, se le manovre a difesa della moneta e della Grecia trovano fiducia sul mercato internazionale, ciò è un bene; dall'altro, però, per quanto mi riguarda, sento una preoccupazione per quello che rischia di essere un tema serio di sovranità monetaria dell'area euro nel rapporto con la Cina.
Parlo, peraltro, con un ministro che, come qualcuno ha ricordato, è anche uno studioso che, forse anche prima di altri, ci ha interrogato sul ruolo della Cina nei mercati internazionali e sul rapporto diseguale e squilibrato tra l'Europa e questo Paese.
Credo che questo sia un tema molto delicato e vorrei sapere se lei e il Governo condividono alcune di queste riflessioni e preoccupazioni e se in Europa, nelle sedi competenti, il tema di come relazionarsi e garantire anche che, ferma restando la libertà per chiunque di sottoscrivere i titoli del debito pubblico dei Paesi europei, ci siano un'attenzione e un monitoraggio da parte dell'Europa per mantenere la sovranità finanziaria e monetaria ed evitare di ritrovarsi ostaggio di altre realtà, che non sono rappresentate semplicemente dal mercato, ma, in questo caso, da Stati esteri anche con un particolare regime politico.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Una vecchia frase, credo di Francesco Saverio Nitti, recitava: «Duro è dipendere dall'oro alieno». Se la Repubblica popolare cinese avesse riservato queste forme di attenzione per la Grecia prima del salvataggio europeo, sarebbe stato meglio.
Credo, però, che, fuori da episodi un po' simbolici come questo, noi abbiamo organizzato un quadrilatero, una politica di difesa, nonché di costruzione dell'euro, della nostra sovranità e di una politica economica comune.
È un processo in divenire: l'Europa esiste da 50 anni e l'America da 200 anni. Quella è la linea. Funzionerà? E quanto? Dipende anche molto da noi, da quanto saranno intensi il processo relativo alla sessione di bilancio e la disciplina che tutti dobbiamo darci, da tanti fattori quindi, però dal lato dell'Europa non vi è alcuna scelta rinunciataria e non credo che sia neanche interesse della Cina che venga meno un termine di riferimento e di investimento come l'Europa.
Invitato per una lezione nella Scuola centrale del Partito comunista cinese in novembre, ho usato l'immagine che i tavoli stanno meglio in piedi con tre gambe che con due, una delle quali, oltre al dollaro, era l'euro.
Credo che quello sia lo scenario di riferimento: siamo un continente, nonché l'area se non più popolata, più ricca del mondo. Accusiamo una grande criticità di


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sviluppo dell'economia e di invecchiamento della popolazione, ma abbiamo accumulato comunque uno stock di valori materiali e immateriali che non ha equivalente nel mondo. Mi sembra logico che, a fronte di questa struttura economica e sociale, ci sia anche un'espressione monetaria, che costruiamo e difendiamo. Viviamo con quello strumento e quindi non vedo interessi e logiche di perdita di sovranità.
I titoli vanno in giro per il mondo. Lei non potrà affermare che gli Stati Uniti non abbiano sovranità: hanno collocato treasury bond su scala molto ampia in tutto il mondo, ma ciò non rappresenta un attentato alla loro sovranità.

ENRICO MORANDO. A proposito di questa Decisione di finanza pubblica, mi pare che siamo di fronte a una scelta tra due soluzioni alternative. La prima è quella di considerare questo specifico documento come il «Gronchi rosa». L'abbiamo prodotta una volta, non la ripeteremo più e non merita grande attenzione. A suo tempo ne parleremo, come si dice dalle mie parti.
La seconda è quella di approfittare della discussione sulla Decisione di finanza pubblica per avviare il processo di partecipazione dell'Italia alla decisione sui due programmi di cui lei ha parlato, quello di stabilità e quello di riforma, che naturalmente hanno dimensione nazionale, ma si devono collocare all'interno di uno sforzo di coordinamento europeo, il quale rappresenta la grande novità, a mio giudizio positiva, della situazione.
Tra queste due strade il Governo deve scegliere ma, francamente, dall'illustrazione che questa mattina ho ricevuto da lei, non ho capito quale sia la scelta. Vorrei che fosse chiaro che la mia impressione è che non lei, che, secondo me, sceglierebbe la seconda strada, se ne avesse le condizioni politiche, ma il Governo nel suo complesso...

