1. Oggetto e svolgimento dell'indagine ... 5
2. Le tematiche emerse nel corso dell'indagine ... 6
2.1. La questione delle informazioni ... 6
2.2. I danni prodotti da specie oggetto di attività venatoria. «L'emergenza cinghiale» ... 8
2.2.1. Il quadro di analisi ... 8
2.2.2. Gli interventi volti a fronteggiare il problema ... 9
2.2.3. Il controllo tramite prelievo venatorio ... 11
2.2.4. Il divieto di immissioni ... 15
2.2.5. L'esperienza della provincia di Siena ... 16
2.2.6. I danni nelle aree protette ... 16
2.2.7. Le aree contigue ... 18
2.3. I danni arrecati da specie protette ... 19
2.3.1. Il lupo ... 20
2.4. La prevenzione ... 23
2.5. La questione degli indennizzi ... 25
2.6. Le risorse finanziarie per affrontare il problema ... 27
3. Proposte e conclusioni ... 28
1. Oggetto e svolgimento dell'indagine.
L'indagine conoscitiva svolta dalla XIII Commissione è stata rivolta ad acquisire una completa informazione sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche, sulla tipologia, sulla localizzazione geografica e sulla quantificazione economica dei danni denunciati, sulle colture danneggiate e sulle specie animali interessate, nonché sull'attività svolta dalle amministrazioni competenti e sull'insieme degli strumenti di cui si sono avvalse, con riferimento agli indennizzi richiesti ed erogati.
Nel corso dell'indagine sono stati auditi i seguenti soggetti:
rappresentanti del WWF Italia (5 febbraio 2009);
rappresentanti della Coldiretti (5 febbraio 2009);
rappresentanti dell'Associazione nazionale ARCI Caccia (11 febbraio 2009);
rappresentanti della Legambiente (11 febbraio 2009);
rappresentanti del Movimento Fare Ambiente (18 febbraio 2009);
rappresentanti della Federazione italiana della caccia (Federcaccia) (18 febbraio 2009);
rappresentanti dell'Ente nazionale protezione animali (25 febbraio 2009);
rappresentanti dell'Ente produttori selvaggina (25 febbraio 2009);
rappresentanti delle associazioni di protezione ambientale Ambiente e/è vita, Fare verde, Italia nostra e Lega italiana protezione uccelli (LIPU) (4 marzo 2009);
rappresentanti delle associazioni venatorie Associazione nazionale libera caccia (ANLC), Associazione italiana della caccia (Italcaccia), Associazione dei migratoristi italiani (ANUU) e Unione nazionale Enalcaccia, pesca e tiro (4 marzo 2009);
sindaco di Semproniano (Grosseto) e rappresentanti del Gruppo di interesse economico (GIE) pastorizia di Grosseto, della CIA di Grosseto e della Coldiretti di Grosseto (26 marzo 2009);
rappresentanti della provincia di Siena e degli ambiti territoriali di caccia ATC 17 e ATC 19 di Siena (29 aprile 2009);
rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole Confagricoltura e CIA e delle organizzazioni cooperative agricole
Sui temi oggetto dell'indagine, nonché su altri argomenti, la Commissione ha inoltre proceduto all'audizione del Ministro per le politiche agricole alimentari e forestali, Luca Zaia, ai sensi dell'articolo 143 del regolamento (11 febbraio 2010).
Dalle audizioni svolte nel corso dell'indagine è emerso innanzi tutto un quadro generale di analisi che ha messo in evidenza la dimensione allarmante assunta dalla questione dei danni all'agricoltura da fauna selvatica e l'evidente impatto della stessa sull'attività economica delle imprese agricole.
Da più parti è stata sottolineata l'esigenza di una nuova e più efficace politica di gestione e controllo della fauna selvatica da parte delle competenti istituzioni, cambiando l'approccio sino ad oggi adottato: non si tratta più, infatti, solo di gestire la fauna ai fini prettamente faunistico - venatori, ma piuttosto di trovare un modo per riequilibrarne la presenza in funzione di esigenze di carattere sociale ed economico.
