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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissione XI
4.
Mercoledì 8 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti del CNEL:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 7 9 11
Cazzola Giuliano (PdL) ... 8 10
Gnecchi Marialuisa (PD) ... 7
Marzano Antonio, Presidente del CNEL ... 3 9 10
Schirru Amalia (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 8 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 9,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti del CNEL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione dei rappresentanti del CNEL.
Sono presenti il professor Antonio Marzano, il segretario generale, consigliere Franco Massi, il dottor Stefano Bruni, il dottor Valerio Gironi e la dottoressa Larissa Venturi.
Nel ringraziarli ancora una volta per la loro presenza, do loro la parola.

ANTONIO MARZANO, Presidente del CNEL. Grazie, presidente e onorevoli parlamentari. Nel corso dei sessanta anni e più trascorsi dal varo della nostra Costituzione, con il suo incipit «L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro», la società ha conosciuto profonde trasformazioni che hanno coinvolto in misura massiccia proprio il lavoro. È cambiata la sua cultura, la sua organizzazione, il rapporto tra esso e le persone.
Il CNEL, soprattutto negli ultimi anni, ha dedicato una riflessione complessiva e sistematica sul cammino fatto dal Paese e sui gravi problemi che abbiamo tuttora di fronte proprio con riferimento alla situazione del mercato del lavoro. Lungo questa direttrice di lavoro si pongono i rapporti sul mercato del lavoro pubblicati annualmente - tra poco vareremo il rapporto relativo all'ultimo anno - e anche due indagini elaborate nella scorsa consiliatura. La prima, che abbiamo intitolato «Il lavoro che cambia», fu effettuata sulla base di una triplice iniziativa del Presidente del Senato, del Presidente della Camera e del Presidente del CNEL; l'altra verte sulle trasformazioni del sistema delle imprese in Italia, presentata anch'essa, come la prima, alla Camera nell'aprile del 2010.
Queste due relazioni nella loro distinzione e nella loro anche complementarietà, lavoro e imprese, si iscrivono nella linea di approfondimento delle tendenze economiche e sociali e di esplorazione anche dei futuri possibili partendo dalle specificità del sistema italiano, ossia la predominanza dell'impresa minore, i sistemi locali, il capitalismo familiare, le specializzazioni produttive italiane. In esse trovano sottolineatura le discontinuità che caratterizzano la presente fase storica e che difficilmente possono essere affrontate seguendo i vecchi schemi.
Ci troviamo di fronte a mercati diventati globali, a tecnologie e servizi di elevato contenuto innovativo, a una dinamica economica e internazionale che probabilmente registrerà per molto tempo oscillazioni