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Qual è la seconda strada?

ENRICO MORANDO. La seconda strada è svolgere una discussione seria a cominciare dalla Decisione di finanza pubblica per prepararci ad assumere le decisioni coerenti con gli appuntamenti che ci aspettano nella dimensione europea, con il programma di stabilità e con il programma di riforme nazionali da discutere nel contesto europeo.
Il fatto è che dal modo in cui il Governo e la maggioranza stabiliranno di trattare questa Decisione di finanza pubblica si capirà se il Governo pensa di avere di fronte a sé un orizzonte temporale sufficientemente profondo o se pensa di andare a votare nella prossima primavera.
Personalmente, ho l'impressione che questa scelta non sia stata davvero compiuta dal Governo.
Presumo, però, per un attimo che si compia la scelta di camminare sulla seconda strada. A quel punto, a mio giudizio, poiché alla fine del dibattito sulla Decisione di finanza pubblica vi è l'approvazione di una risoluzione parlamentare, maggioranza e opposizione dovranno misurarsi non sul fatto se considerare come pezzo unico la Decisione di finanza pubblica, ma su come il Paese si prepara e su quali sono le linee di fondo che la maggioranza al Governo, da una parte, e l'opposizione, dall'altra, pensano che il Paese dovrebbe seguire per misurarsi con gli appuntamenti che ha di fronte.
Da questo punto di vista e valutando la Decisione di finanza pubblica che lei ha presentato adesso - quando ci saranno altri documenti, valuteremo anche quelli, naturalmente - ho l'impressione che sia giusta la sollecitazione che lei avanza con la Decisione di finanza pubblica e con l'illustrazione di questa mattina sull'esigenza di tenere conto di tutto, non solo del debito pubblico, ma anche di un livello di capacità competitiva e, quindi, di crescita troppo basso e, aggiungo, di un livello di disuguaglianza sociale che riduce le aspettative, con effetti anche immediatamente economici molto negativi, che si viene accrescendo.


