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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissione XI
8.
Mercoledì 13 luglio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Moffa Silvano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti dell'ISFOL:

Moffa Silvano, Presidente ... 3 8 10 11 13
Bobba Luigi (PD) ... 9
Centra Marco, Responsabile area analisi e valutazioni politiche occupazionali dell'ISFOL ... 10
Damiano Cesare (PD) ... 9
Gatti Maria Grazia (PD) ... 8 12
Schirru Amalia (PD) ... 9
Sugamiele Domenico, Direttore macroarea formazione dell'ISFOL ... 11 12
Trevisanato Sergio, Presidente dell'ISFOL ... 3 10 11

ALLEGATO: Documentazione presentata dai rappresentanti dell'ISFOL ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

[Avanti]
COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 13 luglio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SILVANO MOFFA

La seduta comincia alle 9,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'ISFOL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione di rappresentanti dell'ISFOL.
Sono presenti il presidente Sergio Trevisanato, il responsabile dell'area analisi e valutazioni politiche e occupazionali Marco Centra e il direttore della macroarea formazione Domenico Sugamiele.
Avverto che i rappresentanti dell'ISFOL hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Nel ringraziare i nostri ospiti, do loro la parola.

SERGIO TREVISANATO, Presidente dell'ISFOL. Buongiorno a tutti. Come si diceva, ci siamo permessi di fornirvi una documentazione che non necessariamente è collegata al tema, ma che credo sia importante per alcuni contributi rilevanti.
Abbiamo consegnato due pubblicazioni recenti dell'Istituto sotto la voce «osservatorio ISFOL», che affrontano una serie di temi all'ordine del giorno e che troverete nella documentazione.
Abbiamo, inoltre, fornito un'indagine relativa alla formazione e un'altra già in vostro possesso, ma che possiamo eventualmente rifornire.
Sarò molto breve tenuto conto, peraltro, di ciò che ho visto essere stato trasmesso dagli altri istituti ed enti, per cui non vorrei ripetere. Diamo per scontate tutte le altre notizie che avete. Abbiamo cercato, nella stesura della relazione, di porre alcuni temi che, a nostro giudizio, sono originali e possono diventare un contributo ai lavori di questa Commissione.
Il documento che vi è stato consegnato ripercorre alcuni aspetti della crisi occupazionale del biennio trascorso confrontando le strategie adottate dai diversi Paesi europei. Nella seconda parte si cerca di rileggere la manovra del Governo, delle regioni e delle province autonome sin dal 2009, evidenziando in particolare alcuni tratti strutturali caratteristici del mercato del lavoro. La terza parte riguarda il confronto tra la crisi del biennio trascorso e le crisi recessive del passato.
Abbiamo, inoltre, evidenziato anche le problematiche legate all'occupazione del capitale umano, cioè l'uscita dalla scuola, e inserito nel documento allegato i diversi accordi che a livello regionale sono stati predisposti tra le parti sociali e le amministrazioni pubbliche, dove si evidenziano le modalità anche diversificate che ogni