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cicliche - è stata smentita una posizione degli economisti propria del precedente decennio secondo la quale il ciclo non c'era più, era scomparso - per cui saremo intorno a un trend moderatamente crescente, quanto meno nei principali Paesi industriali.
Di qui nasce l'esigenza di elaborare e implementare mosse strategiche e coerenti con i mutamenti in corso e di attivare politiche efficaci per quanto possibile per intraprendere un sentiero di soddisfacente e sostenibile crescita in linea con le aspettative delle imprese, delle persone che operano nelle imprese, in definitiva dell'intera società.
In questo senso la condizione giovanile, con una particolare attenzione alle giovani donne, rappresenta a oggi un ambito di particolare interesse e problematicità soprattutto in considerazione del ruolo e del peso che le generazioni più giovani hanno nelle società contemporanee anche sotto il profilo dell'iniziativa politica (come sappiamo con riferimento ad altri Paesi). Nel corso degli ultimi decenni la situazione dei giovani italiani è andata progressivamente peggiorando, tanto da essere una delle meno favorevoli in Europa e nel mondo occidentale.
Tra il 2007 e il 2009 la disoccupazione giovanile è aumentata - sono dati OCSE - di 7,8 milioni a livello globale rispetto a un incremento complessivo del numero di disoccupati di 28,9 milioni. Inoltre, la crescita economica, non particolarmente vivace all'indomani del biennio di recessione, rischia di produrre effetti preoccupanti di lungo periodo sulle dinamiche del mercato del lavoro giovanile.
In primo luogo, la lentezza della ripresa, un fatto molto grave, su cui forse successivamente, se ci sarà tempo, potremmo fare qualche riflessione ulteriore, potrebbe ritardare l'ingresso nel mercato del lavoro dei giovani e prolungarne la permanenza nei ruoli dell'istruzione anche per quelli meno inclini agli studi. Non trovando un posto di lavoro, non sperando di trovarlo, continuano a studiare anche se non sono inclini a ciò.
In secondo luogo, le deboli condizioni economiche potrebbero rendere difficile il periodo di transizione dall'istruzione al mercato del lavoro con il rischio che un maggior numero di giovani rimanga intrappolato in più lunghi periodi di disoccupazione e/o in lavori precari mal remunerati.
In questo contesto risulta emblematico il fenomeno dei cosiddetti NEET (not in education, employment or training) né impiegati, né nello studio, giovani in età compresa tra i 20 e i 29 anni, che appunto non studiano, sono disoccupati o inattivi e, insomma, appartengono a una fascia grigia di sfiducia e di abbandono.
I recenti dati pubblicati dall'OCSE nel 2010 sull'occupazione giovanile parlano di circa 17 milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano. Di questi 17 milioni, solamente 7 sono in cerca di un impiego perché i restanti 10 hanno smesso di cercare un lavoro. Lo status di questi cosiddetti NEET è generalmente transitorio e si osserva al termine del percorso scolastico. Fino a 18 anni gli adolescenti risultano, comunque, essere studenti a tempo pieno anche in considerazione dell'innalzamento dell'obbligo scolastico prima dell'inizio dell'attività lavorativa, anche se esiste il rischio concreto del caso di un prolungamento di questa situazione, di marginalizzazione dal mercato del lavoro.
In Italia la quota dei cosiddetti NEET rispetto a quella che si registra negli altri Paesi dell'area OCSE risulta particolarmente elevata e, comunque, in forte crescita proprio negli anni 2008-2009, allorquando si registrano gli effetti della grave crisi economica e finanziaria mondiale che colpisce pesantemente i giovani a causa della loro maggiore fragilità nel mercato del lavoro.
Nell'Unione europea intesa a 27 la probabilità di rimanere NEET, né occupati né sugli studi, è inversamente correlata al grado di istruzione: più è elevato il grado di istruzione, maggiore è il rischio di essere NEET. Questo starebbe a indicare - forse un approfondimento in questo senso andrebbe compiuto, presidente - che l'istruzione