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Consideriamo tutti e tre questi problemi e prepariamoci a decidere sul programma di stabilità e sul programma nazionale di riforma in una chiave di un Governo capace di affrontarli tutti e tre contemporaneamente e con una strategia coerente.
Dalla Decisione di finanza pubblica alla nostra attenzione non si capisce se tale strategia esista. Sarà un mio limite, naturalmente, ma non si capisce affatto e penso che ciò nasconda la difficoltà politica di cui ho parlato all'inizio, per la quale il Governo non sa se rimarrà in carica nei prossimi mesi, in buona sostanza.
Al di là di questo problema, però, a me sembra emergere una relativa sottovalutazione dello stato di difficoltà in cui versa il Paese su tutti e tre i fronti di cui ho parlato, cioè debito pubblico, crescita troppo bassa e disuguaglianza troppo grande.
Mi chiedo, allora, se il Governo non dovrebbe riflettere - spero che l'opposizione svolga un'azione di stimolo nella direzione giusta, a questo proposito - circa l'esigenza non di aspettare il 2016, ma di collegare a una strategia di riforme adeguate un obiettivo di riduzione del volume globale del debito anticipato, non perché lo chiede l'Europa, che non lo chiederà perché ci chiederà altro, ma perché conviene al Paese, in quanto, attraverso un'azione di questo tipo, potremmo ottenere risultati sul versante della libertà della politica economica che oggi non abbiamo. La politica economica di questo Paese non è libera da molto tempo a causa di un eccessivo volume globale del debito.
In questo senso, mi chiedo se un piano straordinario per ridurre il debito non possa fare leva da un lato sul patrimonio pubblico - nella Decisione di finanza pubblica non trovo una riga dedicata al problema - e, dall'altro lato, sul versante del patrimonio privato.
Personalmente, ritengo che agendo solo sul versante del patrimonio non si riesca a ottenere un risultato significativo, cioè a portare nel giro di due o tre anni il volume globale del debito sotto il 100 per cento nel rapporto con il PIL, recuperando per questa via libertà di manovra nella politica economica del Paese, con alcuni punti di PIL di spesa corrente per interessi in meno. Ne basterebbe uno e sarebbe già un risultato di enorme portata, naturalmente, nel contesto dato.
Credo che, invece, l'idea di chiedere aiuto, insieme al patrimonio dello Stato, anche al patrimonio privato - giustamente considerato nella Decisione di finanza pubblica, nel contesto della definizione della sostenibilità dello sviluppo italiano come un dato positivo - almeno per la parte della popolazione più ricca, il decile più ricco, sarebbe opportuno. Non sarebbe più ragionevole chiamare questa componente della società insieme al patrimonio pubblico a contribuire a un'azione di riduzione del volume globale del debito concentrata nel tempo e da sviluppare immediatamente?
Se il Governo fosse capace di compiere scelte di questa portata non confermerebbe, per questa via, di pensare di avere un orizzonte vero e lungo davanti, invece di vivere alla giornata come sta facendo?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Premesso che devo recarmi ora all'incontro con le regioni, il suo è un intervento di rilevanza politica notevole. Lo sono tutti, ma il suo mi ha particolarmente colpito e mi dà l'opportunità di specificare alcuni punti.
In primo luogo, quello che noi dobbiamo presentare è un apparato di documenti che marcano la posizione in Europa della Repubblica italiana e non del Governo in quanto tale. Certo, si tratta anche del Governo - tutti gli altri Paesi sono presenti come Governo - ma la responsabilità che tutti abbiamo non è specifica di un mese o di due.
Questa è una delle ragioni per cui va coinvolto anche il Parlamento. Dobbiamo comunque adoperarci in tal senso, perché abbiamo una responsabilità politica e istituzionale generale. Dobbiamo presentare il programma italiano, non il programma


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elettorale o non elettorale del Governo, nello stesso modo in cui ragionano gli spagnoli, i tedeschi e i francesi.
Presenteremo, dunque, quei documenti a prescindere dalle vicende politiche interne italiane, che ci vedono comunque interessati, anche perché o continuiamo o vinciamo le elezioni, ma questo è un altro discorso. Abbiamo, quindi, un forte interesse alla serietà e al fondamento di quel programma e un contributo alla vittoria ci potrebbe anche venire dal rifiuto in assoluto di introdurre imposte patrimoniali. Anche questo, però, è un altro discorso.
I documenti che dobbiamo presentare sono relativi al bilancio pubblico e allo sviluppo dell'economia.
Sul bilancio pubblico - glielo dico con franchezza; se non sono stato chiaro, lo ripeto - più o meno già ci siamo. Con il documento che presentiamo, assolutamente marcato sulla finanza pubblica e sul triennio, abbiamo già il consenso istituzionale dell'Europa. L'abbiamo già avuto sugli obiettivi e sul decreto-legge n. 78 e l'avremo una volta presentata la legge di stabilità.
Non credo che la Repubblica italiana debba presentare uno Stability Program diverso da quello che emerge da questo documento.

ENRICO MORANDO. Non ce lo chiede l'Europa. È nel nostro interesse...