L'indagine viene dunque a costituire un importante luogo di confronto su agricoltura, caccia e tutela dell'ambiente, attività che possono tra loro interagire positivamente per la gestione del territorio. Pur nella diversità delle posizioni espresse dai soggetti auditi, portatori di interessi spesso contrapposti, è risultata evidente la comune volontà di rinnovare alcuni principi della pianificazione faunistico-venatoria del territorio e della programmazione dell'attività venatoria, adeguandoli ai recenti orientamenti di politica agricola comunitaria, tenendo conto dei nuovi strumenti di tutela dell'ambiente previsti dall'Unione europea e valorizzando la multifunzionalità delle imprese agricole.
In relazione alle tematiche individuate, sono state altresì avanzate dai soggetti auditi proposte e suggerimenti puntuali.
2. Le tematiche emerse nel corso dell'indagine.
2.1. La questione delle informazioni.
Un'analisi quantitativa seria ed attendibile basata su dati certi, che permetta di ricostruire il quadro preciso del fenomeno (tipologia dei danni, quantificazione, tipo di colture danneggiate e specie animali interessate) è considerata da tutti i soggetti auditi la premessa indispensabile per affrontare la questione; eppure, la maggior parte degli stessi ha sottolineato la difficoltà di disporre di dati esaustivi circa la consistenza dei danni arrecati all'agricoltura dalla fauna selvatica (Coldiretti) nonché dei dati utili alla gestione programmata per il futuro (Federcaccia).
Si è dunque posto l'accento sulla necessità di riorganizzare la filiera delle informazioni sui danni, dando indicazioni di uniformità, anche nella formazione dei rilevatori, per la pluralità di soggetti che se ne occupano, nella prospettiva della creazione di una banca dati nazionale (Legambiente).
Anche il WWF, lamentando la quasi totale mancanza di informazioni sul tema, ha ribadito la necessità di disporre di un flusso unitario di informazioni mirate, al posto di quello attuale frammentato e contraddittorio, che dovrebbe essere agevolato con la previsione di procedure snelle per la denuncia dei danni.
L'ISPRA ha posto in evidenza la difficoltà di ottenere informazioni da parte delle amministrazioni che gestiscono l'avifauna e soprattutto di reperire dati omogenei ed esaustivi che consentano di valutare gli interventi. Dati significativi potrebbero essere l'entità dei danni e, soprattutto, la loro connessione con le diverse specie e la distribuzione nelle varie aree geografiche. L'Istituto sta producendo un manuale, diretto proprio alla raccolta di dati omogenei per qualità e quantità, destinati alla creazione di una banca dati su base regionale e nazionale.
Al riguardo, l'Ente nazionale protezione animali ha sottolineato altresì l'inaffidabilità dei dati attualmente raccolti sulla cui base vengono decisi gli interventi: la rilevazione è spesso affidata alle stesse associazioni venatorie, e non a un istituto qualificato come l'ISPRA, che solo può disporre del personale e degli strumenti scientifici adatti ai censimenti. L'inaffidabilità dei dati è ampliata peraltro dalla circostanza che i coltivatori non denunciano i danni alle greggi provocati dai lupi e dai canidi randagi, perché a fronte di risarcimenti incerti avrebbero dei costi certi e gravosi per lo smaltimento delle carcasse tramite inceneritore. Analoghi problemi, che hanno pesanti ricadute ambientali, si pongono per lo smaltimento delle carcasse dei cinghiali.
Con riguardo al problema del difficile reperimento delle informazioni, Federcaccia propone di investire una struttura del Dicastero agricolo del compito di accentrare i dati oggi in possesso dei vari soggetti: regioni, enti locali, ambiti territoriali di caccia (ATC), gestori dei parchi.
In tal senso assumono particolare rilevanza i dati contenuti nel documento approvato dalla Conferenza delle regioni e delle province
2.2. I danni prodotti da specie oggetto di attività venatoria. «L'emergenza cinghiale».
2.2.1. Il quadro di analisi.
Emerge in modo inequivocabile dai dati prodotti dalle regioni, ma anche da tutte le testimonianze dei soggetti auditi che, tra le specie oggetto di attività venatoria, quelle che generalmente producono la maggior parte dei danni sono gli ungulati, in particolare il cinghiale, ma anche il capriolo, il cervo e il daino. Tali dati evidenziano che le popolazioni di ungulati sono in aumento esponenziale non solo in Italia, ma anche in Europa. Le colture maggiormente danneggiate dagli ungulati sono le erbacee e i seminativi, ma non si possono non evidenziare anche i danni alle strutture produttive (recinti, muretti ed altro). Ingenti sono anche i danni al bosco e alla biodiversità.