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che hanno non è quella richiesta dal mercato del lavoro. Se quanto più studiano, più è probabile che rimangano fuori dal mercato del lavoro, c'è qualcosa che non funziona. Io non sono in grado stamattina di fare questo approfondimento, ma mi permetto di segnalare il fatto.
I giovani tra i 25 e i 29 anni con istruzione elevata rimangono fuori dall'occupazione, disoccupati o inattivi, e a livello geografico, naturalmente, trova conferma la distanza tra le diverse aree territoriali, che vede una quota di NEET al sud più che doppia rispetto al centro nord. La quota di NEET nel sud corrisponde alla media della quota dei disoccupati giovanili nei Paesi della costa africana, quella dove si stanno verificando queste tensioni. La percentuale maggiore al sud è dovuta non solamente al più elevato livello di disoccupazione che si registra nel Mezzogiorno, ma anche allo scoraggiamento che tocca, in particolare, le giovani donne.
Inoltre, va detto che proprio a causa delle maggiori difficoltà incontrate per l'inserimento nel mercato del lavoro, si osserva una più alta percentuale di studenti tra i 25 e i 30 anni al sud, pari al 15 per cento rispetto all'8,6 per cento di giovani studenti rilevati al centro nord. Non hanno speranza di trovare lavoro e continuano a fare gli studenti.
Infine, da un esame delle caratteristiche presenti nel mercato del lavoro del nostro Paese emerge che al sud solo 1 giovane su 5 tra i 20 e i 30 anni ha un contratto di lavoro permanente contro un 37 per cento nel centro nord.
Tuttavia, la crescente importanza attribuita alla riflessione sui giovani e sulle politiche giovanili non va letta esclusivamente come l'espressione di un'emergenza congiunturale, ma come un problema anche di lungo periodo. Si tratta di capire come sarà la società del prossimo futuro individuando risposte e azioni che possano riequilibrare le storture esistenti.
Le giovani generazioni costituiscono, insomma, la principale risorsa e investire su di essa significa investire sulla ricchezza futura del Paese, ossia su un'economia basata su una conoscenza competitiva e dinamica. Non mi stancherò mai di dire che occorre introdurre più meccanismi meritocratici nel nostro Paese, che premino il merito perché questa deve essere la società della conoscenza, nel senso delle conoscenze non delle raccomandazioni, che sono due cose molto diverse.
A tale proposito è importante promuovere e intensificare le policy volte a favorire l'inclusione attiva dei giovani anche al fine di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni provenienti dall'Unione europea che, a partire dalla strategia di Lisbona 2000 sino alla recentissima strategia europea 2020, si è occupata in maniera più o meno diretta dell'andamento delle politiche e delle strategie comuni adottate per la costruzione di un'Unione europea più inclusiva.
In quest'ambito è stato posto l'accento, innanzitutto, sulla promozione dell'istruzione, della formazione e dell'apprendimento non formale attuata sia mediante il miglioramento delle conoscenze, delle capacità, delle competenze, in modo da rendere adeguate alle esigenze del mondo del lavoro - il problema cui alludevo prima - sia attraverso la promozione dell'apprendimento lungo tutto l'arco della vita; in secondo luogo, sull'incoraggiamento alla transizione tra i sistemi educativi e il mercato del lavoro attuato mediante strumenti quali, tra gli altri, l'offerta di servizi di orientamento di qualità e l'acquisizione di esperienze lavorative, come l'apprendistato e i tirocini, durante il ciclo scolastico; in terzo luogo, sulla promozione del lavoro autonomo e dell'imprenditorialità mediante il ricorso a una serie di azioni, tra le quali la facilitazione della mobilità e la partecipazione dei giovani alle reti per giovani imprenditori.
Nonostante tutto, i dati a tutt'oggi disponibili attestano che in Italia la propensione delle imprese all'investimento in formazione è molto bassa: 32 imprese su 100, superiore solo a Grecia e Bulgaria nell'Unione europea dei 27. Inoltre, per far crescere la propensione delle imprese a investire nella formazione è necessario che