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regione ha cercato di attuare alla luce di tutte le risorse messe sul campo e legate, appunto, alla crisi.
La crisi economica 2009-2010 ha evidenziato alcuni aspetti critici dei mercati del lavoro europeo e, tra questi, quello italiano. Rispetto alle crisi passate, si è caratterizzata, in particolare, per una minore elasticità delle variazioni congiunturali dell'occupazione rispetto alla flessione del prodotto interno lordo.
Credo che un dato sia importante: nel 1993 per ogni punto di prodotto interno lordo che in qualche misura veniva meno, c'era una sofferenza in termini di tasso di occupazione che corrispondeva all'1,1 per cento; nel 2009, in questa recente crisi, emerge che a 1 punto di PIL in diminuzione corrisponde uno 0,5 per cento di sofferenza nell'occupazione, per cui l'impatto occupazionale del periodo 2008-2009 per ogni punto di PIL perso è stato inferiore di oltre la metà rispetto al periodo 1992-1993. Credo che questo rappresenti un elemento significativo per ragionare su ciò che andremo a illustrare.
Tra gli elementi che hanno permesso di limitare la flessione occupazionale, il più rilevante, tra i tanti, è stato il robusto ricorso a strumenti di rimodulazione dell'orario di lavoro in sostituzione delle dismissioni sistematiche di personale da parte delle aziende. Evidentemente, le imprese hanno tentato di trattenere in azienda i lavoratori cercando di adottare una serie di meccanismi di riduzione di orario.
Questo, inevitabilmente, ha determinato una contrazione finanziaria di ciascun addetto per ovvi motivi poiché era più utilizzato anche sui tempi determinati; mentre diminuivano i tempi indeterminati si determinava, in controtendenza, una crescita dei tempi determinati. Naturalmente, si è determinata una riduzione di salari di ciascuno.
Altre forme di riduzione degli input di lavoro, come la cassa integrazione in deroga, sono stati il secondo elemento che ha permesso di limitare le dismissioni di personale da parte delle aziende, in special modo laddove le misure in deroga si estendano oltre il sistema ordinario.
In Italia il finanziamento destinato a forme di sostegno al reddito - ma sono dati noti - è stato cospicuo ed esteso a segmenti di lavoratori altrimenti non coperti da regimi ordinari.
Per quanto riguarda il contesto e le dinamiche nazionali, le misure messe in atto allo scopo di ridurre gli effetti della crisi sull'occupazione, ma anche sui redditi delle famiglie, hanno raggiunto ormai livelli mai toccati in passato - mi pare, però, che questi dati siano stati più volte pubblicati - sia in termini di copertura della platea di lavoratori sia di estensione del periodo di erogazione del sostegno economico. Tali provvedimenti hanno consentito l'applicazione di una strategia generalizzata basata sulla riduzione, appunto, dell'orario di lavoro.
Per comprendere un po' la dimensione del fenomeno, si può osservare come tra il quarto trimestre del 2007 e il primo trimestre del 2011, a fronte di una riduzione dell'intensità di lavoro equivalente a poco meno di un milione 300.000 unità di lavoro full time, l'occupazione si sia contratta di appena 543.000 unità.
In altre parole, attraverso schemi di riduzione dell'orario totale o parziale, si sono salvaguardati circa 700.000 posti di lavoro. Mentre in passato, cioè, l'azienda licenziava, oggi con l'operazione di trattenimento in azienda e riduzione dell'orario di lavoro si è garantito almeno un salario minimo per consentire il mantenimento.
Vi è, inoltre, il beneficio dell'intervento integrativo affidato agli enti bilaterali, costituiti dalle parti sociali, determinandosi così un ulteriore puntello ai cosiddetti ammortizzatori sociali in deroga. La deroga, quindi, e gli enti bilaterali hanno in qualche misura sostenuto anche questo processo di mantenimento, per quanto possibile, dell'occupazione. Rispetto al passato è registrabile una nuova procedura di concessione dei trattamenti, che vede ribadito e rafforzato, in particolare, il ruolo delle regioni.


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In particolare, ricordo a tutti che la procedura è stata fissata ancora nel febbraio del 2009 con l'accordo Stato-regioni, validato per il 2009-2010, poi prorogato nel biennio successivo con l'accordo del 20 aprile scorso.
Nel corso del biennio 2009-2010 il ricorso alle prestazioni di sostegno al reddito è stato notevolissimo. L'esplosione delle domande di autorizzazione al ricorso all'integrazione salariale - mi riferisco alla CIGL, CIGS e cassa integrazione in deroga, prescindendo dall'effettivo utilizzo che vedremo in che termini è stato per utilizzato - è la spia di una fortissima preoccupazione sorta in ambito imprenditoriale circa le capacità delle imprese di far fronte a un calo della domanda di beni e servizi, che in una prima fase appariva di durata di intensità assai incerta.
Tra il 2007 e il 2010 la domanda di CIG complessiva è passata da poco più di 183 milioni del 2007 a oltre un miliardo e 200 milioni di ore. Alcuni segnali di uscita dalla crisi provengono proprio dalla dinamica registrata nei primi sei mesi del 2011, quando la domanda di autorizzazione si è contratta di poco meno del 20 per cento. Esistono quindi, alcuni segnali che la crisi in qualche misura sta diminuendo anche per quanto riguarda il settore dell'occupazione.
I dati diffusi dall'INPS evidenziano una sensibile contrazione nel 2010 del cosiddetto tiraggio. Ricordo che in passato le imprese chiedevano la cassa integrazione per un certo numero di lavoratori, mentre l'utilizzo reale era decisamente inferiore. Siamo passati nel 2010 a un 50 per cento rispetto a un 65 per cento di utilizzo vero del 2009.
In termini assoluti si osserva che, a fronte di una domanda di autorizzazioni per quasi un miliardo di ore di cassa integrazione, in realtà l'utilizzo reale è poco meno di 600 milioni. Non sono cifre poco significative ma, rispetto alla massa complessiva, certamente il tiraggio ha giocato in maniera determinante.
L'estensione delle tutele degli ammortizzatori è stato rivolto anche a difesa di una platea di soggetti non coperti in passato dal regime ordinario. Sono a riprova anche tutte le azioni delle regioni negli accordi che citavo all'inizio e che hanno consentito di coprire quei lavoratori che prima non avevano copertura.
La composizione della forza lavoro nel nostro Paese manifesta una decisa correlazione tra lavoro ed età, e torniamo al problema dei giovani, uno degli argomenti su cui ci stiamo dibattendo un po' tutti in questo Paese.
Si manifesta una decisa correlazione tra la forma di lavoro e l'età, garantendo alle fasce più mature livelli di stabilità lavorativa sensibilmente superiori rispetto alla componente giovanile, che si caratterizza per un'elevata incidenza di lavori considerati non standard. Tali elementi hanno generato una crescita del tasso di disoccupazione giovanile, aumentato di 5,7 per cento dal quarto trimestre 2008 al primo trimestre 2011.
Il lavoro a tempo parziale ha mostrato, invece, una tenuta decisa nel biennio di crisi grazie alla sua importante funzione di regolatore dell'input di lavoro. A una flessione del lavoro a tempo pieno pari a 314.000 unità nel 2009 e a 308.000 nel 2010 si è registrato un calo di 65.000 unità degli occupati a tempo parziale e un incremento di 156.000 nel 2010, un più 4,7 per cento.
Il quadro nazionale mostra, in estrema sintesi, una sostanziale tenuta dell'occupazione all'impatto del calo della domanda. In tale contesto, il robusto ricorso a misure di sostegno al reddito, se, da un lato, è riuscito nel duplice intento di garantire i redditi delle famiglie e di permettere alle imprese adeguate riduzioni dell'orario di lavoro, dall'altro, evidenzia che nel nostro Paese c'è carenza di un sistema di ammortizzatori sociali strutturato e universalistico.
Relativamente all'occupazione giovanile dopo l'uscita dalla scuola, in Italia il peso percentuale degli occupati in possesso di titolo di studio terziario, come è noto, è sensibilmente inferiore alla media comunitaria. Nel 2010 gli occupati in possesso di laurea o titolo superiore rappresentavano il 17,5 per cento a fronte di un 29


