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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(V-VI Camera e 5a-6a Senato)
3.
Venerdì 9 dicembre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Marinello Giuseppe Francesco Maria, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL DECRETO-LEGGE 6 DICEMBRE 2011, N. 201, RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI PER LA CRESCITA, L'EQUITÀ E IL CONSOLIDAMENTO DEI CONTI PUBBLICI

Audizione di rappresentanti dell'ADEPP:

Marinello Giuseppe Francesco Maria, Presidente ... 3 5 6
Camporese Andrea, Presidente dell'ADEPP ... 3 5
Marsilio Marco (PdL) ... 5

Audizione di rappresentanti dell'AIFA:

Marinello Giuseppe Francesco Maria, Presidente ... 6 7 8 9 10
Beltrandi Marco (PD) ... 7
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 7 10
Fallica Giuseppe (Misto) ... 8
Fitto Raffaele (PdL) ... 7
Pani Luca, Presidente dell'AIFA ... 6 8 9 10

Audizione di rappresentanti di ANCI, UPI e Conferenza delle regioni e delle province autonome:

Marinello Giuseppe Francesco Maria, Presidente ... 10
Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 16 20 24 33 36
Conte Gianfranco, Presidente ... 32
Armao Gaetano, Assessore all'economia della regione Siciliana ... 23
Armosino Maria Teresa (PdL) ... 24
Borghi Enrico, Sindaco di Vogogna ... 14
Castelli Guido, Sindaco di Ascoli Piceno e responsabile del settore finanza locale dell'ANCI ... 11 34
Castiglione Giuseppe, Presidente dell'UPI e presidente della Provincia di Catania ... 16 33
Causi Marco (PD) ... 25
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 26
Duilio Lino (PD) ... 32
Ferri Andrea, Rappresentante dell'Ufficio finanza locale dell'ANCI ... 35
Nannicini Rolando (PD) ... 28
Pugliese Marco (Misto) ... 29
Rossetti Sergio, Coordinatore vicario della Commissione affari finanziari della Conferenza delle regioni e delle province autonome e assessore alle risorse finanziarie della regione Liguria ... 20 33
Saitta Antonio, Vicepresidente vicario dell'UPI e presidente della Provincia di Torino ... 18 34
Simonetti Roberto (LNP) ... 31 32
Vannucci Massimo (PD) ... 30

Audizione di rappresentanti di Confedilizia:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 36 39
Spaziani Testa Giorgio, Segretario generale di Confedilizia ... 36
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia (Grande Sud): Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI.

COMMISSIONI RIUNITE
V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE) - VI (FINANZE) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 5A (PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, BILANCIO) - 6A (FINANZE E TESORO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta pomeridiana di venerdì 9 dicembre 2011


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI GIUSEPPE FRANCESCO MARIA MARINELLO

La seduta comincia alle 14.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'ADEPP.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione degli enti di previdenza privati (ADEPP).
Chiedo scusa per il ritardo accumulatosi e saluto i rappresentanti dell'ADEPP nelle persone del dottor Camporese, del dottor Malagnino, del dottor Anedda e dell'avvocato Bagnoli.
Tengo a dirvi che la questione che ritengo vi sia a cuore è già stata posta all'attenzione in sede di discussione generale del decreto-legge svoltasi nella giornata di ieri, quindi è abbastanza conosciuta e dibattuta. Nel vostro intervento, dunque, dovrete a mio avviso puntare - scusate se mi permetto di dare un suggerimento - su due concetti fondamentali: la motivazione sostanziale per la quale chiedete una proroga rispetto alla data del 31 marzo, prevista dall'articolo 24, comma 24, del decreto-legge, per dimostrare che le casse previdenziali privatizzate hanno in conti in ordine e se, quando e come ritenete di poter rientrare nell'equilibrio trentennale in un arco temporale che sia assolutamente ragionevole e in linea con le esigenze attuali del Paese.
Do la parola al presidente dell'ADEPP, dottor Camporese.

ANDREA CAMPORESE, Presidente dell'ADEPP. Grazie molte per averci voluto audire, il che per noi è molto importante.
Poiché la questione è nota, organizzerò il mio intervento per punti, in modo molto asciutto. Vorrei dire, in primo luogo, che noi eroghiamo prestazioni pensionistiche senza alcun onere a carico dello Stato - in quanto ciò è vietato dalla legge che ha privatizzato il sistema - quindi siamo totalmente autosostenibili proprio in base alla legge.
La seconda affermazione di carattere generale è che noi non graviamo sulla collettività nemmeno per tutto il versante che potremmo definire solidaristico; qualsiasi forma di solidarietà viene fatta a nostro carico e non a carico della collettività. In più, siamo dei grandi contribuenti, poiché paghiamo il 20 per cento sugli utili finanziari dell'investimento dei nostri patrimoni, che ammonta ad alcune centinaia di milioni di euro l'anno. Pertanto, siamo anche fra i contribuenti della collettività.
Riteniamo che la norma così come è scritta, che prevede - come sapete bene -


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una sostenibilità riferita ad un arco temporale di cinquant'anni (sostenibilità che è stata elevata soltanto quattro anni fa da quindici a trenta anni, quindi stiamo parlando di un'elevazione di trentacinque anni nell'arco di quattro anni), sia sostanzialmente inapplicabile, lo ripeto, così come è scritta. Ovviamente non ci sottraiamo a nessun dibattito sull'equità e sulla sostenibilità.
Punterei ora l'attenzione su alcuni elementi. Il primo è quello della tutela dei giovani. La norma, tra l'altro, appare molto stringente perché non cita i patrimoni. Adottando il saldo tra le entrate contributive e le spese per prestazioni senza conteggiare i patrimoni, noi calcoliamo che i nostri patrimoni - che oggi ammontano a circa 50 miliardi di euro - vengano amplificati, nell'arco di cinquant'anni, fino a 500 miliardi di euro. C'è un accantonamento enorme che, se non utilizzato per la sostenibilità, appare assolutamente eccessivo e probabilmente incongruente.
Per quanto riguarda i giovani, imputare uno stress così forte al sistema, in presenza di un processo di riforma che è già stato concluso da alcuni istituti e approvato dai ministeri vigilanti, quindi un processo che vira verso il calcolo contributivo, in questi tempi così stringenti, rischia di far pagare ai giovani - proprio ai giovani che vogliamo tutelare - un prezzo molto alto, rischia di far elevare le aliquote in modo immediato e molto rilevante, rischia di far virare i sistemi al calcolo contributivo pro-rata da un giorno all'altro (segnalo che il sistema retributivo così come lo si conosceva nei decenni precedenti non esiste più, esiste già il sistema contributivo per alcune Casse o un sistema misto per altre) e quindi rischia di colpire violentemente proprio i giovani che oggi hanno enormi difficoltà, anche a causa di un ciclo economico che conosciamo come estremamente negativo. Elevare le aliquote in modo rilevante in questo ciclo economico significa sostanzialmente creare un ulteriore effetto recessivo.
Quanto alla solidarietà, prima ho ricordato che noi non riceviamo alcuno stanziamento dallo Stato, né per le prestazioni né per la solidarietà. Attualmente, l'intero sistema delle Casse contiene alcuni elementi di solidarietà a nostro carico che vanno prima di tutto in direzione delle giovani generazioni.
Parlo quindi di elementi di tutela che sono legati alla malattia, all'invalidità, all'erogazione di prestiti a basso tasso e via elencando, che vogliono incentivare l'entrata nel mondo del lavoro delle giovani generazioni.
Vi ricordo che le ultime rilevazioni del rapporto ADEPP fanno emergere un calo dei redditi reali dei professionisti italiani complessivamente intesi - 2.100.000 soggetti - del 6 per cento, mediamente, con punte fino al 10 e al 12 per cento, in particolare nell'ambito dell'avvocatura ma non solo.
In questo contesto noi non intendiamo sottrarci a nessun tipo di verifica. Del resto, verifiche sono già in atto: come sapete, noi abbiamo già l'obbligo di presentare bilanci attuariali relativi a un arco temporale di trent'anni, di garantire la sostenibilità in tale arco temporale; abbiamo l'obbligo di presentare una serie di dati ai ministeri vigilanti che li vagliano e li approvano; siamo vigilati fortemente anche dalla COVIP, ma non solo. Pertanto, l'osservazione dei nostri conti è costante e molto profonda. L'emendamento presentato al decreto-legge dagli onorevoli Marinello e Lo Presti, che noi riteniamo positivo e totalmente accoglibile, non stravolge la norma che mira a una maggiore equità intergenerazionale, ma semplicemente la rende applicabile in un arco temporale che sia sostanzialmente sostenibile. Dunque, lo spostamento in avanti del termine e il mantenimento dell'equilibrio finanziario in un arco temporale di trent'anni, pur in presenza della sanzione dell'applicazione del calcolo contributivo pro-rata, nel caso in cui non si soddisfino questi due elementi, ci permette di completare un processo di riforma che, vi assicuro, è in corso ed è stato vagliato dai Ministeri dell'economia e delle finanze e del lavoro e delle politiche sociali. Pertanto, questo processo deve essere portato


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a termine, il sistema deve essere traghettato in porto, vanno garantiti i giovani e deve essere dato il massimo appoggio a una crescita del mercato del lavoro e delle professioni che a nostro parere è ineludibile.
Questo appello, che vi rivolgo a nome dell'ADEPP, delle venti Casse e dei due milioni di professionisti che rappresenta, si muove nel senso dell'equità e della sostenibilità, con una grande attenzione alla condizione del Paese.
Finisco il mio intervento dicendo che noi siamo grandi contribuenti verso lo Stato, ma possiamo anche essere un soggetto sociale ancor più attivo, non solo acquistando 9 miliardi di euro di debito pubblico, come abbiamo fatto, ma anche essendo partecipi di un processo di sviluppo e di investimento nelle grandi infrastrutture strategiche del Paese, al quale non ci sottrarremo se ci verrà richiesto. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente dell'ADEPP.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MARCO MARSILIO. Condivido ampiamente l'appello che ci rivolge l'ADEPP e vorrei che il presidente Camporese ci spiegasse meglio gli effetti che il mantenimento di questa norma può provocare nel breve termine sulla tenuta delle Casse e sulle sperequazioni che si creano tra diverse generazioni di contribuenti.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Camporese per la replica.

ANDREA CAMPORESE, Presidente dell'ADEPP. Cerco di andare nel concreto non citando una specifica Cassa ma facendo un esempio. Supponiamo che la norma di cui all'articolo 24, comma 24, del decreto-legge rimanga invariata: decorso il termine del 31 marzo 2012, si applica immediatamente il sistema contributivo a coloro ai quali tale sistema in precedenza non veniva applicato, ma, soprattutto, bisogna garantire immediatamente l'equilibrio delle gestioni nell'arco temporale di cinquant'anni. Ora, cinquant'anni sono un'epoca enorme; sottolineo che sono superiori alla vita lavorativa media di un lavoratore. Noi stiamo garantendo qualcosa che va oltre la vita media, quindi un periodo che ha una certa lunghezza e sensibilità. Lei capisce che qualsiasi modifica delle leve che in qualche modo insistono sulla previdenza, quali il calo delle medie retributive o la modifica della platea degli iscritti, ha una ripercussione negli equilibri di un sistema che deve guardare ad un orizzonte temporale di cinquant'anni. Il sistema è enormemente sensibile a qualsiasi cambiamento, quindi c'è un problema anche prospettico. L'arco temporale di cinquant'anni di sostenibilità potrebbe diventare di quarantotto, di quarantanove o di quarantasette anni, e, a quel punto, quale è la soluzione da adottare, forse approvare una riforma dopo l'altra? Mi pare impossibile.
Quello che può accadere è che per soddisfare l'equilibrio nell'arco temporale di cinquant'anni si devono utilizzare tutte le leve disponibili, quali l'immediato e enorme aumento della contribuzione per tutti, ma anche la riduzione delle prestazioni. Tutto questo, secondo le proiezioni che noi abbiamo fatto in vari ambiti, può essere insufficiente, perché rispettare la sostenibilità finanziaria in un arco temporale di cinquant'anni non prendendo in considerazione il patrimonio è - vi assicuro e lo posso provare con il parere di autorevoli esperti - assolutamente impossibile. Dunque, noi chiediamo un grandissimo sforzo ai nostri iscritti, molto probabilmente senza ottenere il risultato voluto.
Quello che voglio sottolineare è che il risultato richiesto, cioè la sostenibilità nell'arco temporale di cinquant'anni, a mio modesto parere, non è utile. La sostenibilità attuale, prevista per un periodo di trent'anni, monitorata anno per anno, impedisce che al trentunesimo anno la curva crolli o la Cassa chiuda, perché esiste un monitoraggio costante; quindi, deve essere garantito continuamente l'equilibrio nel corso dei trent'anni. Se oggi un nuovo


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professionista si iscrive ad una Cassa di previdenza, tale Cassa deve garantire quel professionista per un periodo di trent'anni. Credo che l'effetto delle norme del decreto-legge sarebbe devastante, soprattutto per i giovani, ma anche per gli iscritti alle Casse, in termini di impatto delle misure che dovremmo immediatamente assumere e, allo stesso tempo - ciò che è più grave, a mio parere - non utile.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Andrea Camporese e i suoi collaboratori, nella speranza e nella convinzione che le questioni da loro rappresentate possano trovare una risposta o comunque un accoglimento.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'AIFA.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici, l'audizione di rappresentanti dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA).
Sono presenti il professor Luca Pani, direttore dell'AIFA e il dottor Paolo Siviero, coordinatore dell'area strategia e politiche del farmaco, ai quali do il benvenuto.
Come i colleghi sanno bene, nel decreto-legge è presente una disposizione, e segnatamente l'articolo 32, che affronta la questione relativa alla diffusione del prodotto farmaceutico nel nostro Paese. A tal fine, l'audizione dell'Agenzia italiana del farmaco può, a nostro avviso, portare elementi utili e dirimenti in merito a tale disposizione.
Do la parola al professor Pani, direttore dell'AIFA.

LUCA PANI, Direttore dell'AIFA. Svolgerò una brevissima premessa per far capire come la norma dell'articolo 32 del decreto-legge si inserirebbe nell'ambito europeo. Noi saremmo il primo e unico Paese in Europa ad avere la caratteristica di disporre la vendita dei farmaci di fascia C all'interno delle parafarmacie.
Nell'ambito dei Paesi europei, con una differenza di livello, troviamo che disposizioni simili sono state adottate dal Portogallo, dove vi è un'estrema liberalizzazione - non è necessaria la presenza di un farmacista né di un laureato in farmacia neppure all'interno della cosiddetta parafarmacia - mentre altri Paesi hanno norme più restrittive come, ad esempio, la Germania, dove è consentita solamente la vendita di prodotti preventivi e non curativi, di acque minerali, di vitamine, di prodotti di erboristeria e così via.
Questo è l'ambito in cui noi ci inseriamo.
Dal punto di vista dell'AIFA, sollevo alcuni punti critici, di attenzione. Cito, ad esempio - poi arriverò ai dati di carattere economico - il fatto che questa espansione del mercato e quindi la possibilità di allargare il profitto non deve avvenire a discapito della salute dei cittadini, che è il punto centrale della nostra attività; il fatto che i farmaci di fascia C siano dispensati con un'estrema attenzione alle regole, che peraltro già esistono e che dovranno essere rinforzate, con la presenza e la diretta dispensazione dei farmaci da parte del farmacista; infine, il fatto che la nuova normativa europea di farmacovigilanza entrerà in vigore il primo luglio, quindi anche le parafarmacie dovranno dotarsi dei sistemi di tracciabilità dei farmaci previsti a livello europeo.
Riferisco alcuni numeri sul valore di questo mercato. Il mercato globale è di circa 5 miliardi di euro, dei quali, al momento, 2 miliardi di euro sono relativi ai farmaci da banco, mentre gli altri 3 miliardi di euro riguardano farmaci di fascia C. Nell'ambito di questa fascia C, con riferimento ai farmaci da dispensare con ricetta medica, il mercato dei farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale (benzodiazepine e simili) ha un valore di 920 milioni di euro, quello relativo ai farmaci che agiscono sul sistema genito-urinario (prevalentemente ormoni, pillole anticoncezionali, farmaci per la disfunzione


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erettile, come Viagra, Cialis e così via) ha un valore di 650 milioni di euro, mentre quello relativo ai farmaci che agiscono nel sistema dermatologico (pomate contro i funghi), nel sistema gastroenterico e nel sistema muscolo-scheletrico ha un valore di circa 200-280 milioni di euro.
Quanto al valore globale negli ultimi due anni, i prezzi dei farmaci in realtà sono aumentati del 4,9 per cento circa, e non diminuiti (questo è un elemento di cui dobbiamo tener conto), e non potranno aumentare secondo le regole stabilite dai decreti di riferimento prima del 1o gennaio 2013, in quanto possono aumentare ogni anno dispari.
Questi, in maniera succinta, sono gli elementi su cui raccomandiamo l'attenzione.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Pani.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

AMEDEO CICCANTI. Vorrei conoscere il livello di vendita di questi farmaci nelle parafarmacie. Si era posta la questione se il discorso riguardasse i comuni sopra 12.000 abitanti o sopra 5.000 abitanti. Come varierebbe, eventualmente, l'incidenza?