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a dieci anni dalla loro costituzione trovino definitiva valorizzazione i Fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua che, come precipua missione, hanno quella di finanziare piani formativi aziendali settoriali territoriali che le imprese in forma singola o associata intendono realizzare per i propri dipendenti. Vi segnalo, dunque, questi Fondi paritetici interprofessionale, che potrebbero avere un ruolo importante, ma che ancora non si vedono in azione.
Tra gli interventi sino a oggi predisposti va segnalata la realizzazione del Piano di azione per l'occupabilità dei giovani attraverso l'integrazione tra apprendimento e lavoro promosso dal Ministero della gioventù, dell'istruzione e del lavoro, il quale ha avviato un ripensamento, una riflessione sulle politiche e sulle azioni a favore dei giovani individuando, sulla base della strategia Lisbona 2020, alcune priorità strategiche su cui concentrare gli interventi: migliorare e agevolare la transizione scuola-lavoro, agendo, da un lato, sull'eccessiva concentrazione delle scelte formative dei giovani su percorsi deboli e, dall'altro, sull'innalzamento della qualità dei servizi di intermediazione; rilanciare l'istruzione tecnico-professionale che muove dalla constatazione dell'attuale carenza nell'offerta di lavoro giovanile di profili tecnici e professionali intermedi e superiori; rilanciare il contratto di apprendistato nell'ottica di una migliore integrazione tra sistema educativo formativo e mercato del lavoro; promuovere i tirocini formativi e di orientamento come canale privilegiato insieme all'apprendistato per l'inserimento dei giovani delle fasce di età più basse nel mercato del lavoro; intervenire sulla qualità e sulla funzione degli studi universitari a partire da una semplificazione e riduzione del numero dei corsi di laurea triennale con l'obiettivo di aumentare il numero di laureati che siano in grado, però, di svolgere un'attività lavorativa attinente all'istruzione ricevuta; infine, ampliare il rapporto tra dottorati di ricerca e sistema produttivo aprendo i dottori di ricerca alla collaborazione e allo scambio con il mondo delle imprese e consentendo loro di acquisire una dimensione sempre più extra accademica e sempre più produttiva e di rango anche internazionale. Questo piano prevede uno stanziamento complessivo di 1 miliardo e 82 milioni di euro, suddiviso tra Ministero del lavoro, Ministero dell'università e Ministero della gioventù, ed è oggi alla prova dei fatti.
Un focus particolare va dedicato alle giovani donne e all'imprenditoria femminile. L'impresa femminile è presente in tutti i settori economici pur concentrandosi in alcuni di questi, come l'agricoltura, il manifatturiero, l'artigianato, il turismo e i servizi. È molto radicata sul territorio e può avvalersi dell'aiuto di una fitta rete familiare e amicale per conciliare - è una caratteristica italiana - gli impegni della vita privata con quelli lavorativi. Il forte legame che la maggior parte delle imprese ha con il territorio impone l'elaborazione di strategie di sviluppo diversificate tra modelli riferiti alle aree urbane e modelli riferiti alle aree rurali. Serve una rivisitazione del territorio inteso come struttura di relazioni che producono attività e come spazio in cui si snodano iniziative che prevedono la connessione tra aree rurali e aree urbane.
È proprio la connessione tra aree urbane e rurali che può contare su tutte le espressioni imprenditoriali femminili e sulla capacità di relazione delle donne. La fotografia che emerge da un'indagine condotta dall'Unioncamere pone in risalto una partecipazione femminile al mondo delle imprese in forte espansione nonostante la difficile congiuntura economica e, al tempo stesso, una maggiore propensione a vivere in campagna.
Tra imprenditori e imprenditrici sembrerebbe avanzare l'idea di una ruralità nuova - questo è un cambiamento su cui bisogna portare attenzione - le cui performance economiche e i cui connotati socioculturali (il nucleo è costituito da donne giovani) sarebbero espressione della capacità innovativa di una leva imprenditoriale in linea con le tendenze positive dell'economia del turismo e dell'ambiente.