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della media comunitaria e risulta più elevata l'incidenza sul totale dell'occupazione di coloro che hanno un titolo di studio non superiore alla licenza media, 35,8 contro 22 per cento di media comunitaria. L'analisi del rendimento mostra che gli investimenti in istruzione nel nostro Paese premiano chi sceglie di proseguire gli studi fino alla laurea e oltre, ma questo è un dato che conosciamo da tempo.
Nel 2010 il tasso di occupazione specifico secondo il titolo di studio risulta crescente al crescere del titolo, con la sola eccezione del diploma di scuola secondaria superiore. Mentre si rafforzano nelle aziende le opzioni di assunzione per i lavoratori con formazione medio-alta, cresce parimenti la domanda di assunzione dei qualificati nei percorsi triennali regionali del sistema di istruzione e formazione professionale. Ovviamente, anche qua va fatto un distinguo: il fenomeno è più concentrato nelle regioni del nord e in parte del centro, meno al sud. L'orientamento registrato negli ultimi anni ha visto costantemente salire questa quota percentuale delle preferenze relative alle assunzioni a livello formazione professionale regionale.
L'indagine ISFOL del febbraio 2011, che vi è stata allegata, recupera quattro dati che vi espongo. È stata condotta un'indagine su 3.600 giovani qualificati nell'anno scolastico 2006-2007: a tre mesi, al conseguimento della qualifica, un giovane su due e dopo tre anni trova il suo primo impiego e dopo tre anni la quota degli occupati sale al 59 per cento; rispetto alla tipologia del contratto, l'87 per cento dei giovani svolge un lavoro dipendente, l'8 un lavoro autonomo e il 5 ha un contratto di collaborazione; i contratti più diffusi riguardano l'apprendistato, 36 per cento, il contratto a tempo indeterminato, 33 per cento, il contratto a tempo determinato, 25.
Per quanto riguarda l'efficacia degli esiti formativi, si è rilevato che subito dopo la qualifica il 35 per cento dei giovani decide di continuare. Di questi, la maggior parte prosegue il quarto anno di percorsi IeFP, dove presenti, come in Lombardia, quasi 1 su 10 sceglie i corsi post-diploma o post-qualifica e quasi 2 su 10 la scuola superiore.
A tre anni dalla qualifica circa il 10 per cento dei giovani si trova a scuola, all'università o in formazione superiore. Sono dati che evidenziano, in particolare, il riuscito innesto della filiera degli IeFP rispetto alla riforma operata con la legge n. 153 del 2003, sia perché consentono ottimi livelli occupazionali stabili sia perché garantiscono la prosecuzione degli studi.
Ragionamento diverso, invece, vale per le retribuzioni. Il divario retributivo tra occupati con diversi titoli di studio mostra un rendimento crescente del titolo di studio e mi pare ovvio. La retribuzione media dei laureati riferita ai soli occupati dipendenti è superiore del 28,9 per cento rispetto a quella di diplomati. Tuttavia, il rendimento dell'investimento in istruzione è nel nostro Paese minore rispetto a quanto accade nei maggiori Paesi europei.
Nel 2010 il 76,4 per cento dei nostri laureati ha un'occupazione a fronte dell'80 per cento in Francia, dell'87 per cento in Germania, un fenomeno che deriva, a giudizio dell'indagine svolta dall'Istituto, principalmente dall'assenza nel nostro Paese di un sistema di formazione professionale terziaria di durata triennale, dall'aumento, soprattutto nel Mezzogiorno, delle lauree in discipline umanistiche e storico-sociali e se si correla, altresì, a un basso utilizzo del capitale umano. Soltanto il 45 per cento dei giovani ritiene che la formazione ricevuta sia coerente con il lavoro che svolge.
Nell'ultimo decennio è in crescita un processo di sottoinquadramento contrattuale per i giovani in possesso di diplomi o cosiddette lauree deboli, fattori che hanno determinato dinamiche che segnalano una forte contrazione delle immatricolazioni all'università in termini sia assoluti sia percentuali.
Nel 2003 la percentuale dei diciannovenni che si iscrivevano all'università si attestava al 56 per cento; nel 2009-2010 si