Secondo i dati dell'ISPRA, come in altri Paesi europei, anche in Italia negli ultimi decenni il cinghiale ha notevolmente ampliato il proprio areale, dimostrando una grande adattabilità alle condizioni ecologiche più varie. Tra gli ungulati italiani esso riveste un ruolo del tutto peculiare, sia per alcune intrinseche caratteristiche biologiche sia perché è indubbiamente la specie più manipolata e quella che desta maggiori preoccupazioni per l'impatto negativo esercitato nei confronti di importanti attività economiche.
Nel giro di pochi decenni, infatti, l'areale si è più che quintuplicato, interessando interi settori geografici (ad esempio, l'arco alpino) ove il cinghiale mancava da molti decenni e creando una serie di conseguenze, dirette ed indotte, dagli effetti contraddittori sul piano ecologico, gestionale e sociale. Ad un crescente interesse venatorio per la specie si contrappongo i danni alle colture, spesso considerevoli, e il conflitto sociale che fisiologicamente ne consegue.
Le cause che hanno favorito l'espansione e la crescita delle popolazioni sono legate a molteplici fattori sulla cui importanza relativa le opinioni non sono univoche. Tra questi, le immissioni a scopo venatorio, iniziate negli anni cinquanta, hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale. Effettuati dapprima con cinghiali importati
2.2.2. Gli interventi volti a fronteggiare il problema.
Come è emerso dalle audizioni effettuate, gli interventi che risultano essere maggiormente adottati consistono essenzialmente nella pratica degli abbattimenti finalizzati alla riduzione numerica degli animali delle popolazioni appartenenti a specie già oggetto di attività venatoria nei periodi previsti dai calendari venatori redatti in base alle disposizioni normative vigenti.
Gli abbattimenti sono generalmente affidati a privati muniti di licenza di caccia, in alcuni casi sono effettuati da personale dipendente degli enti pubblici competenti per territorio nella gestione faunistica.
Secondo le associazioni ambientaliste, la pratica degli abbattimenti risulta essere in ogni caso adottata al di fuori di un sistema di conservazione e gestione della fauna selvatica, ma piuttosto come principale risposta delle amministrazioni pubbliche alle pressioni esercitate da alcune limitate componenti del mondo venatorio, in particolare da coloro che esercitano la caccia agli ungulati.
Nella pratica l'esercizio degli abbattimenti, ampiamente adottati dalla maggior parte delle amministrazioni pubbliche, non avrebbe risolto completamente il problema, limitandosi in alcuni casi solo ad un contenimento del danno limitato nel tempo e nello spazio e di fatto limitato altresì dalla normale dinamica delle popolazioni delle specie di fauna selvatica oggetto dei prelievi.
La soluzione proposta dalle suddette associazioni consiste nel ricorso alla pratica dei trappolamenti e al successivo abbattimento degli esemplari catturati, che risulterebbe essere la soluzione tecnica in ogni caso più efficace degli abbattimenti esercitati attraverso il solo prelievo venatorio.
Allestire e gestire i diversi sistemi di cattura (recinti o trappole a cassetta) comporta chiaramente un investimento economico che risulta essere invece assente o comunque molto limitato nel caso degli abbattimenti affidati direttamente ai privati muniti di licenza di caccia.
Secondo tale impostazione, la pratica delle catture/abbattimenti, pur comportando un investimento iniziale, si traduce, proprio in virtù della sua maggiore efficacia nel contenimento numerico degli animali, in un sostanziale risparmio nel medio e lungo termine della spesa pubblica attraverso una oggettiva e documentabile riduzione della spesa per gli indennizzi dei danni denunciati dalle imprese.