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Pur nella consapevolezza che non sia possibile né auspicabile tornare a una sorta di età rurale, è diffusa la sensazione che nel rurale, dove si trovano tradizioni, legami e relazioni difficili da mantenere nell'area urbana, la dimensione umana possa esprimersi in modo più «accattivante». Per costruire una nuova relazione tra urbano e rurale come strettamente interdipendenti va elaborato un nuovo sviluppo, un percorso di relazioni e di crescita per tutti i soggetti coinvolti a partire dalle donne e dalle imprese.
Nella nuova strategia 2010-2015 per la promozione della parità tra uomini e donne nell'Unione europea presentato dalla Commissione il 21 settembre 2010, una delle priorità è rappresentata dalla promozione dell'imprenditorialità femminile e del lavoro autonomo. A parere della Commissione, l'attuazione della nuova direttiva sulle donne che esercitano un'attività autonoma dovrebbe eliminare una notevole barriera all'imprenditorialità femminile. Inoltre, nell'ambito di quanto previsto nella strategia europea 2020, le giovani donne dovrebbero beneficiare della crescente importanza data all'imprenditorialità come competenza di base che la scuola deve trasmettere a tutti gli alunni.
Presidente, in relazione ai punti che la Commissione ha segnalato come tematici su cui dibattere, a titolo personale e a latere rispetto ai punti illustrati per conto del CNEL, devo dire che, certo, si può fare molto per migliorare, come ho detto, il mercato del lavoro. Ho citato alcune linee possibili di azione, ma se non si torna a un tasso di sviluppo della nostra economia più adeguato, più soddisfacente rispetto a quello che attualmente abbiamo, è difficile che solo con azioni e iniziative, per quanto importanti, sul mercato del lavoro e sul suo funzionamento si possa veramente risolvere la maggior parte dei problemi che ho evocato.
Il ritorno allo sviluppo è, a questo punto, centrale. Se vogliamo dare ai giovani, alle donne, alla parte più debole delle forze di lavoro italiane una prospettiva e forse una speranza.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Marzano. I dati che ha fornito sono eccezionalmente utili per l'approfondimento che stiamo cercando di fare con la nostra indagine conoscitiva. Tra l'altro, debbo dire che confermano altre analisi provenute da altri istituti a dimostrazione che, effettivamente, il problema è quello e non si può sfuggire.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIALUISA GNECCHI. Ringraziamo e apprezziamo l'illustrazione del presidente Marzano. Tra l'audizione di ieri dell'ISTAT, la vostra e anche quelle che stiamo facendo per altre situazioni delle quali ci occupiamo, il quadro che emerge è veramente di preoccupazione rispetto ai giovani. A volte ci sono anche letture diverse tra a voi e l'ISTAT, in particolare rispetto ai giovani che né studiano né ricercano lavoro (sono quelli che ci fanno preoccupare ancor di più). Ciò dà la misura di una certa sfiducia sia nelle istituzioni sia nei servizi all'impiego.
Inoltre, ieri è emerso in modo molto significativo che conta ancora di più la rete delle conoscenze rispetto alle reti dei servizi normali. Da un certo punto di vista può anche essere comprensibile perché il rapporto di fiducia tra imprenditore, datore di lavoro e lavoratore conta, però è evidente che la formazione e una maggiore istruzione - il famoso ascensore sociale - dovrebbero garantire una occupabilità superiore rispetto alla rete di conoscenze.
La parte sulla quale mi sembra che non vi siate soffermati e a cui, invece, l'ISTAT ieri ha dato ampio spazio, anche sollecitata dal collega Cazzola, riguarda il discorso demografico in termini di occupabilità e necessità di forze lavoro: vorrei capire se si pensa che la situazione contingente, soprattutto legata ai giovani, si modificherà.
Pensiamo, peraltro, che se gli attuali giovani avessero la certezza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o una retribuzione che permettesse loro un progetto di vita, una famiglia e dei figli, non ci sarebbe neanche un problema di calo


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demografico, però sappiamo che questo non rientra sicuramente nelle nostre possibilità di azione, ma servirebbe un sistema riformato complessivo.
Esiste, inoltre, un discorso reale rispetto all'andamento delle pensioni e al fatto che le ultime misure di questo Governo - in particolare la n. 122 del 2010 - costringendo tutti a lavorare un anno in più o 18 mesi in più se autonomi o persone che utilizzano la totalizzazione o i rapporti di collaborazione a progetto, creano un altro problema legato alla mancanza di ricambio in termini occupazionali: vorremmo sapere se analizzate anche queste situazioni, se sono per voi oggetto di monitoraggio.

GIULIANO CAZZOLA. Ringrazio il presidente Moffa, il presidente del CNEL e i suoi collaboratori. In questi giorni, assistendo anche a queste interessanti audizioni, ho preso degli appunti leggendo diverse fonti, diversi documenti, e voglio socializzare questi aspetti arrivando anche a fare delle domande al presidente del CNEL.
È già stato sottolineato da tutti questo problema dei giovani NEET. La cosa preoccupante è che più passano gli anni, più si cresce nell'età e più aumenta il numero dei giovani che non studiano, non lavorano e non cercano occupazione. Tra i 15 e i 24 anni sono il 10,5 per cento; se si estende la ricerca a 29 anni, diventano il 21,2 per cento e sono il doppio di quanto accade nei principali Paesi europei, grosso modo in 19 Paesi europei, quelli più simili a noi; addirittura si arriva a 2,2 milioni, pari al 32 per cento, se estendiamo la ricerca a 34 anni.
Io trovo, però, che sia assolutamente illusoria l'idea che le norme possano risolvere questo problema, che potando le leggi, potando i rapporti di lavoro, imponendone soltanto di un particolare tipo, saremo in grado di risolvere il problema. In fondo, le proposte o sono risposte sul piano normativo oppure, come ieri ad esempio da parte del presidente dell'ISTAT, di fare una specie di «brigata della pace», un grande servizio civile in cui occupare i giovani nella fase di transizione, in attesa che gli andamenti demografici sistemino la questione.
Avrei voluto ricordargli l'esperienza degli LSU. Ovviamente, metteremo insieme un milione di giovani, probabilmente che spingerebbero per entrare nella pubblica amministrazione perché questa è un po' la storia italiana di questi interventi legislativi della pubblica amministrazione a favore dell'occupazione giovanile fin dagli anni Settanta con una famosa legge (se non ricordo male, la legge n. 285 del 1977). Alla fine si sono trovati tutti alla pubblica amministrazione.
Ci sono alcune contraddizioni che vorrei socializzare brevemente: abbiamo il 6 per cento dei giovani che a 16 anni è fuori da qualsiasi attività formativa; il 26,5 per cento degli effettivi di ogni generazione che si diploma con un ritardo da 1 a 6 anni; solo il 16,5 per cento di giovani che si impiega in un lavoro per cui ha ottenuto il diploma; il 70 per cento dei diplomati si iscrive all'università anche se in ritardo; il 46 per cento degli iscritti finisce fuori corso; 1 studente su 6 non fa neppure un esame all'anno; 1 iscritto su 5 abbandona lo studio; i giovani acquisiscono la laurea triennale a 25 anni, quella quinquennale a 27 anni, tre o quattro anni dopo i coetanei europei. Peraltro, ieri il presidente dell'ISTAT ci ha detto che quelli che, invece, trovano occupazione sono i dottori di ricerca, però diventa assurdo che si debba studiare fino oltre i 30 anni per trovare occupazione quando i coetanei europei la trovano a 23-24 anni.
La cosa preoccupante, tuttavia, è che dopo un anno dalla laurea solo il 47 per cento è occupato, cinque anni or sono era il 57 per cento, contro il 77 per cento della Germania, tanto che la discesa del tasso di attività dei laureati è passata dal 2000 al 2009 da noi dall'81 al 68 per cento. Questo scenario del giovane che accede al mercato del lavoro impatta con alcune contraddizioni che riguardano il mercato del lavoro.
Non la faccio lunga: noi abbiamo, nello stesso tempo, la più alta percentuale dell'Unione europea di non occupazione dei giovani dai 15 ai 29 anni e la più alta


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disponibilità di posti di lavoro vacanti per mancanza di competenze tecniche - mi pare che addirittura la quantificazione dell'ISTAT sia nell'ordine dello 0,6 per cento nel 2010 - la più alta disponibilità di posti di lavoro manuale che nessuno vuole occupare; la media di primo impiego a 22 anni contro i 17 anni circa in altri Paesi; il minor tasso di attività tra laureati; una maggior percentuale di laureati con stipendi inferiori a quelli di un buon saldatore.
Tutto questo accade in un contesto in cui negli ultimi vent'anni i giovani con età inferiore a 29 anni si sono quasi dimezzati e ricordo, come ho ricordato ieri, e concludo, il rapporto CNEL del 2009 che, sostanzialmente, prefigurava un'uscita dal mercato del lavoro di qui al 2020 di 8 milioni di lavoratori non sostituibili né con le nuove coorti - non siamo in condizione di determinare un supporto naturale - e nemmeno con il lavoro degli immigrati. Mi pare che ci sia un groviglio di problematiche molto difficile da risolvere nel breve periodo e, soprattutto, con soluzioni come sono quelle che spesso sono indicate.

PRESIDENTE. Soltanto per dare un po' di ordine ai nostri lavori, avverto che l'Aula riprenderà con immediate votazioni alle 10,05.

AMALIA SCHIRRU. Mi ha colpito, per quanto riguarda l'occupazione femminile, l'indicazione dell'autoimprenditorialità, la tendenza al ritorno alle aree agricole e rurali con quel sistema di relazione città-campagna che è sempre stata una teoria anche negli anni Ottanta e che, però, non siamo mai riusciti a concretizzare se non con alcune situazioni di nicchia.
Il ritorno avviene, però non riguarda, almeno dalla conoscenza che ho io, i giovani, non riguarda le donne giovani, ma tutt'al più una fascia di età più ampia che riguarda una fase successiva all'uscita dal lavoro o alla pensione. Mi chiedevo come avete misurato questa tendenza e su quali aree questo fenomeno si registra, anche per capire quali interventi mettere in campo per allargare questa maglia, che per il momento mi risulta circoscritta.
Ho l'esempio di molte ragazze, ma sono delle eccezioni, che hanno studiato, frequentato l'università, e poi vanno a fare anche «le pastorelle», o comunque si organizzano delle aziende per il pascolo, però vorrei sapere come capire e studiare meglio una eventuale tendenza per intervenire.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