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è ridotta al 47 per cento. Nello stesso periodo gli immatricolati sono passati da oltre 338.000 a 293.000.
Appare, dunque, evidente come l'università italiana abbia una scarsa capacità di attirare i giovani diplomati, anche in presenza di un aumento consistente delle iscrizioni ai licei e un'equivalente riduzione delle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali.
Gli effetti della crisi finanziaria sembrano aver investito anche l'apprendistato. Gli ultimi dati INPS del 2009 registrano un numero di occupati inferiore alle 600.000 unità, ovvero 591.000. Per la prima volta, dunque, dal 1998, anno della prima riforma dello strumento, i dati mostrano una flessione della media annua degli occupati in apprendistato pari a oltre 50.000 unità rispetto al 2008.
Nel corso dell'anno 2008 sono stati coinvolti in attività formative per l'apprendistato, soprattutto quelle programmate dalle regioni e province autonome, e ci riferiamo a una platea del 26,5 per cento su un numero complessivo di 169.000 giovani degli apprendisti occupati, a parte qualche centinaia di giovani inseriti nei percorsi dell'alto apprendistato, pressoché integralmente apprendisti assunti con contratto professionalizzante. Di questi, il 69 per cento ha completato il percorso formativo relativo all'anno considerato.
Un altro elemento che abbiamo voluto considerare riguarda i tirocini: secondo i dati dell'ultima rilevazione, nel 2009 il numero dei tirocini realizzati è stato pari a 321.850. In sostanza, il 15 per cento del totale delle imprese private italiane ha ospitato tirocinanti. La ripartizione per macroaree non fa rilevare significativi scostamenti. Nel nord est si rileva la propensione più elevata ad accogliere i tirocinanti, 18,6 per cento, mentre nel Mezzogiorno il valore scende all'11.
Il numero dei tirocini registrato per l'anno 2009 indica una progressiva crescita del fenomeno, che evidentemente va tenuto in debita considerazione e sostenuto anche in futuro perché credo sia un passaggio obbligato per cercare di coinvolgere i giovani nel mercato del lavoro e nelle imprese. Nel 2006 la stessa indagine faceva rilevare 228.000 tirocini attivati nelle imprese italiane, mentre rispetto al 2008 la variazione percentuale è stata pari a un più 5,4 per cento.
L'altro elemento su cui vorrei attirare la vostra attenzione è l'integrazione programmatica tra le amministrazioni regionali e le parti sociali per il sostegno della formazione dei lavoratori. Si tratta ancora di un problema aperto, ma di grande interesse e importanza, e che ha acquisito negli ultimi anni le esperienze e le opportunità di integrazione tra pubblico e privato.
Mi riferisco, in particolare, all'articolazione delle fonti finanziarie. Corrispondono in particolare a linee di intervento specifiche rivolte a target diversi. Alcune fonti finanziarie sono, infatti, dedicate per loro natura esclusivamente ai lavoratori dipendenti, come i fondi interprofessionali, che dispongono non solo di risorse nazionali, ma anche di fondi paritetici interprofessionali che derivano, come ben noto, da contributi versati dalle imprese.
Altre fonti, come il Fondo sociale europeo, presentano margini di manovra teoricamente più ampi e possono essere utilizzati per il sostegno alle iniziative formative dirette ad altre categorie, peraltro di fondamentale importanza considerando la specificità della struttura produttiva nazionale.
Prassi di accordo sui territori si rendono, quindi, necessarie. Alcuni esempi e alcune realtà hanno portato ad accordi tra fondi interprofessionali e strumenti formativi legati al Fondo sociale europeo da altri strumenti finanziari disponibili. Tuttavia, la complessa articolazione delle fonti di finanziamento si accompagna anche alla conseguente compresenza di diversi gestori, aventi oggettivamente obiettivi, ruoli e collocazioni molto diversificati.
In particolare, le regioni, nella loro veste di principali gestori del fondo sociale, e le parti sociali, che raccolgono attualmente la parte di gran lunga maggiore dei contributi versati dalle imprese