RAFFAELE FITTO. Chiedo innanzitutto se è possibile avere gli ultimi dati riassuntivi che sono stati poc'anzi indicati rispetto alla fascia di mercato e alla sua suddivisione, perché questo indica più chiaramente l'impatto della norma.
Inoltre, vorrei conoscere l'opinione dell'AIFA rispetto al tema della qualità del servizio. In particolare, cosa comporta la vendita dei farmaci di fascia C nell'ambito delle parafarmacie?
Infine, le chiedo se con questa norma si interviene più su una quota di mercato senza provvedere ad una liberalizzazione vera e propria, che, invece, salvaguardando la qualità del servizio nel suo complesso, dovrebbe intervenire in modo più adeguato rispetto al quadro nazionale complessivo. Mi pare opportuno ricollegare quest'ultima considerazione, insieme alla precedente, all'introduzione che lei ha svolto e che vorrei sottolineare: la specificità italiana, che questa norma crea, rispetto al contesto europeo.
Credo che questo sia un tema di riflessione, perché noi stiamo approvando un provvedimento sulla base di alcune indicazioni ben precise contenute in una lettera dell'Unione europea che suggeriscono l'adozione di una serie di misure finalizzate ad intervenire, oltre che sul versante della tenuta dei conti pubblica, anche sul fronte della crescita. In questo caso, mi sembra di comprendere, anche data la specificità dell'argomento, che siamo un po' gli iniziatori di questo percorso, in un contesto nel quale i punti interrogativi e le incertezze sono di gran lunga superiori rispetto alle certezze che spesso - forse un po' superficialmente, lo dico con grande rispetto - vengono indicate.

MARCO BELTRANDI. C'è un'affermazione con la quale il professore ha cominciato la sua relazione e che io ho ascoltato, ma mi piacerebbe potesse ripetere. Se ho capito bene, mi pare che lei abbia detto che in Europa ci sono Paesi in cui i farmaci di fascia C, venduti con prescrizione medica, vengono somministrati anche in assenza di un farmacista. Vorrei che lei chiarisse meglio il quadro europeo in cui si colloca questa vicenda, perché, anche in relazione alla domanda posta dall'onorevole Fitto, credo che sia un aspetto che sia giusto conoscere con precisione. Grazie.

PRESIDENTE. Porrò anche io qualche domanda, così il professor Pani, nel rispondere, potrà riassumere l'intera questione.
Certamente condivido quanto ha affermato l'onorevole Fitto, nel senso che in tanti pensiamo che, in un provvedimento di questo genere, l'introduzione dell'articolo 32 non risponda alle sostanziali esigenze della necessità e dell'urgenza che hanno caratterizzato questo decreto.
Al di là di questa osservazione prettamente politica, vorrei svolgere due osservazioni, che trasformerò in domande.


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In primo luogo, considerare il farmaco come un mercato, come qualsiasi altro mercato, è una strada giusta oppure è una strada che ha delle problematicità e delle criticità? È di tutta evidenza che la logica del mercato e delle merci è tendenzialmente portata all'espansione dei mercati. Ad esempio, se c'è il mercato dei giocattoli, dei telefonini, o quello delle penne, evidentemente introdurre delle norme agevolative e anche delle strategie commerciali che possono portare a una continua promozione, alla riduzione dei prezzi, anche a offerte promozionali, è sicuramente coerente con una logica di mercato ed economica.
Nel caso della molecola farmacologica che, come noi sappiamo, deve essere e viene utilizzata in determinate situazioni, siamo convinti che il vero interesse pubblico corrisponda e coincida con l'interesse di chi, invece, vuole aumentare la diffusione del prodotto? Siamo sicuri che le logiche della mercificazione, quindi le logiche commerciali, siano coincidenti con l'interesse della tutela della salute pubblica?
In secondo luogo, oggi nella denominazione «fascia C» rientra una serie di prodotti che evidentemente hanno caratteristiche e tipologie diverse; alcuni necessitano della prescrizione, altri no. Un'apertura tout court a tutta la cosiddetta «fascia C» nella sua interezza evidentemente può porre, a mio avviso, la necessità di un ulteriore passaggio, ossia di una riflessione che veda le autorità competenti - dal Consiglio superiore di sanità alla vostra Agenzia, in particolare, che a mio avviso ha una posizione prioritaria nella farmacovigilanza - porsi il problema se possa essere necessaria l'individuazione di prodotti che possono essere avviati a una diffusione più ampia rispetto ad altri che vanno, invece, limitati a un circuito assolutamente certo e certificato come quello attuale, limitandoli alla rete delle farmacie ufficiali.
Infine, il nostro è un Paese con un assetto consolidato, che ha avuto il grande vantaggio di riuscire a garantire un'uniformità su tutto il territorio nazionale, dal punto di vista del servizio offerto al cittadino, che in qualsiasi paese, anche il più piccolo e il più sperduto, riesce comunque ad avere delle garanzie.
Questo sistema, che evidentemente è stato costruito nell'arco degli anni, con una serie di leggi che si sono succedute, è comunque un servizio che ha dato dei risultati. Tenendo presente quello che lei ha detto in premessa, ossia che il meccanismo funziona in Europa con logiche diverse - ad esempio, lei riferiva che la Germania ha misure molto incisive e restrittive - le domando se il nostro servizio, così come oggi lo conosciamo e lo abbiamo conosciuto, viene considerato, in ambito europeo e internazionale, ancora valido oppure ha delle manchevolezze?

GIUSEPPE FALLICA. Signor presidente, sono arrivato adesso, quindi non so se è già stata posta la domanda che intendo porre e che rivolgo anche alla Presidenza, oltre che ai nostri ospiti.
È possibile sapere quali sono gli effetti finanziari, in termini di maggiori entrate per lo Stato, che derivano dalla vendita dei farmaci di fascia C all'interno delle parafarmacie?

PRESIDENTE. Le faccio presente che dalla norma non derivano effetti finanziari.

GIUSEPPE FALLICA. In secondo luogo, da questa disposizione deriva una creazione di nuovi posti di lavoro all'esterno del settore delle farmacie? Vorrei sapere - chiedo ai tecnici se possono darci anche un loro parere - cui prodest questo articolo 32. Insomma, a chi giova?

PRESIDENTE. Do la parola al professor Pani per la replica.

LUCA PANI, Direttore dell'AIFA. Anzitutto, se lo ritenete opportuno, trasmetteremo alle Commissioni una documentazione completa recante i dati da voi richiesti.
La specificità italiana deriva dal fatto che negli altri Paesi europei - rispondo alle domande degli onorevoli Fitto e Ciccanti - i farmaci di fascia C non possono


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essere venduti nella parafarmacia, e neanche con la ricetta ripetibile. Noi saremmo gli unici e i primi a fare questo.

PRESIDENTE. Scusi se la interrompo. Se capisco bene, con la norma contenuta in questo decreto di fatto saremmo i precursori in Europa, andando in controtendenza rispetto alla situazione europea.

LUCA PANI, Direttore dell'AIFA. Siamo i precursori, quindi dobbiamo prenderci l'onore e la responsabilità di questa scelta.
I farmaci sono farmaci, quindi non possono essere tout court considerati solo dei prodotti di consumo. Sono prodotti di consumo, che però sono farmaci, e su questo non c'è differenza tra i farmaci cosiddetti «da banco» e i farmaci di fascia C.
Al riguardo voglio citare un esempio molto semplice. Tra i farmaci che rientrano nella fascia «da banco» voi avrete - cito, se posso, la denominazione commerciale dei prodotti per capirci - il Vivin C, l'Aspirina, il Moment, che voi potrete comprare nella quantità che desiderate. Tra l'altro, è anche consentito pubblicizzare i farmaci che ho citato, che sono proprio farmaci «da banco».
Vi sono, però, dei farmaci - e in questo siamo gli unici in Europa - che, sebbene siano «da banco», non possono essere pubblicizzati; si tratta dei cosiddetti farmaci senza obbligo di prescrizione o SOP. Tra questi cito, ad esempio, il Buscopan, l'Efferalgan. Sicuramente non avrete mai visto questi farmaci pubblicizzati in televisione. Potremmo entrare nei dettagli della differenza sottile tra l'Aspirina e il Buscopan, ma questo rientra in un altro argomento.
Siamo gli unici ad avere questa caratteristica, saremo gli unici (e i precursori) ad attuare le disposizioni in materia di farmaci di fascia C, ma siamo anche quelli che hanno una classe di farmaci «da banco» più piccola degli altri Paesi, laddove questa classe è molto più ampia.
Negli Stati Uniti, Paese nel quale ho maturato una lunga esperienza, come sapete nei banconi dei supermercati si trova un numero enorme di farmaci; negli stessi supermercati c'è un gabbiotto chiuso con sbarre dove il farmacista dispensa i farmaci con la prescrizione medica. Sono due cose separate.
Signor presidente, lei mi chiede qual è il ruolo del farmaco come bene di consumo. Sebbene queste considerazioni esulino dal ruolo svolto dall'AIFA, non ci sottraiamo alle nostre responsabilità; siamo una delle poche agenzie al mondo a valutare contemporaneamente il valore scientifico di un farmaco unitamente al suo valore economico, ciò che si chiama adesso con una sigla molto in voga HTA, cioè Health Technology Assessment. Fino a poco tempo fa gli altri Paesi lo consideravano un inutile di più, ma oggi, viste le ristrettezze economiche, è un valore: si tratta, da un lato, di valutare il rapporto rischio/beneficio e, dall'altro, di stabilire il prezzo di questo beneficio.
Circa la sua considerazione in merito alla commercializzazione dei farmaci, se un supermercato applica uno sconto abbastanza importante su un prodotto, ad esempio una penna, che normalmente costa un euro e viene, invece, venduta a dieci centesimi, anche chi non ne ha bisogno è possibile che in quel momento la compri, perché tale acquisto è conveniente per il futuro. Ebbene, la penna non è un farmaco e se viene applicato uno sconto sui farmaci dobbiamo fare le dovute differenze. Il farmaco scade, sebbene in tre o cinque anni, quindi in un tempo molto lungo.
Pertanto, possiamo considerare il farmaco come un prodotto commercializzabile se regoliamo anche gli aspetti del farmaco «da banco».
In merito alla denominazione dei farmaci di fascia C, signor presidente, c'è una differenza che il decreto contempla: non si tratta di tutti i farmaci di fascia C, in quanto il comma 1 dell'articolo 32 prevede un'esclusione specifica di alcuni farmaci che non possono essere inclusi nella predetta fascia C: si tratta di quelli prescritti con ricette non ripetibili, degli stupefacenti e via dicendo.
Infine, circa l'uniformità sul territorio nazionale dei servizi offerti, noi non abbiamo


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dati sulla differenza tra comuni sopra e sotto i 15.000 abitanti. Posso riferire sulla non uniformità del territorio per quanto riguarda, per esempio, i farmaci «da banco» e i farmaci di automedicazione: il massimo che registriamo, in percentuale, è nelle province di Trento e Bolzano, circa il 15 per cento, mentre i livelli più bassi, del 6 per cento, li troviamo in Sardegna e Basilicata, dove evidentemente i cittadini tendono meno a ricorre ai farmaci di automedicazione.
Inoltre, l'impatto più importante che avrà questa manovra - infatti giustamente il legislatore prevede che l'Agenzia italiana dovrà sovraintendere alle procedure di farmacovigilanza - è che le parafarmacie dovranno entrare necessariamente nel sistema proattivo di farmacovigilanza. Dal primo luglio prossimo la farmacovigilanza cambierà completamente; non basterà reagire a una segnalazione pervenuta, ma bisognerà cercarla. Con una modalità proattiva la tutela della salute del cittadino è messa molto più in rilievo dalle norme previste a livello europeo. Le predette disposizioni vanno, quindi, contestualizzate in quest'ambito. Grazie.

PRESIDENTE. Lei ha sollevato un problema: anche le parafarmacie saranno soggette a una farmacovigilanza attiva. In tal caso è di tutta evidenza che se questi esercizi teoricamente nuovi sono soggetti a una sorveglianza da parte dell'Agenzia, occorre verificare se la norma necessiti di una copertura finanziaria.

AMEDEO CICCANTI. Neanche la legge Fini-Bossi era coperta...

PRESIDENTE. Onorevole Ciccanti, ha fatto male a non rilevarlo allora.

LUCA PANI, Direttore dell'AIFA. L'ultimo capoverso del primo comma dell'articolo 32 del decreto-legge recita: «Con il medesimo decreto - quello di attuazione del Ministro della salute - sentita l'Agenzia italiana del farmaco, sono definiti gli ambiti di attività sui quali sono assicurate le funzioni di farmacovigilanza da parte del servizio sanitario nazionale».
Faccio un ultimo commento in merito alla bontà o meno del nostro servizio sanitario e delle farmacie in quest'ambito. Sicuramente - sono d'accordo con il Ministro Balduzzi - è il migliore servizio sanitario che possiamo avere, a livello farmaceutico, unitamente al servizio sanitario nazionale. Certamente il sistema della tracciabilità è un valore enorme del Paese.

PRESIDENTE. La ringrazio. Ogni tanto abbiamo un'eccellenza, che speriamo di preservare.
Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti di ANCI, UPI e Conferenza delle regioni e delle province autonome.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici, l'audizione di rappresentanti di ANCI, UPI e Conferenza delle regioni e delle province autonome.
Sono presenti per l'ANCI il dottor Enrico Borghi, sindaco di Vogogna, il dottor Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno e responsabile del settore finanza locale dell'ANCI, il dottor Andrea Ferri, rappresentante dell'ufficio finanza locale dell'ANCI, la dottoressa Maria Sorrenti, rappresentante dell'ufficio legislativo dell'ANCI, e la dottoressa Federica De Maria, rappresentante di ANCI Rivista. Per l'UPI sono presenti l'onorevole Giuseppe Castiglione, presidente dell'UPI e presidente della provincia di Catania, il dottor Antonio Saitta, vicepresidente vicario dell'UPI e presidente della provincia di Torino, il dottor Antonio Rosati, coordinatore nazionale assessori provinciali al bilancio e assessore alle politiche finanziarie e di bilancio della provincia di Roma, il dottor Piero Antonelli, direttore generale dell'UPI, la dottoressa Claudia Giovannini, vicedirettore dell'UPI, il dottor Gaetano Palombelli,


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componente dell'ufficio studi dell'UPI, la dottoressa Luisa Gottardi, componente dell'ufficio studi dell'UPI, e la dottoressa Barbara Perluigi, responsabile comunicazioni UPI. Per la Conferenza delle regioni e delle province autonome sono presenti il dottor Sergio Rossetti, coordinatore vicario della commissione affari finanziari della Conferenza delle regioni e delle province autonome e assessore alle risorse finanziarie della regione Liguria, il dottor Sergio Vetrella, assessore ai trasporti e attività produttive della regione Campania, il dottor Antonello Turturiello, vice segretario generale strategie finanziarie e interregionali della regione Lombardia, il professor Gaetano Armao, assessore all'economia della regione Sicilia, la dottoressa Cristina Lodi, funzionario della regione Liguria, il dottor Giuseppe D'Angelo, dirigente settore trasporti della regione Campania, la dottoressa Antonella Bocchetti, funzionario della regione Campania, la dottoressa Alessandra Caleca, funzionario della regione Sicilia, il dottor Paolo Alessandrini, dirigente responsabile rapporti con il Parlamento e il dottor Giuseppe Schifini, vice capo ufficio stampa.
Do la parola ai rappresentanti dell'ANCI.

GUIDO CASTELLI, Sindaco di Ascoli Piceno e responsabile del settore finanza locale dell'ANCI. Buongiorno, presidente e grazie. Vorrei evidenziare, prima di iniziare, l'aggettivo «paradossale», nel senso che è paradossale la condizione in cui sono stati chiamati ad operare i comuni negli ultimi periodi, partendo da un dato: nel quinquennio 2005-2009, complessivamente, il saldo di bilancio della pubblica amministrazione è peggiorato di quasi 20 miliardi di euro. A fronte di questo dato così evidente, che non merita ulteriori considerazioni critiche, il bilancio aggregato del comparto comunale ha registrato un miglioramento di 2,6 miliardi di euro. Il contributo che incessantemente i comuni hanno dato alla grande questione del debito è stato di queste dimensioni; questo è il trend da cui partiamo per definire paradossale la situazione di chi oggi ha uno stock di debiti pari al 2,7 per cento dell'intero debito pubblico. Attribuendo al nostro debito pubblico un valore pari a 100, il debito comunale rappresenta il 2,7 per cento dell'intero stock del debito. Lo dico perché questa è la situazione in cui abbiamo registrato la proposta del decreto «salva-Italia».
Ricordo un altro elemento storico, ossia che noi siamo già stati chiamati, per effetto delle ultime manovre, a subire un taglio complessivo di 2,5 miliardi d euro di trasferimenti erariali. Questo si riferisce alla situazione prima di domenica scorsa; ai predetti tagli si aggiungano i 4,5 miliardi di euro di risparmi dovuti al Patto di stabilità interno. I comuni che producono risparmi, i comuni che diventano efficienti, unico comparto della pubblica amministrazione che sa esprimere queste performance, hanno subìto, a fronte di questo, ulteriori tagli, per 1 miliardo e 450 milioni di euro, a seguito delle misure recate dal decreto-legge. È un quadro che vi lascio intuire quali conseguenze potrà determinare sul piano sia della spesa corrente (- 19 per cento) sia della spesa in conto capitale, che secondo le stime ANCI porterà - ahimè - a un'ulteriore riduzione della stessa del 16-18 per cento. Questo è il quadro.
Qual è la posizione dell'ANCI? Noi vogliamo fare la nostra parte, vogliamo continuare a far sì che questo lento ma inesorabile, auspicabile rientro rispetto ai problemi epocali della nostra nazione possa vedere i comuni in prima posizione. Ma lasciatecelo fare, consentitecelo! Mi riferisco non tanto alla questione dei tagli, che noi siamo pronti ad accettare, così come immagino ogni singolo segmento della comunità italiana dovrà fare. C'è un però, che innanzitutto si chiama Patto di stabilità interno. Il Patto di stabilità interno è un meccanismo infernale che aggiunge agli obiettivi già stabiliti per il comparto comunale - parlo dei tagli - un ulteriore contributo, quello ai saldi di finanza pubblica di derivazione statale. Due sono i fronti su cui noi dobbiamo operare e anche quando i meccanismi di


