Sulla pubblicità dei lavori:
Gibelli Andrea, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SITUAZIONE E SULLE PROSPETTIVE DEL SISTEMA INDUSTRIALE E MANIFATTURIERO ITALIANO IN RELAZIONE ALLA CRISI DELL'ECONOMIA INTERNAZIONALE
Audizione del professore Marco Fortis, docente di economia industriale presso l'Università cattolica di Milano:
Gibelli Andrea, Presidente ... 3 9 13 16
Cimadoro Gabriele (IdV) ... 11
Fortis Marco, Docente di economia industriale presso l'Università cattolica di Milano ... 3 13
Lulli Andrea (PD) ... 11
Pezzotta Savino (UdC) ... 9
Raisi Enzo (PdL) ... 9
Vico Ludovico (PD) ... 10
Audizione del rappresentante italiano presso l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), ambasciatore Antonio Armellini:
Gibelli Andrea, Presidente ... 16 24 25 28
Armellini Antonio, Rappresentante italiano presso l'OCSE ... 17 25
Mastromauro Margherita Angela (PD) ... 24
Peluffo Vinicio Giuseppe Guido (PD) ... 24
Vico Ludovico (PD) ... 25
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 14,10.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell'economia internazionale, l'audizione del professor Marco Fortis, docente di economia industriale presso l'Università cattolica di Milano.
Ringrazio il professor Fortis per aver accettato il nostro invito. Lascerei subito la parola al nostro ospite per la relazione, cui seguiranno, da parte dei colleghi, domande di approfondimento sui temi trattati e subito dopo la replica, come di consueto entro l'orario stabilito. Nel caso in cui si dovesse superare tale orario, il professore potrà fornirci documentazione scritta a completamento del suo intervento.
MARCO FORTIS, Docente di economia industriale presso l'università cattolica di Milano. Buongiorno a tutti. È bene ricordare che la crisi finanziaria ed economica mondiale, la più grave dal 1929, ha avuto il suo detonatore nel fallimento della Lehman Brothers, nell'ottobre dello scorso anno, ma parte da molto più lontano, traendo origine soprattutto dalla gigantesca bolla immobiliare e finanziaria che, a partire dall'inizio di questo decennio, ha avuto il suo epicentro negli Stati Uniti, coinvolgendo però anche diversi altri Paesi avanzati, in modo particolare la Gran Bretagna, l'Irlanda e la Spagna, per rimanere a quelli aderenti all'Unione europea a 27.
Voglio ricordare subito che la bolla immobiliare e finanziaria ha avuto come elemento caratterizzante una crescita del debito privato straordinaria. Cito una cifra per tutte: il debito totale delle famiglie americane è aumentato, tra il 2001 e il 2007, di 6 mila miliardi di dollari - si tratta solo dell'incremento del debito - di cui 5.200 circa per i mutui per l'acquisto della casa.
Naturalmente, la crisi finanziaria è scoppiata perché tutto l'indebitamento è stato poi impacchettato, come è noto, in obbligazioni «collateralizzate» e diffuse a livello mondiale. Quando ci si è resi conto che la gente non era in grado di pagare i propri debiti, è saltato il sistema finanziario, che aveva generato la proliferazione di tali titoli e obbligazioni, e gli asset delle banche si sono rivelati molto più poveri di quanto si pensasse in precedenza.
La crisi si è rapidamente trasferita all'economia reale e si è verificato un vero e proprio crollo del commercio mondiale. In dollari, nel primo semestre di quest'anno, esso è diminuito di un terzo; è
scomparso, cioè, un terzo degli interscambi mondiali espressi in dollari. Ciò ha avuto, chiaramente, un impatto formidabile soprattutto sul settore manifatturiero.
Pertanto, paradossalmente, abbiamo assistito a un calo dei prodotti interni lordi meno forte nei Paesi che hanno generato la crisi, come, per esempio, gli Stati Uniti, ma anche la stessa Gran Bretagna e la Spagna, che non in altri che, invece, non vi hanno concorso, Paesi esportatori come, per esempio, la Germania, il Giappone e la stessa Italia. In altre parole, i PIL di questi ultimi Paesi sono calati di più, perché, essendo essi paesi manifatturieri ed esportatori, hanno sofferto per la caduta dei consumi altrui, più che dei propri.
Nonostante la gravità della situazione, l'Italia è entrata nella crisi con alcuni punti di forza, accanto ai tradizionali e ben noti punti di debolezza, come il debito pubblico elevato, il divario tra Nord e Sud, il peso della burocrazia o il deficit energetico che ci ha sempre penalizzato.
Tali punti di forza, che ci hanno consentito di sopravvivere in questa tempesta, anche se non agiatamente, sono, in primo luogo, la bassa esposizione del sistema bancario italiano verso i Paesi più colpiti dalla turbolenza finanziaria. Cito il caso degli Stati Uniti: secondo dati della Banca dei regolamenti internazionali, nel 2007, anno culmine prima che scoppiasse la crisi, l'esposizione delle nostre banche in termini di crediti consolidati verso gli Stati Uniti era pari solo al 3 per cento del PIL italiano. Per fare un raffronto, quella delle banche olandesi era pari al 61 per cento del PIL nazionale.