In particolare, secondo il WWF, le soluzioni adottate sino ad oggi si sarebbero sostanzialmente limitate a diverse tecniche di abbattimento, rivelatesi tutte inefficaci per il limitato prelievo e in qualche caso anche fonte di disturbo per altre specie. Tale associazione sottolinea il fallimento della politica di contenimento degli ungulati, affidata nella sostanza a privati muniti di permesso di caccia, ai quali è stato consentito di ricorrere ad un più ampio ventaglio di tecniche di abbattimento (dalla caccia in battuta a quella di selezione da
2.2.3. Il controllo tramite prelievo venatorio.
Secondo la Conferenza delle regioni e delle province autonome, tali enti in vario modo hanno cercato di contenere le popolazioni e di arginare il continuo proliferare dei danni che sempre più ha generato malcontento tra le parti sociali coinvolte.
Le regioni hanno, infatti, cercato di risolvere il problema gestionale degli ungulati con proprie leggi e regolamenti regionali, ma secondo la Conferenza sarebbe necessario rimuovere alcuni ostacoli dovuti principalmente all'attuale assetto della normativa nazionale vigente come, per esempio, il divieto di esercizio venatorio in presenza di neve. In tale ottica, i princìpi cui dovrebbe essere ispirata una riforma degli istituti in questione concernono:
la gestione e/o il controllo delle popolazioni di ungulati su tutto il territorio agroforestale (anche quello precluso all'attività venatoria), per garantire il mantenimento di densità definite e compatibili con le coltivazioni agricole presenti e le altre attività antropiche;
l'autonomia gestionale delle regioni, per poter valutare ed implementare le strategie più opportune e funzionali al proprio assetto socio-economico e territoriale e per poter sempre più rivalutare tale patrimonio faunistico che dovrebbe costituire una risorsa del territorio anziché un problema.
La posizione della Coldiretti, al riguardo, si incentra sulla necessità di effettuare interventi volti ad eliminare o ridurre al minimo le popolazioni di cinghiali nelle aree non vocate a queste presenze faunistiche, al fine di prevenire danni alle persone e cose
Controllo, prevenzione e risarcimento dei danni necessariamente devono essere assicurati sia nelle aree a gestione programmata della caccia sia all'interno delle aree ove l'esercizio venatorio è vietato (zone di ripopolamento, oasi di protezione, parchi e riserve naturali).
Ciò impone la necessità anche di un maggior coordinamento tra le diverse realtà istituzionali preposte alla gestione della pianificazione faunistico-venatoria e delle aree protette (provincia, enti parco, eccetera) e quelle invece preposte alla gestione dell'attività venatoria e del territorio a caccia programmata (associazioni venatorie, ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini di caccia).
Coldiretti avanza quindi le seguenti proposte operative:
definire, di concerto con le rappresentanze di tutte le componenti interessate, le aree territoriali da considerarsi non vocate alla presenza del cinghiale a causa della rilevante presenza di attività agro-silvo-pastorali nonché i piani di controllo delle popolazioni di cinghiale da attuarsi in dette aree, anche qualora fossero precluse all'esercizio dell'attività venatoria, di concerto con i rispettivi enti gestori, con catture e abbattimenti volti all'obiettivo irrinunciabile di limitare al minimo, tendendo a zero, il numero di cinghiali ivi presenti, assicurando poi nel tempo il mantenimento dei risultati ottenuti;
potenziare e sviluppare operativamente i soggetti abilitati alle azioni di controllo tramite catture ed abbattimento;
intensificare l'attività di vigilanza allo scopo di impedire immissioni illegali di esemplari di cinghiale;
intensificare i prelievi effettuabili anche nelle zone ritenute vocate, adottando criteri di mantenimento e non di aumento ulteriore delle popolazioni presenti;
definire progetti mirati - anche a carattere sperimentale - di prevenzione dei danni da realizzare con il finanziamento da parte di regioni, province, enti parco e ambiti territoriali di caccia interessati;
Nell'ambito della tematica del controllo faunistico, assume dunque rilevanza la controversa questione della riorganizzazione del prelievo venatorio.