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per la formazione dei lavoratori dipendenti, hanno più volte tentato di creare questo meccanismo di integrazione, ma gli aspetti finanziari e le diverse procedure, la tipologia di intervento che viene realizzato da ciascuno hanno generato qualche difficoltà nel mettere insieme questi due sistemi.
L'approccio sistematico verso l'integrazione, diversamente, avrebbe dovuto sostanziarsi anche attraverso le attività svolte dall'Osservatorio nazionale per la formazione continua, che ha in realtà ha condotto la stipula degli accordi diretti tra regioni e parti sociali, ma quasi esclusivamente al nord. Attualmente, sono stati otto concentrati essenzialmente nelle regioni del nord e del centro, che sembrano tutti accomunati dall'esigenza di condividere e sistematizzare alcuni specifici ambiti.
La natura e la profondità della crisi in atto ha indotto anche il legislatore a prorogare con la finanziaria 2010 tali previsioni a tutto il 2011 e a prevedere un possibile intervento delle parti sociali attraverso i fondi anche a supporto delle politiche passive sotto forma di sostegno al reddito.
Mi fermerei qui. Credo che il documento che vi è stato dato sia esaustivo. Vorrei aggiungere che la possibilità di impiego di parte delle risorse dei fondi interprofessionali per la formazione dei lavoratori soggetti a procedure di mobilità nel corso del 2010 e, soprattutto, per coloro che vengono assunti nello stesso anno, è un campo da indagare per coniugare meglio una serie di azioni promosse dai diversi fondi.

PRESIDENTE. Ringraziamo il presidente anche per quest'analisi molto esauriente, che mette al centro della riflessione della Commissione una serie di dati credo estremamente utili per la nostra indagine.
Do la parola ai colleghi che vogliano intervenire per porre domande o formulare osservazioni.

MARIA GRAZIA GATTI. Vorrei, anzitutto, ringraziare per il tipo di informazione che ci è stata fornita e anche per il tipo di documentazione, che vedo particolarmente ricca e che leggeremo con attenzione. Ora abbiamo potuto seguire relativamente la relazione, ma alcuni elementi li ho colti e vorrei su questo porre alcune domande.
Relativamente al sistema degli ammortizzatori sociali, lei ha dichiarato che l'Italia ha un sistema strutturato di ammortizzatori, posizione che condivido, mentre giudico un po' azzardata la definizione di universalistico. Non so se siete in possesso di dati diversi, ma abbiamo a nostra volta provato a fare una serie di indagini interne con interrogazioni specifiche e, per esempio, secondo il Ministero del lavoro - mi piacerebbe conoscere i vostri dati sull'apprendistato, che secondo me è stato uno degli allargamenti veri di copertura - per quel che riguarda i lavoratori atipici, abbiamo una copertura di 9.000 lavoratori dal 2008 a fronte di circa 30-40 mila domande e rispetto a un finanziamento che, invece, c'era e non è stato utilizzato.
Formalmente, quindi, forse si cerca di coprire una serie di situazioni, ma nei fatti, molto probabilmente per vincoli troppo stringenti, la copertura è estremamente relativa.
Inoltre, per parlare di un sistema di ammortizzatori universalistico, bisognerebbe forse cominciare a pensare anche a una copertura di figure diverse, non solo di lavoro dipendente.
Per quel che riguarda la riflessione generale che faceva all'inizio sul rapporto tra perdita di PIL e occupazione, è particolare. Noi siamo passati da un punto percentuale circa allo 0,5 per cento: questo, però, non dà un'indicazione anche su che cosa sta succedendo e succederà quando il PIL tornerà a crescere? L'ipotesi di un punto di PIL che avrebbe rappresentato un'aspettativa di aumento di occupazione, che mi sembra frustrata in questo momento rispetto a una ripresa del PIL, non è determinato anche forse da questo? E questo non è collegato forse alla qualità dell'occupazione che abbiamo?


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Per quel che riguarda l'apprendistato, avrei una domanda relativamente ai rapporti che avete presentato negli anni precedenti rispetto alle ultime indagini svolte (se le avete a disposizione): quanta formazione hanno fatto gli apprendisti? Alla fine del processo, per quello che si può sapere, in questi anni come è andato l'elemento dell'assorbimento? I contratti di apprendistato si sono, cioè, trasformati in assunzioni a tempo indeterminato? Quanto all'esperienza dei tirocini, quanti hanno prodotto un rapporto di lavoro vero, diverso dal tirocinio?
Sono, inoltre, profondamente d'accordo sulla necessità di accordi territoriali sui fondi interprofessionali anche perché penso che siano veramente i fondi più grossi a disposizione in questo momento.

LUIGI BOBBA. Mi soffermo solo sulla parte dell'indagine dei qualificati.
Innanzitutto, se ho inteso bene, mi sembra che il giudizio complessivo sia sostanzialmente positivo sia come esiti occupazionali sia come integrazione nella filiera formativa superiore, diploma o laurea o quant'altro, ma vorrei capire meglio questo aspetto.
In secondo luogo, il tasso di problematicità o di disoccupazione o comunque di precarietà di quest'area di persone è significativamente diverso rispetto ad altri segmenti, come i diplomati o i laureati o i non qualificati?
Infine, vorrei capire, poiché ha parlato del sottoinquadramento di diplomati e laureati, se invece per questo segmento l'inquadramento effettivo che avviene nel lavoro corrisponde a quella qualifica e se c'è una coerenza anche con il percorso professionale e l'attività lavorativa svolti.

