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Lavoro a tempo determinato: quadro normativo

Il contratto di lavoro a tempo determinato è disciplinato dal D.Lgs. 368/2001, adottato in attuazione della direttiva 1999/70/CE 28 giugno 1999 (relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) che ha riformato interamente la disciplina dell'apposizione del termine al contratto di lavoro, abrogando la precedente normativa in materia (L. 230/1962, articolo 8-bis del D.L. 17/1983, articolo 23 della L. 56/1987.

Con tale provvedimento è stata modificata profondamente la precedente impostazione normativa (in base alla quale il rapporto di lavoro a termine era vietato, tranne nei casi tassativi indicati dalla legge e dai contratti collettivi) ammettendo di regola il contratto a tempo determinato, salvo i casi in cui è espressamente vietato.

Su tale impianto normativo è successivamente intervenuta la L. 247/2007, che ha modificato il D.Lgs. 368/2001 stabilendo, in primo luogo, che il contratto di lavoro subordinato sia stipulato normalmente a tempo indeterminato, nonché un limite massimo di durata (pari a 36 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi), nell'ipotesi di successione di contratti a termine, oltre il quale il contratto si considera a tempo indeterminato.

Da ultimo, la L. 92/2012, intervenendo nuovamente sul D.Lgs. 368/2001, ha precisato che il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, apportando profonde modifiche alla disciplina del contratto a termine.

 

Occorre ricordare che non sono soggetti all'applicazione del D.Lgs. 368/2001, in quanto regolamentati da una disciplina specifica e in quanto preordinati al conseguimento della formazione e all'inserimento al lavoro (ai sensi della circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 42 del 2002) i contratti di lavoro temporaneo, i contratti di formazione e lavoro, i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate alla formazione attraverso il lavoro (come ad esempio i tirocini e gli stage) i quali, se pur caratterizzati dall'apposizione di un termine, non costituiscono, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, del D.Lgs. 368/2001, rapporti di lavoro subordinato.

Apposizione del termine e prolungamento del contratto

L’articolo 1 del D.Lgs. 368/2001 consente l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro. L'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni.

L’articolo 1, comma 9, della L. 92/2012 ha apportato una serie di modifiche alla disciplina. In primo luogo si segnala l’esclusione del requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (riferibili anche all'ordinaria attività del datore di lavoro) (c.d. acausalità) ai fini della stipulazione di un primo contratto di lavoro a termine, purché esso sia di durata non superiore a 1 anno.

In tali casi il contratto non può comunque essere oggetto di proroga. Una ulteriore ipotesi di esclusione del requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, opera nei casi, previsti dalla contrattazione collettiva, in cui l’assunzione avvenga nell’ambito di particolari processi produttivi (determinati dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente).

E’ stato inoltre escluso il requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (riferibili anche all'ordinaria attività del datore di lavoro), ai fini della prima missione di un lavoratore nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.

In ogni caso, tale nuova forma di contratto (c.d. acausale) non può essere oggetto di proroga (articolo 4, comma 2-bis, del D.Lgs. 368/2001).

 

L'articolo 3 del D.Lgs. 368/2001 prevede che l’apposizione del termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato sia vietata per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti; presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine; da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.

 

L’articolo 4 del D.Lgs. 368/2001  prevede che il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.

 

L’articolo 5 del D.Lgs. 368/2001, modificato sostanzialmente dall’articolo 1, comma 9, della L. 92/2012, prevede che nel caso in cui il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4, il datore di lavoro sia tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo, al 40% per ciascun giorno ulteriore. Se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno (in luogo dei precedenti 20) in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi ovvero oltre il cinquantesimo giorno (in luogo dei precedenti 30) negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. Oltre a ciò, è stato introdotto l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare al Centro per l'impiego territorialmente competente, entro la scadenza della durata del rapporto prevista dal contratto, che il rapporto continuerà, indicando anche la durata della prosecuzione.

Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1, entro 60 giorni (in luogo dei precedenti 10) dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero entro 90 giorni (in luogo dei precedenti 20) dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Peraltro, nell’ambito di particolari processi produttivi (determinati dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente), i contratti collettivi possono prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione di tali intervalli di tempo (fino a 20 giorni in caso di contratti di durata inferiore a 6 mesi; fino a 30 giorni in caso di contratti di durata superiore).

Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

 

Il comma 4-bis dell’articolo 5 del D.Lgs. 368/2001 prevede poi che, ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato. In deroga a quanto disposto dalla sopracitata disposizione, tuttavia, un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore contratto. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché nel caso di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato. Secondo quanto disposto dalla L. 92/2012, ai fini del calcolo del limite complessivo di 36 mesi (superato il quale, anche per effetto di proroghe o rinnovi di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto a termine si considera comunque a tempo indeterminato) si deve tenere conto anche dei periodi di missione nell'ambito di contratti di somministrazione (a tempo determinato o indeterminato) aventi ad oggetto mansioni equivalenti e svolti tra gli stessi soggetti.

 

Il comma 4-quater dell’articolo 5 del D.Lgs. 368/2001 dispone che lavoratore il quale, nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha (fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.

 

Estinzione del rapporto

Il rapporto di lavoro a tempo determinato si estingue con lo scadere del termine previsto; la cessazione del rapporto deve essere comunicata al Centro per l'impiego entro i 5 giorni successivi solo se avviene in data diversa da quella comunicata all'atto dell'assunzione In ogni caso, il rapporto di lavoro a termine può cessare prima della scadenza del termine per comune volontà delle parti oppure per recesso per giusta causa.

 

L’articolo 32, commi 3 e 4, della L. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) ha previsto l’applicazione dell’articolo 6 della L. 604/1966 (relativo ai termini di impugnazione dei licenziamenti) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto e all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, nonché alcune specifiche disposizioni per i contratti in corso di esecuzione o già conclusi al 24 novembre 2010.

 

Successivamente, l’articolo 1, commi 11-12 della L. 92/2012 è intervenuto in materia, ampliando i termini per l'impugnazione (anche extragiudiziale) e per il successivo ricorso giudiziale (o per la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato), nel contenzioso relativo alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro. Il primo termine è stato elevato da 60 a 120 giorni (decorrenti dalla cessazione del contratto), mentre il secondo termine è stato ridotto da 270 a 180 giorni (decorrenti dalla precedente impugnazione). I nuovi termini si applicano con riferimento alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013.

 

Infine, si segnala che l’articolo 1, comma 13, della L. 92/2012 ha fornito una norma di interpretazione autentica dell’articolo 32, comma 5, della L. 183/2010, relativamente al risarcimento del danno subìto dal lavoratore nelle ipotesi di conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato.

La norma di interpretazione autentica (avente, quindi, effetto retroattivo) è volta a chiarire che l'indennità onnicomprensiva costituisce l'unico risarcimento spettante al lavoratore, anche in relazione alle conseguenze retributive e contributive, concernenti il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento giudiziale di conversione del rapporto di lavoro.

La norma di interpretazione autentica si pone in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303/2011, con la quale si ritiene, in primo luogo, che “in termini generali, la norma scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Difatti, l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della L. 183/2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario”. La Corte prosegue, poi, affermando che “l’indennità onnicomprensiva prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della L. 183/2010, non è ipotizzabile come “aggiuntiva al risarcimento dovuto secondo le regole di diritto comune” e pertanto “assorbe l’intero pregiudizio subìto dal lavoratore a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, dal giorno dell’interruzione del rapporto fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio.