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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VII
4.
Martedì 27 ottobre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Aprea Valentina, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULLO STATO DELLA RICERCA IN ITALIA

Audizione di rettori e di rappresentanti della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI):

Aprea Valentina, Presidente ... 2 10 16 20
Bachelet Giovanni Battista (PD) ... 10 16
Barbieri Emerenzio (PdL) ... 16
Fabiani Guido, Rettore dell'Università degli studi Roma Tre ... 5 19
Mazzarella Eugenio (PD) ... 14
Nicolais Luigi (PD) ... 11
Palmieri Antonio (PdL) ... 12
Puglisi Giovanni, Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM ... 2 17
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 27 ottobre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
VALENTINA APREA

La seduta comincia alle 11,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rettori e di rappresentanti della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sullo stato della ricerca in Italia, l'audizione di rettori e di rappresentanti della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI).
Ringraziandoli per aver accettato il nostro invito, diamo il benvenuto al professor Giovanni Puglisi, rettore della Libera università di lingue e comunicazione di Milano, vicepresidente della CRUI, e al professor Guido Fabiani, rettore dell'Università degli studi di Roma Tre, membro della CRUI. Sono presenti in aula l'onorevole Palmieri, che ha voluto questa indagine sulla ricerca, l'onorevole Barbieri, autorevole esponente del Pdl, il vicepresidente onorevole Nicolais e l'onorevole Bachelet per il PD. Come sapete, il martedì i colleghi ci raggiungono dalle loro zone, quindi la Commissione andrà progressivamente affollandosi.
Abbiamo voluto questa indagine sulla ricerca perché crediamo che non sia stato detto e fatto tutto su questo tema. Avendo visto che nella scorsa legislatura il Senato aveva cominciato un approfondimento di questo genere, questa volta abbiamo voluto agire noi, come Camera dei deputati. Probabilmente, dunque, siete stati chiamati già negli anni scorsi, e in altri momenti avete avuto modo di dialogare con le Camere.
Svolgeremo il nostro incontro nel modo seguente: vi sarà l'esposizione di una vostra breve relazione, alla quale seguirà un dialogo con i parlamentari che vorranno intervenire.
Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento della relazione.

GIOVANNI PUGLISI, Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM. Signor presidente, onorevoli deputati, innanzitutto mi consentirete di esprimere un sentimento di ringraziamento e di apprezzamento, da parte della Conferenza dei rettori delle università italiane, per l'iniziativa della Camera dei deputati su un tema di grande importanza e rilievo, come quello della ricerca scientifica nel nostro Paese.
Si tratta di un tema nodale, che oggi si intreccia in maniera essenziale con il dibattito politico a tutto campo attualmente in corso in Italia, ma anche con un dibattito che esce fuori dai limiti della politica, per entrare nella società civile, nel mondo delle imprese e nel mondo internazionale.
Questo è un momento particolarmente importante, perché credo che, a giorni, il Parlamento discuterà la riforma dell'università,


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la quale metterà in moto una macchina molto complessa, che non può prescindere, nella sua articolazione e nelle sue diverse anime, da un intreccio con il mondo della ricerca. Quindi, onorevole presidente, credo che quello nel quale avete deciso di svolgere questa indagine sia un momento tempisticamente fortunato.
La seconda riflessione che vorrei avanzare riguarda la centralità della ricerca nel mondo universitario, intesa come asse costitutivo di una erogazione di servizi didattici centralizzati sulla ricerca. Non esiste università senza ricerca, e - se mi è consentito - affermo anche che non esiste ricerca che non abbia una scuola a valle delle attività di laboratorio.
Le ricerche che sono chiuse dentro le sale blindate del pensiero olistico, in buona sostanza, finiscono col non servire a nulla, con il non riconoscersi. La specularità e la comunicazione sono l'anima della presa del reale, ovvero dei problemi della società.
La ricerca italiana - mi permetterete di dirlo - è di ottimo livello. Lo è dentro l'università, negli enti di ricerca, nell'ambito della società a tutto campo, ma anche nelle attività sviluppate dai laboratori delle imprese.
Tuttavia, la ricerca ha una grossa sofferenza, in termini di risorse e di personale. La sofferenza delle risorse viene fuori, oggettivamente, dallo sguardo che possiamo trarre dal sistema di riferimento. Oggi, l'università italiana - faccio particolarmente cenno al sistema universitario - ha seri problemi in termini di valutazione dei suoi percorsi, e spesso è chiusa da difficoltà di mantenimento gestionale del personale e delle strutture. I margini che mediamente il sistema universitario riesce a destinare allo sviluppo e all'innovazione non sono molto ampi, per usare un eufemismo. In alcuni casi, tali margini sono addirittura pari a zero, il che qualche volta può anche significare che l'università diventa un ente non utile, almeno quando è a margine zero per gli investimenti.
L'università italiana, tuttavia, riesce a mantenere una qualità eccezionale della sua ricerca e dei prodotti che essa sviluppa. Vorrei citare soltanto due esempi, che fungono da cartine di tornasole. Uno di essi è rappresentato dagli spin-off che emergono dalle attività svolte soprattutto delle grandi università, dedicate alla ricerca tecnologica e alla ricerca scientifica nelle scienze cosiddette «dure». L'altro è il cosiddetto tema della fuga dei cervelli, che, se mi permettete, vorrei leggere per converso, dall'altra parte della barricata. È vero che i cervelli fuggono, ma se pensate che da due o tre anni a questa parte l'università italiana non fa reclutamento, è bene - lo dico naturalmente come provocazione - che i giovani fuggano, perché altrimenti si disperderebbero e si perderebbero.
Pertanto, se questi giovani fuggono - e all'estero se li tengono - e crescono fino ad ottenere una progressione nella posizione degli enti scientifici o delle università straniere, al punto che quando cerchiamo di richiamarli molte volte non vogliono ritornare, proprio a causa delle posizioni che hanno acquisito all'estero, ciò vuol dire che questa università non è poi così derelitta. La nostra università ha una qualità degna di produrre prodotti di questo genere.
Tuttavia, esiste il problema dell'entropia. Se noi non sosteniamo adeguatamente il sistema universitario italiano, per la parte che riguarda anche la ricerca scientifica, finiremo col creare dei gradini di entropia, che potrebbero dare risultati negativi nel tempo a venire. Questo non succederà a breve, fra cinque o dieci anni, ma probabilmente tra cinquant'anni, però è un dato che temo diventi inesorabile.
Oggi, io non sono qui a chiedere al Parlamento di aprire i cordoni della borsa, anche perché mi sembra palese che nessuno di noi, allo stato attuale, sia in grado di aprirli, dal momento che esiste un significativo problema di spesa pubblica. Al contrario, sono qui a sostenere che oggi l'investimento nella ricerca deve essere necessariamente forte e chiaro, misurato ai bisogni del sistema Paese, oltre che validato e certificato.
Insomma, il punto più delicato è che la ricerca scientifica ha bisogno, più di qualunque


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altra cosa, di una valutazione, che deve essere effettuata da soggetti terzi. Quando parlo di soggetti terzi, intendo dire, anche in maniera brutale, che non può trattarsi di professori universitari che magari per uno, due o tre anni si spogliano della casacca universitaria e vanno a svolgere attività di valutazione.
Bisogna che, ad occuparsi della valutazione, vi sia un ente. Adesso c'è l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario, l'ANVUR, e speriamo che finalmente parta e che sia in grado di svolgere questa funzione con serietà, impegno e continuità. In ogni caso, sicuramente deve trattarsi di un ente terzo, che operi con costanza, al fine di misurare la ricerca scientifica sulla base delle capacità dei soggetti che fanno ricerca e dei bisogni del sistema Paese. A questo proposito, vorrei sottolineare due aspetti. In primo luogo, io sono assolutamente contrario alle ripartizioni a pioggia delle risorse, che non hanno nessun senso.
Deve essere sicuramente garantito il livello minimo di funzionamento delle strutture, però la ripartizione delle risorse deve avvenire sulla base della qualità e della validazione dei risultati della ricerca che una struttura è riuscita a produrre. Il secondo elemento riguarda la questione della continuità. In altre parole, le strutture di ricerca e le università che fanno ricerca spot sono utili soltanto a sé stesse, ma non al Paese. Al contrario, credo che dobbiamo puntare verso un sistema di ricerca che valorizzi le realtà che fanno ricerca, ma che allo stesso tempo guardi ad un piano sistemico di sviluppo del Paese, nella sua attività di produzione e di ricerca.
Da ultimo, vorrei soffermarmi brevemente sul tema della ricerca in campo umanistico. Io sono rettore di una università di nicchia, un'università non statale, che ha una vocazione molto mirata nelle lingue e nella comunicazione, però nel sistema universitario - il mio amico Fabiani lo sa bene - coordino, da qualche anno, anche il sistema delle università non statali di questo Paese. Ebbene, tale sistema è spesso mirato su aree di nicchia. Posso fare qualche esempio: tranne alcuni casi, come quello della Cattolica, che è un'università generalista, la Bocconi è un'università molto mirata all'economia, la mia alla comunicazione e alle lingue straniere, la LUISS alle scienze politiche, all'economia e all'area giuridica, il campus biomedico di Roma all'area clinico-sanitaria, e la LUMSA viene da una vecchia vocazione per la formazione, che poi si è allargata anche ad altre aree, come quelle giuridico-politiche. Tuttavia, è necessario che il sistema delle università non statali sia tenuto in adeguato conto.
Quindi, questi sono i due elementi conclusivi, sui quali vorrei puntare: il sistema umanistico e il sistema delle università non statali. Il sistema umanistico è molto delicato. Noi abbiamo l'abitudine di dire che l'Italia è un museo a cielo aperto, e che il grande patrimonio, il grande petrolio dell'Italia è rappresentato dai suoi beni culturali. Siamo soliti affermare, cioè, che la grande ricchezza e il grande futuro dell'Italia risiedono nella valorizzazione dei suoi patrimoni culturali, artistici, paesaggistici e via dicendo. Tuttavia, quando andiamo a guardare quali sono i segmenti che vengono messi in funzione verso questi obiettivi, scopriamo che le risorse non ci sono e che spesso il personale viene riqualificato - io in genere dico riciclato, ma evito di usare questa espressione in quest'Aula - su segmenti di esperienza empirica, e spesso su spazi che vengono recuperati sul territorio. Molto spesso, in questi ambiti, non ci sono vocazioni, ma bisogni individuali che determinano trasformazioni vocazionali.
Allora, davanti a tutto questo, io credo che dobbiamo avere il coraggio di cominciare a dire che, se è vero che l'Italia è il Paese che ha il maggior numero di beni culturali - io non vorrei usare il bilancino del farmacista, ma è sicuramente vero che siamo fra i Paesi più ricchi al mondo in termini di beni culturali - e che il turismo culturale e lo sviluppo sostenibile sono elementi costitutivi di un grande business culturale e formativo di questo Paese, che porta ad esso ricchezza aggiunta, dobbiamo capire che investire in cultura, e


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quindi investire nella ricerca scientifica nell'area umanistica, è una necessità del Paese, non un optional. Io sono convinto che sia giusto investire nelle scienze fisiche, matematiche e chimiche, però l'investimento nella ricerca scientifico-umanistica è fondamentale.
Per quanto riguarda, invece, le università non statali, non so quanto gli onorevoli parlamentari sappiano che il sistema non statale in Italia è sostenuto dallo Stato, con una percentuale contributiva media del 14 per cento dei bilanci delle università non statali stesse.
Il rimanente 86 per cento è composto da risorse che le università non statali apportano al sistema dell'alta formazione e della ricerca scientifica, attraverso meccanismi di reclutamento proprio. Fanno eccezione le università non statali che hanno policlinici, come la Cattolica o il Campus biomedico, dove i trasferimenti dalle regioni sono un altro capitolo.
Invece, per tutto quello che non è trasferimento diretto, nell'ambito della sanità, sui policlinici, le università non statali contribuiscono alla ricchezza di questo Paese. Tengo molto a sottolineare questo aspetto, dal momento che esiste un grande pregiudizio nei confronti del sistema non statale.
Parlo per la mia università, che mi onoro di definire un'università laica di formazione e di gestione. Tuttavia, il laicismo passa anche attraverso il rispetto delle diverse convinzioni confessionali e ideologiche, quindi mi permetto di fare un appello a nome di tutte le università. Credo che sia fondamentale il rispetto e la pari dignità fra i due sistemi. Insisto molto, nell'ambito della Conferenza - e il professore Fabiani lo sa - sulla parità dei due sistemi.
Noi non vogliamo una Conferenza dei rettori delle non statali, perché questo indebolirebbe il sistema universitario italiano. Noi stiamo dentro la Conferenza dei rettori, convinti che questa unità del sistema sia strategica per lo sviluppo della ricerca del sistema universitario italiano.
Un'ultima battuta e concludo. C'è un ambito, onorevoli deputati, del quale non si parla mai, ed è quello della ricerca scientifica con finalità rivolta ai sistemi militari e allo sviluppo delle industrie militari belliche.
Ho un pallino su questo argomento - e mi perdonerete - che nasce anche dalla mia attività di Presidente dell'UNESCO in Italia. Spesso, denuncio questo tipo di iniziative e devo dire che, in genere, la stampa italiana tace davanti a questo. Oggi, c'è un investimento eccezionale di risorse in ricerca scientifica svolta da industrie e da imprese fabbricatrici di armi, che hanno attività strategiche nei sistemi di sviluppo bellico, di cui nessuno parla.
Penso che ci sia anche una parte di investimento dello Stato, attraverso i ministeri deputati, in questo tipo di attività. Io non credo che questa attività si debba interrompere, ma tesaurizzare, rendendone i risultati assolutamente compatibili col sistema comune della ricerca scientifica, naturalmente con il riserbo che alcune ricerche meritano. Altrimenti, se così non fosse, tutto questo avrebbe soltanto la finalità di arricchire i mercanti d'armi.
Vorrei chiudere ricordando un'espressione di un filosofo tedesco di due secoli fa, Immanuel Kant, che disse che la pace perpetua non è possibile nel mondo, fin quando ci sarà un miles perpetuus, ovvero un soldato in attività. Con un giudizio economico, Kant, filosofo di Koeninsberg, sosteneva che se si fabbricano armi è più economico fare la guerra, che non mantenere la pace. Per capirci, immaginate Bill Gates che fabbrica computer per tenerli in cantina. Non è possibile.
Pertanto, da questo punto di vista, stiamo attenti che questa ricerca scientifica, così mirata e finalizzata, non sia quella che produce quei risultati per cui, qualche volta, qualche nostro giovane militare in servizio di pace cade in terra lontana su qualche mina di fabbricazione italiana. Vi ringrazio.

GUIDO FABIANI, Rettore dell'Università degli studi Roma Tre. Grazie, anche da parte mia, per l'invito a questa importante audizione.


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Svolgerò alcune brevi considerazioni su quattro punti, in alcuni casi anche riprendendo le questioni che ha affrontato il collega Puglisi. I quattro punti sono i seguenti: il ruolo della ricerca, le condizioni della ricerca nell'università, la valutazione e gli interventi.
Per quanto riguarda il ruolo della ricerca, è unanimemente riconosciuto che lo sviluppo sociale ed economico del mondo contemporaneo oggi è fondato sulla conoscenza. Allo stesso tempo, vi è la necessità di gestire volumi crescenti di conoscenza, con nuove dimensioni dello spazio - che non è più un fattore limitante - e del tempo, che ha visto una terribile accelerazione della produzione, della diffusione e del ciclo di vita della conoscenza stessa.
Bisogna, inoltre, considerare, in termini di ruolo complessivo della ricerca, che la produzione scientifica oggi ha costi crescenti, perché deve seguire, senza soluzione di continuità, un avanzamento progressivo e veloce della frontiera stessa della conoscenza. Tutto questo necessariamente richiama il ruolo dello Stato e delle istituzioni pubbliche a livello territoriale, e pone, dal lato dell'università, l'esigenza di adottare la cultura organizzativa delle nostre università, perché occorre sviluppare non soltanto, come nella nostra storia e nella nostra tradizione, la ricerca di base - che deve rimanere, ed è necessaria - ma bisogna puntare anche a soddisfare le esigenze provenienti dai cambiamenti sociali, culturali ed economici in atto.
La ricerca oggi si sviluppa solo in contesti favorevoli. Il caso della fuga dei cervelli, richiamato dal professor Puglisi, lo dimostra. La fuga dei cervelli esiste, perché il contesto non è favorevole. Dunque, questi contesti devono essere costruiti prioritariamente attraverso il riconoscimento del merito - e qui c'è qualche responsabilità da parte dell'università - ma anche attraverso la disponibilità di strumenti, di funzioni e di risorse, che mettano in grado di rispondere alle esigenze complesse della società e di costruire una capacità di guardare lontano, che è propria del mondo della ricerca.
Credo, tuttavia, che debbano essere tenute presenti alcune specificità. Stiamo parlando della ricerca nell'ambito dell'università - non della ricerca complessivamente intesa - in quanto soggetto di ricerca. Intanto, l'università spende perlomeno un terzo complessivo della spesa per ricerca nel Paese, ma sono molto maggiori i risultati della ricerca nell'università, perché ovviamente il contributo deve tener conto anche delle relazioni con il resto del sistema della ricerca.
Se l'università deve oggi saper rispondere alle esigenze provenienti dal mondo esterno, essa deve essere anche il luogo di elezione della ricerca libera, ovvero della ricerca che dipende dalla curiosità intellettuale dei ricercatori, dal momento che è da questa ricerca (dalla ricerca libera e di base) - ed è dimostrato in tutto il mondo, non solamente in Italia - che sono venuti i maggiori avanzamenti culturali, scientifici e tecnologici.
Chiediamoci, dunque, quali sono le condizioni attuali della ricerca. Ritengo che sia necessario partire dalla consapevolezza che oggi, in Italia, l'istruzione universitaria è un processo formativo di grandi numeri. Questo è un punto di partenza: oggi gli studenti universitari sono 1 milione e 800 mila. Ogni anno, noi laureiamo all'incirca 330 mila studenti, in varie discipline, ed è qui che si formano la classe dirigente e colta del Paese, il capitale umano, che è la risorsa più preziosa in assoluto, e le risorse umane che andranno a produrre nuova conoscenza e a determinare la competitività del sistema economico e sociale.
Questa è la dimensione da cui partire: occorre sostenere un sistema complessivo di un 1 milione e 800 mila studenti, che produrrà capitale umano competitivo. Credo che tenere alto il livello della qualità di questi processi sia un obiettivo prioritario nell'interesse del Paese.
Il sistema universitario, però - anche di questo va tenuto conto - negli anni recenti, ha vissuto un lungo, sottolineo lungo, periodo di instabilità, a causa di risorse continue che hanno affrontato prevalentemente i problemi della didattica,


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tralasciando quelli della ricerca. Questo è uno dei difetti di fondo della riforma dell'università.
Io credo che il sistema italiano della ricerca si possa distinguere per molte carenze, ma anche per molti aspetti positivi. Cominciamo dalle carenze. Esse sono di carattere permanente, e non riguardano solo gli ultimi anni, al punto da essere diventate strutturali del sistema della ricerca. Queste carenze riguardano, come sistema italiano della ricerca: l'assenza di un progetto nazionale della ricerca, il funzionamento della ricerca all'interno dell'università e degli enti di ricerca, la scarsissima disponibilità di risorse e la mancanza di controlli efficaci sul merito e sui risultati. Queste sono le carenze strutturali che ci portiamo dietro da tempo, e che è il momento di affrontare nella loro complessità.
Per quanto riguarda il primo punto, ovvero l'assenza di un progetto nazionale della ricerca - voi ci state lavorando - credo che basti pensare alla efficacia dei precedenti piani nazionali della ricerca, che sono stati solamente documenti generici di indirizzo, non dei progetti. È mancato un monitoraggio dell'attuazione di questi piani, e si è verificata un'assenza di autorità di governo dell'attività di ricerca, ovvero di una istituzione nazionale della ricerca che fissasse obiettivi, distribuisse finanziamenti e controllasse i risultati. Questi sono i punti fondamentali che io ritengo occorra affrontare, sul piano complessivo dell'assenza nazionale di un progetto di ricerca.
Per quanto concerne le carenze di funzionamento del sistema della ricerca universitaria, ci troviamo di fronte, innanzitutto, ad entrate non programmate, come diceva un momento fa il professor Puglisi. I nostri ricercatori stanno aspettando da qualche anno i concorsi per ricercatori. Noi stiamo perdendo una leva di giovani ricercatori, che sta andando all'estero, perché non c'è la possibilità di dargli una prospettiva, neanche di concorso. Questo è un dato fondamentale, da tener presente anche quando si faranno le leggi per l'università e per i concorsi. Stiamo attenti. Quando entreranno in funzione? Quanto dovranno ancora aspettare questi ragazzi, che sono stati formati?
Pertanto, una delle carenze del funzionamento riguarda le entrate non programmate e discontinue. Ci troviamo a dover far fronte ad una limitatissima internazionalizzazione, a pochi ingressi dall'estero e a scambi limitati soprattutto in entrata. Inoltre, non abbiamo una facilitazione seria dei ritorni, mentre si pone il problema della fortissima anzianità del capitale umano, la quale però non è dovuta alle caratteristiche dell'università, ma proprio alla mancanza di un flusso in entrata, di un flusso di rinnovamento, che invece deve essere messo in atto.
Abbiamo il più basso numero di dottorati, PostDoc e ricercatori, in confronto alla Germania, all'Inghilterra e alla Francia, che hanno da tre a cinque volte il nostro numero di dottorandi per milione di abitanti, quindi in termini relativi. La stessa proporzione si ripete, all'incirca, per quanto riguarda i ricercatori.
Le risorse sono limitatissime, anche da questo punto di vista. Se facciamo un confronto non con la media europea a quindici, siamo al di sotto, mentre siamo molto vicini alla media europea a ventisette. Ma il confronto che ci interessa maggiormente è quello con Paesi come la Germania, la Francia, l'Inghilterra, ovvero con i Paesi che sono i nostri partner naturali. Ebbene, qui il confronto è disastroso. Qualche anno fa, Quadrio Curzio, in sede di Confindustria, valutando la strategia di Lisbona, sosteneva che l'Italia avrebbe dovuto, entro il 2010, solo per raggiungere il 2 per cento (ma l'obiettivo era il 3 per cento), raddoppiare la spesa del 2000 di 12 miliardi 400 milioni. Lascio a voi il calcolo, e ogni giudizio su questo tema. Del resto, siamo a qualche mese dal 2010, e queste cose devono essere dette.
Per continuare ancora con le carenze, manca un'agenzia di finanziamento della ricerca per l'università. A questo proposito, bisogna tenere conto di un altro fatto importante avvenuto in questi anni, e che bisogna sottolineare: è venuto meno il ruolo che il CNR ha svolto nel passato,


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ossia quello di finanziamento della ricerca. Sono anni che ciò non avviene più, e questo è un dato estremamente negativo, perché il CNR è stato sostituito funzionalmente da parte del ministero, ma quest'ultimo svolge - lo diciamo chiaramente, non è responsabilità dei singoli ministri o altro per carità, ma è un discorso complessivo - un ruolo frammentario, discontinuo, senza linee guida e con scarsissimi finanziamenti. Questo è un dato di fatto, non una critica.
Ho parlato delle carenze, ma adesso voglio parlare anche degli aspetti positivi, sui quali ha insistito molto il professor Puglisi. Intanto, per quanto riguarda il livello della ricerca delle università, è stata condotta un'indagine dal Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca CIVR su 18 mila prodotti - se non sbaglio - della ricerca per un triennio.
Ebbene, da questa ricerca, nel corso della quale un panel di studiosi ed esperti, anche stranieri, ha valutato i prodotti della ricerca in Italia, è risultato che il 30 per cento dei prodotti sono eccellenti, il 46 per cento sono buoni, il 19 per cento sono accettabili e il 5 per cento sono limitati. Insomma, vi è un 76 per cento di prodotti fra buoni ed eccellenti, e questo è un dato importante da cui partire.
Tra l'altro, ripeto che non si tratta di un'autovalutazione, ma di una valutazione condotta da un panel di esperti, anche stranieri.
In questo quadro, occorre tener presente anche un altro aspetto. Questa indagine risale al 2001-2003, e da quel periodo siamo fermi. Che si fa sul piano della valutazione della ricerca? Aspetteremo l'ANVUR? Come dicevo, i dati sono relativi al triennio 2001-2003. Tuttavia, siamo ormai al 2010 e ci sono sette anni di produzioni nuove da tenere presente. Questo è un dato di fatto, e su questo si sa pochissimo.
Inoltre, bisogna considerare un altro elemento positivo. In questi anni, anche grazie alla riforma dell'università, messa in atto con tutta la pesantezza dei suoi cambiamenti, i rapporti tra università e territorio e università e industria sono migliorati decisamente. Vi è la creazione di incubatori di imprese, ci sono spin-off, nuovi brevetti, attività di job placement, e distretti tecnologici che nascono in questo periodo.
Dunque, non si parte assolutamente da zero, né da una situazione totalmente negativa. Al contrario, ci sono grandi potenzialità, ma naturalmente bisogna sostenere e consolidare questi cambiamenti.
Su questo, mancano ancora le strutture adeguate, sia all'interno dell'università, sia all'interno del mondo delle imprese, sia nel ponte tra università e imprese. In altri termini, manca un sistema di collaborazione definito. Questo è un altro dei temi che vorrò riprendere in seguito.
Sul tema della valutazione, senza dubbio occorre dare massima rilevanza alla valutazione della ricerca. Oggi, è impossibile prescindere da questa attività. Si metta in piedi un'agenzia, che lavori seriamente, e si correggano tutti i modelli di valutazione messi in atto, perché sono molto carenti per numerosi aspetti. Tali modelli hanno funzionato e rappresentano comunque un passo in avanti, ma la valutazione dovrà tenere conto della differenziazione dei contenuti e delle pratiche della ricerca nelle diverse aree. Non possiamo valutare allo stesso modo le attività di ricerca umanistica e le attività di ricerca relative, ad esempio, alla fisica. Si tratta di ambiti completamente diversi.
Nel contempo, anche le strutture sono completamente diverse. C'è una grande differenza tra i politecnici e le università generaliste, tra i piccolissimi atenei di provincia e i mega atenei di Milano, di Roma e così via. Quindi, bisogna tenere conto anche delle differenze di scala della ricerca, oltre che delle differenze di scala tra ricerca di base e ricerca applicata. Ancora, occorre tenere presente le differenze relative al costo di gestione e all'impegno di infrastrutture nella ricerca, che esistono tra le scienze naturali e le scienze sperimentali tecnico-progettuali da un lato, e le scienze matematiche, sociali e umanistiche dall'altro. Infine, bisogna considerare la differenza tra ricerca individuale - che non deve essere spenta, ma


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sostenuta - e ricerca di équipe, che certamente è importante e deve essere, anch'essa, sviluppata.
Le differenze tra queste tipologie di ricerca non devono essere intese come differenze di valore, ma come differenze di tipologia, che necessitano evidentemente di pesi diversi, anche sul piano del sostegno. Quindi, occorrono indicatori trasparenti, condivisi e conosciuti in anticipo.
Badate, oggi siamo abituati alle valutazioni fatte sulla base di indicatori, che ci vengono comunicati tre mesi prima. Non è possibile continuare così. Noi dobbiamo sapere su che base ci si valuta, e non possiamo sapere all'ultimo momento che gli indicatori utilizzati saranno di un certo tipo.
I tempi per l'ANVUR non saranno brevi. Quando si è provveduto ad impostate agenzie di valutazione di questo tipo all'estero, ad esempio in Inghilterra, ci sono voluti dagli 8 ai 10 anni per farle funzionare. Noi abbiamo l'esperienza del Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca CIVR e del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario CNVSU, e dunque queste esperienze possono essere riprese e adeguate, ma soprattutto modificate, anche per quanto riguarda i ruoli del personale che ha condotto per tutti questi anni la valutazione, personale che non può essere mantenuto per un così lungo tempo nell'incarico, dal momento che molti di essi hanno collegamenti con le università di appartenenza. Questi aspetti, in termini di trasparenza e di terzietà, devono essere assolutamente superati. Non intendo muovere nessuna critica violenta, ma sostengo che abbiamo bisogno di trasparenza e di correttezza su questo piano.
In conclusione, vorrei affrontare il tema degli interventi. Credo che ci sia necessità - non per battere cassa - di maggiori e più stabili risorse pubbliche. Abbiamo bisogno di un investimento, come sta avvenendo negli altri Paesi, di medio e lungo periodo, che sia finalizzato soprattutto a garantire la copertura del costo dell'istruzione superiore sulla base del costo standard, dalla quale istruzione poi nasce e viene prodotta l'attività di ricerca. Abbiamo bisogno di un intervento di lungo periodo, per programmare un'azione coordinata su tutta la filiera della ricerca. Quando parliamo di ricerca, dobbiamo pensare ad una filiera, che tenga in considerazione la formazione alla ricerca. Per formazione alla ricerca mi riferisco sostanzialmente al dottorato, al post-dottorato, agli assegni di ricerca e ai ricercatori a tempo determinato, quale figura unica che prevarrà col nuovo disegno di legge.
Bisogna intervenire su questi quattro segmenti, coordinati tra di loro e intesi come parti di un'unica filiera. Non ha senso un intervento sul dottorato, se non si provvede anche ad un intervento coordinato che coinvolga il post-dottorato, gli assegni di ricerca e gli sbocchi sui posti di ricercatore a tempo determinato. Quando un giovane inizia deve poter sapere che, su cento, venticinque avranno il posto di ricercatore a tempo determinato, con una selezione responsabile, trasparente e rigorosa.
Lo ripeto, occorre intervenire sull'intera filiera della ricerca, e in questo ambito io richiamo anche la necessità di intervenire sulle strutture e sulle infrastrutture della ricerca. Anche questi sono elementi importanti della filiera.
Un progetto di laboratori è assolutamente essenziale, ovvero un intervento per le infrastrutture della ricerca. Da anni ormai, non si stanno facendo interventi sulle infrastrutture e sulle strutture della ricerca, perché non ci sono le risorse per poterlo fare. Quando sul Fondo di finanziamento ordinario FFO noi arriviamo ai limiti dell'80-90 per cento, vuol dire che il 20-10 per cento che rimane è destinato solo al funzionamento minimo, non allo sviluppo. Andate nei laboratori delle nostre università maggiori e vedrete che sono fermi, e non possono lavorare. Per questo, è necessario un investimento sulle infrastrutture della ricerca.
In termini di filiera, bisogna favorire una serie di strutture che riguardano l'anagrafe della ricerca, gli sportelli tecnologici per il territorio, i laboratori, la formazione di strutture interne ai singoli


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luoghi di ricerca, ovvero strutture per la ricerca dei finanziamenti, per il marketing dell'innovazione, per il rating tecnologico, per il sostegno al trasferimento tecnologico, per il sostegno alle attività di ricerca collaborative tra impresa e università. Credo che tutti questi elementi debbano far parte di un approccio di filiera, e l'intervento sulla ricerca non può essere un intervento unidirezionale ed univoco, ma deve essere complessivo.

PRESIDENTE. Grazie. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Io vorrei fare alcune osservazioni e rivolgere due domande ai due rettori. Per quanto riguarda la ripartizione a pioggia delle risorse, da quando sono stati istituiti i Progetti di ricerca di interesse nazionale PRIN, nel 1997 (allora si chiamavano COFIN), una parte non simbolica dei fondi per la ricerca è stata assegnata con criteri internazionali. Ci si è opposti ai finanziamenti a pioggia, ma anche a quelli mirati, secondo l'idea di un progetto finalizzato, che però in realtà - come sono stati i FIRB, dalla Moratti in poi, assegnati con nome e cognome del destinatario - forse neppure quelli funzionano tanto bene. Se ci deve essere una ricerca di base - come è stato detto prima - è importante che ci sia una gara, la più aperta possibile. Tuttavia, esisteva una parte di fondi, da dodici anni a questa parte, nati così, e che poi sono stati usati più o meno bene.
Non so se anche voi trovate che quell'esperienza - almeno per come era nata - possa essere un modello anche per il futuro. Tra l'altro, sulla base della mia esperienza, posso dire che è vero che l'avanzamento tecnologico nasce dalla ricerca di base, ma è vero anche il contrario. Io vengo da un laboratorio negli Stati Uniti dove, facendo studi sulle antenne per le trasmissioni telefoniche, è stata scoperta la radiazione di fondo dell'universo, da Penzias e Wilson, che hanno ricevuto il Premio Nobel. In realtà, quindi, a mio parere, chiunque provi a contrapporre ricerca di base e ricerca applicata fa un discorso un po' lontano dalla realtà, almeno nel campo delle scienze fisiche, chimiche e così via. Si tratta di ambiti che quasi mai sono separabili. Proprio per questo, chi ne invoca solo uno, di solito non fa un discorso utile.
Sulla continuità, volevo richiamare un problema, e forse anche voi potete darci un'idea. La continuità è importante, quindi gli interventi a sprazzo, che abbiamo avuto in questi ultimi venti anni almeno, non sono una buona idea. Ma anche le scelte precedenti, ovvero quelle eterne, forse neppure sono una buona idea. Enrico Fermi sosteneva che le istituzioni di ricerca hanno una vita media di venti anni, dopodiché continuano a vivere tecnicamente, ma non producono più niente.
Quindi, forse, bisognerebbe guardare - se lo condividete - anche a modelli come quello degli Stati Uniti, dove quindici anni fa sono stati realizzati 5 centri di supercalcolo, ma poi ne sono sopravvissuti soltanto tre, oppure ai dipartimenti del Max Planck Institute, dove viene nominato un direttore, ma poi quando questi va in pensione si chiude il dipartimento e si passa a una nuova idea.
La domanda più importante sulla valutazione è la seguente, perché è legata anche a un fatto recente. Credo che una valutazione sia meglio di nessuna valutazione. Quindi, apprezzo quello che ha fatto il ministro, su quel 7 per cento di fondi in più. Tuttavia, nel vedere come erano uscite le classifiche, mi sono domandato, anche in relazione al nostro disegno di legge di riforma dell'università di maggio - che in questo penso sia simile a quello che presenterà il Governo fra poco - se sia sensato paragonare nella valutazione atenei interi o dipartimenti affini. La mia impressione è che, quando si paragonano mele con pere, non si riesce quasi mai a fare una valutazione equa. Vorrei un parere su questo. Magari voi, da rettori, sostenete che sia più importante l'ateneo, ma l'impressione è che da questa valutazione escano numeri strani, per questo motivo.


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Passo alla seconda considerazione e domanda. La valutazione c'è stata. È vero che si riferisce a un tempo antico, ma essendo io allora nella vostra attuale professione, osservavo, sia con i Governi di centrodestra sia con quelli di centrosinistra, che il problema non è l'assenza di valutazione, ma che poi non se ne traggano le conseguenze. Il secondo istituto di scienze fisiche valutato come migliore dal CIVR, l'Istituto nazionale di fisica della materia l'INFM, è stato chiuso dal Governo Berlusconi nel 2003. Quanto al CNR, si parla di qualità e via dicendo, poi quando si scelgono i dirigenti si agisce diversamente. Se, pur sapendo che qualcuno non ha prodotto niente scientificamente, lo si mette a capo di un grande ente di ricerca, è inutile poi parlare del CIVR, dell'ANVUR e di tutte queste belle cose.
L'altra questione è che una gran parte dei fondi non sono soggetti a questo. Ad esempio, l'Istituto Italiano di Tecnologia l'IIT ha avuto quasi 500 milioni di euro da quando è nato e non è stato mai valutato. In realtà, è stato valutato una volta da una Commissione nominata da Padoa-Schioppa, ma poi il rapporto è stato consegnato al ministro quando il Governo è caduto, e nessuno lo ha mai letto. Tuttavia, esso ha continuato ad avere molte centinaia di milioni di euro.
Quindi, ritengo che la richiesta principale, oltre alla valutazione, debba riguardare la consequenzialità rispetto alle valutazioni. Lo dico davvero, rispetto a entrambi gli schieramenti.
Vorrei porre adesso una domanda sugli enti di ricerca. Si è parlato del CNR, e del suo ruolo come finanziatore che è finito. Credo che quella sia una questione di molte decine di anni.
La mia domanda è la seguente: il cammino che ha fatto il CNR, ovvero uscire dal modello CNRS, in cui vi era una rete di poche persone proprie e molti soldi a gruppi radicati nelle università, per diventare un Leviatano autoreferenziale che ha molti dipendenti, ma alla fine non ha soldi, se non quasi solo per i propri stipendi, è un cammino che secondo voi deve essere invertito? In altri termini, conviene tornare verso il modello CNRS? Questo sarebbe un tema da discutere, e credo che trovi pareri vari in tutti e due gli schieramenti.

LUIGI NICOLAIS. Ringrazio moltissimo i rettori per il loro intervento e anche per la loro presenza. Debbo dire che qualche giorno fa abbiamo avuto un'audizione con l'AIRI, con gli enti pubblici di ricerca e ancora, qualche giorno prima, con Confindustria. Tutti hanno riconosciuto l'importanza della ricerca accademica, e l'importanza per il Paese dell'attività di ricerca che le università e gli enti pubblici di ricerca portano avanti, anche perché oggi la competitività del Paese è sicuramente basata sulla capacità delle imprese di smaterializzare i loro prodotti.
Oggi abbiamo sentito un intervento che ci fa pensare che, oltre a questa necessità, la ricerca è importante anche per la formazione.
Credo che nelle università non bisogna insegnare quanto è scritto nei libri, piuttosto quello che non è ancora scritto nei libri. Quindi, la ricerca diventa un elemento essenziale per la didattica e per la formazione. La ricerca, in un Paese avanzato, deve rappresentare il momento più elevato di formazione dei nostri giovani. Credo che questo sia importante.
Oggi abbiamo sentito che molti dei problemi riguardano la discontinuità dei finanziamenti e dei concorsi. La discontinuità ammazza la ricerca. Bisogna rendersi conto che non si può indire un concorso per professore, o per ricercatore, una volta ogni cinque o dieci anni. È impossibile. Non è da Paese civile.
Credo che tutti noi dobbiamo operare, perché ci sia una capacità programmativa. È necessaria una programmazione che non blocchi il sistema, che sia capace di modificarsi anno dopo anno, ma che in qualche modo dia sicurezza e certezza ai nostri giovani e alle nostre università.
Come diceva il rettore Puglisi e come ha ripetuto il rettore Fabiani, oramai le università sono a margine zero di investimenti.


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Oggi, abbiamo delle leggi sulla sicurezza molto più severe, giustamente, di quelle che avevamo nel passato. Tuttavia, i nostri laboratori non sono in sicurezza.
Dobbiamo renderci conto del fatto che un aumento del fondo di finanziamento ordinario è un must per la sopravvivenza dei nostri laboratori. Altrimenti, chiudiamo le università.
Molte di esse, infatti, dovrebbero essere chiuse secondo la legge italiana vigente. Invece, continuano a funzionare, mettendo a rischio tanti giovani che stanno avviando la loro carriera accademica e di ricerca.
Credo che questi punti siano importanti, così come lo è il sistema della valutazione.
Ritengo - l'ho ritenuto, l'ho sempre detto, l'ho fatto quando ero nelle università - che un modo per premiare i migliori sia valutarli. Un modo per migliorare se stessi è essere sottoposti a valutazione che non significa punizione, ma che è molto importante per il miglioramento delle proprie attività. Purtroppo da noi questo sembra impossibile, sembra difficile.
Una valutazione di cinque o sette anni fa non è più tale. Cambiano le persone, le attività, i ricercatori, perché grazie a Dio c'è una grande mobilità. Quindi, un'università che aveva ricevuto una certa valutazione sei anni fa, oggi potrebbe essere totalmente diversa, perché sono cambiati gli uomini di questa università.
Quanto alla valutazione, credo che noi tutti dobbiamo fare sempre più pressione, anche verso il ministro, per accelerare questo processo essenziale per la crescita del nostro sistema universitario che è la base dello sviluppo del Paese.
Sicuramente dobbiamo riflettere molto su tutti questi aspetti. Mi piace immaginare che il CNR cambierà in parte. Credo che sia giusto - ne abbiamo discusso e ce lo ha detto anche il rappresentante di un ente pubblico di ricerca - pensare a un'agenzia che dia una continuità e una qualità di finanziamento.
Se non abbiamo un'agenzia terza che se ne possa occupare, individuiamo un ente pubblico di ricerca. Lavoriamo, affinché vi sia un sistema continuo di finanziamento che permetta veramente di raggiungere degli obiettivi.
Abbiamo anche bisogno di un Piano nazionale di ricerca PNR che non sia la fotografia dell'esistente, ma che sia coraggioso, che sappia dire «no» a qualcuno e «sì» a qualcun altro e che sappia concentrare i fondi sui punti più importanti dello sviluppo di questo Paese.
La ricerca di base, conoscitiva, la ricerca curiosity driven è essenziale. Il professor Maccacaro ha riportato un bellissimo esempio in merito, dicendo che la ricerca di base è come il ghiacciaio che alimenta il fiume della ricerca applicata. Se il ghiacciaio scompare, non ci sarà più il fiume. Credo che questa sia un'immagine alla quale dobbiamo pensare.
La ricerca curiosity driven non è semplicemente una perdita di tempo. Serve a tanti altri scopi, a far crescere la capacità didattica e quindi formativa dei giovani, ma anche a creare le basi per il grande sviluppo tecnologico di un Paese che vuole essere competitivo.
Ringrazio veramente l'onorevole Palmieri che ha voluto portare avanti questa indagine conoscitiva. Credo che abbia svolto un lavoro eccezionale nello spingere tutti noi a tenere queste audizioni.
Sono convinto che tutti insieme dovremmo prendere coscienza di quello che è stato detto, studiare i documenti a nostra disposizione e cercare di dare una spinta forte al nostro ministro, affinché ne tenga conto.
Del resto, la ricerca e l'università rappresentano gli elementi centrali per lo sviluppo di questo Paese.

ANTONIO PALMIERI. Sono commosso dalle parole del collega Nicolais che abbraccio e al quale ricambio i ringraziamenti. Anche l'onorevole Luigi Nicolais, infatti, è stato ed è artefice del lavoro che portiamo avanti insieme, ovviamente con tutti i colleghi, molti dei quali, come avete già sentito dall'intervento dell'onorevole Bachelet, ne sanno molto più di me, per esperienza diretta.


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Pertanto, con timore e tremore, esprimo alcune considerazioni. In primo luogo, rivolgo un ringraziamento sincero ai nostri ospiti. Nel corso della presente indagine, infatti, abbiamo ascoltato diverse voci e le loro hanno rappresentato dei punti di vista originali, sui quali porrò alcune domande, che hanno arricchito indubbiamente il lavoro che stiamo svolgendo. Peraltro, nelle nostre intenzioni, tale attività sarebbe dovuta cominciare subito, ad inizio legislatura. A causa dei tempi parlamentari tale termine si è dilatato, ma avremmo voluto arrivare prima a fare questo tipo di intervento e di analisi.
Ciò detto, mi sembra che un punto comune a entrambe le esposizioni sia il circuito positivo da instaurare tra merito, valutazione e risorse. Questi elementi si individuano proprio come tre anelli di una stessa catena, senza i quali la catena non regge più.
Inoltre, mi sembra di aver colto accenni di positiva autocritica da parte dei nostri ospiti, che non riguarda evidentemente le loro figure e il loro operato concreto, ma l'assetto del sistema.
Ringrazio dunque i rettori per le osservazioni che hanno presentato in Commissione.
Sicuramente, come il presidente Nicolais ha testé - come dice il Presidente Fini - affermato, faranno parte del report che andremo a redigere in sede di presentazione finale di questa indagine.
In merito a quanto esposto dal professor Puglisi, mi ha colpito il discorso relativo alla ricerca militare. In effetti, questa è una novità. Con la dovuta cautela, cercheremo di capirne di più.
È consolante sapere che internet, ad esempio, è nata da ARPAnet, una vecchia ricerca condotta per uso militare, come sappiamo. In questo caso, quindi, vi è stata una trasposizione positiva della ricerca. Francamente, non so se il Governo finanzi la ricerca militare. Cercheremo di capirlo, perché questo farebbe innalzare la percentuale delle risorse destinate alla ricerca. La mia è una battuta, ma senza dubbio tale osservazione ha aperto uno squarcio di originalità. Potremo anche scoprire che in realtà non si investe nulla da parte del Governo e che a partecipare sono solo le imprese, però ringrazio per l'originalità.
Tranquillizzo sul fatto che a molti di noi è ben chiara la distinzione tra il servizio pubblico, che viene offerto a tutti, e la gestione che se ne fa.
Da questo punto di vista, la giusta osservazione sul sistema delle università non statali ci trova concordi - penso di poter parlare per l'intera Commissione nella sua attuale composizione, forse in passate legislature non sarebbe stato così - nel riconoscere che il sistema ha due gambe, perché è pubblico per ciò che eroga. Non so se questa considerazione possa lenire il dolore al ginocchio, ma se non altro potrebbe portare ad avere qualche preoccupazione in meno.
Chiaramente, adesso occorre dare un riscontro concreto. Questo è un aspetto che affronteremo. Non voglio essere deludente, ma purtroppo tra pochi giorni non sarà approvata la riforma dell'università, ma il disegno di legge del Governo.
Comincia il cammino nel quale sarete evidentemente coinvolti, come già sapete. Tuttavia, non vi saranno ulteriori cambiamenti rispetto a quello che già si è tentato di fare in questo primo scorcio di legislatura.
L'altro aspetto comune ai vostri interventi, signori rettori, è volto a evidenziare che la riforma delle università non può non tener conto di determinati fattori. Insomma, anche in questo caso tutto si tiene. Ringrazio dunque i nostri ospiti per questa osservazione, così come per aver sottolineato l'importanza della ricerca di area umanistica.
Vengo ora all'unica domanda che di fatto sto per porvi e che ha un carattere preliminare. Sulla stampa, in queste settimane, sono apparse le ipotesi su cui sta lavorando il Ministro Gelmini, in merito al nuovo PNR, il Piano nazionale della ricerca.
Il professor Fabiani ha diffusamente parlato di come non dovrebbe essere. Sui giornali è apparso invece come potrebbe


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essere, quantomeno per quanto riguarda la focalizzazione di alcune aree specifiche, su cui canalizzare la maggior parte delle risorse, intendendo tale termine nella sua accezione più ampia.
Chiedo dunque ai nostri ospiti di esprimere un giudizio del tutto preliminare, poiché non c'è ancora un atto formale da questo punto di vista, che potrebbe comunque aiutarci, per dare un parere, come Commissione, che sia di aiuto al Governo, ma soprattutto che si collochi all'interno di quanto sta per succedere a breve.

EUGENIO MAZZARELLA. Dal momento che vengo dal vostro mondo - con il professor Puglisi, per alcuni anni, ci siamo trovati nello stesso settore scientifico disciplinare, come si diceva - non posso che sottoscrivere al 120 per cento tutto quello che avete detto.
Omaggiando il collega Palmieri, apprezzo il fatto che sia stato proprio lui a sostenere con forza la necessità di queste audizioni. La mia speranza è che, in Commissione, le istituzioni di ricerca universitaria parlino all'opposizione e poi siano capaci di parlare nelle segrete stanze del Governo in modo anche più efficace. Questo compenserebbe il nostro modo di lavorare.
Detto questo, per essere bipartisan, nell'autocritica generale che questo Paese dovrebbe fare, esprimo la mia sensazione, rispetto a un dato che il rettore Fabiani ha sottolineato, ossia l'eccellenza del 76 per cento di una ricerca molto seria. Tale fattore avrebbe spinto qualsiasi Governo quanto meno a decidere di mettere il 76 per cento, anziché il 100 per cento, tagliando il restante 24 per cento.
Invece, non solo non è stato seguito tale percorso, ma è stata attuata la pratica devastante dei tagli lineari. Intendo dire che, sotto quel profilo, non siamo stati - dovete incalzare il legislatore in tutte le forme, non solo in questa sede - in grado neanche di ottimizzare l'uso della miseria, perché anche questo si sarebbe potuto in modo fare in modo residuale.
In altre parole, non è ragionevole, né razionale, effettuare il taglio lineare in una situazione già di grande difficoltà, a parte il fatto che i valori assoluti dovrebbero aumentare per dare un destino, tramite l'università e la ricerca, al Paese.
Parlo da professore, prima ancora che da deputato pro tempore. Personalmente, ho una sensazione che, in questa sede si evidenzia ancora una volta, in base alle parole che ci hanno detto i nostri ospiti. Ebbene, ho l'impressione che da una decina d'anni - il mio ragionamento, quindi, riguarda almeno tre ministri, ivi compreso uno della mia parte politica, se non sbaglio - questo Paese e i suoi Governi, non solo l'attuale che, tuttavia, essendo in carica al momento assume una sostanziale responsabilità, pensino all'università italiana e al mondo della ricerca nella logica di una ristrutturazione al ribasso.
Un Paese che ha perso fiducia in se stesso può rilanciarsi in due modi: investendo sul proprio motore di sviluppo che è l'università; oppure affermando di non avere futuro, stabilendo che la propria università è troppo costosa rispetto alla base produttiva e decidendo quindi di razionalizzarla verso il ribasso, peraltro in modo selvaggio, come sta accadendo.
Questo Governo rischia di essere molto - mi rivolgo al collega Palmieri - incisivo in questa deriva, se non si pone rimedio.
Prendo spunto da alcune affermazioni del rettore Fabiani e dalle parole del collega Nicolais che richiamava metafore acquatico-idrauliche, per dire che, chiaramente, in una vasca che non viene ossigenata, tutto si intorbida. Se nessuno entra nel sistema, tutti gli indici di funzionalità sballano. Da questo punto di vista, si pone l'essenziale questione del reclutamento.
Non ci accorgiamo che da anni non riusciamo a fare entrare nessuno e neanche a dare un avanzamento di carriera a coloro che sono già presenti.
La politica di questo Governo è stata fatta con un decreto, che ha molto ascoltato un nostro collega, il quale scrisse un memorabile editoriale sul Corriere della sera, parlando dell'«arrivo dei barbari». Con le vecchie modalità, si rischiava di indire concorsi, la cui percentuale, in valori assoluti, per lo più di scorrimenti interni, era una frazione minimale del


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totale, se divisa per gli anni di interesse. Sostanzialmente, in un sistema che ha 60.000 addetti, si promuovevano o si facevano entrare 700-800 unità l'anno. Il collega in questione presentò questo calcolo - e lo espose in Commissione - sulla pubblicistica specializzata che nessuno legge.
Si trattava dunque di una frazione minima per qualunque sistema che respirasse. Non rappresentava «l'arrivo dei barbari» che avrebbe bloccato tutto il futuro. Questo aspetto è aggravato dal fatto che chissà quanto tempo ancora ci si metterà per arrivare a una soluzione e quale parte riuscirà, con quel meccanismo allucinante, ad avere un esito positivo.
Mi aspetto, dunque, che la CRUI spinga il Governo, a parte la governance che rischia di essere formale, a fare uno stralcio sul reclutamento, ad esempio. Del resto, se per avere uno strumento di reclutamento, dobbiamo aspettare altri due anni, questo si assommerà a cinque o sei anni di blocco. Nella sostanza, parliamo di dieci anni in cui non accade nulla.
Inoltre, occorre considerare che il sistema della ricerca e della formazione è sanguigno. Pertanto, se si taglia la giugulare, il sangue non passa più. Non c'è niente da fare. Non si può pensare di fermare temporaneamente il sistema. Non parliamo di un giunto meccanico che si può staccare e riattaccare.
All'interno di questo quadro, si pone un problema assolutamente decisivo. Mi riferisco al fatto che dobbiamo mettere da parte l'idea della mala gestio dell'università e della ricerca italiana. La corruzione, come in tutti i comparti di questa società, è un fattore forse anche patologico, ma che non caratterizza tutto il sistema e non riguarda la migliore, né la maggiore parte di esso, come i dati dimostrano.
Ad ogni modo, tale elemento serve molto come ideologia di copertura a una politica di tagli indiscriminati e di ristrutturazione al ribasso. A mio avviso, dunque, la CRUI deve far sentire assolutamente la propria voce a questo proposito.
Torno al reclutamento e svolgo una riflessione per non commettere gli errori del passato. Il rettore Fabiani ha parlato della filiera relativa al dottorato, al PostDoc, agli assegni, ai contratti a tempo determinato. È chiaro che, pur di far muovere il sistema, si agisce in un terreno che può essere descritto tramite la sequenza precarietà/elasticità.
Ciò significa che, a seconda di come gestiamo il sistema, esso funzionerà nel senso positivo di una necessaria elasticità, o nel senso negativo di una precarietà che azzoppa i percorsi nella costruzione dell'esistenza in vita di un ricercatore. D'altro canto, la ricerca è fatta dalle persone.
Da questo punto di vista, bisognerebbe che anche la CRUI desse delle indicazioni al Governo, a questa Commissione e al Parlamento, per spiegare che perché la precarietà sia elasticità, in un sistema di formazione che è funzionalmente competitivo - nelle mie parole non vi è alcuna aspirazione sessantottina, todos caballeros, che ha devastato l'ideologia formativa e di ricerca in questo Paese per lunghi anni -, bisogna inventarsi degli strumenti che permettano a chi entra in quel percorso di avere soddisfazione stabile nel sistema dell'università e della ricerca.
Per coloro che invece non riescono a entrarvi, sempre che non siano degli asini, dovrebbe essere possibile trovare dei percorsi accettabili nel sistema produttivo.
Il collega Puglisi è un umanista e, come tale, conosce bene le difficoltà che incontra un dottore di ricerca, che pure ha seguito un certo percorso, per andare a insegnare nelle scuole.
In definitiva, dunque, il surplus di formazione non può essere speso nella formazione delle scuole, perché vi è una situazione complessa formata da precari, liste, questioni sindacali e via dicendo.
Insomma, il ragionamento riguarda tutto il sistema e non solo una parte di esso. Parliamo infatti di un pezzo che va incastonato nel sistema produttivo. Del resto, se la filiera di formazione alla ricerca non deve essere necessariamente finalizzata - perché non è possibile - a far entrare tutti stabilmente, deve però essere capace di biforcarsi in termini accettabili.


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A questo punto, svolgo solo una considerazione, per la passione di trattare finalmente un tema che conosco. Sottolineo un ultimo punto in riferimento a questioni umanistiche. Tale aspetto emergeva anche dall'intervento del collega che tracciava la differenza tra aree umanistiche e scientifico-tecnologiche. Hanno un sottoinsieme in comune. Vi è una zona di overlap, ma vi sono anche aspetti che non quadrano affatto e che le allontanano, se non vengono giudicate.
L'obsolescenza della ricerca tecnologica è nota, ma in una ricerca storica la continuità è un fattore strutturale. Parliamo infatti di un capitale che è fruttifero sul lungo periodo ed è «concrescitivo». Non si inventa una tradizione storica, aprendo un altro istituto di ricerca. Il problema riguarda le persone che vi entrano.
Da questo punto di vista, quindi, occorre prestare grande attenzione, anche perché se le discipline umanistiche si chiamassero tecnologie umanistiche avrebbero più fortuna. Del resto, il diritto è una tecnologia umanistica e sociale, come pure la sociologia o le scienze economiche.
In questa prospettiva, penso persino alle questioni di etica pubblica. Se fossimo capaci di vendere le tecnologie etiche e sociali che servono all'integrazione multiculturale, forse ci accorgeremo che anche gli umanisti servono, perché magari vi sarebbe meno conflitto e quindi meno bisogno di ricerca militare.
Il collega Puglisi ha parlato del rapporto tra pubblico e privato. Personalmente, ho pieno rispetto della funzione pubblica di tutti gli istituti di ricerca, ma questo significa anche essere molto sorvegliati nel chiedere parità di standard di valutazione.
Uno dei vizi italiani e italioti, infatti, è sostanzialmente quello di fare un uso privatistico di risorse pubbliche. Bisogna allora decidere se collocarsi solo sul versante privato, agendo come si crede; oppure, se fondarsi su mezzi pubblici, tenendo però presente che la funzione pubblica significa anche accettare determinati standard.
Infine, vengo alle università telematiche. In merito alla qualità di ricerca, l'opposizione ha presentato una serie di ordini del giorno, rigorosamente bocciati, contro alcune situazioni di questo tipo.
Ho letto dei titoli di giornale e mi auguro che ci sia anche una vostra spinta, interna ed esterna. Sapete di cosa parlo.

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Intervengo solo un attimo, per dire che la sua richiesta di stralcio del reclutamento è stata formalmente avanzata dal nostro partito, per bocca di Fioroni, della Ghizzoni e via dicendo, quando è stato presentato il nostro disegno di legge, a maggio. Si riteneva infatti che allora - e già sembrava tardi - stesse per uscire il disegno di riforma del Governo. Naturalmente, la richiesta del collega Mazzarella rimane condivisa da tutti noi.
È importante dare una corsia preferenziale. Noi diamo la nostra disponibilità, se vengono ridati i fondi all'università e viene stralciato il reclutamento. Altrimenti, da dicembre in poi non si potrà più fare alcun concorso.

EMERENZIO BARBIERI. Rinuncio all'intervento.

PRESIDENTE. Vorrei soltanto una risposta dalla CRUI, in merito ad una questione che mi auguro possa essere lasciata alle spalle. Un errore che abbiamo commesso nelle università probabilmente è stato quello di utilizzare anche i ricercatori per la didattica. Quindi, non abbiamo solo investito poco nella ricerca. L'università, negli anni, è andata caratterizzandosi molto di più per la formazione generalista o di tipo specialistico che offriva, e giustamente voi ve ne vantate. Tuttavia, mi sembra che ci sia stato un utilizzo perverso dei giovani, perché tanti ricercatori sulla carta, di fatto hanno sostituito i docenti nella didattica.
Allora, invece di rivolgersi solo al Governo o alla politica, mi auguro che la CRUI possa invertire questa tendenza e utilizzare le giovani generazioni e le giovani menti davvero per la ricerca, non usando in modo sbagliato questi titoli.


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Chiedo dunque se è stata svolta una riflessione su questo argomento all'interno della CRUI.
Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

GIOVANNI PUGLISI, Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM. Innanzitutto, ringrazio gli onorevoli deputati per la grande partecipazione e le suggestioni offerte.
Cercherò, per ragioni di brevità - la presidente ci ha fatto capire che all'una dobbiamo chiudere i lavori -, di essere rapido. Quindi, sceglierò alcuni temi essenziali, dando, in qualche caso, delle risposte per titoli.
In primo luogo, considero delicatissimo il problema del reclutamento. Sono assolutamente convinto del fatto che tale tema sia fondamentale; sono convinto che la questione del blocco dei concorsi non sia stata casuale, ma strategica, anche per realizzare un paio d'anni, e forse più, di economia di bilancio; sono convinto che oggi il tema dello svolgimento dei concorsi sia fondamentale, anche in termini di continuità della selezione e della valutazione e sono anche convinto del fatto che si ponga un problema di meccanismi concorsuali.
Del resto - non facciamoci illusioni -, con un meccanismo così complesso, come è stato quello finora in vigore, bandire concorsi ogni anno non era la cosa più facile del mondo. Forse con il nuovo meccanismo che si delinea all'orizzonte, con la lista di idoneità nazionale, che ha valenza per più anni, e prevede che le università attingano da quella lista, può crearsi un sistema più oleato.
Sull'etica di gestione dei concorsi, non mi dilungo molto, perché si sono verificate porcherie enormi nel meccanismo di reclutamento. Onestamente, però, andando a fare le proporzioni, se dieci concorsi su cento erano una schifezza, novanta erano fatti bene.
È chiaro che la stampa, o chi utilizza queste operazioni per penalizzare il sistema, parla dei dieci e non dei novanta. Cerchiamo però di alzare la soglia da novanta in su, non da dieci in su.
Vi è poi un altro elemento che vorrei lanciare come caveat e che emerge dalla mia esperienza personale di lunghi anni a capo del sindacato CGIL università, che ha vissuto la stagione di una certa riforma universitaria. Attenzione ad avvitare i meccanismi di riforma dell'università sulle questioni del personale. Credo che uno dei vulnera principali del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980 fu quello di mettere l'accento sulle questioni del personale.
Sono convinto che ci sia una emergenza e penso che forse sia giusto provvedere a un immediato sblocco dei meccanismi, ma facciamo attenzione a porre tutte le questioni del personale in prima fila. Agire in tal senso, stante il sistema dei gruppi di pressione - non so come chiamarli, definirli sindacati mi sembra eccessivo, il sindacato è entrato in eclissi -, può diventare pericoloso.
Sono favorevole alla creazione di meccanismi più dinamici, ma attenzione a spostare la barra dell'interesse completamente sul personale, perché passerebbe in secondo piano il senso vero di una trasformazione del sistema universitario.
Un'altra questione che mi sembra molto importante è quella della ricerca di base e della ricerca applicata. Credo che i due aspetti non siano distinti.
In proposito, l'onorevole Bachelet ha citato Fermi. Nell'area umanistica, io cito Rossellini, che sosteneva che le stagioni del cinema italiano durano dieci anni. Dopo questo arco di tempo, il cinema deve cambiare stagione, ossia linguaggi e prospettive. Tale discorso vale per tutti i campi.
Credo che sia fondamentale che, nel rapporto fra la ricerca di base e quella finalizzata, ci sia una forte vocazione ad una continuità di risultati che metta in osmosi i due prodotti, in particolar modo per l'area umanistica. In quest'ultima, infatti, è difficile parlare di ricerca applicata o finalizzata, tranne che in alcuni segmenti, in alcune aree.
Ad ogni modo, trovo importante considerare la ricerca di base dell'area umanistica


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fondativa per i valori culturali e generali del Paese che ne reggono il patrimonio culturale.
Se quando parliamo di ricerca, non la innestiamo nei sistemi generali del Paese, è difficile capire a che cosa serva un professore di filologia bizantina. Questi ha una funzione, nell'ambito di una tradizione storico-artistica che diventa materia reale di sviluppo del Paese, se applicata alla tutela dei beni culturali. Tuttavia, se non disponiamo tale filiera non capiremo mai questa differenza.
L'onorevole Palmieri chiedeva quali possono essere le aree prevalenti per il piano di ricerca nazionale. Per quanto riguarda il settore umanistico, in un Paese come il nostro, abbiamo tutta l'area dei beni culturali, in particolare quella archeologica e quella documentaristico-archivistica.
L'Italia è un Paese di archivi eccezionali, di biblioteche eccezionali, nascoste, sepolte e che non sono conosciute. Abbiamo un enorme patrimonio documentario di tutti gli archivi, pubblici e privati, che, se fosse studiato e se ci fossero risorse adeguate, sia finanziarie che umane, offrirebbe una grande potenzialità di sviluppo.
Quanto alla questione della ricerca militare, consentitemi solo una battuta. Ci vantiamo quando la polizia americana adotta la Beretta come arma corrente. Tuttavia, se la Beretta è competitiva con altre armi che vengono messe in commercio vuol dire che c'è una ricerca significativa che rende quel prodotto qualificato e competitivo.
Quindi, non so chi paga, ma certamente qualcuno è preposto a farlo. Pertanto, penso che sarebbe interessante occuparsi dell'argomento, anche solo a fini statistici.
Onorevole Bachelet, vengo alla faccenda della valutazione sulla base degli atenei o dei dipartimenti. Essendo rettore di un'università di nicchia, le devo dire che sono per la valutazione per dipartimenti. Quest'ultima, infatti, permette anche gli atenei di nicchia di competere a parità di condizioni.
Invece, se parliamo di valutazione degli atenei, è chiaro che un ateneo di nicchia, come il mio, quello della Bocconi o altri ha difficoltà a confrontarsi con La Sapienza che ha quattordici facoltà e tutte le aree disciplinari del mondo.
Per quanto riguarda il CNR, credo che bisognerebbe svolgere una seria riflessione in merito. Attenzione a fare dei grandi centri di ricerca, compreso il CNR, dei luoghi privilegiati di potere di singoli - mi verrebbe da dire baroni universitari, ma non voglio usare questa parola - e grandi docenti universitari.
Questa è l'operazione per la quale - se mi permettete lo sconfinamento - è entrata in crisi anche la Treccani. Infatti, quando si creano delle grandi aggregazioni che sopravvivono quasi per trascinamento delle scuole, senza una finalità mirata, valutata, ritarata di volta in volta, si corre il rischio di mettere in crisi il sistema.
L'onorevole Nicolais parlava di un aspetto molto importante, richiamava il valore delle scuole. L'università deve essere una realtà di scuole. Questo è fondamentale.
Quando l'università era una cosa importante e seria, i maestri avevano una funzione. Successivamente, è intervenuta un'entropia anche in quel settore. Dalle scuole e dai maestri si è passati ai baroni e agli interessi accademici. Il problema oggi è quello di recuperare il valore dei maestri e delle scuole.
In questo senso, a proposito dei ricercatori, dico alla presidente che è vero che sono stati usati molto per la didattica, ma attenzione a ritenere l'espressione ricercatore tutta chiusa sul valore della ricerca scientifica. Il ricercatore è stata una grande invenzione del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980 che cancellò, con un colpo di spugna, gli assistenti ordinari e fece diventare tutti ricercatori, come se gli ordinari o gli associati non fossero ricercatori.
Sono stato assistente ordinario e mi onoro di aver cominciato la mia carriera da quel gradino. Ritengo che i ricercatori siano oggi l'analogo degli assistenti ordinari e che devono fare sia didattica che ricerca. È chiaro tuttavia che non devono occuparsi solo di didattica; cosa che oggi,


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purtroppo avviene a causa della questione dei contratti, degli affidamenti e via dicendo.
Quanto alle università telematiche, il rettore Fabiani ed io che stiamo in una telematica in consiglio, l'amministrazione Uninettuno, certamente non possiamo dire a priori no a tutte le telematiche.
Il problema è quello di dare un giudizio mirato su valutazioni di merito, per cui alcune telematiche sono oggetti ignobili e altre non lo sono.
Posso solo dire che ho lavorato per togliere le telematiche dal coordinamento delle non statali. Le abbiamo praticamente espulse. Il coordinamento delle non statali non ha più convocato, dalla mia presidenza, le telematiche.
Mi permetto di lasciare al presidente la ricerca che la CRUI ha affidato ad Ambrosetti, e che abbiamo presentato a Cernobbio i primi di settembre, sull'università italiana nella sfida competitiva del Paese, dalla quale potete trarre degli elementi importanti.
Aggiungo due rapide osservazioni positive. La regione Lombardia ha messo in moto un sistema di cofinanziamento, con gli atenei lombardi, per il reclutamento di personale a termine, di ricercatori a termine, e per la ricerca applicata. Questo è un esempio positivo, nel quale gli atenei sono chiamati a investire dei soldi, così come la regione e, al termine, è prevista una valutazione.
Credo che l'azione da non porre in essere sia quella di dare, soprattutto attraverso gli enti locali, finanziamenti agli atenei senza una compartecipazione degli stessi. Il rischio del trasferimento di quei fondi per gestione ordinaria è fortissimo. La finalizzazione del cofinanziamento è questa.
Vi riferisco ora un secondo esempio. Nella mia università, da due anni, ho inventato una analisi della produzione scientifica dei miei docenti. Ho chiamato il fondo ápeiron, da Anassimandro, e ho messo in moto un meccanismo, a valle del quale chi non raggiunge un certo punteggio viene tagliato fuori da tutti i finanziamenti, non può accedere alle valutazioni degli altri, non può avere alcun incarico accademico, non può partecipare ai dottorati e non può fare il tutore delle tesi di laurea.
Ciò che ho recuperato da questa parte l'ho distribuito a coloro che hanno avuto il più alto punteggio come produzione scientifica. Questo è un piccolo esempio, al quale naturalmente sono seguiti grandi mugugni. Tuttavia, proseguo dritto come un carro armato e posso dire di aver visto qualche risultato al secondo anno.

GUIDO FABIANI, Rettore dell'Università degli studi Roma Tre. So di non avere più tempo a disposizione, perché lo ha esaurito tutto il professor Puglisi. Lo conosco. Quando comincia a parlare non smette più. Come avete visto, ha sempre un'ultima considerazione da svolgere.
Occuperò pochissimo tempo, perché ha già detto molto il rettore Puglisi. Procederò per flash.
Sono molto favorevole allo stralcio per i ricercatori e spero veramente che si possa lavorare su questo aspetto, anche tenendo conto che c'è una terza tranche nel programma ricercatori da mettere in campo, con risorse già definite e predeterminate, quindi nulla togliendo alla finanziaria.
A mio avviso, il presidente Aprea ha ragione nel marcare una nostra carenza.
Nei miei appunti, presidente, avevo scritto «orientare il reclutamento dei giovani ricercatori, in funzione prevalente della ricerca e non del carico didattico». Questa è una delle attenzioni che bisogna prestare.
Vengo velocemente alla valutazione secondo atenei o dipartimenti. Personalmente, sono più propenso alla valutazione per dipartimenti, per aree disciplinari, che poi possa essere ricomposta a livello di ateneo. Tuttavia, occorre lavorare su elementi confrontabili tra di loro. È necessario porre un confronto tra realtà omogenee. I dipartimenti, le aree scientifiche lo consentono più degli altri.
Venendo al CNR, si è parlato di invertire il cammino intrapreso da qualche anno. Faccio parte del nucleo di valutazione del CNR, una struttura che continua ad essere seria e importante. Tuttavia,


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sono rimasto colpito da un fenomeno, in base al quale il CNR, anche per mancanza di risorse, nei singoli dipartimenti che si sono creati, è fortemente portato ad avere un rapporto con l'esterno e a fare attività di ricerca su commissione. Questo va benissimo, intendiamoci, ma non è corretto se diventa l'unico modo per sopravvivere. Il CNR vive questa situazione. Ritengo invece che un'interazione maggiore con il sistema complessivo della ricerca sia importante.
Per quanto riguarda il piano per la ricerca e la focalizzazione su alcune aree tematiche su cui orientare le risorse, mi permetto di dire che le aree prioritarie non sono un problema primario.
È una questione che emerge sicuramente, ma il sistema della ricerca oggi ha un problema di natura strutturale, di funzionamento, dimensionale. Occorre affrontare tale aspetto oggi. Parlare di aree prioritarie è certamente importante, ma non è la priorità. Occorre far funzionare il sistema in una logica di sistema complessivo.
Detto questo, le priorità emergono, anche perché ci si deve confrontare necessariamente con il mercato e, se non si lavora nelle aree prioritarie, si rimane fuori. È certo che occorre indicare tali aree, ma non limitiamoci a lavorare solo su queste. Non concentriamoci solo su questo aspetto, perché oggi è il sistema che deve essere affrontato strutturalmente. Da quel punto di vista, si pongono le maggiori carenze e la necessità di dare ossigeno a questo sistema.
Quanto alle eccellenze, poniamo un paragone calcistico. I campioni provengono dai vivai. Lo stesso discorso vale per le eccellenze. Queste ultime non emergono da un humus che non sia vitale complessivamente. Quindi, se non si alza la qualità media del sistema, la situazione non muta.
Credo che oggi si debba lavorare essenzialmente su tale aspetto. Non mi soffermo su altri temi, perché sono già stati affrontati nelle risposte del professor Puglisi.
Mi permetto ancora di sottolineare solo una questione, quella relativa alla continuità del processo che non deve significare - sono d'accordo con quanto è stato detto in proposito - permanenza delle strutture. Possono esistere delle strutture datate, come diceva l'onorevole Bachelet, che vanno sicuramente superate. Continuità non significa permanenza, ma indica un processo continuo che può avere anche soggetti mutevoli nel tempo.
Tuttavia, avere una garanzia di continuità e potersi misurare con delle certezze deve essere il messaggio che si lancia oggi al mondo della ricerca che, vi assicuro, vive uno stato di difficoltà rilevante. La mia non è una lamentela, ma la situazione è veramente sconfortante.
È difficile lavorare oggi in questo settore. Non sappiamo come fare. Se si continua così, tra due o tre anni, ci troveremo tra le macerie.

PRESIDENTE. Speriamo davvero che ci possa essere, invece, un'inversione di tendenza, soprattutto nel metodo, come si diceva, e nella continuità.
Ringraziamo i magnifici rettori e auguriamo alla CRUI di lavorare al meglio per le nostre università. Attendiamo il disegno di legge del Governo che, come sapete, partirà dal Senato, ma avremo modo di confrontarci anche su quello.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,10.

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