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efficientamento delle nostre organizzazioni producono avanzi utilmente spendibili, senza, quindi, aumento dell'indebitamento: noi siamo costretti a lasciare i denari nelle nostre tesorerie, non in nome di un meccanismo virtuoso che ci vede protagonisti, ma di un contributo ad un altro soggetto, il comparto statale; questo meccanismo vede oggi ogni comune, o quasi ogni comune, subire questo grave paradosso di non poter spendere l'avanzo di amministrazione che è riuscito, grazie a quell'efficientamento, ad ottenere come posta contabile concretamente utilizzabile.
È una questione di linearità dei comportamenti, di concreta sostenibilità di questo quadro complessivo. La tesi dell'ANCI, infatti, è la seguente: ci stiamo sul fronte dei tagli, ci stiamo sul fronte del miglioramento complessivo delle nostre performance, ma non potete aggiungere dirigisticamente un Patto di stabilità interno concepito in un'ottica ormai superata, che guarda ai tempi passati, che deve essere nel tempo rivisto e riletto, indirizzandolo sul piano della crescita e valutandolo anche sul piano concreto di quelle che sono le conseguenze recessive di questo meccanismo. Ebbene, il comune di Ascoli Piceno - saluto anche il mio collega di consiglio comunale, onorevole Amedeo Ciccanti - dal 30 giugno, pur avendo le risorse necessarie, non assolve all'obbligazione giuridica di pagamento dei propri fornitori, perché figurativamente noi dovremo attendere Capodanno per poter riaprire il ponte levatoio della spesa, non producendo quindi un effetto reale, ma solo un effetto totalmente figurativo, che deprime - consentitemelo - l'economia locale oltre ogni ragionevole possibilità di sopportazione.
Detto questo - ma non è assolutamente un flatus voci, è il punto più importante - unicuique suum: ai comuni l'obbligo di spendere meno, e va bene; di tagliare la spesa, e va bene; di efficientarsi nell'organizzazione, e va bene; ma non si può caricare il comparto dei comuni che, lo ripeto, è l'unico della pubblica amministrazione che ha prodotto questi risultati, anche di un ulteriore risultato, che è altro rispetto a quella che è la nostra dinamica di spesa.
Dopo passerò la parola al collega Borghi, che parlerà anche di come lo Stato concretamente e normativamente agisce in senso deprimente della nostra autonomia, sotto il piano ordinamentale. Prima, però, vorrei brevemente sintetizzare quali sono le proposte emendative proposte dall'ANCI. La prima riguarda le garanzie che il Parlamento non può non dare rispetto all'equazione su cui si poggia il teorema Giarda per quanto riguarda l'introduzione dell'IMU, con la tassazione della prima casa, soprattutto con riferimento al principio che assumendo le aliquote medie di tassazione sulla prima e le seconde case (0,4 e 7,6 per cento) vi sia invarianza di trasferimenti in favore del comparto dei comuni. Abbiamo fatto le nostre valutazioni: applicando lo 0,4 e il 7,6 per cento e simulando quello che ne deriverebbe per i comuni, emerge un ulteriore gettito di 2 miliardi di euro che convenientemente l'articolo 13, comma 17, del decreto-legge prevede debba andare a titolo di compensazione nelle casse dello Stato. Il Governo ci dice che con le due aliquote citate noi dobbiamo avere lo stesso stock di risorse che avevamo prima del varo del decreto-legge.
Può darsi il caso che qualche comune, che ottiene maggiori benefici dall'applicazione delle aliquote medie, debba cedere qualcosa. Siamo d'accordo su questo punto, e i 2 miliardi di euro citati stanno per l'appunto a significare che quello è l'extragettito che dovremo attribuire allo Stato qualora ricorra questo caso. Attenzione, però, perché ci possono essere anche situazioni per le quali, con l'applicazione delle aliquote medie, il comune riceve meno. Sembra sia il caso del comune di Firenze. Stabiliamo, allora, un meccanismo, un «galleggiante», una valvola per la quale la compensazione, nell'ossequio del teorema Giarda, funzioni. Attenzione, noi chiediamo che il Governo sia coerente con quello che ci ha detto, ossia che con le aliquote medie noi avremo lo stesso stock di risorse. Prevediamo,


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però, un meccanismo di riequilibrio. Le tecniche possono essere le più diverse. Noi abbiamo ipotizzato innanzitutto che questo «galleggiante» sia tecnicamente definito e normativamente introdotto nell'articolo 13; in più, nelle nostre proposte emendative, abbiamo aggiunto un meccanismo per il quale entro il marzo successivo all'anno d'imposta venga verificato il gettito realizzato e quello stimato, in maniera tale che la compensazione possa avere nella Conferenza Stato-città un luogo di materiale esplicitazione.
Chiediamo, altresì - e questo è il punto più importante - che il fondo sperimentale di riequilibrio sia fissato in maniera apodittica e quantitativamente certa nella cifra di 3,450 miliardi di euro, che per l'appunto è la risultante di quella decurtazione ulteriore di 1,450 miliardi di euro stabilita dal Consiglio dei ministri di domenica scorsa. Da questo punto di vista, noi chiediamo che tutto ciò che potrebbe derivare in senso incrementativo rispetto alla modulazione delle aliquote (più o meno 2 per mille, più o meno 3 per mille) sia comunque destinato al comparto dei comuni. Per farlo, la tecnica che abbiamo proposto è la seguente: fissare in maniera certa la dotazione del fondo sperimentale di riequilibrio nella misura di 3,450 miliardi di euro.
Un secondo gruppo di emendamenti - due in particolare - riguarda il meccanismo di cessazione dei rapporti con Equitalia in merito alla riscossione coattiva. Non solo chiediamo, per una ragione intuitiva, che è inutile riaffermare in questa sede, un differimento al 30 giugno 2012 del termine entro il quale cessa il ruolo di Equitalia, ma chiediamo anche che, accanto alle forme ordinarie che i comuni possono utilizzare per assolvere alla funzione di riscossione, ovvero l'esternalizzazione e la gestione diretta, venga anche prevista - ai sensi del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 - la costituzione del consorzio per la gestione e l'esercizio associato di funzioni. Si tratta cioè di prevedere la possibilità che i comuni, ove lo ritengano utile e opportuno, facciano luogo alla costituzione di consorzi di funzioni utili ad esigere i tributi secondo - dobbiamo dirlo - anche quelle prestazioni che sono state per molti comuni incoraggianti durante il periodo di vigenza del rapporto con Equitalia.
Un ulteriore gruppo di emendamenti affronta la questione relativa all'imposta di soggiorno e all'imposta di scopo, posto che ad oggi entrambe non sono materialmente attivabili per la mancanza di un regolamento attuativo richiesto dalla normativa vigente. Abbiamo quindi proposto un emendamento volto ad introdurre una norma che definisca gli aspetti regolamentari e attuativi correlati alle suddette imposte, al fine di sopperire all'assenza del regolamento attuativo, introducendo tale norma nell'ambito della manovra. Cito una considerazione svolta in merito: il fatto che difetti una regola che individua l'albergatore come sostituto di imposta ad oggi non consente di considerare certa ed esigibile la prestazione in favore del villeggiante; se infatti il villeggiante legge Il Sole 24 Ore è probabile che all'albergatore possa eccepire il difetto di questa qualità giuridica e amministrativa in maniera decisiva e dirimente.
Inoltre, cito il più importante fra gli emendamenti, quello che nel mio preambolo ho voluto enfatizzare con la maggiore convinzione: la possibilità che, in attesa che vengano riviste alcune regole del Patto di stabilità interno - che è veramente il nodo gordiano dello sviluppo delle democrazie locali - vengano già da ora escluse dal novero degli investimenti computabili ai fini del calcolo del Patto alcune spese. Noi facciamo riferimento all'edilizia scolastica, perché non si può con la mano destra dare risorse - è successo con lo scorso Governo - per l'edilizia scolastica e impedire al sindaco di Ascoli Piceno o a quello di Gela di utilizzarle.
Questo è un paradosso degno di Zenone, di Talete e di tutti i presocratici, che avrebbero da scrivere qualcosa sull'assurdità di una situazione per la quale noi abbiamo finanziamenti dallo Stato, ma lo Stato ci dice di non utilizzarli. Questo vale per i finanziamenti europei comprese le quote di cofinanziamento nazionale; anche


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qui credo che Catalano potrebbe assurgere a cattedratico nel descrivere una situazione per la quale un comune può aver avuto un finanziamento dall'Unione europea che non prevede neanche un cofinanziamento da parte dello Stato, ma, ahimè, è costretto a non spenderlo.
Abbiamo anche previsto un terzo genere di investimenti, quello che riguarda in particolare le spese di manutenzione straordinaria e ordinaria del patrimonio. Copiose, abbondanti e incoraggianti sono le iniziative dirette all'efficientamento energetico e alla messa in sicurezza dei nostri beni di proprietà. Tuttavia, anche in questo caso, ahimè, ci troviamo nella non invidiabile condizione di dover aumentare le imposte sulla casa, cosa che facciamo prendendoci la nostra quota di responsabilità rispetto alla vicenda complessiva di questa nostra nazione. Non ci si può, però, mettere nella condizione di non dover neppure spendere ciò che è stato assegnato ai comuni, senza ricorrere all'inasprimento della pressione fiscale oppure semplicemente cercando di operare per il meglio, avendo, ad esempio, la possibilità di dismettere un pezzo del proprio patrimonio per realizzare qualcosa di più utile o più necessario.
Con riferimento a questi quattro emendamenti, e soprattutto sul Patto di stabilità interno, domando che le Commissioni avanzino la richiesta di una rivisitazione delle relative norme, che sappiamo non potrà assumere i caratteri di concretezza e immediatezza nel breve volgere di qualche mese, ma che non è più eludibile. Non è più eludibile il superamento di un blocco che non attiene a performance che possiamo migliorare. In conseguenza del taglio dei trasferimenti chiederemo sacrifici, ma non si possono chiedere sacrifici quando non si riesce neppure a spiegare un meccanismo per il quale soldi che pure sono in cassa non possono essere spesi.
Su indicazione del sindaco Alemanno, che mi ha evidenziato la problematica, voglio sottolineare l'effetto indiretto che si produrrebbe, ad ulteriore detrimento del quadro che ho formulato, qualora non venisse rifinanziato almeno di 400 milioni di euro il fondo per il trasporto pubblico locale. Le dinamiche dei rapporti fra regioni e comuni sono tali per cui, eccettuato il ferro, eventuali mancati contributi e irrobustimenti della spesa vedrebbero sicuramente scaricati sul comparto degli enti locali ulteriori tagli aggiuntivi rispetto a quello già richiamato.
È difficile fare gli amministratori locali. Noi siamo in prima linea. Abbiamo scelto di svolgere questa funzione, ma è sempre più difficile dopo che la stessa funzione dei consiglieri e degli assessori comunali viene spesso sbeffeggiata da alcuni interventi, laddove è stata addirittura evidenziata in modo negativo la possibilità di ottenere i permessi, dopo che qualcuno, magari per votare un Piano regolatore o una delibera di bilancio, ha studiato tutta la notte. Ebbene, non solo il precedente Governo ha addirittura rimodulato e risagomato i pochi spiccioli che i consiglieri comunali hanno la possibilità di ottenere, ma con la norma di contenimento dei costi della politica si arriva anche ad affermare la gratuità dell'esercizio della pubblica funzione in luoghi quali - è un caso piuttosto eclatante - alcune circoscrizioni dell'area metropolitana o alcuni municipi di Roma che, come è noto, in qualche caso sono addirittura almeno quattro volte più grandi del mio comune. Mi dicono che una delle circoscrizioni di Roma ha addirittura una superficie superiore a quella di Milano.
Va tutto bene, ma se pensiamo che gli effetti dei tagli colpiscono reprobi e persone in gamba, allora probabilmente non daremo neanche quella ventata di novità perché la gente, a nostro parere, sa vedere, sa discernere e sa anche censurare quando i tagli occultano magari volontà più immaginifiche che reali. Grazie.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI GIANCARLO GIORGETTI

ENRICO BORGHI, Sindaco di Vogogna. Signor presidente, il collega Castelli ha molto efficacemente riassunto alle Com


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missioni i contenuti dei nostri emendamenti. A me spetta il compito di fare una riflessione di carattere più generale sul piano politico-istituzionale, con una richiesta di riflessione ulteriore su alcuni aspetti di carattere ordinamentale che pure, a nostro avviso, hanno un'immediata ripercussione sulla capacità di moltissimi comuni del nostro Paese di poter governare le conseguenze che la manovra finanziaria di cui state discutendo metterà in campo.
La riflessione di carattere politico generale è molto semplice: i comuni italiani si aspettano che dopo questa manovra si inizi nuovamente a credere nell'autonomia, nella responsabilità, nella capacità da parte dei comuni di organizzarsi in maniera autonoma, come peraltro prevedono, non solo il Titolo V della nostra Costituzione, ma anche le leggi di attuazione della stessa, in maniera tale da poter corrispondere al raggiungimento degli obiettivi sanciti dalle leggi dello Stato.
Noi abbiamo subìto, nel corso di questi anni, con incursioni da parte di Governi rispondenti a diversi schieramenti politici - quindi non è il caso di fare una riflessione esclusivamente sull'ultimo Governo - una serie di sempre più incisivi e impertinenti interventi organizzativi sull'assetto del funzionamento dei comuni italiani che hanno determinato grandi difficoltà nell'esercizio delle loro funzioni.
Prima il collega Castelli ha fatto riferimento al tema del Patto di stabilità interno. Potremmo parlare dei limiti alle assunzioni, delle modalità con le quali i comuni si debbono organizzare, per arrivare fino all'articolo 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
Noi richiediamo sostanzialmente che la legge dello Stato torni a fissare obiettivi e sanzioni e creda all'autonomia normativa, statutaria, regolamentare dei comuni, così come sancita peraltro dalla legge 5 giugno 2003, n. 131, in maniera tale che possiamo essere messi in condizione di raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica che in queste sedi verranno determinati. A questo proposito, in particolare, a noi corre l'obbligo di sottolineare che, se non verrà posto rimedio a una modalità con la quale si sono prodotte alcune norme organizzative che riguardano 5.700 comuni su 8.094, con il citato articolo 16 del decreto-legge n. 138 del 2011, buona parte dei comuni italiani non saprà come governare, come attuare le misure contenute all'interno di questa manovra. In particolare, di questi 5.700, quasi 2.000 - i comuni sotto i mille abitanti - si trovano, a causa della citata norma, nell'impossibilità di poter gestire, per il prossimo anno, queste misure e nell'impossibilità di sapere chi dovrà gestirle.
Siamo arrivati al paradosso per il quale i comuni italiani dovranno fare pesanti operazioni di applicazione di aliquote, anche e soprattutto in nome e per conto dello Stato italiano, e noi non sappiamo, con riguardo a moltissimi comuni, chi lo farà. Addirittura, se fosse applicato l'articolo 16 del decreto-legge n. 138 del 2011 così come oggi formulato, potrebbero nascere strane unioni di comuni all'interno delle quali consiglieri di opposizione potrebbero avere il potere di determinare il valore della nuova IMU.
Ecco, questo è l'esempio più eclatante della necessità di porre mano immediatamente alle ripercussioni che il citato articolo 16 porta con sé, pena il fatto di ritrovarci in una condizione di sostanziale ingestibilità del sistema.
Noi poniamo questo elemento come un elemento di riflessione politica complessiva, che non fa parte di un singolo emendamento ma della necessità di dover rivisitare questo tema, quindi l'appello è rivolto al Parlamento e al Governo. Diversamente, non ci troveremo in condizioni di poter essere efficaci sotto il profilo del contenimento della spesa e del raggiungimento degli obiettivi che ci sono stati indicati.
Questo vale per l'articolo 16 del decreto-legge n. 138 del 2011, ma vale anche per tutte le altre norme di natura ordinamentale, rispetto alle quali ci aspettiamo che si possa finalmente aprire una nuova stagione. Grazie.


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PRESIDENTE. Ringrazio Enrico Borghi e do la parola ai rappresentanti dell'UPI.