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Dal lato dello Stability Program, della gestione del deficit e delle finanze pubbliche da qui ai prossimi anni, credo necessario e sufficiente il testo che abbiamo a disposizione e il grado di discussione e di apprezzamento che su di esso e su questa politica abbiamo ricevuto in Europa e sui mercati.
Vi è poi il lato delle riforme strategiche generali da apportare all'economia italiana. In questo quadrante inserirei il discorso che lei svolge sul patrimonio.
È molto semplice. Non credo che ne abbia fatto oggetto della sua particolare attenzione, ma potremmo farne oggetto di lettura congiunta: il nostro programma elettorale contiene molte delle sue considerazioni sul patrimonio. L'abbiamo scritto prima noi e voi l'avete copiato. Avendolo scritto prima noi e pubblicato dopo voi, ho la presunzione che ci sia un co-copyright.
Credo che dobbiamo e possiamo discutere di questo tema, però, se non ricordo male, nel nostro programma, felicemente condiviso, figuravano tre punti. Siamo un Paese il cui debito grava tutto sullo Stato, mentre quasi tutto il patrimonio è gestito dai governi locali; tutto il potere fiscale appartiene allo Stato e molto potere di spesa è riconosciuto a livello locale. Non ricordo il terzo termine della questione, ma lo leggeremo insieme.
Sicuramente si può sviluppare un ragionamento anche sul patrimonio pubblico e, quindi, stabilire quanto di esso sia collocabile sul mercato, su cui finora si è verificato un problema, perché, essendo il mercato costituito da domanda e offerta, non è automatico che, se si vende, c'è chi compra. Al contrario, se si ha bisogno di vendere, c'è chi ne approfitta.
Non mi sembra che questi ultimi anni siano stati caratterizzati da particolare euforia o interesse per l'acquisto di titoli basati su immobili, ma si può ragionare in merito e vedere la questione anche in questa prospettiva.
Se si va verso una normalizzazione delle strutture finanziarie, si può immaginare di costituire uno o più fondi. Ne stiamo discutendo con i comuni. Si pone il problema se costituirne uno o più, magari «a ombrello». Stiamo ragionando con il presidente dell'ANCI Chiamparino su questo punto. Anche quella del patrimonio è una via su cui procedere.
Lei parla poi di abbattere il debito. È sicuramente un'ipotesi, ma in che termini, in che forme e per quali valori? È tutto da verificare, soprattutto procedendo verso uno scenario di economia meno drammatico rispetto a quello che c'è stato finora, ma nulla ci assicura che alcuni eventi di


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uno o più Paesi posizionati sull'Atlantico non ci portino di nuovo in una situazione complicata.
È un discorso da svolgere, però non immaginiamo effetti magici, immediati e risolutivi o abbattimenti radicali del debito. Anche quella è una via; se figura nel nostro programma e nel vostro, significa che ha un fondamento, però le posso assicurare che non è un'operazione facile, ma complicata.
Ci stiamo lavorando. Mi pare che lei abbia il domicilio a Torino: lo chieda al sindaco Chiamparino. Abbiamo cominciato a parlare di uno o più fondi «a ombrello» dei comuni. Se si costituisce un fondo per i comuni e poi un comune vende e l'altro no, a chi va il dividendo? A tutti o solo al comune che ha venduto, e poi come e in che forma? I problemi esistono. Ci stiamo lavorando.