Secondo l'ARCI Caccia, premessa l'importanza di riorganizzare il prelievo secondo le indicazioni a suo tempo formulate dall'INFS (ora ISPRA) ed in termini di concertazione con il mondo agricolo, il contributo del legislatore potrebbe in tempi rapidi affrontare alcune questioni, quali l'individuazione di parametri di emergenza, valutando l'impatto per grandi aree dove il cinghiale è incompatibile con l'agricoltura, con interventi mirati che rifuggano la logica della sola caccia e consentano alle regioni di intervenire in tempi dati, senza i limiti di intervento previsti dalle leggi sulla caccia e sui parchi, potendo usare anche i cacciatori per una azione di riequilibrio.
La Federcaccia ritiene che vadano in primo luogo risolte le seguenti questioni: debbono essere nettamente distinti, come peraltro avviene in Europa, esercizio dell'attività venatoria e controllo faunistico; devono essere le norme statali a disciplinare in maniera omogenea per tutto il territorio sia l'attività venatoria sia il controllo faunistico attraverso l'utilizzo dell'attività.
Fra le soluzioni suggerite:
consentire ad altri soggetti il prelievo delle specie in esubero, come è stato fatto in Emilia-Romagna con la istituzione dei «coadiutori», cacciatori che, sottoposti a successivi esami, possono accedere al prelievo nelle aree protette ex lege n.157 del 1992, anche al di fuori del periodo di caccia;
«destagionalizzare» il prelievo degli ungulati, prestando grande attenzione a che il prelievo sia fortemente «selettivo», ovvero (come ormai ribadito nella letteratura scientifica) diretto verso gli esemplari più giovani (i rossi), i più dannosi;
elaborare un piano per la gestione complessiva degli ungulati, che coinvolga Stato e regioni;
distinguere nettamente il calendario per il prelievo venatorio da quello del prelievo per il contenimento.
L'Ente nazionale protezione animali ha affermato in premessa la necessità di tenere distinte la questione dei danni all'agricoltura ed alla zootecnia provocati dalla fauna e quella dell'attività venatoria, sulla base della constatazione che la commistione che invece si è determinata in Italia non ha risolto i problemi dei danni all'agricoltura e ha invece causato danni ambientali e un inasprimento dei rapporti con le associazioni ambientaliste ed animaliste. Secondo tale
2.2.4. Il divieto di immissioni.
È emersa dalla maggior parte delle audizioni la questione relativa al divieto di immissioni di esemplari di specie che comportano danni alle produzioni agricole.
Secondo il WWF, nell'ambito della riforma della normativa nazionale quadro che regolamenta la gestione faunistica e l'attività venatoria, dovrebbe essere riconosciuto come danno patrimoniale alla pubblica amministrazione l'immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni che determina un danno grave alle produzioni agricole, per il cui contenimento sono adottati interventi straordinari di cattura e abbattimento o di abbattimento selettivo al di fuori dell'ordinario svolgimento dell'attività venatoria. Per tale ragione non si deve escludere la necessità di prevedere, in via preventiva, anche un divieto di immissione.
L'Ente produttori selvaggina sottolinea che il grosso handicap, relativamente alla situazione dei danni da fauna selvatica, consiste nella mancanza di una gestione faunistica compatibile con l'obiettivo di evitare i danni. I piani di controllo previsti dalla legge vigente possono essere di aiuto ma, per quanto riguarda il cinghiale, non essendo selettivi, creano sbilanciamenti nelle popolazioni tali da aumentare talvolta i danni all'agricoltura a causa di questa destrutturazione delle classi di animali.
Anche per l'ARCI Caccia occorrono misure di maggiore rigore per evitare il ripopolamento dei cinghiali, individuando con precisione il campo dell'allevamento a scopo alimentare e di quello a scopi ludico-venatori.
La Federcaccia sostiene che per il cinghiale occorre un piano di gestione complessiva a livello nazionale, evitando nell'immediato che alcune regioni continuino a devolvere fondi pubblici per l'immissione dei cinghiali.