GIUSEPPE CASTIGLIONE, Presidente dell'UPI e presidente della provincia di Catania. Grazie per questa opportunità, nel clima assolutamente surreale che stiamo vivendo nel Paese, dove tutti, quando entriamo nel merito della discussione che ci coinvolge in questa manovra finanziaria, danno ragione alle province, ma di fatto nessuno è in condizione di poter fare nulla.
Noi vogliamo rassegnare alle Commissioni alcune considerazioni su un decreto che incide in maniera significativa sulla vita delle province. Per quanto riguarda la parte economica, a un taglio di trasferimenti di 500 milioni di euro già previsto a legislazione vigente si aggiunge un altro taglio di 415 milioni di euro. Considerando che l'ammontare complessivo dei trasferimenti alle province è di 1 miliardo 200 milioni di euro, potete immaginare cosa significa un taglio di 915 milioni di euro. Questo è uno degli elementi che vogliamo rilevare.
Il dato principale è che di fatto si cancellano le province. Nel decreto-legge è stato previsto che con la cancellazione delle province o la loro soppressione di fatto, così come sta avvenendo, avremmo un risparmio di 65 milioni di euro. Ebbene, nemmeno la relazione tecnica allegata al provvedimento suggerisce dati concreti. I 65 milioni di euro sarebbero destinati a prodursi dal 2013 in poi. Intanto i 130 milioni di euro a cui si fa riferimento li contestiamo subito, perché il codice SIOPE 2010 sostiene che il costo delle province, come costo della politica, sarebbe di 130 milioni, mentre il costo reale è pari a 98 milioni.
Non si dice, però, che il Parlamento, già per due volte, con il decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 marzo 2010, n. 42 e con il decreto-legge 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, aveva ridimensionato in maniera significativa i consigli e le giunte provinciali. Ricordiamo che la legge n. 42 aveva operato un taglio del 20 per cento dei consigli provinciali e il successivo decreto-legge 138 è intervenuto con un ulteriore taglio del 50 per cento. Oggi, dunque, a legislazione vigente, senza il decreto-legge in discussione, avremmo consigli provinciali composti da dieci a diciotto consiglieri e giunte composte da tre a sei assessori. Pertanto, il taglio ai costi della politica era già stato prodotto dagli interventi che il Parlamento precedentemente aveva posto in essere. Se, quindi, mettiamo insieme questi dati e facciamo riferimento al codice SIOPE, questo taglio presunto oggi sarebbe di 45 milioni di euro. È chiaro che con questo decreto non c'è nessun risparmio di spesa. È un dato di fatto, non una considerazione personale. La stessa relazione tecnica lo acclara in maniera molto significativa.
Tutti i risparmi sono previsti in via astratta, non c'è alcun elemento concreto a cui riferirsi. Inoltre, si attiva un processo di dismissione delle funzioni amministrative in capo alle province di grande portata, senza alcun risparmio di spesa. Infatti, nei saldi previsti dal decreto-legge non è scontato nessun risparmio di spesa in relazione a tali misure.
Si voleva dare un segnale all'esterno, all'opinione pubblica. Ebbene, noi abbiamo prodotto in questi giorni uno studio realizzato dall'Università Bocconi relativamente non ai costi della politica, ma ai servizi che le province erogano oggi ai cittadini. Inoltre, abbiamo commissionato un sondaggio di opinione che dimostra che la gente ha a cuore i servizi che le province erogano.
Pertanto, le province non costano 12 miliardi di euro, ma erogano 12 miliardi di euro di servizi. Basta considerare l'elenco delle funzioni amministrative che dovrebbero essere trasferite in appena quattro mesi, che ricordo velocemente. Parliamo di gestione delle politiche attive del lavoro e del mercato del lavoro; di viabilità e trasporti (130 mila chilometri di strade provinciali); di edilizia scolastica e formazione professionale (5.500 edifici scolastici per l'istruzione superiore); di


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difesa del suolo, di tutela delle risorse idriche, di gestione dei rifiuti; di sviluppo economico.
Appare chiaro che queste funzioni nell'arco di quattro mesi non potranno mai essere trasferite. Non si spiega come il Governo abbia potuto inserire nel decreto-legge una tale norma così semplicisticamente, dal momento che in brevissimo tempo dovrebbero essere risolte alcune questioni. Cito, in primo luogo, l'approvazione dei bilanci di previsione di regioni, comuni e province; bilanci realistici, cioè in grado di tenere conto della traslazione delle competenze. In altre parole, l'approvazione dei bilanci dei comuni, delle province e delle regioni deve tenere conto dei trasferimenti delle competenze alle regioni o ai comuni.
Penso anche alla risoluzione dei problemi connessi all'applicazione del Patto di stabilità interno con riferimento alle regioni e ai comuni che risultino destinatari del flusso delle competenze e delle risorse che saranno loro assegnate. Naturalmente esiste un problema da risolvere, poiché si tratta di un volume di spesa di 12 miliardi di euro che viene trasferito a un altro ente e certamente un trasferimento di questo tipo non può non avere un impatto sul Patto di stabilità interno.
Esiste, inoltre, un tema che riguarda la modifica della normativa tributaria, con riferimento alle entrate tributarie patrimoniali e proprie delle province che devono passare in parte alla regione e in parte ai comuni, ma non si capisce con quale criterio, soprattutto per garantire il funzionamento delle istituzioni stesse.
Altro problema riguarda il trasferimento del patrimonio immobiliare e mobiliare delle province; ricordavo prima i 130 mila chilometri di strade provinciali, le scuole, le dorsali per le reti telematiche, i computer, i magazzini e via elencando. C'è un problema, dunque, che riguarda tutto il patrimonio mobiliare e immobiliare delle province.
Un altro tema è quello relativo al personale, ossia dei 56.000 dipendenti delle province. Non si capisce chi dovrà rimanere a gestire le residue competenze delle province, chi sarà trasferito alle regioni, con quale organizzazione e soprattutto per quale attività.
Per capire la dimensione del problema, vi dico che oggi tutti i dipendenti regionali, stando al conto del personale, sono circa 37.500; le regioni dovrebbero, quindi, assorbire i 56.000 dipendenti attualmente in capo alle province.
Tutto questo comporta una difficoltà, per non parlare dei problemi connessi all'organizzazione, alle sedi, alla contrattazione decentrata, al sistema delle valutazioni.
Un tema che vogliamo porre in maniera molto forte riguarda il blocco degli investimenti programmati e in corso nelle province. Immaginate tutti gli investimenti che sono stati programmati nel corso del tempo e che hanno una durata pluriennale: che cosa sarà di tutto questo? La realizzazione delle opere sarebbe immediatamente bloccata, mentre non si comprende a chi andrebbero i mutui contratti dalle province, se alle regioni o alle amministrazioni locali. Sempre che tutto questo sia possibile, ci sarebbe un blocco totale degli investimenti programmati.
Sarebbero bloccati, inoltre, tutti i programmi pluriennali, i programmi finanziati con i fondi strutturali e quelli finanziati da sponsor e da fondazioni bancarie. Vi sarebbe l'impossibilità di rendicontare le relative spese e, soprattutto, verrebbero interrotti questi importantissimi flussi di spesa, che certamente sono anche il frutto di un'interlocuzione principale con il mondo imprenditoriale.
Questa è solo una sintesi delle problematicità che le disposizioni del decreto ci pongono di fronte. A noi è parso alquanto approssimativo, molto sbrigativo l'approccio del Governo nell'adottare le misure di cui all'articolo 23 del decreto. Avevamo già chiesto e ci era stato assicurato, quando abbiamo incontrato il Presidente del Consiglio, che nella manovra economica non ci sarebbero state norme di carattere ordinamentale. Purtroppo, nonostante una rassicurazione espressa pubblicamente - quindi non dico nulla di nuovo - che non ci sarebbero state norme di carattere ordinamentale,


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ci ritroviamo con il decreto che tutti conosciamo, che non affronta il problema e incide soprattutto sulle istituzioni. I temi principali sono due: l'assetto del nostro Stato, che di fatto viene modificato dal decreto, e i costi della politica, alla cui riduzione le province negli ultimi anni hanno dato un contributo decisivo, riducendo del 25 per cento le spese di funzionamento, come abbiamo dimostrato attraverso lo studio condotto dall'Università Bocconi.
Ricordo che comuni, province e regioni avevano chiesto ed ottenuto dal precedente Governo l'istituzione di una commissione paritetica, che era in procinto di insediarsi, appunto, con il compito di affrontare il tema dell'assetto istituzionale del nostro Paese, il tema del Patto di stabilità interno, il tema dei costi della politica, il tema della determinazione dei costi standard, in sinergia con la cosiddetta Commissione Giovannini incaricata di raccogliere e fornire le informazioni necessarie a uniformare - rispetto al livello medio dei sei principali Paesi dell'area euro - le retribuzioni dei titolari di cariche elettive e delle figure apicali delle amministrazioni pubbliche. Ciò al fine di non affrontare in maniera parziale, come fa oggi il Governo, il tema dei costi della politica e soprattutto di non riferirsi solamente alle province.
Noi accettiamo la scommessa e per questo l'assemblea dell'Unione delle province italiane ha approvato all'unanimità un documento che invita a proseguire nel lavoro di efficientamento delle province, delle nostre strutture amministrative, ma soprattutto, per la prima volta, tratta - e forse siamo gli unici a farlo - i temi di un accorpamento significativo delle realtà provinciali e della dimensione ottimale per erogare i servizi di area vasta.
Soprattutto, abbiamo affrontato più volte il tema degli enti intermedi, di quegli enti che oggi hanno un costo pari a 7 miliardi di euro, di cui 2,5 miliardi di euro per i soli consigli di amministrazione, che non rispondono ai cittadini, al contrario dei consigli provinciali e dei presidenti di provincia, che, appunto, rispondono ai cittadini. Abbiamo dunque affrontato il tema del costo esorbitante di quegli enti intermedi di cui, purtroppo, a quanto pare nessuno si vuole occupare e le cui funzioni potrebbero essere benissimo assorbite da comuni e province.
Prima di passare la parola al collega Saitta, che entrerà nel merito degli aspetti costituzionali del provvedimento, noi diciamo che, a nostro parere, sarebbe opportuno stralciare le norme di carattere ordinamentale previste ai commi da 14 a 20 dell'articolo 23 del decreto-legge e immediatamente aprire un tavolo di discussione per affrontare il tema di un assetto più funzionale del nostro Paese e il tema dei costi della politica.
In maniera molto serena diciamo che se il futuro delle province deve vederle svuotate in maniera significativa (così come ha fatto il Governo, altrimenti avrebbe dovuto approvare una norma costituzionale per superare l'articolo 114 della Costituzione), se si dovesse decidere di mantenerle con una funzione di indirizzo e di coordinamento, come si fa nel nostro Paese quando non si vuole decidere, allora riteniamo che sarebbe più onorevole e più giusto che il Governo si assuma la responsabilità di scioglierle definitivamente, piuttosto che lasciare in vita enti che non avrebbero alcun significato, non risponderebbero ai cittadini e non garantirebbero quella efficienza e quella efficacia dell'azione amministrativa che tutti noi vorremmo.

ANTONIO SAITTA, Vicepresidente vicario dell'UPI e presidente della provincia di Torino. Sono convinto che queste consultazioni non sono rituali, ma devo dire che la situazione in cui siamo ci obbliga a rivolgere a voi politici un appello per le cose che ha detto il presidente Castiglione. Abbiamo l'impressione che il Governo su questo tema delle province stia prendendo un grande abbaglio e creerà danno anche alla pubblica amministrazione.
So che molti di voi sono convinti di questo, ma mi pare di capire che esiste una sorta di ragione superiore che obbliga a non intervenire su questo tema. Io credo che, quando sono dimostrate con il conforto


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dei numeri e con precisione alcune ragioni, la politica debba avere la capacità di farle valere, altrimenti non si capisce bene chi decide in questo Paese.
Noi siamo partiti, negli anni passati, da un luogo comune in base al quale addirittura abolendo le province si sarebbero risparmiati 22 miliardi di euro, cosa non vera perché la somma totale dei nostri bilanci ammonta a 12 miliardi di euro. Allora si è detto che l'abolizione delle province avrebbe comportato un risparmio di 12 miliardi di euro: assurdo anche questo. Il presidente Castiglione ha citato lo studio della Università Bocconi, quindi della stessa università del professor Monti, che dimostra che i 12 miliardi di euro sono relativi a spese per lo svolgimento di funzioni che, in ogni caso, debbono essere finanziate. Pertanto, questo luogo comune è caduto. Sergio Rizzo, una persona autorevole, un commentatore che in qualche maniera incide parecchio sulle decisioni della politica, ha pubblicato un articolo sul Corriere della Sera di ieri nel quale arriva a dire che non è vero che con la soppressione delle province si risparmiano 12 miliardi di euro, in quanto i risparmi ammontano soltanto a 65 milioni di euro, ma in ogni caso bisogna abolirle. Credo che qui occorra un atto di coraggio, perché per distruggere l'organizzazione dello Stato ci vuole poco, ma ricostruirla è complesso.
Poco fa il presidente Castiglione ha detto chiaramente che se venissero mantenute le disposizioni del decreto-legge, le province non sarebbero in grado di predisporre i bilanci, verrebbe meno la possibilità di fare investimenti, si creerebbe una situazione di incertezza per i prossimi due o tre anni che determinerebbe un grande danno erariale, e su questo chiederemo conto, per una decisione che viene assunta.
Noi vi chiediamo di tenere conto di questo, perché abbiamo l'impressione che chi ha scritto quella norma non conosca la pubblica amministrazione. Immaginate che in tre o quattro mesi sia possibile trasferire funzioni alle regioni e ai comuni? Voi che avete esperienza anche amministrativa immaginate che sia possibile fare inventari, trasferire il personale e via dicendo in così poco tempo? Sono idee prive di senso che, in ogni caso, danneggiano la pubblica amministrazione, oltre a bloccare gli investimenti.
Normalmente gli investimenti nella formazione professionale rappresentano circa il 2,8 per cento della spesa totale per investimenti del nostro Paese. Questo significa rinunciare, per i prossimi anni, a quasi 80-90 miliardi di spese di investimento nel nostro Paese. Si può, per un pregiudizio di carattere ideologico, rinunciare a 80 miliardi di investimenti? Vi chiediamo questo.
La nostra proposta, come è stato detto, è di stralciare la norma che prevede l'abolizione delle province, perché tra l'altro è incostituzionale. Dobbiamo chiudere subito i nostri consigli? Ma neppure per ragioni di mafia si fa una scelta di questo tipo!
Noi chiediamo, dunque, lo stralcio perché per fortuna la Costituzione ci garantisce e non c'è nessun notista autorevole che possa avere un'opinione contraria alla Costituzione. Vi chiediamo di far valere questo. C'è una nota molto precisa che fa riferimento agli articoli 5, 114 e 117 (e relativi commi) della Costituzione.
Sono presidente della provincia di Torino e vi do un'informazione: la regione Piemonte, su richiesta del Comitato delle autonomie locali impugnerà, per una decisione comune, questa parte dell'articolo 23 del decreto-legge davanti alla Corte costituzionale, perché è incostituzionale.
Vorrei che la politica si occupasse di questo tema e sono convinto che voi lo farete.
Per quanto riguarda la parte economica, noi ci colleghiamo a quanto riferito dall'ANCI. C'è il tema generale del fondo sperimentale di riequilibrio, di cui si è detto, ma c'è un altro aspetto che voglio ricordare, e anche qui mi appello alla vostra competenza. Mi riferisco al tema che riguarda l'imposta provinciale di trascrizione (IPT) che, così come è stata disciplinata, crea una distorsione, crea delle isole felici. Come avrete letto sul


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Corriere della Sera - e sta già capitando anche in Piemonte - molte aziende di noleggio si trasferiscono nelle regioni autonome perché l'IPT ha un importo inferiore. Ad Aosta l'imposta è di 150 euro, mentre noi, applicando una legge dello Stato, dobbiamo farne pagare 600 (parlo di auto di una certa cilindrata), dunque le aziende si trasferiscono in quelle regioni. È corretto questo? Questo significa una riduzione delle risorse per i nostri bilanci. Vogliamo garantire una normalità di trattamento?
In conclusione, onorevoli parlamentari, considerata questa difficile situazione per le province - peraltro molti di noi sono al secondo mandato, dunque non è una difesa del nostro ruolo - l'invito che vi rivolgiamo è a non votare norme che sono in palese contrasto con la Costituzione. Non lasciamoci tutti condizionare da un pregiudizio di carattere ideologico che richiama un risparmio di 12 miliardi di euro, quando poi le stesse fonti ridimensionano tale risparmio a 65 milioni di euro.
Distruggere enti che hanno 150 anni di vita per 65 milioni di euro può anche essere interessante, ma credo che i danni sarebbero superiori a questo effetto. Qualcuno ha detto che trasferire alle regioni queste competenze significherebbe un costo maggiore. Sapete meglio di me che le competenze che dalle regioni sono state trasferite alle province e ai comuni oggi noi le gestiamo a costi più bassi. Un processo inverso vuol dire un maggior costo, che noi abbiamo stimato in 600 milioni di euro.
A fronte di un maggiore costo di 600 milioni di euro, se ne risparmiano 65: ebbene, se è questo il vantaggio, vuol dire che abbiamo sbagliato tutto.

PRESIDENTE. Do la parola ai rappresentanti delle regioni.

SERGIO ROSSETTI, Coordinatore vicario della Commissione affari finanziari della Conferenza delle regioni e delle province autonome e assessore alle risorse finanziarie della regione Liguria. Noi premettiamo che le regioni intendono partecipare alla manovra per il consolidamento dei conti pubblici in modo responsabile al fine di raggiungere gli obiettivi assunti a livello europeo.
Siamo consapevoli della situazione del Paese e dell'Unione europea, quindi non ci sottraiamo alle responsabilità per il raggiungimento dell'obiettivo del pareggio di bilancio previsto per il 2013. Ricordo, d'altra parte, che abbiamo già pesantemente partecipato in modo effettivo al contenimento del disavanzo nazionale, contribuendo per oltre il 60 per cento alla riduzione della spesa pubblica complessivamente, a partire dalle misure previste dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, fino a quelle previste dal presente decreto.
Nelle tre manovre di quest'anno (il decreto-legge in esame, il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, e il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138) le regioni a statuto ordinario hanno lasciato sul campo, in due anni, 6 miliardi 100 milioni di euro, e le regioni a statuto speciale 3 miliardi di euro.
Noi avevamo posto al Governo due questioni irrinunciabili: la sanità e il trasporto pubblico locale. La manovra sulla sanità pone in essere un'azione di assunzione di responsabilità da parte del Governo che sostanzialmente mantiene inalterata, tramite la tassazione a livello nazionale, la dotazione del fondo sanitario nazionale prevista a legislazione vigente.
Per spirito di responsabilità, riteniamo che questa azione sia in questo momento accettabile e adeguata, ma non possiamo non ricordare che il Patto per la salute sottoscritto da noi e dal Governo determina un fabbisogno di risorse assolutamente e progressivamente superiore alla attuale dotazione del fondo sanitario nazionale.
Non solo avremmo rischiato, con la prima ipotesi della manovra, il default delle regioni, che stanno faticosamente cercando di raggiungere il riequilibrio dei conti con i piani di rientro sottoscritti con


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il Governo, ma avremmo anche portato le regioni solitamente più virtuose a ricorrere al piano di rientro.
La questione irrinunciabile su cui esprimiamo grande preoccupazione e su cui vorremmo richiamare la vostra attenzione riguarda, invece, l'insoddisfazione sulla vicenda del trasporto pubblico locale. Depositiamo agli atti la lettera della Presidenza del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2011 dove sono chiaramente descritti, da parte della Presidenza del Consiglio, il fabbisogno e l'andamento del trasporto pubblico locale del 2010, 2011 e 2012. Da questa tabella si evince che, con riferimento al 2011, mancano 114 milioni di euro per finanziare integralmente il relativo fabbisogno, che pure è riconosciuto dal Governo. Nella tabella risulta un fabbisogno di 1 miliardo 655 milioni di euro, che, tenuto conto della copertura di 800 milioni di euro disposta dal Governo, si riduce a circa 800 milioni di euro.
Abbiamo ricevuto un impegno oggi con le misure adottate in materia di accisa sui carburanti. Noi riteniamo che queste misure possano essere già attuate dal prossimo anno, completando così l'opera di reperimento di una parte delle risorse necessarie, tenuto conto dei primi 400 milioni di euro che erano stati stanziati nella precedente manovra.
Noi vorremmo porre alla vostra attenzione quale sia la situazione attuale nel trasporto pubblico locale. Le aziende che gestiscono il trasporto su gomma sono sull'orlo della messa in liquidazione. Mettere in liquidazione queste aziende vuol dire mettere ulteriormente in ginocchio i comuni e le province. Il fatto che il Governo a suo tempo abbia fatto sottoscrivere due contratti, o meglio un contratto «6 6», e poi venga richiesto di utilizzare le relative risorse per coprire le spese dei servizi per l'arco temporale concernente la prima parte dell'anno, per poi valutare la situazione, significa non tener conto del fatto che le aziende sono spesso Spa, dunque non possono evidentemente, ai sensi del codice civile, svolgere un servizio senza disporre della relativa copertura; significa, inoltre, sospendere il servizio entro aprile, perché sostanzialmente ci viene chiesto di gestire il servizio per dodici mesi - se fosse un bilancio regionale equivarrebbe ad una gestione provvisoria - con una diminuzione dell'offerta, in assenza di risorse certe, a partire almeno dall'entrata in vigore dell'orario estivo.
Ma che cos'è il trasporto pubblico locale? Noi abbiamo colto che l'iniziativa del Governo si muove verso la liberalizzazione del settore e nell'ottica dello sviluppo della competitività. Senza le risorse certe diventa impossibile sviluppare le gare sui servizi nazionali. Oltretutto i tagli previsti - penso alle infrastrutture ferroviarie - laddove fossero del 40-50 per cento, aumentano di oltre il 60 per cento in relazione alle risorse destinate ai servizi, perché le spese della rete sono spese fisse e non sono modulabili in base ai budget messi a disposizione da Trenitalia.
Trenitalia veniva finanziata direttamente dallo Stato per 1.200 milioni di euro, senza che questi soldi transitassero attraverso i bilanci regionali, perché lo Stato ha chiesto alle regioni di stipulare il contratto «6 6» in modo che Trenitalia potesse avere una garanzia per gli investimenti sulle infrastrutture. Il paradosso è che oggi noi, dopo aver sottoscritto i contratti che lo Stato avrebbe dovuto finanziarie - e si era impegnato a farlo - in modo triennale, scopriamo che il Governo ritira sostanzialmente il suo impegno non provvedendo al finanziamento di 800 milioni di euro. Dunque, dopo aver sottoscritto un contratto che, per le necessità di Trenitalia, era pluriennale, e che prevedeva il finanziamento dello Stato ad una sua azienda (non è di altri questa azienda), oggi siamo costretti a dire che non lo onoriamo.
Cosa vuol dire ridurre del 60 per cento il trasporto delle merci e delle persone - dei turisti, dei lavoratori, degli studenti - in questo Paese? Com'è pensabile immaginare di sostenere lo sviluppo turistico, lo sviluppo del commercio e lo sviluppo del mercato laddove viene meno il 60 per cento dei bus e dei treni? Già lo scorso anno in moltissime regioni abbiamo assistito


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all'aumento delle tariffe e a una riduzione di servizi. Siamo di fronte a un paradosso straordinariamente interessante: se le regioni non onorano quel contratto, Trenitalia metterà in cassa integrazione decine di migliaia di addetti, quindi lo Stato pagherà la cassa integrazione invece di pagare i servizi di Trenitalia. Tutta questa partita si gioca in casa del Governo.
È un paradosso, come per il welfare: noi pagheremo la cassa integrazione agli operatori sociali che lasceranno i bambini, gli handicappati, gli anziani in casa da soli perché il sistema della cassa integrazione è nato in assenza delle commesse delle aziende; le commesse di questi servizi sono le persone da assistere o da trasportare. Ebbene, noi pagheremo sotto forma di cassa integrazione il taglio che facciamo sui servizi sociali e sul trasporto delle persone.
Badate, non avremo un risparmio, a meno che Trenitalia non licenzi queste persone che non potranno essere mantenute nel loro posto di lavoro in ragione dei tagli che le regioni hanno subìto con le precedenti manovre, dal momento che noi non abbiamo risorse da spendere per i treni e gli autobus.
Non parlo della necessità della manutenzione straordinaria, perché ci occupiamo esclusivamente dei tagli ai trasporti, ma sappiamo tutti che senza spendere un centinaio di milioni di euro per la manutenzione sulla ferrovia i treni non viaggeranno. Già oggi, su molte tratte, Trenitalia stessa riduce i tempi di percorrenza.
Chiediamo allora un'assunzione di responsabilità. Non ha nessun senso, oggi, prevedere una riduzione di determinate risorse del bilancio dello Stato quando ciò provoca un dissesto del servizio offerto che comporterà un costo superiore in termini di cassa integrazione e di manutenzione, a fronte dell'aumento delle tariffe e della riduzione del servizio.
Ci mancano 800 milioni di euro. Abbiamo visto un impegno sull'accisa sui carburanti, ma riteniamo che questo non sia sufficiente. Siamo disponibili a discutere in merito all'introduzione di un processo di fiscalizzazione, dal prossimo anno, di tutto il trasporto, il cui fabbisogno, in base alla citata lettera della Presidenza del Consiglio (e anche nell'opinione delle regioni, che condividono ovviamente l'entità di questo fabbisogno), è di 1.655 milioni di euro, anzi di 2.055 milioni di euro, ma mancano all'appello 800 milioni di euro.
Intendiamo sottolineare un aspetto che è già stato sollevato dalle province e riguarda l'imposta provinciale di trascrizione. Le regioni a statuto speciale condividono con le regioni a statuto ordinario la necessità di evitare quello che sta accadendo. Come è già stato detto con chiara precisione, vi è un assoluto disequilibrio tra l'imposta pagata nelle regioni a statuto speciale e quella pagata nelle regioni a statuto ordinario. Parlo delle regioni perché la traslazione del gettito dell'IPT, che è riferita all'iscrizione dei veicoli al pubblico registro automobilistico (PRA), si manifesta parimenti anche per il gettito della tassa automobilistica di spettanza delle regioni. Quindi, il mercato si sposta sulle regioni a statuto speciale, di conseguenza le province delle regioni a statuto ordinario non incassano quello che sarebbe loro spettato e le regioni a statuto ordinario perdono le entrate relative al bollo auto.
Chiediamo anche un'inversione di rotta in merito alla tassa di stazionamento sulle imbarcazioni di lusso. Tutte le regioni che si affacciano sul mare stanno denunciando che questo tipo di tassa consentirà ai Paesi di confine - per un ligure, la Francia - di avere molti più approdi. Noi non siamo contrari al fatto di trovare una soluzione che comporti un aumento delle tasse per chi è proprietario di imbarcazioni di lusso, ma è chiaro che siamo di fronte a un paradosso, a un chiaro effetto boomerang che agirà sul settore turistico da diporto, sulla portualità e sulla cantieristica. Non comprendiamo come, a fronte di un tale effetto boomerang, il Governo possa insistere sulla tassa di stazionamento. Ci sono molti altri modi per far pagare ai contribuenti - se è ritenuto necessario e noi lo condividiamo - la proprietà di beni di


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lusso, ma riteniamo che questo strumento non colpirà sostanzialmente i proprietari ma l'economia turistica, cantieristica e di portualità che si sviluppa all'interno delle nostre regioni. Questo è in contraddizione con l'impostazione della manovra che va nella direzione del mantenimento dello sviluppo economico del Paese.
Lascio la parola al collega Armao per alcune osservazioni relativamente alle regioni a statuto speciale. Grazie.

GAETANO ARMAO, Assessore all'economia della regione Sicilia. A compendio di quanto detto puntualmente dal collega Rossetti in ordine all'incidenza del decreto-legge in discussione sulle autonomie regionali, riguardo alle regioni a statuto speciale occorre evidenziare che intanto molte delle disposizioni del decreto-legge incidono sull'autonomia finanziaria delle regioni con effetti differenti a seconda che si tratti di regioni a statuto speciale che hanno già concluso il negoziato con lo Stato in attuazione dell'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (le regioni Friuli, Trentino e Val d'Aosta) oppure che si tratti della Sicilia e della Sardegna, per le quali - e non per responsabilità delle regioni - non si è ancora definito il contenuto del negoziato.
Questo risulta problematico in ordine all'applicazione dell'IMU, per esempio, o in ordine all'applicazione delle disposizioni del Patto di stabilità interno, poiché subordina l'individuazione del contributo, in termini di contenimento della spesa, da imputare a ciascuna regione alla definizione del negoziato di cui all'articolo 27 della citata legge n. 42 del 2009.
Questa situazione di stagnazione ha effetti, pertanto, sulla concreta applicabilità, compresi gli aspetti legati agli introiti, delle disposizioni del decreto-legge in discussione. È evidente che non si tratta di questioni che concernono l'attuale Governo, ma purtroppo alcune scelte fatte nella trattativa con queste due regioni oggi refluiscono minando la concreta applicabilità delle disposizioni del decreto.
Per quanto riguarda la clausola di finalizzazione dell'articolo 48 del decreto, essa ovviamente incide su molte competenze delle regioni e determina, per quanto riguarda le regioni a statuto speciale, un'immediata riduzione del gettito che non viene compensata da alcuna disposizione.
Sempre tenendo presente il taglio di 860 milioni di euro annui, questo si aggiunge, come è noto, al taglio di 2.100 milioni di euro per il solo 2012 previsto per le regioni a statuto speciale, richiesto con le precedenti manovre per gli anni 2010 e 2011 e si attesta complessivamente, a decorrere dal 2013, a oltre 3.300 milioni di euro.
Un'ultima questione concerne il trasporto pubblico locale. È noto che le regioni a statuto speciale finanziano direttamente il trasporto pubblico locale; tale servizio, soprattutto per le isole, si articola anche in trasporti via mare. Ebbene, nel momento in cui si reintegra, com'è auspicabile che avvenga, il contributo per le regioni a statuto ordinario, non si può non considerare che è necessario ridurre e contingentare i risparmi di spesa richiesti dal Patto di stabilità interno per le regioni a statuto speciale, poiché esse altrimenti si troverebbero da un lato a non ricevere alcun trasferimento per il sostentamento del trasporto pubblico locale e, dall'altro, con un Patto di stabilità interno ancor più irrigidito, si troverebbero nella sostanziale impossibilità di far fronte alle spese che esse stesse sostengono per il trasporto pubblico locale. Quindi, se non si vuole bloccare completamente il trasporto pubblico locale per le regioni a statuto speciale, è necessario prevedere una riduzione del contributo in termini di minori spese richiesto dal Patto di stabilità interno, quanto meno per la concorrenza degli importi relativi al costo del trasporto pubblico locale in queste regioni.
Pertanto, concludo auspicando che insieme alla definizione delle questioni che abbiamo sinteticamente rappresentato si addivenga al più presto, per la Sicilia e la Sardegna - e da parte di queste due regioni c'è la massima disponibilità in tal senso - alla definizione del federalismo fiscale, al quale le regioni a statuto speciale


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non intendono sottrarsi, ma intendono applicare in conformità ai propri statuti. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MARIA TERESA ARMOSINO. Intervengo dall'ambito del mio palese - ma ne vado fiera - conflitto di interessi, sedendo in quest'Aula come parlamentare, ma essendo anche presidente di una provincia, per riprendere, in relazione a questo tema, ma a valere sull'intero impianto di queste disposizioni sulle province e di questo momento storico, alcune considerazioni mie personali che mi portano a denunciare una decisione che assumerò anche da sola.
A mio parere noi siamo, in questo preciso momento, e credo che tutti ne conveniamo, di fronte a problemi che si sono determinati all'interno della politica e che potremmo riassumere molto banalmente nell'esigenza di una maggioranza allargata per assumere decisioni che ci rendiamo conto essere necessarie al Paese e che i «politici» sarebbero impossibilitati a prendere per l'assenza di una maggioranza adeguata e anche per le ripercussioni sul consenso che queste hanno o avrebbero nell'opinione pubblica.
Credo, tuttavia, che a fronte di questo si impongano due ordini di valutazioni, uno giuridico e uno etico. Se noi pensiamo - e mi rivolgo ai miei colleghi parlamentari - che valga a metterci al riparo da contestazioni il fatto di non affrontare i problemi o non sposare delle cause - oggi quelle cause sono il sangue che viene dato come pasto alle fiere, perché le province sono poco più di cento e in piazza scendono in pochi - e se questo porta a una palese violazione giuridica, questo non solo ci fa commettere un errore - che poi, come dirò, non produce gli effetti che vorremmo raggiungere, ma ancora più gravemente ci porta a dissimulare sotto un'apparente dichiarazione di verità dei fatti falsi. Se qualcosa dobbiamo e possiamo ancora fare noi superstiti di questi scarsi parlamenti definiti in vario modo, è la riacquisizione della dignità e dell'onore delle nostre azioni e delle nostre idee. Se siamo in questa situazione è perché non abbiamo saputo farlo, forse non abbiamo abbastanza valori, o non siamo riusciti a comunicarlo. Io credo che ci sia sempre una media dell'una e dell'altra condizione, in tutte le situazioni.
Certo, noi eletti, noi sventuratamente eletti ancora per un anno e mezzo, se dura, saremo quelli a cui domani - noi, non il Governo tecnico - i nostri concittadini verranno a dire «potevi fare e non hai voluto fare». La prima cosa che ci dobbiamo chiedere e che interessa noi che abbiamo diritto di voto, prima ancora delle alchimie degli accordi partitici, è se noi - noi categoria politica morta e defunta, perché il dopo di noi sarà altro - apparteniamo alla categoria delle persone che vogliono tirar fuori o contribuire a tirar fuori questo Paese dalla situazione in cui versa o se, invece, ragioniamo solo ed esclusivamente come qualche esimio conduttore sta cercando di fare, anche legittimamente, per vedere dove potrà spendersi le scelte di oggi.
Ho voluto dirlo perché al momento del voto si è di fronte alla propria coscienza e a chi crede di non esserlo ricordo - sono un deputato anziano - che non c'è spazio per queste capacità di tornare in questi Parlamenti. Noi abbiamo di fronte o la piazza, che cancellerà tutti, o un residuo difficilissimo tentativo di ricostruire un dialogo democratico e secondo principi ordinati in questo Paese.
Ci sono cose minimali rispetto a quelle che ci sono in questo provvedimento, sulle quali non si può essere d'accordo. Colleghi, quando il Presidente del Consiglio Monti rappresentava in televisione sotto forma di captatio benevolentiae quello che aveva fatto sulle province, non ha detto che cosa aveva fatto, ma ha detto di non avere il potere di cancellarle e tuttavia di aver trovato un sistema per farle costare di meno. Questa situazione è inaccettabile per due profili. Il primo: se noi consentiamo che entri nella nostra legislazione uno strumento surrettizio di modifica


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della nostra Carta costituzionale - non condivido il principio di immodificabilità, ma prima di queste avventure ho fatto l'avvocato e so che quando si crea un precedente i precedenti fanno stato per cose successive - mi chiedo perché non abolire i consigli regionali, perché non svuotarli di funzioni. Qui si pongono due problemi, il primo se si possa in assoluto e il secondo se possa farlo un Governo pretesamente tecnico, a cui noi dovremmo dare il sigillo politico di poteri straordinari.
L'altro profilo è l'operazione falsità: «non posso eliminarle, quindi devo tenere il nome province dandovi una cosa che costi molto meno». Poiché nessuno di noi ha scritto «Sali e tabacchi» sulla testa e da tempo sappiamo che non avremmo retto i conti del 2012, che non avremmo retto il bilancio dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, stiamo cercando artatamente di disarticolare questo per non ammettere che il problema è a monte, ed è un problema difficile, di riscrittura di regole e di patti sociali.
Allora è più onesto dire di cominciare a togliere un livello di governo, non perché non serva o perché porti risparmi, ma per dire quello che si vuole fare, perché, non avendo trasferimenti da fare, si comincia a metterli nella condizione di non operare, ma lo si dica.
Vengo all'esame di questo aspetto per quanto concerne le province. Se si dice che le regioni attribuiscono funzioni e competenze amministrative - prego uno studente del primo anno di giurisprudenza con in mano un manuale a correggermi se sbaglio - ma io ricordo che le regioni hanno funzioni legislative, non amministrative, e quindi anche su questo mi chiedo quale ignorante abbia scritto quella norma. Se devo tener su, vilipesa e bistrattata dal popolo, il Governo degli oi aristoi e degli eccellenti, che commettono questi errori basilari, il mio voto non c'è.
Un'ultima considerazione, presidente. Se ci devono dire, e non ci dicono, che questo è un provvedimento per incidere su un argomento scottante, di quelli che fanno tremare i polsi e torcere lo stomaco, e cioè che gli unici effetti che si potrebbero avere sono quelli sul personale, perché il resto non c'è, mi sorge un dubbio perché non mi stanno prospettando in buona fede una situazione, e i migliori non sono ignoranti.
Allora questo è l'atto preordinato a dire: ricognizione del personale, messa in mobilità, licenziamento dei dipendenti pubblici. Se è questo, voglio affrontare il problema, perché per anni in questo Paese hanno costretto gli enti locali, ivi incluse le province, a fungere da ammortizzatori sociali. Forse è questa la ragione, per cui agli enti locali non vengono dati i requisiti cui adeguarsi, non vengono indicati costi standard e compiti, perché si caricano di un peso che non rientra nelle loro funzioni e non lo si riconosce.
Mi appello ai relatori di questo provvedimento, perché qui non c'è che una possibilità: sopprimere questa norma immonda, che crea un ulteriore problema, del quale risponderemo alle nostre coscienze, e che è addirittura in contrasto con le altre norme insistenti in materia di riordino delle autonomie locali e delle funzioni delle province.
Prego davvero i relatori di concludere i nostri lavori chiedendo la soppressione di queste disposizioni, che sono quotate zero come valore, ma con studi possiamo dimostrare loro che non valgono zero, bensì valgono qualcosa per le casse dello Stato.

MARCO CAUSI. La prima domanda è per i rappresentanti dei comuni. È chiaro che in questa manovra con l'IMU e con la nuova imposta sui servizi, a differenza del passato, accanto ai tagli arrivano per i comuni nuovi spazi di autonomia tributaria, però è anche chiaro che la dimensione di questi nuovi spazi di autonomia tributaria collide con le modalità in cui erano stati costruiti il fondo sperimentale di riequilibrio e le compartecipazioni nel decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale.
Vorrei sapere quindi se secondo voi questa collisione si possa anche soltanto temporaneamente evitare e se sareste disponibili a lavorare con il Governo nei


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prossimi mesi per una veloce rivalutazione di tutto il decreto legislativo n. 23 del 2011 in materia di fiscalità municipale, alla luce di queste nuove misure.
Sulla questione dell'IPT, dell'IMU e dell'ICI pongo una domanda ai rappresentanti di comuni, province e regioni, ma preannuncio che la rivolgerò anche al Governo perché c'è da chiarire un'interpretazione legislativa. A mia conoscenza, l'ICI, l'IMU e l'IPT sono imposte statali conferite poi alla gestione dei comuni, non imposte locali istituite nella libertà della decisione legislativa delle regioni e conferite poi ai comuni. IMU, ICI e IPT sono imposte dello Stato, non di tipo erariale, ma gestite da altri enti.
La norma contenuta nell'articolo 27 della legge n. 42 del 2009 prevale sulla natura di queste imposte. Vorrei capire se questa interpretazione sia corretta, perché, se non lo è, così come l'ICI fino a oggi, l'IMU domani, e l'IPT vanno applicate in modo omogeneo e uniforme sull'intero territorio nazionale, e non differenziate fra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale.
Se invece l'interpretazione giuridica è corretta e quindi l'articolo 27 prevale, faccio appello ai relatori e al Governo a cambiare velocemente l'articolo 27. Vanno attivati i tavoli di trattativa con le regioni a statuto speciale che ancora non hanno chiuso la trattativa, ma, dato che il problema coinvolge anche l'IPT, quindi il rapporto con tutte le regioni a statuto speciale, credo che l'articolo 27 debba essere modificato.
Voglio ricordare che furono proprio le regioni a statuto speciale a chiedere a questo Parlamento di scrivere l'articolo 27 nella formulazione attuale, perché la legge n. 42 del 2009 prevedeva invece un'applicazione più ampia a tutte le regioni, con cui concordavo perché sin da due anni e mezzo fa si capiva che si sarebbe arrivati a questo punto drammatico soprattutto per le regioni a statuto speciale, che hanno livelli di reddito medio pro capite inferiori alla media nazionale, come la Sicilia e la Sardegna, che quindi in questi anni hanno avuto maggiori difficoltà a chiudere i loro accordi con lo Stato.
A questo punto, chiedo alle regioni la disponibilità non solo ad aprire velocemente il tavolo con il Governo, a cui chiederemo altrettanta disponibilità, ma anche a rivedere velocemente i meccanismi della legge n. 42 del 2009, che ci dovrebbero permettere di dirimere alcune questioni, come ad esempio quella delle IPT, perché il fatto che le province in alcune regioni possano non applicare l'IPT facendo così concorrenza sleale a tutte le altre province è assurdo, e costituisce un esito assolutamente non voluto dal legislatore, ma dovuto a un'interpretazione legislativa che può essere modificata o altrimenti dovrà essere modificata la norma.

AMEDEO CICCANTI. Desidero innanzitutto esprimere una considerazione di carattere personale: il sindaco Castelli ha sostituito degnamente l'onorevole Leo al direttivo ANCI per quanto riguarda la finanza locale.
È suggestiva la rappresentazione che il sindaco Castelli ha fatto per l'ANCI per quanto riguarda il Patto di stabilità interno, perché molti colleghi ancora si chiedono come mai abbiamo un problema di crescita ma, sommando complessivamente regioni, province e comuni, abbiamo ben 242 miliardi di euro di residui passivi che non si possono spendere.
Molti colleghi ponendosi questa domanda giungono al paradosso come quello riguardo ad alcune deroghe per quanto riguarda il cofinanziamento, i finanziamenti per le scuole, l'Unione europea e altre considerazioni, però c'è il problema che non incide sull'indebitamento, ma incide sul fabbisogno.
Il concorso che qui viene proclamato da parte dei comuni, come ci sarà anche delle province e delle regioni, sui parametri di rispetto in sede Ecofin - contrattati dall'Italia - riguarda non soltanto il debito pubblico, ma anche il fabbisogno.
Il fabbisogno genera debito pubblico perché viene finanziato con i BOT, che costano, come si è visto con le recenti crisi


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nel mercato finanziario. Il fabbisogno oggi ammonta a circa 80 miliardi, ed è chiaro che i limiti del Patto di stabilità stanno qui, questa è la chiave di lettura di questi vincoli, altrimenti sembrerebbe un paradosso. Dobbiamo ragionare su questo, non tanto su altri parametri. Lo voglio dire per una valutazione di carattere tecnico, che normalmente si esprime in Commissione bilancio.
In merito al consorzio delle funzioni sostitutivo per quanto riguarda la convenzione con Equitalia - a parte che nella precedente norma della manovra di luglio la questione era stata disciplinata e lì si trova la risposta, laddove si possono fare convenzioni con Equitalia ed esercitare funzioni in modo convenzionato, più che fare consorzi - la catastrofe forse è quella di aver abolito la convenzione con Equitalia in quanto è stata fatta «a fari spenti».
Non so se l'ANCI abbia effettuato una stima del differenziale dei trasferimenti sul fondo sperimentale rispetto alle compensazioni della nuova IMU. Dal ragionamento espresso dal sindaco Castelli mi sembra infatti di capire che alcuni comuni «potrebbero rimetterci». Potremmo anche consigliare al Governo una norma di salvaguardia, che blocchi il sistema laddove penalizza, ma dove premia, come dire, lo Stato è giusto che incassi. Dove si penalizza si vorrebbe almeno attuare una riduzione del danno, e potrebbe essere un suggerimento da rivolgere al Governo.
Vorrei capire se l'ANCI l'abbia stimato l'impatto o sia un problema limitato a qualche comune. Qualora fosse di carattere sistemico, sarà necessaria una riflessione del Governo, magari dando un ausilio di carattere tecnico, che con l'IFEL potete fornire e che ci farebbe piacere conoscere.
Vorrei sapere se abbiate svolto una riflessione sulla questione della detrazione dei 200 euro. Ieri, il presidente dell'Istat Giovannini, in audizione, ci ha fatto sapere che il 30 per cento degli italiani proprietari dell'abitazione principale verrebbero colpiti negativamente in rapporto al reddito. La preoccupazione che ci si pone come Parlamento è quella di aprire una riflessione su questo dato, perché questa imposta mira a salvaguardare i saldi di contabilità pubblica, ma, siccome la manovra è titolata «Rigore ed equità», non potremmo infierire su questo 30 per cento.
L'idea che qualcuno di noi sta maturando - spero che i relatori la traducono poi in norma, ma bisogna valutare anche le coperture - è quella di stabilire se la detrazione sia o meno di carattere universale. Non vedo infatti perché la detrazione debba applicarsi sulle categorie catastali A1, A8 e A9, mentre si potrebbe affrancare la quota di reddito che si colloca al limite della povertà relativa, stimata in 906 euro.
Nel momento in cui si ipotizza di deindicizzare il reddito dei pensionati con una triplicazione del minimo, e quindi arrivare intorno a 1.400 euro, non capisco perché poi dovremmo penalizzarli con questa nuova imposta.
Vorremmo conoscere l'opinione dell'ANCI anche in rapporto al minor gettito che ne deriverebbe, giacché, qualora vi fosse una minore entrata da parte del sistema dei comuni, lo Stato dovrà compensare con altre forme di finanziamento. Vorremmo comunque ascoltare il parere dell'ANCI su questa idea ormai matura e diffusa tra alcuni parlamentari di sterilizzare l'imposta sui redditi al limite della povertà relativa.
Vorremmo sapere inoltre a che punto si trovi il sistema dei comuni sull'aggiornamento dei catasti, per quanto riguarda le rendite catastali. Ho qui la tabella della modifica del moltiplicatore: da 100 si passa a 160 per gli edifici di tipo A, ed è chiaro che il più 5 per cento sommato al moltiplicatore che aumenta di 60 crea un impatto significativo sul peso dell'imposta.
Vorrei sapere dall'ANCI se questo agisca su un catasto che dopo il 1992 ha già effettuato l'aggiornamento delle rendite catastali e su altri catasti che non l'hanno fatto, con una conseguente disparità di trattamento tra comuni. Mi dicono che il comune di Bologna ha fatto l'aggiornamento, quindi rispetto a un altro comune che non l'abbia fatto si creerà un differenziale


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di impatto significativo. Vorrei sapere se questa disarmonia sia stata valutata dall'ANCI e dall'IFEL.
Per quanto riguarda le province, condivido nel merito le argomentazioni di Castiglione e di Saitta, però in questa chiave di lettura c'è un Codice delle autonomie che è all'esame del Senato e credo che quella debba essere la sede per trattare questa materia. Anche nella logica dell'accorpamento, che pare venga recepita dall'UPI, sembra trattarsi di un problema di carattere costituzionale, perché l'accorpamento non può prescindere dall'iniziativa dei comuni e, se non modifichiamo l'articolo 133 della Costituzione, non può essere affrontato attraverso la legislazione ordinaria.
Credo che comunque il tema delle province debba avere una lettura di carattere costituzionale, che noi dell'UdCpTP chiediamo da tempo per una soluzione sia radicale, sia meno radicale.
Una questione che a parer mio rileva - lo suggerisco all'UPI - riguarda la maggiore incidenza. Ho letto un bel libro di Boccalatte pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni, che credo conosciate bene e di cui Castiglione ormai non ne può più, ma che cito ad adiuvandum le sue tesi, non in contrasto, perché l'Istituto Bruno Leoni fa buone ricerche. Questo stima il costo della politica in 1.200 milioni di euro l'anno sulla base del rendiconto 2008 della Corte dei conti per quanto riguarda il sistema degli enti locali, quindi gli 11 miliardi di spesa rimarrebbero intatti.
Il costo delle province è invero quello dell'amministrazione centrale dello Stato attraverso il decentramento degli uffici. Gli uffici decentrati dello Stato costano molto: in Italia ci sono dieci regioni sotto i 2 milioni di abitanti, che raggruppano circa 40 province. Bisognerebbe rivedere quel tipo di organizzazione. Se un prefetto sta bene a Roma con 3,5 milioni di abitanti, sta bene anche in Liguria, nelle Marche, in Umbria o in Basilicata, e così via come tutti gli altri uffici decentrati.
Sposterei più qui il ragionamento, perché l'ente provincia si trascina anche la circoscrizione decentrata, quando i Ministeri - in seguito all'approvazione della modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione - dovrebbero chiudere piuttosto che triplicarsi.

ROLANDO NANNICINI. La prima domanda è per i rappresentanti delle province. Anche grazie a voi ho avuto la prima bozza del testo e mi sembra che, rispetto al primo testo dell'articolo 23 del decreto e alla sua pubblicazione sui giornali dove si faceva riferimento ad una casta tenuta in vita, ci sia stata una modifica, laddove, al comma 20, attualmente recita: «Con legge dello Stato è stabilito il termine decorso il quale gli organi in carica delle province decadono», mentre prima era indicata la data del 30 novembre.
Questo induce a ritenere che la materia, al di là del rapporto tra chi ha il cerino in mano sul costo della politica, necessiti di un approfondimento. Prima di tutto non ci sarà lo scioglimento dei Consigli provinciali ridotti a dieci componenti, perché come parlamentare mi impegno a non fare mai una norma che non sia fino alla scadenza elettorale. Lo dico, lo può pubblicare Il Foglio o chi vuole, ma questa è una norma che dà un elemento di certezza rispetto a tutti gli elementi di domanda che ci siamo posti (investimenti, passaggi ed altro).
L'altro elemento, però, è che sarebbe ora di procedere a ragionare sul tema del bicameralismo perfetto, perché voi partecipate sempre a queste Conferenze Stato-regioni e alla Conferenza paritetica Stato-città ed autonomie locali ma è necessario che un ramo del Parlamento si interessi di queste materie e che l'altro svolga le funzioni di Governo. Contestualmente occorre la semplificazione costituzionale degli organi al di sopra del comune. Personalmente, sono un Guelfo, sono dalla parte della comunità e dei comuni, e quindi credo che il riassetto delle province non si possa astrarre, in quanto siamo tutti cittadini: valutiamo quindi la Carta costituzionale, e la modifica del Titolo V della parte seconda della stessa, che spesso assomiglia a un regolamento di condominio.


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Quando nelle forze politiche e nelle autonomie locali maturerà l'esigenza di avere un rapporto con lo Stato coerente e moderno, smetteremo di avere chi ha il cerino in mano.
Mi sembra però che il comma 20 dell'articolo 23 in questa fase sia la proposta di ordine istituzionale per dare certezza alle domande di sani amministratori, che nel 2009 hanno speso 12,8 miliardi di euro, come risulta da tutti i rendiconti.
Voi subirete tagli per 1,2 miliardi, ma non ricordate mai che il saldo netto, quello finale da finanziare, la famosa cifra del 16,5 per cento della spesa corrente 2006, 2007 e 2008, porta 1,42 miliardi di calcolo da fare mentre si fa il bilancio, cioè spese correnti, misto, tutto ciò che entra, le spese in conto capitale, entrate e uscite, quindi 1,2 miliardi di tagli è tanto, ma 1,42 è il contributo di cassa al Patto di stabilità.
Questo è un Governo tecnico, in cui le forze politiche possono riacquistare capacità, non perderla. Bisognerà cominciare a chiedere flessibilità fra competenza e cassa.
Dico lo stesso all'ANCI, che anche nell'audizione di oggi ha portato un dato particolare. Se i comuni sopra i 5.000 abitanti nel 2012 fossero uno solo, con 49 miliardi di capacità di spesa e complessivamente 68 miliardi, avrebbero le loro casse bloccate per 6,4 miliardi. Nella prima stesura questo Governo pensava di portare questo contributo a 7,48 miliardi, con la famosa percentuale del 19,7.
Anche qui l'obiettivo della modernità tra noi e voi - poi ci divideremo perché non condivido diverse cose - sta nella flessibilità del Patto di stabilità, perché non faremo strade, non faremo ponti, non realizzeremo nemmeno il pagamento di appalti già eseguiti. Su questo troverete almeno da parte del mio Gruppo la voglia di analizzare, ma non di trovarci in una manovra così frettolosa, che giudico strutturale su alcuni aspetti come la previdenza, giusta su alcuni aspetti e iniqua su altri, su cui penseremmo di correggerla.
Su questo è necessario un patto serio di lavoro parlamentare e di lavoro delle autonomie, in cui si riveda l'elemento misto, perché ci costringe a bloccare gli investimenti, perché il personale si conosce e le spese le abbiamo, in modo da cambiare il comportamento di prima, in cui c'era una chiave in mano al dottor Grilli o a qualcun altro, che apriva o chiudeva in modo sbagliato, con percentuali che non tutti sanno leggere. Cominciamo a far leggere queste percentuali - lo dico in particolare ai colleghi della Commissione finanze - perché non vorrei che ci fosse sempre quella chiave che avevo letto nell'articolo 28 del decreto, nella prima stesura della proposta del Governo.