ANTONIO MARZANO, Presidente del CNEL. Mi costringono a essere un po' sintetico. Insisterei molto, se mi consentite, sull'accenno che ho fatto prima alla necessità di una società che riconosca il merito. Riconoscere il merito, infatti, è un incentivo a meritarsi le cose. Bisogna, quindi, superare, soprattutto in alcuni settori della nostra società, l'idea che premiare il merito sia un fattore di diseguaglianza sociale. Ho l'impressione sia un po' il contrario, e che cioè quelli che non meritano riescono egualmente ad andare avanti in quanto hanno altri modi di procedere nella loro avanzata sociale. In altre parole, penso che il merito sia il principale strumento di emancipazione e di riscatto soprattutto per quei giovani che appartengono a famiglie socialmente deboli. È lì la scommessa del futuro. La mancanza di riconoscimento del merito è la cosa più grave perché per un disoccupato che meriterebbe è più grave che per un disoccupato che ha minori meriti.
Una certa dose di flessibilità, cari parlamentari, è assolutamente indispensabile. Il problema è ridurre il tempo necessario per passare da un'occupazione a una successiva e, soprattutto, non può esserci una precarietà per tutta la vita. Il problema è piuttosto questo perché ricordiamo sempre che la principale precarietà è quella del disoccupato: chi è più disoccupato del precario? Meglio avere un lavoro magari non indeterminato purché, però, si riduca il tempo tra un'occupazione e l'altra, purché non si sia in questa condizione per troppo tempo e ci siano politiche di accompagnamento, una forma di flex-security, come si dice nella letteratura anglosassone,


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per coloro che sono in questa posizione.
È vero quello che diceva l'onorevole Cazzola, il problema è terribilmente complicato, sono tanti i fattori da tener presenti. Uno cui io stesso accennavo riguarda un approfondimento sulla eventualità che il tipo di istruzione che diamo sia una delle variabili che influenzano il mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro sul mercato. Questo meriterebbe proprio un'indagine.

GIULIANO CAZZOLA. L'indagine punta a questo.

ANTONIO MARZANO, Presidente del CNEL. Questa è una cosa fondamentale, però allora dovreste coinvolgere tutti gli istituti.
Con riferimento alla domanda dell'onorevole Schirru, posso segnalarle il Rapporto Unioncamere del febbraio 2010, in cui si vede che il 27 per cento delle donne imprenditrici vanno in quel settore dell'agricoltura e in cui si vede anche che i giovani hanno una tendenza al ritorno. Credo che un certo affermarsi delle esigenze ambientaliste nel nostro Paese influenzi parecchio questo orientamento dei giovani verso un'economia anche rurale.
Il problema è molto complicato, signori parlamentari, e come dicevo, a fare da sfondo a queste difficoltà non vi è solo il meccanismo di funzionamento del mercato del lavoro - terremo tra poco al CNEL una riflessione sul modello renano, su quello che di quel modello si può considerare positivo e ripetibile in Italia (lì il sindacato è quasi unitario, quindi, sorge il problema della rappresentanza, che va risolto al più presto nel nostro Paese) - : con tassi di sviluppo di questa entità non si risolve nessun problema tra quelli di cui ci siamo occupati questa mattina.
Vorrei dire che il problema diventa quello della produttività e, naturalmente, anche della creazione di posti lavoro, ma sono in ogni caso collegati. Bisogna anche catturare la produttività, e quindi conta una contrattazione potenzialmente vicina alle imprese e non soltanto il contratto nazionale, che resta importante per alcuni aspetti fondamentali. Il ruolo della Confindustria comunque rimane, mi riferisco ad alcune polemiche in corso. Tuttavia, se tendenzialmente le maggiorazioni salariali tendono a livellarsi come caso estremo, ma per capirci, all'aumento medio della produttività del Paese, vuol dire che in molti settori o aziende in cui la produttività cresce di più, il salario cresce meno di quello che potrebbe se la contrattazione fosse a livello aziendale e, conseguentemente, i consumi crescono meno di quello che potrebbero se la contrattazione fosse più decentrata, e quindi il tasso di sviluppo dell'economia potrebbe essere maggiore.
Il problema in questo Paese, quindi, è la produttività e i dati in questo senso parlano chiaro perché è l'aumento della produttività che in questo Paese è minore che in altri.
Permettetemi di fare alcune considerazioni che non sono del CNEL, ma personali, se posso, presidente, rapidamente, senza interferire con i tempi. Noi siamo costretti in una camicia di forza che deriva dall'applicazione dei parametri europei sulla finanza pubblica. Questa costrizione rende difficile, tra l'altro, manovrare una delle variabili fondamentali per lo sviluppo dell'economia, che è la pressione fiscale sulle imprese e sui lavoratori. Si tratta di un problema cruciale che in qualche modo ha origine nei parametri europei.
Noi siamo tutti in Europa molto impegnati per tirare fuori uno dei Paesi che ci è anche più caro dal punto di vista della storia della nostra cultura e civiltà, la Grecia, dall'impasse in cui si trova. Mi chiedo se il modo in cui si distribuisce l'onere tra i vari Paesi sostenuto a questo scopo sia proporzionale all'impegno dei sistemi bancari dei vari Paesi verso la Grecia.
In secondo luogo, non tutti i Paesi europei partecipano con lo stesso impegno umano e finanziario alle missioni di pace o di ricostituzione della democrazia nel mondo. Alcuni Paesi si impegnano di più in questa direzione, l'Italia è uno di quelli, altri di meno: non si potrebbe sostenere in sede