L'Ente nazionale protezione animali ha sottolineato la necessità di affrontare il problema partendo dalla cessazione delle immissioni. Nello stesso senso si è espressa la LIPU, secondo la quale il problema principale resta quello del cinghiale, determinato dall'abnorme attività di allevamento e immissione sul territorio, che va bloccata. Ciò si inserisce nella prospettiva di una più oculata politica di immissione
Sul medesimo punto la Coldiretti ha ribadito la necessità del contrasto alla diffusione del cinghiale operata tramite immissioni illegali, anche attraverso il controllo o il divieto degli allevamenti, così come la Federcaccia suggerisce di limitare o sospendere temporaneamente la possibilità di immettere tale specie già altamente prolifica.
2.2.5. L'esperienza della provincia di Siena.
Con riguardo alle modalità di intervento attuate per contenere il numero degli esemplari delle varie specie causa di danni, la Commissione ha audito l'Assessore all'agricoltura, caccia e pesca della provincia di Siena, che ha in particolare descritto il protocollo d'intesa tra la provincia e l'Istituto nazionale per la fauna selvatica (ora ISPRA), che ha l'intento di definire un documento programmatico che consenta di pianificare su scala quinquennale le linee guida per le azioni di controllo sulla fauna selvatica in tempi diversi da quelli previsti dal calendario venatorio o in aree soggette a vario titolo a divieto di caccia.
Il protocollo consente di intervenire più o meno in tutto l'arco dell'anno, sotto il controllo della polizia provinciale o degli agenti di vigilanza volontaria: gli interventi messi in atto nel solo 2008 sono stati nella provincia 5.000.
Le modalità d'intervento sono conseguenti all'approvazione di norme regionali che consentono di suddividere il territorio tra area vocata e area non vocata: nell'area vocata al cinghiale (che copre il 25 per cento della superficie agricola utilizzata provinciale) può non essere richiesto alcun intervento di contenimento, visto che si tratta di area prevalentemente boscata che si caratterizzata per una scarsa presenza di colture agricole; nell'area non vocata invece si punta costantemente alla drastica riduzione ed eradicazione della specie dannosa.
2.2.6. I danni nelle aree protette.
Un'ulteriore tematica affrontata nel corso dell'indagine riguarda il problema dei danni all'agricoltura arrecati dai cinghiali nelle aree protette. Secondo uno studio condotto dall'ISPRA, recante linee guida per la gestione del cinghiale nelle aree protette, che fornisce indicazioni concrete in merito alle modalità di pianificazione della presenza della specie sul territorio, i risarcimenti dovuti alle imprese agricole che svolgono la propria attività nelle aree protette ammontano a ben 2.248.188 euro, con una media di 33.346 euro per area protetta, con profonde diversità tra un'area e l'altra.
I parchi nazionali nei quali si registrano i maggiori danni da cinghiali all'agricoltura sono il Parco nazionale del Pollino in Calabria, il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga nell'Appennino centrale, mentre tra i parchi regionali spicca per i danni il parco della Mandria in Piemonte.
A fronte di tale situazione, la Coldiretti ritiene che gli enti di gestione dei parchi dovrebbero prevedere, a monte, una pianificazione della presenza dei cinghiali nelle diverse zone del parco a seconda della presenza o meno dell'attività agricola; altrimenti, nella maggior parte dei casi, si rischia di procedere ad interventi privi di una razionale efficacia.
Per tale specie, è indispensabile, infatti, che l'ente parco introduca, tenendo conto anche delle diverse zone di protezione che contraddistinguono le aree protette, dei criteri per la fissazione di densità obiettivo individuando:
a) le aree a prevalente destinazione agricola in cui la presenza di cinghiali deve essere fortemente limitata;
b) le aree a rilevante compresenza di agricoltura ed ambienti naturali in cui è tollerata una bassa densità di cinghiali;
c) le aree a prevalente destinazione naturalistica caratterizzate dalla presenza di zone boscate in cui è ammessa una densità elevata di cinghiali.
Le linee guida illustrate dall'ISPRA indicano, per quanto concerne la prevenzione dei danni, la necessità del contenimento del fenomeno alle origini, per cui stabiliscono le misure di prevenzione che le imprese agricole dovrebbero adottare (ad esempio, recinzioni elettrificate).