AMALIA SCHIRRU. La formazione professionale è affidata per lo più, oggi, a un rapporto pubblico-privato, che si svolge attraverso gli enti: avete mai fatto una verifica dei programmi e delle attività anche per capire come si incide nell'occupabilità delle persone che frequentano la formazione?
Ho, infatti, il dubbio che ancora una volta si stiano utilizzando immense risorse in questo campo senza, però, produrre quel cambiamento necessario anche a invertire il processo di occupazione nel nostro Paese. Mi riferisco al fatto che c'è una carenza nel settore dei lavori manuali, svolti oggi da immigrati. Vorrei capire se c'è stato un approfondimento intorno a questo tema e se non sia il caso di ripensare al sistema formativo anche in termini di istituzioni pubbliche piuttosto che di affidamento solo a un rapporto pubblico-privato.

CESARE DAMIANO. Ringrazio il presidente per la relazione, sicuramente molto dettagliata, come sempre. Ho una curiosità: la situazione dei giovani è giudicata grave dal punto di vista dell'occupazione. Fanno fatica a trovare lavoro - così si dice - cui accedono tardi, non incontrano un lavoro stabile, non c'è una relazione tra formazione e retribuzione, tra formazione e carriera, tra formazione e sicurezza del posto di lavoro. Questo è quello che si ricava da dati generali, ma secondo la vostra indagine più circostanziata questo assunto sarebbe smentito.
È ancora riproposta qui, infatti, una relazione abbastanza diretta tra formazione, studio e risultati; ad eccezione, stranamente, della secondaria superiore, che sembrerebbe avere un risultato inferiore alla qualifica di diploma di tre o quattro anni, sicuramente inferiore alla laurea.
La domanda che vorrei porre è questa: a vostro giudizio, favorire questo rapporto tra studio, formazione successiva allo studio, oppure lavoro e studio - il contratto di apprendistato, ad esempio, essendo a causa mista, sarebbe quel tipo di contratto che consente contemporaneamente un apprendimento diretto, ma anche una formazione di base - non favorirebbe l'avvicinamento dei giovani al lavoro, con una drastica semplificazione delle modalità di impiego?
Non sto parlando di contratti unici, ai quali non credo perché capisco che ridurre tutto a uno non è possibile, ma di semplificare piuttosto che moltiplicare le forme di lavoro attraverso le quali si può


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accedere all'occupazione: questo non aiuterebbe questi giovani ad avere una percezione più semplificata, più diretta del lavoro?
Se si sceglie, ad esempio, il contratto di apprendistato professionalizzante, si fa una scelta che abbina il lavoro alla formazione; ma se accanto a questo abbiamo ancora lo stage, il tirocinio, il lavoro a chiamata, l'estensione dei voucher, le partite IVA false, opportunistiche, il lavoro a progetto falso e opportunistico e potrei fare un lungo elenco, alla lunga non è un elemento che, anziché favorire l'avvicinamento dei giovani al lavoro, li allontana attraverso la dispersione e la di distorsione del mercato del lavoro?

PRESIDENTE. Vorrei rivolgere anch'io una domanda visto che siamo su un tema molto pregnante. Vorrei chiedere al presidente e all'ISFOL, visto che avremo l'opportunità anche di ulteriori audizioni a partire da settembre proprio con i soggetti deputati, se esiste una ricognizione significativa che consenta una valutazione sull'efficacia dell'azione posta in essere ai fini dell'ingresso nel mondo del lavoro da parte delle agenzie di intermediazione. Questo farebbe anche capire in qualche misura come sta funzionando, sostanzialmente, il sistema.
Do la parola agli auditi per la replica.