MARCO PUGLIESE. Intervengo come componente di Forza del sud della maggioranza, per dire cose significative. Apprezziamo il lavoro delle due Commissioni riunite come componente parlamentare, e come parlamentari abbiamo apprezzato le cose buone di questa manovra, abbiamo proposto emendamenti sulle più critiche e critichiamo fortemente quelle che non condividiamo.
Parto da princìpi di carattere costituzionale per lanciare poi una provocazione. L'articolo 114 della Costituzione dice che la Repubblica italiana è costituita da comuni, province, Città metropolitane, regioni, e Stato, quindi tutti questi organi hanno poteri di autonomia, propri statuti e funzioni proprie.
Lancio una provocazione e mi dispiace che non sia ora presente la collega Armosino, che è anche presidente di provincia: se domani mattina la presidente Armosino riunisse la Giunta e facesse un decreto per la riorganizzazione degli enti regionali, ci troveremmo di fronte a qualcosa di veramente impopolare.
Non riesco a trovare alcun nesso tra una manovra che parla di equità, di rigore e di sviluppo - per quanto riguarda l'attività finanziaria - e gli enti locali e le province. Sono d'accordo con l'onorevole Armosino al di là del fatto che ho sempre criticato come la politica abbia permesso ai parlamentari di candidarsi anche a gestire le province, perché, se la provincia è un ente a statuto autonomo, c'è un'incompatibilità


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di chi svolge attività di parlamentare e anche di presidente, cosa che però purtroppo i grandi partiti, PdL e PD, hanno permesso.
Sono totalmente d'accordo sulle disposizioni contenute nell'articolo 23 relative alle province, ma anche a nome della mia componente propongo di riparlarne tutti insieme in Parlamento, perché, se c'è una riforma costituzionale da fare per la riorganizzazione dell'ente provincia e magari dell'ente regione, si deve fare in Parlamento, altrimenti saremo ricordati come i parlamentari che hanno fornito alibi a quanto si dice fuori dal palazzo, mentre invece c'è chi vuole lavorare, proporre e, come in questo caso noi di Forza del sud, migliorare la situazione, anche perché, come si evince dalla relazione del dottor Castiglione, la provincia è l'organo più vicino al territorio.
Cito l'esempio della mia regione Campania: vivo in un piccolo paese della provincia di Avellino, dove da poco abbiamo approvato il decreto sulla provincializzazione dei rifiuti, e mi chiedo cosa succederà domani, quando si sopprimerà questo ente. Mi domando anche come gli amministratori regionali potranno tutelare le differenze culturali, geografiche, urbane di tutto il territorio.
Credo nell'ente provincia che ho sempre difeso, credo in un'eventuale riorganizzazione, realizzata attraverso una vera e propria riforma costituzionale, altrimenti non vorrei che per una distrazione della politica fossimo costretti a votare contro questa manovra.

MASSIMO VANNUCCI. Da ANCI, UPI e rappresentanti delle regioni abbiamo visto assumere posizioni responsabili, e questo denota la consapevolezza del particolare momento che stiamo vivendo.
Per rafforzare questa consapevolezza, voglio correggere il sindaco Castelli: è vero che i comuni hanno poco più di 50 miliardi di euro di debiti rispetto ai circa 1.900 di debito pubblico, ovvero il 3 per cento. Si potrebbe però sostenere che forse lo Stato si è indebitato anche per la pubblica amministrazione in generale.
Altro argomento per comuni, province e regioni: poco più di 50 miliardi di debiti della pubblica amministrazione verso le imprese sono un vero problema che le porta al fallimento, però è anche vero che, se il Patto di stabilità impone che non si possa pagare più di quanto pagato nel 2007, ciò suggerirebbe di non assumere impegni a chi sa di avere un tetto da non dover superare.
Sono d'accordo che questo debba essere modificato e fatto sulla competenza, però un atteggiamento di responsabilità esigerebbe anche di cercare di non spendere, se si hanno i soldi ma non si può pagare. Questo significa amministrare non con l'occhio alle imminenti elezioni, ma nel clima di responsabilità e di consapevolezza in cui anche queste piccole verità vanno dette.
Per quanto riguarda l'articolo 23 sulle province, dobbiamo cercare di interrompere questo gioco che porterà il nostro Paese al massacro, ovvero quello evidenziato - credo dall'onorevole Nannicini - di passare il cerino dall'uno all'altro. Il Governo sa che non può intervenire su materie che hanno profili di costituzionalità, però lo fa per mettere una bandierina sulla base dalla quale nessuno potrà tornare indietro, perché l'offensiva dell'opinione pubblica sarà tale da renderlo impossibile.
Se questo è il gioco, potrebbe farlo anche il Parlamento, perché non si può comprendere come uno possa fare un decreto che rinvia a una legge. Questo non è possibile dal punto di vista dei corretti rapporti costituzionali: se è materia costituzionale ed è di competenza del Parlamento, si riconosca che è del Parlamento.
Sappiamo che dobbiamo rivedere questa organizzazione dello Stato, laddove secondo me, se c'è un ente sovradimensionato, questo è la regione, ma siamo anche consapevoli che le province potranno anche essere di secondo livello e avere funzioni diverse, purché però abbiano funzioni che non si sovrappongano a quelle di regioni e comuni e ognuno faccia il suo mestiere, cosa che non si sta facendo.


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Al relatore onorevole Leo ma anche ai colleghi e al presidente rivolgo dunque un appello a cercare di interrompere una volta per tutte questo gioco del cerino. Non è solo questo articolo del decreto a fare il gioco del cerino creando l'antefatto a cui reagire, cosa che non va bene perché, se vogliamo un atteggiamento di responsabilità e di consapevolezza, dobbiamo avere il rispetto dei ruoli tra potere esecutivo e legislativo. L'occasione per fermare questo gioco è fornita dal citato articolo 23.

ROBERTO SIMONETTI. Due considerazioni, perché il clima per noi della Lega Nord è surreale, nel senso che questo Governo sembra figlio di nessuno, sembra che sia arrivato da Marte e ce lo siamo trovato.
Ricordo a tutti coloro che sono intervenuti precedentemente - tranne la Lega Nord e forse l'onorevole Scilipoti e qualcun altro - che hanno votato la fiducia al Primo Ministro, a dei ministri tecnici e a sottosegretari che hanno prodotto tutto quello che oggi stiamo dibattendo, che voi costantemente state criticando.
Un po' di coerenza è necessaria, perché da due giorni - a partire dalle due relazioni dei relatori che in realtà erano relazioni di minoranza, in quanto tutti hanno criticato indistintamente ogni articolo di questa manovra - sino ad oggi nessuno si è mostrato d'accordo su questo articolo legato alle province.
Per nascondervi dietro una foglia di fico avete chiesto addirittura la fiducia su questo provvedimento, perché non avete il coraggio di votarlo.
Diventa surreale questo clima, in cui l'unico partito che da sempre ha difeso le amministrazioni locali e le province, la Lega Nord, si trova all'opposizione della proposta. Se questa nuova maggioranza difficilmente collocabile è veramente maggioranza, faccia un emendamento soppressivo e lo voti, senza discutere per ore su una parte del provvedimento che, oltre ad essere anticostituzionale, manca di intelligenza. Come presidente di provincia, infatti, io volevo votare il bilancio preventivo entro il 31 dicembre, però non posso più farlo perché, se dal 30 aprile non ho più le funzioni, dovete spiegarmi che tipo di rapporto ho con gli elettori, con la struttura, con i dirigenti, con i dipendenti, con gli enti locali, con le partecipate e come posso programmare un bilancio preventivo, visto che non avrò le funzioni per spendere quei soldi.
Probabilmente, se dal 30 aprile non avrò più le funzioni, avrò però gli incassi, perché continuerò a incassare l'IPT, ossia l'imposta provinciale di trascrizione, l'RC Auto, la TEFA (il tributo per l'esercizio della funzione ambientale), e non avrò le spese perché verranno destinate ai comuni che non avranno le entrate per poter far fronte a queste funzioni fondamentali.
Si tratta quindi di una confusione totale, per cui mi preoccupa il livello di preparazione politica di questi tecnici a cui abbiamo delegato di governarci spero fino a gennaio, visto che poi andremo ad elezioni anticipate, considerato che il clima è questo e neanche voi ci credete.
La nuova impronta di questa maggioranza trasversale PdL e PD porta alla demolizione totale di quanto si era creato a livello di federalismo fiscale, che è sempre stato criticato dagli enti locali, ma con questa manovra viene completamente falcidiato e demolito. Il federalismo fiscale, l'IMU, che prima veniva criticato perché poco flessibile, con questo provvedimento diventa praticamente inamovibile, tanto che il sindaco Castelli ha dovuto richiedere una perequazione di almeno 1,4 miliardi a fronte del mancato introito di IMU (ex ICI) prodotto da questa manovra.
Pur aumentando l'imposizione attraverso il sistema della compartecipazione obbligatoria, coercitiva, dello Stato del 50 per cento sull'IMU seconda casa, non ci sarà più la possibilità di fare la modulazione competitiva che prima si poteva fare, perché la forza dell'IMU - prima di questa manovra - era quella che l'ente locale aveva la possibilità di modulare, abbattendo del 50 per cento sul locato e sul produttivo, in modo tale da portare


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il proprio territorio o verso il maggiormente residenziale o verso il maggiormente produttivo.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA VI COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI GIANFRANCO CONTE

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Simonetti, non stiamo facendo la discussione generale. Dovrebbe porre le domande.

ROBERTO SIMONETTI. Mi dia cinque minuti, presidente, per arrivare al dunque. Abbiamo sentito interventi di ogni tipo e non siamo neanche partiti dal metodo, come faceva l'attuale maggioranza quando era minoranza, perché per una manovra di questo tipo di 100 miliardi di euro in tre anni che viene dibattuta l'8 dicembre di quest'anno, un sabato, una domenica e un lunedì, per poi andare in Aula il martedì successivo, penso che, se loro fossero stati in minoranza, staremmo ancora parlando di metodo.
Anche se perdo cinque minuti, quindi, penso che non muoia nessuno, e mi scuso di questa intemperanza personale, ma mi dà fastidio rilevare tanta stranezza nel dibattito.
Portando al 50 per cento il gettito di spettanza dello Stato derivante dagli immobili che non sono prima casa, a prescindere dall'incasso - come ascoltato nell'audizione della Corte dei conti - eliminerà la possibilità di ridurre della metà l'imposta sugli immobili che non sono appunto prima casa, perché altrimenti non vi sarebbe più gettito per il comune. L'aumento giusto della franchigia prima casa eliminerà la possibilità di tenere le aliquote minime sulla prima e sulla seconda casa.
L'unica via di uscita per i comuni è dunque quella di mettere al massimo anche le aliquote dell'IMU, per cui non si potrà creare competitività su questa nuova imposizione che non sarà più federalista, perché sarà devoluta al 50 per cento allo Stato, senza andare a coprire le esigenze del comune, e non darà soddisfazione all'ente locale, che si troverà a essere sostituto d'imposta per lo Stato.
Questo è il clima che si va creando, per cui non pongo la domanda perché è intrinseca nella mia relazione. Invito tutti a essere coraggiosi come la deputata Armosino, che almeno è riuscita attraverso una sua presa di posizione a fare stanziare all'epoca 300 milioni di euro per la messa in sicurezza degli istituti scolastici, che poi il nostro Governo non è riuscito a tradurre in soldi cash.
Se adesso si vuole assumere una posizione seria, basta non votarla questa manovra, piuttosto che scegliere di votarla - perché verrà posta su di essa la questione di fiducia - pur considerandola una «porcata», perché ciò è troppo comodo!

LINO DUILIO. Chiedo scusa al simpaticissimo onorevole Simonetti, ma, se qui c'è qualcosa di surreale, mi sembra che si tratti del suo intervento, perché dopo quasi dieci anni in cui abbiamo visto approvare manovre contenenti cose che nei corridoi si diceva comportassero problemi di coscienza, sinceramente sentire un intervento del genere mi colpisce molto.
Per quanto riguarda la questione in sé, credo che l'occasione di confronto sia stata utile, perché anche i rappresentanti delle province riconosceranno che esistono alcuni problemi oggettivi, che inducono a ritenere che, se è vero che non si può cancellare con un colpo di spugna un istituto che esiste da 150 anni, è altrettanto vero che siamo arrivati a situazioni assurde, laddove, se posso permettermi la metafora, esistono province più piccole del quartiere in cui abito a Milano.
Questo si trascina dietro quanto evidenziato dall'onorevole Ciccanti riguardo l'apparato complessivo pubblico, che - piaccia o meno - non possiamo più permetterci come Stato (non voglio assumere le province come dato risolutivo dei problemi complessivi). Se facciamo il gioco del cerino, infatti, non usciremo mai da questa situazione, anche sulla base degli interventi degli onorevoli Ciccanti e Nannicini,


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cioè distinguendo il discorso dell'indebitamento e del fabbisogno, per arrivare comunque a una conclusione.
La questione è stonata e noi lo riconosciamo, lo abbiamo inserito anche in qualche parere e l'altro giorno nel Comitato per la legislazione abbiamo posto come condizione che la questione venisse affrontata demandandola alla legge piuttosto che a un decreto, perché la materia non deve essere affrontata con decreto.
Non siamo quindi insensibili alla questione, però credo che in un Paese in cui il 50 per cento della spesa pubblica complessiva passa attraverso la realtà di regioni ed enti locali, con le rigidità esistenti all'interno del pianeta spesa pubblica, tenendo conto del rischio del baratro in cui ci troviamo - lo dico al collega Simonetti che ha ragionato come se negli ultimi dieci anni si fosse trasferito nella vicina Svizzera - dobbiamo porci il problema in termini seri.
Al Governo tale problema lo abbiamo posto per quanto riguarda lo strumento, e vedremo come andrà a finire, però credo che non si possano rimuovere le questioni in radice, perché alcune questioni riguardano anche, ma non solo, le province che esistono, e credo che anche voi dobbiate riconoscerlo.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI GIANCARLO GIORGETTI

PRESIDENTE. Do ora la parola ai nostri auditi per la replica, chiedendo loro di essere per cortesia sintetici nelle risposte per rispettare i tempi previsti.

SERGIO ROSSETTI, Coordinatore vicario della Commissione affari finanziari della Conferenza delle regioni e delle province autonome e assessore alle risorse finanziarie della regione Liguria. Non mi pare che ci siano state domande specifiche per le regioni, ma vi ringraziamo per l'attenzione.
C'è un punto che riguarda le province: non è chiaro - lo si dà per scontato ma è meglio rimarcarlo - che il trasferimento delle deleghe significa anche trasferimento dei mutui e del Patto di stabilità e dei tetti del Patto di stabilità, perché le regioni si scontrano con il loro Patto, quindi esistono implicazioni di complessità di bilancio pubblico non indifferenti, che nella manovra non vengono richiamate. Buon lavoro e grazie.

GIUSEPPE CASTIGLIONE, Presidente dell'UPI e presidente della provincia di Catania. Ringrazio tutti e aggiungo solo una battuta per l'onorevole Duilio, che evidenziava l'esistenza di province più piccole di un quartiere, laddove avremo regioni che saranno più piccole delle province che si sopprimono.
Le ultime province sono state istituite non dall'Unione delle province italiane, ma dal Parlamento, e paradossalmente con la formulazione che sta uscendo, potremmo avere regioni che continuano a fare le province rispetto a una decisione di segno diverso.
Poiché esistono 2.000 comuni sotto i 1.000 abitanti, se aboliamo la provincia di Sondrio resta il comune di Pedesina con 34 abitanti. Il tema è l'assetto istituzionale del nostro Paese.
All'interno di questo assetto, che va da una struttura istituzionale come quella delle province, di cui vorremmo confermare tutta l'utilità, ci sono due momenti importanti: la Camera dei deputati ha già approvato il disegno di legge concernente la Carta delle autonomie, dove si definisce chi fa cosa, ovvero cosa fanno i comuni, cosa fanno le province, ed è una straordinaria opportunità offerta essendo ora all'esame del Senato.
Piuttosto che approvare un decreto-legge così come lo stiamo approvando all'interno di una manovra economica, facciamolo nella sede più idonea, che è quella del Senato e della citata Carta delle autonomie. C'è un disegno di legge di abolizione delle province.
Piuttosto che cercare scorciatoie come quelle proposte in questo decreto, chiediamo


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che lo si affronti in maniera chiara, leggibile di fronte i cittadini. Sfido anche l'opinione pubblica, perché in questi giorni, quando ai cittadini è stato chiesto se fossero favorevoli all'abolizione della province, il 70 per cento ha risposto «no».
All'interno dei canoni di cui oggi si discute chiediamo lo stralcio di questo provvedimento, perché non risparmia nessuna risorsa (ormai il dato mi pare assodato), perché negli ultimi tre anni le province hanno già operato una riduzione significativa del 25-30 per cento, hanno raggiunto gli obiettivi del patto di stabilità, vogliono concorrere - l'abbiamo detto anche al Presidente Monti - con una leale collaborazione istituzionale con il Governo, al tema del debito pubblico, che è un tema che appartiene anche alle province: quindi troviamo la sede più idonea per poter fare tutto questo!
Confermiamo quindi la richiesta di stralcio e l'esigenza di aprire immediatamente la discussione per affrontare l'assetto del nostro Paese e i costi della politica, tema al quale ci iscriviamo.
Non voglio ribadire cosa comporterebbe il trasferimento delle funzioni, che comunque non sarebbe possibile realizzare in quattro mesi, con un conseguente caos istituzionale e amministrativo che chi ha esperienza di amministrazione può immaginare, ma c'è un tema che riguarda l'amministrazione periferica dello Stato, che doveva avere gli uffici territoriali di Governo, ma nel tempo non è riuscita a fare un ufficio unico in sede provinciale. Con l'accorpamento o la riduzione delle province andrà ridotta in maniera significativa anche l'amministrazione periferica dello Stato.
Ribadiamo la nostra posizione e offriamo la nostra collaborazione in maniera responsabile, convinti del nostro ruolo istituzionale, in quanto comuni, province, regioni e città metropolitane sono elementi costitutivo della Repubblica. Non posso impedire a molti presidenti delle province, nel momento in cui dovessero essere approvate queste norme del decreto, di promuovere immediatamente sul territorio nazionale la costituzione delle città metropolitane, che sembrano restare in vita.
Un atteggiamento di grande collaborazione ci induce, invece, a ritenere che dobbiamo sederci tutti attorno a un tavolo per affrontare i temi sia del costo della pubblica amministrazione, sia di un apparato efficiente del nostro Paese.