LINO DUILIO. Signor Ministro, è vero che lei deve partecipare ad un incontro con le regioni, ma è anche vero che una volta il Parlamento aveva una rilevanza anche rispetto alle regioni. Poiché lei viene da noi ogni tanto, forse farebbe bene ad ascoltarci e darci alcune risposte. Se non ci vuole rispondere, ne prendiamo atto.
Vorrei porre tre domande telegrafiche. La prima riguarda il tema della competitività all'interno dello scenario dello Stability Program e del National Reform Program di cui lei ci ha parlato.
Abbiamo preso atto che, come lei ha affermato, anche teoricamente il discorso keynesiano del deficit spending non è più attuale ed è stato superato, se non ho inteso male. Peraltro, mi permetto di osservare che lei costantemente, facendo riferimento alla posizione di coloro che a suo tempo indicavano l'opportunità di destinare l'1 per cento di PIL ad alcuni investimenti, ha osservato che, dovendo tutelare la tenuta dei conti pubblici, non è assolutamente il caso di applicarla.
Posso essere d'accordo con lei che quella teoria di politica economica basata sul deficit spending, forse andrebbe discussa, però occorre prendere atto che, se da un lato non si è accettato un discorso basato sull'1 per cento di deficit spending, dall'altro, come lei sa, siamo arrivati a oltre il 6 per cento di deficit. Mi spieghi lei come possiamo definire ciò che è accaduto se non riconoscendo che vi è stato comunque uno «splafonamento» rispetto alla situazione iniziale.
Mi spiace che non sia più presente il collega Marsilio, che è filosofo di mestiere, ma vorrei comunque offrire uno spunto di riflessione in merito alla nostra discussione. Offrirei il fatto che, come ha asserito il segretario del gruppo politico a cui appartengo, intervenendo in Aula, forse dovranno passare 80 anni per arrivare a sostenere che forse una responsabilità per la presente situazione non è da addebitare ai nostri 20 mesi di Governo, ma un po' di più a chi ci governa da 10 anni. Se uscissimo da queste polemiche un po' sterili, forse ci concentreremmo su problemi che sono assolutamente delicati e complessi.
Sulla drammatica questione della crescita nel nostro Paese, e in particolare sul tasso rachitico di crescita che registriamo ormai da lustri e lustri e che tutti ritengono ovviamente non addebitabile a questo Governo, può svolgere alcune considerazioni in più?
Lei ne ha svolte alcune anche in interviste recenti piuttosto diffuse sul Sole 24 Ore o La Repubblica - se non se ne ricorda, gliene fornisco una copia; sono molto interessanti, peraltro - e ha affermato che la stabilità dei conti pubblici è un dato assolutamente fondamentale, ma non sufficiente.
È necessaria, ma non sufficiente, evidentemente, per la crescita. Sostenevamo anche noi, in quei modesti 20 mesi, che la stabilità dei conti pubblici era importante. Per questo motivo affermavo che forse il collega Marsilio potrebbe riflettere su ciò che l'attuale maggioranza sosteneva in quei 20 mesi a proposito della stabilità dei conti pubblici.
Guardando avanti, sul tema della crescita e della competitività, lei ha ricordato che esiste la via tedesca, la via degli


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eurobond, ma la nostra via, se così si può chiamare, secondo lei quale dovrebbe essere?
Qual è il contributo di politica economica nazionale, se esiste ancora una quota di politica economica nazionale, alla crescita dell'economia? Pur sapendo che la crescita, come lei ha dichiarato, non si ottiene con la Gazzetta ufficiale o con l'onnipotenza della politica economica, qual è, se esiste, un'idea almeno di una porzione di possibile incidenza della politica economica nazionale a cui questo Governo pensa?
Collego tale tema anche al fatto che ho notato che la Decisione di finanza pubblica che voi ci avete presentato non fa il minimo cenno ai disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, mentre era previsto che se ne dovesse parlare. Il qui presente Viceministro Vegas lo ricorderà bene; di recente ha scritto un libro, per il quale mi complimento con lui, sulla riforma della legge di contabilità, in cui i «collegati» vengono messi in evidenza con assoluto rilievo.
Le chiedo, dunque, come mai non si parli dei «collegati». Non se ne fa il minimo cenno. Ovviamente la prego di non rispondermi che, poiché occorre presentare il National Reform Program, se ne parlerà a suo tempo, perché, come ripeto, credo che il Parlamento meriterebbe un'indicazione.
Vengo al secondo punto, più rapidamente. Che cosa pensa dell'Accordo di Basilea 3? Conferma quello che ha dichiarato di recente, quando si parlò di Basilea 2, ossia che a lei bastava Basilea 1 e mezzo, perché era un po' troppo, manifestando quindi un discreto scetticismo su questo discorso?
Il terzo punto è ancora più telegrafico. Sarà anche vero, sempre come lei ha dichiarato, che probabilmente non dovremo fare nulla se tra alcuni anni in Europa viene accettata la linea per cui si tiene conto non solo del debito pubblico, ma anche del risparmio privato, Poiché, però, lei sa bene che il debito pubblico, nella dimensione che ha assunto da troppi anni, è un problema, qual è la sua opinione sulle misure da adottare ai fini della sua riduzione, ovviamente in una prospettiva di medio-lungo termine, salvo che l'Europa non ci imponga le sue regole, che però, come lei sostiene, stanno per essere mitigate? Sappiamo bene che il debito pubblico non si può che ridurre utilizzando l'avanzo primario, ma con la crescita non siamo messi molto bene.
In termini costruttivi e non polemici, rilevo che questo è un problema che riguarda tutti noi drammaticamente e di cui nessuno ha la soluzione. Mi piacerebbe avere la sua opinione, avendo stima della sua intelligenza culturale e politica. Grazie.