SERGIO TREVISANATO, Presidente dell'ISFOL. Mi pare che le domande siano molteplici. Significa che l'interesse è rilevante.
Alcune rientrano un po' sugli aspetti di ordine politico, su cui non vorrei soffermarmi più di tanto. Posso solo esprimere un giudizio e mi riferisco alle ultime domande, poi darò la parola ai miei collaboratori: la diversa opportunità può essere letta in modo diverso. Diverse opportunità lavorative, come l'apprendistato in obbligo o professionalizzante, l'apprendistato alto, credo possano evidentemente garantire target di giovani, che possono inserirsi in modo differenziato anche riconoscendone il ruolo formativo che hanno assunto nel tempo. Questo consente di avere opportunità diverse.
Lo giudico un passaggio in più rispetto alla catalogazione di un inserimento lavorativo unico perché maggiori opportunità vanno incontro a situazioni legate alle diverse situazioni aziendali, non necessariamente tutte uguali, e a garantire anche le diverse posizioni dei giovani e dei lavoratori che si trovassero in diverse situazioni della loro vita.
Sulla questione sollevata un attimo fa dal presidente, in ordine al ruolo delle agenzie, a proposito dei dati, non oggetto oggi del confronto, sul lavoro svolto da servizi e agenzie, forse perché sono pagati, ma in realtà tutte le operazioni svolte coinvolgendo le agenzie private tendenzialmente garantiscono l'inserimento lavorativo su fasce di lavoratori con contatti e relazioni con le aziende.
Credo che questo sia l'elemento importante. Svolgere un ruolo di agenzia, pubblica o privata, presuppone avere la conoscenza del mondo del lavoro, non tanto in termini generici, quanto una conoscenza vera delle imprese e dei loro bisogni, che consente appunto di fare quello che normalmente è chiamato matching con questa intermediazione che può essere avviata. Credo, quindi, che la collaborazione e le relazioni tra i diversi soggetti possano effettivamente consentire migliori risposte.
Forse ci siamo capiti male: quando parlavo di ammortizzatori universalistici, mi riferivo a una carenza.
Sulle altre questioni, credo che i miei collaboratori, in particolare Marco Centra per quanto riguarda la questione di risposta al PIL, siano in grado di fornire risposte più puntuali.

PRESIDENTE. Prego, dottor Centra.

MARCO CENTRA, Responsabile area analisi e valutazioni politiche occupazionali dell'ISFOL. Relativamente al PIL, se in questa crisi l'occupazione è scesa in misura minore rispetto al PIL e rispetto alle altre crisi perché è stata mantenuta l'occupazione nelle imprese riducendo l'orario di lavoro, quindi sono diminuite più le ore di lavoro che le teste, ovviamente in fase


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di ripresa avremo l'effetto contrario, ovvero le imprese prima tenderanno a riaumentare le ore e dopo ricominceranno ad assumere, quindi avremo un'elasticità anche in questo caso minore anche in crescita.
Ovviamente, la composizione dell'occupazione gioca un ruolo fondamentale. Abbiamo evidenziato, infatti, che nel primo anno di crisi sono scesi prima i contratti non standard, quindi i lavoratori a tempo determinato, a cui sono stati naturalmente lasciati scadere i contratti, e alla maggior parte dei quali dal 1o gennaio non sono stati rinnovati; solo dopo è cominciata a scendere, mi pare in ragione dell'1,3 per cento, nel 2010, l'occupazione standard, mentre l'occupazione non standard era diminuita in ragione di circa il 7 per cento. Questi sono gli ordini di grandezza.
Noi sosteniamo che la crisi ha messo in evidenza degli elementi strutturali del mercato del lavoro italiano, in particolare sulla segmentazione tra standard e non standard e tra giovani e anziani. Questo non è necessariamente un aspetto negativo, ma impedisce di applicare quella serie di tamponamenti alle crisi, previsti anche in chiave comunitaria dalle raccomandazioni europee (modello di flex-security, politiche attive e così via), che in un mercato segmentato generalmente funzionano meno.
Vorrei rispondere anche all'onorevole Damiano sulla questione dei rendimenti degli investimenti in formazione. Noi sosteniamo, e i dati ci supportano, che tassi di occupazione e salari medi sono sistematicamente più elevati all'aumentare del titolo di studio, con la sola eccezione del diploma di scuola secondaria superiore, il cui rendimento è inferiore a quelli immediatamente precedenti.
Questo accade perché il diploma di qualifica professionale in Italia è particolarmente appetibile, comunque più del diploma di scuola secondaria superiore in termini di tassi di occupazione. Consideri che chi si diploma generalmente prosegue gli studi in maniera superiore rispetto a chi si qualifica, e quindi non entra nel computo dei tassi di occupazione.
Tuttavia, il divario tra, ad esempio, salario o tasso di occupazione di laureati e diplomati in Italia è positivo a favore dei laureati, quindi proseguire gli sudi paga dal punto di vista individuale, ma in misura minore rispetto agli altri Paesi europei, nei quali, dal punto di vista sia salariale sia dell'occupabilità, il premio rispetto agli anni di formazione è maggiore.
L'Italia sconta, quindi, sia un livello inferiore - 17 per cento dei laureati occupati contro il 30 circa dei Paesi nostri competitor - sia una distanza inferiore come incentivo perché noi ragioniamo sul concetto che la maggiore occupabilità e il maggiore salario siano ovviamente un incentivo alla formazione, e quindi l'incentivo nel nostro Paese è minore.
Quanto ad altri dati sulla formazione continua in azienda, ad esempio, a fare formazione - lo dirà maglio di me il dottor Sugamiele - sono soltanto dei segmenti specifici di imprese, strutturate, grandi, che possono esprimere anche una domanda formativa. Occorrerebbe anche mettere le mani sulla domanda di lavoro, su cosa chiedono veramente le imprese, chiedendosi se si tratta di una domanda di lavoro qualificato di basso livello che porta a concludere che in Italia il capitale umano è un bene scarso e di scarso valore, o se può permettere una ripresa, un livello di competizione tale da assicurare la ripresa.