È evidente che, in questo caso, l'ente parco è tenuto ad adottare regimi di sostegno finanziario per le imprese agricole che pongono in atto le misure di prevenzione, in quanto l'agricoltura non è tenuta a
2.2.7. Le aree contigue.
Una delle soluzioni prospettate dall'ISPRA con riguardo al problema degli ungulati, e in particolare del cinghiale, attiene alla
Tali regole dovrebbero, a regime, trovare applicazione non solo nelle aree contigue, ma in tutti gli istituti territoriali in cui si esercita la caccia al cinghiale (ambiti territoriali di caccia e comprensori alpini).
Secondo l'ISPRA, nell'attuale situazione della gestione venatoria, caratterizzata da una scarsa capacità di organizzazione e da una notevole carenza di criteri razionali, il ruolo delle aree contigue ai parchi appare particolarmente interessante in quanto potrebbe consentire la realizzazione di esperienze pilota che diano concreto avvio ad un processo di miglioramento della gestione venatoria. Ciò è reso possibile dal fatto che i regolamenti di gestione venatoria delle aree contigue rispondono ad un quadro normativo per certi versi più flessibile rispetto a quello definito dalla legge n. 157 del 1992.
È necessario quindi, secondo l'ISPRA, che venga adottata una strategia nazionale di gestione del cinghiale che, pur nel rispetto delle differenti finalità istitutive, risulti basata su un'opportuna armonizzazione e coordinamento degli interventi che si eseguono nelle aree protette, nelle aree contigue, negli ambiti pubblici e privati di caccia. Aree protette e territorio cacciabile non sono entità separate da barriere invalicabili, ma un sistema ecologico occupato dalle stesse popolazioni di cinghiale.
2.3. I danni arrecati da specie protette.
Accanto alle problematiche legate agli ungulati (specie cacciabili), l'altro importante filone dell'indagine si è sviluppato in merito ai danni arrecati all'agricoltura da parte di specie protette.
Secondo l'Ente nazionale protezione animali, con riguardo alle specie protette, quali il lupo, l'orso e l'aquila reale, l'unica strada percorribile è quella di incentivare gli indennizzi e soprattutto gli investimenti sulla prevenzione.
Per quanto riguarda gli storni, tale ente è contrario a riaprirne la caccia: la specie ha recuperato una dimensione soddisfacente e non si può adesso riavviarne la distruzione; le deroghe sono sempre state
2.3.1. Il lupo.
Particolare rilevanza, nel quadro di analisi sui danni da specie protette, assumono i dati e le problematiche relative al lupo.
Al riguardo, la Federparchi - dopo aver sottolineato che il numero degli esemplari di lupo attualmente presenti sul territorio nazionale è compreso in un range tra i seicento e i mille esemplari (erano un terzo negli anni settanta) - ricorda che la sua diffusione, data la grande mobilità della specie, è ormai estesa a numerosissime
La CIA di Grosseto espone una stima dei danni arrecati dal lupo nella provincia di Grosseto, che ammonterebbero ad oltre 5 milioni di euro. Al riguardo, ritiene necessario adeguare le coperture assicurative, che attualmente non coprono i danni indiretti quali animali dispersi, perdite di latte, aborti indotti; vi è poi il problema dello smaltimento delle carcasse.
La CIA ricorda che il problema del lupo riguarda non la sola provincia di Grosseto, ma l'intero Appennino. Occorrono azioni di contenimento, di cattura, visto che ormai la consistenza dei lupi è ben oltre la soglia del rischio di estinzione. La Convenzione di Berna consente di considerare il lupo specie solo parzialmente protetta, quando produca danni eccessivi. Si fa notare inoltre che non è possibile risolvere il problema con le recinzioni, perché gli allevamenti hanno una densità media da 500 capi in su e non è possibile recintare e cementificare gran parte del territorio della provincia.
Il Gruppo di interesse economico (GIE) pastorizia di Grosseto ritiene invece che dati certi sui danni provocati dai lupi possano aversi solo se le istituzioni si faranno carico dello smaltimento delle carcasse e del risarcimento dei danni. Tale soggetto ritiene che il sistema delle assicurazioni sia impraticabile anche perché richiederebbe recinzioni che non possono essere mantenute a lungo.