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europea che questo tipo di spese sia distolto, sottratto alle spese che contano agli effetti del parametro di Maastricht? Ci sono Paesi che non partecipano a queste missioni e che traggono i vantaggi economici e politici come gli altri che, invece, vi si impegnano.
Ancora, è proprio giustificato trattare le spese correnti e quelle di investimento pubblico allo stesso modo agli effetti dei parametri di Maastricht? Non c'è una differenza? Qualunque impresa fosse in difficoltà e chiedesse credito bancario, avrebbe risposte diverse a seconda che quel credito bancario servisse alle spese correnti o ai suoi investimenti e alla loro qualità. Si dubita sul fatto che si tratti veramente di investimenti produttivi? Immaginiamo anche un organismo di certificazione, non parlo di un'altra authority, che attesti che si tratta di spese di investimento e che, quindi, come tali meritano un finanziamento.
Qualche giorno fa, e concludo scusandomi - queste sono opinioni di Antonio Marzano, non sono nel rapporto CNEL - sui giornali si è posta questa domanda: si può ridurre la spesa pubblica senza ridurre contemporaneamente il ruolo dello Stato nell'economia e nella società? A differenza di chi ha posto la domanda, io dico di sì, che si può ridurre la spesa pubblica senza ridurre, entro certi limiti, il ruolo dello Stato nell'economia, se ci sono degli sprechi. L'eliminazione degli sprechi consente di ridurre la spesa pubblica senza perciò ridurre il ruolo dello Stato nell'economia. Allora diventa fondamentale una politica di spending review, di verifica dell'effettiva importanza o giustificazione di spese pubbliche.
Molte spese pubbliche - lo ricordo perché ho trattato questo problema quando facevo un altro mestiere - possono essere giustificate nel momento in cui la legge che le introduce è varata, ma non è detto che a distanza di anni rimangano così cruciali e importanti e, inoltre, non è detto che siano gestite in modo sempre efficiente. Nella posizione, quindi, in cui il Paese si trova, la spending review, ossia il controllo delle spese e dell'effettiva sussistenza della loro giustificazione, a mio avviso andrebbe fatto.
Dico tutto questo agli effetti del ritorno a una politica di sviluppo che oggi come oggi è seriamente irretita per gli obblighi presi in sede europea, che sono importanti, ovviamente, ma che meriterebbero un approfondimento e forse un perfezionamento.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente del CNEL e i suoi collaboratori per il loro contributo e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10.

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