SERGIO TREVISANATO, Presidente dell'ISFOL. Presidente, il dottor Sugamiele può dare il suo contributo rispondendo alle domande che sono state rivolte sul tema della formazione.

PRESIDENTE. Prego, dottor Sugamiele.

DOMENICO SUGAMIELE, Direttore macroarea formazione dell'ISFOL. Sulla


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parte di investimento o di relazione tra investimento, formazione e occupazione, e quindi rendimento anche retributivo, il dato, a nostro avviso, dei diplomati che hanno redditi più bassi deriva da ciò che è stato asserito, anche da UNIONCAMERE in questi anni, a proposito del sottoinquadramento, che avviene esclusivamente per alcune tipologie di diplomi e lauree deboli, nel senso di non professionalizzanti.
Noi abbiamo un sistema che sta tendendo ormai da vent'anni verso una formazione secondaria più liceale, e quindi difficilmente occupabile come professionalizzazione nell'immediato se non continua verso l'università, e un depauperamento, se possiamo dirlo titolo con serenità, di tutta quella struttura che avevamo d'istruzione tecnica e professionale, che era l'ossatura del sistema produttivo.
Per quanto riguarda la formazione professionale, stiamo lavorando su quello che è ormai di ordinamento: la formazione professionale fino al 1999-2000 aveva una struttura; con le riforme dal 1997, si è concretizzato, nel 2003 e anche nel 2007 con alcune altre leggi, un sistema ordinamentale. È una situazione diversa perché il rapporto pubblico-privato è regolato dalle leggi dal punto di vista dei livelli di prestazione, quindi con strutture di accreditamento ben precise.
Il tema che qui va affrontato è che questo sistema esiste soltanto nelle regioni del nord, dall'Emilia, non è diffuso e non si sta diffondendo nel Mezzogiorno d'Italia. Questo è un problema. Noi stiamo indagando sugli esiti occupazionali delle persone, quindi abbiamo svolto approfondimenti sui percorsi triennali, stiamo estendendo l'indagine anche ai diplomi e alle lauree: è chiaro che qui c'è sia una coerenza maggiore tra formazione e lavoro, sia una soddisfazione del percorso svolto di studio e di inserimento lavorativo.
Si evidenzia, inoltre, un altro dato importante, ossia un rapporto molto stretto tra territorio, impresa e formazione, la quale è effettuata in alcuni casi non soltanto nelle agenzie private o convenzionate, ma anche in istituti scolastici con varie tipologie di percorsi a seconda delle regioni. Il risultato, in ogni caso, è positivo in questo senso e si comincia a vedere questa coerenza.
È positivo anche da un altro punto di vista, messo prima in evidenza dal presidente: a tre mesi il 50 per cento è occupato; a tre anni il 60 per cento è occupato; il 35 per cento prosegue a studiare, quindi è un modello che continua. Allora, la dispersione effettivamente che stiamo cominciando a misurare è abbastanza limitata, se non minima.
Sul discorso dell'onorevole Gatti a proposito dei contratti di apprendistato e altro, qui il dato è da considerare soltanto per l'apprendistato professionalizzante perché le altre due tipologie ancora sono in fase embrionale e sperimentale.
Abbiamo svolto un'indagine su tutto il complesso apprendistato, stage, tirocini e altro: chi segue percorsi specialistici di triennalità di qualifiche professionali, chi le lauree e il post laurea ha la conferma dei contratti di apprendistato, cioè la proroga dei contratti di apprendistato o la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Chi proviene da quella fascia, che è preoccupante, di diplomi e lauree triennali ha problemi. Questo è un dato su cui credo che il legislatore dovrebbe riflettere. Quando diciamo che manca un sistema di formazione professionale terziario, manca questo anello.

MARIA GRAZIA GATTI. Anche sulla parte formativa dell'apprendistato.

DOMENICO SUGAMIELE, Direttore macroarea formazione dell'ISFOL. Esatto. La quantità di formazione in apprendistato, trattandosi soltanto della parte professionalizzante, è abbastanza limitata (arriviamo al 69 per cento degli apprendisti, sono numeri abbastanza modesti).
Rispondendo all'onorevole Damiano, vorrei concludere integrando brevemente


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quello che diceva il collega Centra: sulla semplificazione direi che, come avviene in tutti gli altri Paesi, un sistema di sviluppo dell'alternanza in termini di apprendistato, di processo unitario tra formazione e lavoro, sicuramente ridurrebbe tutte quelle frammentazioni di ingresso nel mercato del lavoro. Speriamo che, con il nuovo decreto sull'apprendistato, si possa arrivare a sviluppare questo aspetto in tutti i settori perché è, a mio avviso, l'elemento che può favorire quel processo.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10,05.

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