2.4. La prevenzione.
L'unanimità dei soggetti auditi ha convenuto sulla fondamentale importanza del ruolo della prevenzione nell'affrontare la problematica dei danni arrecati all'agricoltura dalla fauna selvatica.
Al riguardo, la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha sottolineato nel corso dell'audizione il notevole sforzo delle amministrazioni regionali e locali per implementare adeguate misure di prevenzione, soprattutto recinzioni metalliche e elettriche. Accanto alla pratica delle catture e degli abbattimenti dovrebbero essere opportunamente incentivati gli investimenti strutturali da parte delle imprese per prevenire i danni, in particolare attraverso la realizzazioni di recinti fissi e mobili, dissuasori sonori o altre soluzioni tecniche per prevenire e contenere i danni in relazione alle specie di fauna selvatica responsabili e alle diverse tipologie di colture e pratiche di allevamento. La Conferenza ha peraltro ricordato come la prevenzione del danno attraverso questi investimenti strutturali da parte delle aziende risulta essere tra l'altro l'unica strada perseguibile nel caso dei
2.5. La questione degli indennizzi.
Con riguardo alla questione degli indennizzi dei danni subiti dagli agricoltori dalla fauna selvatica le posizioni degli auditi sono piuttosto differenziate.
Secondo la Federparchi l'indennizzo dei danni non solo è doveroso dal punto di vista sociale, ma anche obbligatorio perché previsto dalla normativa vigente. Una limitazione al suo uso è data dall'elevato costo che comporta per la pubblica amministrazione e anche dall'orientamento degli agricoltori che preferiscono non subire danni piuttosto che ricevere un indennizzo. A giudizio di tale associazione, le ipotesi di danno causato dalla fauna selvatica non dovrebbero essere circoscritte ai soli danni alle colture agricole o zootecniche, come previsto dalle attuali norme, ma dovrebbero includere anche i danni a cose e persone. L'attuale giurisprudenza non è poi univoca; tuttavia numerose sentenze, in caso di incidente
L'ISPRA ritiene infine che in via complementare potrebbe essere introdotto un sistema di contributi per polizze assicurative sottoscritte dalle imprese agricole analogamente a quanto avviene con il Fondo di solidarietà nazionale per le calamità naturali.
2.6. Le risorse finanziarie per affrontare il problema.
Un tema trasversale che riguarda in generale tutto il settore gestionale faunistico e venatorio è quello delle risorse finanziarie, che appaiono sempre più limitate. Le regioni, tramite la Conferenza, riaffermano la necessità di sollecitare il Governo, tramite il Ministro dell'economia e delle finanze, affinché dia completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001), che dispone lo stanziamento in via transitoria per i primi tre anni di una somma pari a circa 5 milioni e 200.000 euro, da ripartire tra le regioni per la realizzazione di programmi di gestione faunistico-ambientale a decorrere dall'anno 2004 e il trasferimento alle regioni di una somma pari al 50 per cento dell'introito derivante dall'applicazione della tariffa sulle concessioni governative relative alle licenze di porto di fucile a uso caccia.
Maggiori risorse, a giudizio della Conferenza, sarebbero di aiuto anche agli osservatori faunistici regionali per svolgere l'attività di monitoraggio degli habitat e della fauna selvatica nonché per i prelievi e per le deroghe, così come previsto con l'applicazione delle prossime linee guida dell'ISPRA.
Anche secondo l'ISPRA andrebbero aumentate le risorse destinate agli indennizzi, anche dando vita ad una filiera corta nella quale sia previsto il consumo delle carni degli animali selvatici abbattuti.
Le associazioni ambientaliste e il WWF sostengono che occorrerebbe incentivare il sostegno finanziario alle aziende perché si muniscano di strutture idonee a prevenire e ridurre i danni: i programmi di sviluppo rurale attualmente prevedono tali misure solo in Emilia-Romagna e Lazio. Solo quattro regioni hanno poi attivato l'«indennità Natura 2000» prevista dall'Unione europea per le imprese agricole operanti nei corrispondenti siti.
In primo luogo, la premessa indispensabile per affrontare la questione sembra essere la possibilità di usufruire di un'analisi