FRANCESCO BOCCIA. Le rivolgo una domanda brevissima, signor Ministro: ci conferma che non ci sarà alcuna manovra correttiva a dicembre?
Il secondo punto è un'esortazione a svolgere una verifica. In questa Decisione di finanza pubblica non si fa mai riferimento alle riforme che stiamo elaborando su altri settori.
Poco prima del suo intervento, abbiamo discusso con i rappresentanti della Ragioneria generale dello Stato e prima ancora con il Ministro Calderoli dell'impatto dei decreti di attuazione della delega sul federalismo. Una buona parte di essi fanno riferimento alla nuova correlazione tra fonti di entrata e centri di spesa e ridisegnano la fiscalità del nostro Paese. Forse sarebbe opportuno riallineare il lavoro che stiamo compiendo, e che sta subendo un inevitabile rallentamento anche per verificare le coperture, con i programmi di riforma su cui state lavorando.
Per esempio, in merito alla definizione dei fabbisogni dei comuni, abbiamo a disposizione una proiezione per il triennio 2011-2013. Ora lei si recherà ad un incontro con le regioni e ci racconterete quali sono i meccanismi di attuazione della fiscalità regionale. Penso che abbia senso raccordare i tempi.


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L'ultimissima domanda è la seguente: quanto tempo dobbiamo ancora aspettare per avere i vertici della CONSOB operanti? Grazie.

GIAN LUCA GALLETTI. Svolgo solo due osservazioni brevissime.
Trovo estremamente positivo il percorso che abbiamo intrapreso in sede europea. Abbiamo discusso in Parlamento nel culmine della crisi e abbiamo condiviso che ciò che è capitato è avvenuto perché avevamo la moneta unica, ma non regole comuni.
Noi sosteniamo, dunque, tutto ciò che va nel senso di darsi regole comuni rafforzando il sistema.
Chiaramente, però, chiediamo di condividere il più possibile queste scelte, proprio perché siano del Parlamento e non solo del Governo e lo facciamo con molta responsabilità.
Per venire alle questioni domestiche, sui tagli lineari continuo a pensarla come prima e sostengo che non esistono spese non aggredibili. Con le riforme le spese non aggredibili lo diventano. Le spese per le province oggi sono non aggredibili, ma, se le province vengono accorpate, le relative spese diventano aggredibili. Vorrei, quindi, che nel medio-lungo periodo si riducesse la spesa che oggi sembra incomprimibile.
Passo alla domanda, molto brevemente. Abbiamo alcune priorità, che vanno dal «quoziente familiare» alla «cedolare secca» sugli affitti, alla sicurezza, alla giustizia, alle scuole, alle piccole e medie imprese. Qual è la compatibilità di queste spese con il nostro bilancio attuale? È una compatibilità nel lunghissimo periodo o esiste un progetto da parte del Governo per poter rendere tali questioni operative nel breve periodo?

PRESIDENTE. Credo che il Ministro Tremonti ci debba lasciare.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,05.

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