ANTONIO SAITTA, Vicepresidente vicario dell'UPI e presidente della provincia di Torino. Soltanto sul tema del comma 20, dell'articolo 23, perché dall'intervento dell'onorevole Nannicini sembra quasi che questo comma possa risolvere i problemi, ovvero qualcuno lo interpreta così, come una disposizione che offre delle garanzie.
L'articolo 23, comma 20, non toglie quella che noi consideriamo l'incostituzionalità delle precedenti disposizioni, ma stabilisce una possibilità per il Parlamento - tramite legge dello Stato - di far cadere prima i Consigli provinciali e gli organi delle province. In ogni caso, tutti gli altri elementi restano.
Volevo solo precisarlo perché ho sentito questa vulgata. È bene che il tema venga affrontato radicalmente, anziché tenere in vita dei simulacri di qualcosa che di fatto non esisterà, perché, se non esisteranno più le province, credo che il Parlamento avrà anche il coraggio di far decadere tutti gli organi periferici dello Stato che prima sono stati richiamati.

GUIDO CASTELLI, Sindaco di Ascoli Piceno e responsabile del settore finanza locale dell'ANCI. Utilizzo solo un minuto, perché poi sarà il dottor Ferri a fornire qualche indicazione tecnica, vista la qualità delle richieste.
Vorrei porre la seguente questione culturale: l'ANCI intende fare la sua parte; noi non ci sottraiamo alla nostra responsabilità e quindi dichiariamo massima apertura verso quei percorsi correttivi che vadano nel senso di chiarire - magari approfittando del decreto per la riforma e per la correzione del federalismo - gli spunti che necessariamente si affermano dopo l'irruzione di questa nuova vicenda dell'IMU sperimentale.


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Ecco perché - lo ripeto - abbiamo presentato anche emendamenti che hanno il senso di una verifica ex post del processo, perché ricordo che la cosiddetta equazione Giarda riposa su una stima: che dell'IMU sperimentale derivino entrate per 21,8 miliardi di euro. Nel caso in cui ciò non fosse, è assolutamente necessario procedere per correzioni che riposino su certezze e non solo su ipotesi.
Mi sia consentito non una replica ma un contributo alla riflessione aperta dall'onorevole Ciccanti: è vero, il Patto di stabilità e gli effetti dello stesso producono un'efficacia soprattutto sul piano dei fabbisogni, però il punto è che vogliamo fare la nostra parte, ma siamo sicuri che un blocco generalizzato e indistinto dei pagamenti sia il modo migliore perché i comuni facciano la loro parte o non è forse giunta l'ora di una riflessione selettiva, conoscendo i gravami che incombono sul sistema Paese? Una selettività è assolutamente necessaria, perché diversamente lamentiamo le solite sperequazioni.
Un'ultima chiarificazione su un atteggiamento politico che l'ANCI vuole fare proprio. Esiste un luogo fisico, giuridico e politico dove si verificano ex post i contributi che ciascun comparto della pubblica amministrazione ha dato negli anni rispetto agli obiettivi di finanza pubblica, per cui potremmo agire anche rappresentando lo sforzo di ciascuno, non per una malintesa ragione di equità, che pure ha un suo senso e una sua dignità, ma per capire chi abbia funzionato meglio e dove non abbiamo funzionato affatto. Questo è il punto.
Per il momento, onorevole Ciccanti, l'unico comparto della pubblica amministrazione che ha accettato l'idea del costo standard dei propri servizi siamo noi, quindi che sia aperta questa prospettiva a tutti, hic Rhodus, hic salta. Su questo punto noi ci stiamo, quindi, dovendo comunque affrontare un cammino periglioso di strette potenzialmente letali, è su questo meccanismo di efficientamento equo che si gioca una parte consistente della nostra credibilità come sistema.
Lascio la parola al dottor Ferri per una serie di precisazioni tecniche.

ANDREA FERRI, Rappresentante dell'Ufficio finanza locale dell'ANCI. Telegraficamente, perché il punto del rapporto tra Fondo di riequilibrio e maggior gettito dell'IMU è descritto sia dagli emendamenti citati che dalle note che sono state appena riprese. C'è quindi un discorso di invarianza delle risorse complessivamente assegnate ai comuni nell'intendimento del legislatore espressa nella relazione tecnica, sommando la vecchia ICI e il Fondo di riequilibrio 2011, la nuova ICI e il fondo di riequilibrio 2012.
Noi diciamo che questa invarianza deve essere ben verificata, perché, a seconda di come si intendono le operazioni compensative, si potrebbe intendere qualcosa in valore assoluto e qualcosa dovrebbe essere verificato a consuntivo, magari in modo difforme, cosa che non può avvenire.
Ai comuni vengono tagliati ulteriormente 1,45 miliardi di euro di risorse, e quella è l'unica riduzione secca del Fondo di riequilibrio. Questo è il quadro che vogliamo salvaguardare con gli emendamenti. C'è un punto di diversità all'interno dei vari comuni, che forse varrebbe la pena di approfondire anche su richiesta di queste Commissioni.
I gettiti dell'IMU variano in maniera anche molto importante rispetto a un'ICI potenziata con un'aliquota maggiore, perché diverse sono le condizioni di partenza e diverse sul territorio sono le basi imponibili catastali in generale, e della prima casa.
Non è vero che la tassazione sulla prima casa si distribuisce in maniera molto diversa dall'ICI in generale, quindi si creano picchi nuovi, che devono essere adeguatamente trattati in senso compensativo, perequativo, proprio con la funzione del Fondo per il riequilibrio. È quindi delicato spostare molto gettito sull'imposta e togliere di fatto dal Fondo di riequilibrio.
Questi equilibri devono essere salvaguardati, come è interesse di tutti, chiedendo maggiori informazioni, più trasparenza


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nelle informazioni di base, per esempio sulla distribuzione delle rendite catastali delle abitazioni principali sui territori. Questo è un dato che abbiamo ricostruito in maniera statistica, ma non dubitiamo che l'Agenzia del territorio, l'Agenzia delle entrate e gli apparati di ricerca governativi e istituzionali possano meglio di noi fornire valutazioni al legislatore.
L'ipotesi avanzata da diversi oratori di intervenire per alleviare ulteriormente l'onere rispetto al ripristino dell'imposta patrimoniale sull'abitazione principale, che ieri era zero e oggi diventa di rilievo, non vede i comuni contrari, ci mancherebbe, ma il punto è che oggi i conti della relazione tecnica sono fatti a un certo livello e noi temiamo - ed è questo il motivo della richiesta di una clausola di salvaguardia che abbiamo posto - che questi conti siano ottimistici, anche per quanto riguarda l'abitazione principale, che la relazione tecnica quantifica in 3,8 miliardi di euro, ottimistici dal punto di vista dei conti, non della pressione fiscale a carico dei cittadini.
Se si modifica un elemento così importante come la detrazione, questo discorso andrebbe affrontato in relazione diretta con la soggettività del contribuente, non con le classificazioni catastali, né in termini di cifra fissa uguale per tutti, perché 200 euro per più di mezza Italia è una cifra di grande rilevanza per abbattere il carico fiscale sulla prima casa.
A Roma non è così, in Liguria non è così, in certe grandi città non è così, ma per gran parte dei territori 200 euro mettono ai margini il prelievo sulla prima casa, per cui agire in modo uniforme aumentando quella cifra apporta drastiche riduzioni di quella quota, che è cifrata 3,8 miliardi, che non è poca cosa.
Meglio agire ad esempio con l'ISEE in relazione a un discorso soggettivo, perché quando il presidente dell'Istat Giovannini indica molto correttamente che, se guardiamo alle soglie di povertà, dire 300 o 500 euro - più il resto della manovra, immagino - è qualcosa di potenzialmente molto pericoloso, lo dice pensando a soglie di povertà valutate in termini di redditi e patrimoni non personali, ma familiari, altrimenti non si capisce cosa sia povero o ricco nella nostra platea di contribuenti e immobili.
Questo è un punto molto importante: se dobbiamo discriminare per quello - figuriamoci se i comuni possano dichiararsi contrari! -, rifacciamo meglio i conti per adeguare gli equilibri e individuiamo criteri condivisi di miglioramento del carico fiscale sulle fasce più disagiate.
Ho detto quello che potevo in pochi minuti.

PRESIDENTE. Nel ringraziare i nostri auditi, dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti di Confedilizia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici, l'audizione di rappresentanti di Confedilizia.
Do la parola al segretario generale di Confedilizia, avvocato Giorgio Spaziani Testa.

GIORGIO SPAZIANI TESTA, Segretario generale di Confedilizia. Ringrazio le Commissioni per aver voluto ascoltare il parere della Confedilizia con riferimento a una manovra che, come è noto, incide particolarmente sul settore immobiliare attraverso l'anticipazione - al 2012 - dell'entrata in vigore di una IMU sperimentale. Su questo si concentrerà la mia breve esposizione ed è su questo aspetto che si concentra il documento che chiediamo di depositare agli atti delle Commissioni.
I dati parlano chiaro: secondo quanto risulta dalla relazione tecnica di accompagnamento al decreto-legge in esame, l'introduzione della versione sperimentale dell'IMU porterà nelle casse di Stato e comuni un importo pari a circa 21 miliardi di euro e un differenziale in termini di gettito pari a 11 miliardi di euro.


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Se consideriamo che il totale delle maggiori entrate previste da questa manovra è pari a circa 17 miliardi, ci rendiamo conto che l'apporto richiesto alla proprietà immobiliare da questa manovra è pari a circa il 65 per cento, cifra che però risulta approssimata per difetto, perché a questi importi si arriva attraverso l'applicazione ipotetica - da parte della relazione tecnica - delle aliquote base stabilite dal decreto-legge, mentre sappiamo che sia l'aliquota prevista in via generale del 7,6 per mille, sia quella prevista per la prima casa del 4 per mille sono passibili di aumenti, oltre che di diminuzioni da parte dei comuni, fino a giungere la prima al 10,6 per mille e la seconda al 6 per mille.
Si può quindi stimare che, ipotizzando un aumento di un solo punto medio percentuale di queste aliquote da parte dei comuni, l'apporto della proprietà immobiliare a questa manovra risulterebbe giungere a 15 miliardi di euro, cosa che rappresenterebbe in linea teorica il 90 per cento delle entrate previste dalla manovra stessa.
L'ipotesi di questi aumenti non è certamente peregrina per vari ordini di considerazioni. La prima risiede nei numeri dell'esperienza ormai quasi ventennale dell'ICI, che è previsto si applichi in misura dal 4 al 7 per mille, a parte fattispecie specifiche, e secondo i dati dell'Istituto per la finanza e l'economia locale dell'ANCI (IFEL) l'aliquota ordinaria media nel 2008 (il 2007 è stato l'ultimo anno di applicazione, ma c'è stata la delibera anche per il 2008) è stata pari al 6,49 per mille, quindi vicinissima alla misura massima, mentre l'aliquota prevista per l'abitazione principale, sempre tra il 4 e il 7 per mille, è stata pari al 5 per mille.
Questo dimostra che la tendenza da parte degli enti locali è fisiologicamente quella di elevare notevolmente l'aliquota rispetto al minimo nell'ambito della forchetta prevista. In questo caso, inoltre, la manovra stessa presenta dei tagli a carico degli enti locali, quindi questa sarà un'altra motivazione per un aumento di queste aliquote da parte dei comuni.
L'ultimo elemento che si può citare a riprova del fatto che queste stime sono sicuramente per difetto è quello che il gettito dell'imposta municipale introdotta in via sperimentale non andrà interamente ai comuni, perché andrà per metà del gettito dell'aliquota base prevista per le abitazioni diverse dalla principale e dagli immobili rurali ad uso strumentale allo Stato e per l'altra metà ai comuni, e ai comuni arriverà la parte relativa alle aliquote che eventualmente aumentassero, con un ulteriore incentivo ad aumentarle.
Questi dati dimostrano che si tratta di un forte aggravio sul settore immobiliare, che secondo noi porterà prevedibilmente effetti depressivi nel mercato immobiliare. Gli aumenti dei moltiplicatori e quindi della base imponibile dell'IMU, quindi della nuova ICI, sono in gran parte dei casi pari al 60 per cento, e questo costituisce un aggravio notevolissimo ma minimo, perché all'aumento della base imponibile si potrà affiancare in molti casi anche l'aumento dell'aliquota, in molti casi è già evidente tramite l'applicazione del 7,6 per mille, che è di per sé un'aliquota superiore a quella massima attualmente prevista per l'ICI. Ciò potrà avvenire per tutte le fattispecie di applicazione dell'imposta.
Tutto ciò ci trova in forte disaccordo e molto preoccupati per gli effetti che potrà avere sul mercato una manovra che conferma un principio di tassazione patrimoniale disancorata dal reddito producibile o prodotto dal cespite in questione, che in questo caso è l'immobile. Ciò è contrario a quel principio, di cui anche in sede di audizione per la riforma fiscale abbiamo proposto con forza l'attuazione in Italia, secondo il quale l'imposta dovrebbe trovare il proprio limite nella capacità di reddito del patrimonio.
Questa insostenibilità della manovra diventa ancora più pesante per tutti quei comuni nei quali, attraverso le opzioni e le facoltà garantite ai comuni in collaborazione con l'Agenzia del territorio, le rendite catastali sono state adeguate attraverso il riclassamento degli immobili, in applicazione di una norma del 2005.


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Poniamo in particolare l'attenzione sul problema che si verificherà nel mercato della locazione. Questa manovra pone infatti una forte ipoteca sul mercato della locazione, perché l'IMU con riferimento agli immobili locati non è, a differenza che per le altre fattispecie di immobili, sostitutiva di tutte le imposte di cui essa è sostitutiva in generale, ma solo dell'ICI, quindi non delle imposte sui redditi.
Le conseguenze sono devastanti: nel documento depositato produciamo esempi che dimostrano che, applicando l'aliquota base del 7,6 per mille - aumentabile fino al 10,6 per mille - a un immobile del valore catastale rivalutato adesso attraverso i moltiplicatori di 160.000 euro e che quindi con l'ICI era di 100.000 euro, e confrontandola con un'aliquota media del 6,5 per mille dell'ICI si avrebbe un aumento dell'87 per cento in caso di applicazione dell'aliquota ordinaria e del 161 per cento in caso di applicazione dell'aliquota massima del 10,6 per mille che i comuni potranno applicare e che alcuni già stanno anticipando.
In caso di contratti a canone calmierato la situazione è ancora più drammatica, perché in queste due ipotesi - aliquota del 7,6 per mille e aliquota del 10,6 per mille - gli aumenti saranno nell'ordine del 204 per cento in caso di applicazione del 7,6 per mille e del 324 per cento in caso di applicazione dell'aliquota del 10,6 per mille, perché abbiamo ipotizzato un'aliquota del 4 per mille per l'ICI, applicando per l'IMU anche la maggiorazione della base imponibile, aliquota che in alcuni casi in Italia è ancora più bassa, quindi l'aumento supererebbe addirittura il 324 per cento.
Tutto ciò prevedendo aumenti in corso di contratto, quindi in capo a proprietari che avevano fatto i propri conti venendo incontro alle esigenze degli inquilini e calmierando quindi il proprio canone sulla base di una legislazione e di una modalità di tassazione completamente diverse per contratti che invece andranno avanti per molti anni.
Questo comparto riguarda in Italia solo circa il 9 per cento degli immobili, ossia quelli che sono locati, situazione particolarmente grave, che esalta maggiormente l'iniquità data dalla presenza in Italia - ancora non toccata da questa manovra - di importanti forme di agevolazioni fiscali proprio sulla locazione, non già sulla proprietà diffusa, ma in particolare su fondi immobiliari e società di investimento immobiliare quotate.
Ci sarà il rischio quindi, oltre che di gravi tensioni sul mercato della locazione, anche di eccezioni di costituzionalità dovute al fatto che tutto ciò si opera con riferimento a rendite catastali che scontano un vizio di costituzionalità, di cui come Confedilizia abbiamo più volte parlato, in quanto quindici anni fa sono state dichiarate solo provvisoriamente legittime dalla Corte costituzionale perché basate sul valore, non sul reddito, in corso di modifica attraverso una delega mai attuata.
Confedilizia chiede quindi di ripristinare quanto previsto dal decreto legislativo n. 23 del 2011 sul federalismo fiscale municipale, e cioè la riduzione a metà - per legge - dell'aliquota per gli immobili concessi in locazione o in via subordinata la riduzione a metà almeno con riferimento agli immobili locati a canone calmierato, in virtù degli accordi fra le organizzazioni dei proprietari e degli inquilini.
Nel documento depositato riferiamo che tutto ciò porterebbe a un minor gettito per Stato e comuni nel primo caso, cioè riduzione a metà per tutti gli immobili oggetto di locazione, pari a circa 900 milioni di euro, quindi 450 milioni in capo allo Stato e 450 milioni in capo ai comuni, e nel secondo caso ancora meno. Nel caso dell'ipotesi di applicazione dell'aliquota a metà per i contratti di locazione a canone calmierato il minor gettito sarebbe di 324 milioni di euro, 162 milioni per parte fra Stato e comuni. Questo si evince soprattutto sulla base di dati Nomisma, che indicano un 36 per cento di contratti agevolati in Italia.
La richiesta che formuliamo con riferimento alla gravosità della manovra e che portiamo all'attenzione sia del Parlamento,


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sia del Governo è quella di rivedere, attraverso una misura che comporterebbe un mancato gettito particolarmente esiguo, la scelta fatta in materia di immobili concessi in locazione, che nel decreto originario prevedeva opportunamente una riduzione a metà dell'aliquota sia per salvaguardare un settore importante della nella nostra società e quindi la mobilità dei lavoratori e degli studenti sul territorio, sia nel rispetto di una normativa che in questo caso prevede la sostituzione non di tutte le imposte che l'IMU sostituisce, ma solo dell'ICI.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il segretario generale di Confedilizia, avvocato Giorgio Spaziani Testa, per il contributo fornitoci, considero utile verificare gli esempi portati da Confedilizia in tema di immobili concessi in locazione, dove effettivamente con le modifiche proposte si rileva un incremento della tassazione apparentemente eccessivo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 17,05.

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