Questo spiega perché le prime banche a fallire o a trovarsi in grandi difficoltà in Europa siano state il Gruppo Fortis, che poi è stato spezzettato tra i vari Paesi azionisti - è stato nazionalizzato in Olanda ed è stato venduto in Francia per quanto riguarda la parte belga - e il Gruppo ING.
Tra le banche inglesi in crisi, esposte per circa il 44 per cento del PIL come ammontare complessivo con crediti sugli Stati Uniti, come è noto, ci sono due delle più grandi, la Royal Bank of Scotland e la HBOS, nazionalizzate dal Governo inglese. Sono ancora sotto la tenda a ossigeno la banca Northern Rock, famosa per la fila dei correntisti fuori degli sportelli già nella primavera del 2007, e il Gruppo Bradford & Bingley. Queste ultime due o saranno salvate, oppure i costi dei loro fallimenti andranno totalmente a carico dei contribuenti inglesi.
Altri Paesi particolarmente esposti sul mercato americano, come sistema bancario, erano il Belgio e l'Irlanda, che infatti versano in condizioni drammatiche per tale esposizione alla bolla immobiliare finanziaria americana.
Altro punto di forza nella crisi dell'Italia è il ridotto indebitamento delle famiglie italiane, che - per darvi un'idea - è il più basso, in rapporto al PIL, tra i Paesi del G20. Interviene in merito un discorso storico: le banche prestano con fatica denaro, le famiglie sono molto prudenti e risparmiatrici, hanno in gran parte la casa di proprietà e non hanno avuto bisogno di lanciarsi nella bolla dell'immobiliare. Questi sono alcuni dei motivi per cui l'indebitamento delle famiglie italiane si è mantenuto storicamente sempre molto basso.
Il debito aggregato italiano, conteggiando quello totale delle pubbliche amministrazioni, delle imprese non finanziarie e delle famiglie, è cresciuto pochissimo in termini di punti di PIL, di meno di venti punti tra il 1995 e il 2007. Per darvi un raffronto, quello americano è cresciuto quasi del 30 per cento, quello della Gran Bretagna di oltre il 50 per cento, quello della Spagna di oltre il 100 per cento.
Se oggi guardiamo all'indebitamento complessivo dei Paesi, ci troviamo di fronte, tra quelli più avanzati, a due tipologie di Paesi: quelli sobri (Italia, Germania e Francia; l'Italia, nonostante il debito pubblico alto, è comunque un Paese con un indebitamento basso) e quelli che si sono lasciati andare a una finanza sfrenata, a un indebitamento privato cui tutti non prestavano attenzione perché si era concentrati solo sul debito pubblico (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, persino l'Australia, che ha un in
debitamento aggregato estremamente alto). In sostanza, i Paesi anglosassoni hanno particolarmente ecceduto nella crescita del debito privato, che oggi, peraltro, viene a essere sostituito da quello pubblico, perché, per ripianare i fallimenti delle banche e l'incapacità delle famiglie a spendere, oggi si deve fare spesa pubblica, il che comporta una crescita enorme del deficit pubblico in Paesi come Stati Uniti e Inghilterra, per non parlare dell'Irlanda, che sono andati completamente fuori controllo.
Un altro punto di forza - ma insieme anche di vulnerabilità, almeno nel breve periodo - nella crisi dell'Italia è costituito dalla nostra specializzazione nell'economia reale, in modo particolare nel manifatturiero, dove siamo stati bombardati, negli ultimi anni, da teorie «decliniste» che nelle università abbiamo sempre cercato di contrastare, perché non corrispondenti al vero. Non esiste un declino dell'Italia manifatturiera, anche perché, tra i Paesi più avanzati e importanti del mondo, l'Italia si trova al quinto posto per saldo commerciale positivo manifatturiero dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud, mentre tutti gli altri maggiori Paesi avanzati hanno deficit enormi in questo settore. Il surplus commerciale dell'Italia nel 2008 - si tenga conto che nei tre mesi finali dell'anno si era già con un piede dentro la crisi - è stato di 64 miliardi di euro, il più alto di tutti i
tempi della nostra bilancia con l'estero. In modo particolare, siamo molto forti nella meccanica e mezzi di trasporto, dove l'attivo è stato di 37 miliardi, e negli altri prodotti manufatti, che comprendono i beni per la persona e per la casa - nostri tradizionali punti di forza - anch'essi con il medesimo surplus. Storicamente, abbiamo sempre avuto invece un deficit nella chimica, ammontante a 10 miliardi di euro.
Anche per quanto riguarda la questione della caduta delle quote di mercato dell'Italia, vorrei ricordare che è vero che il nostro Paese nell'export di manufatti nel mondo ha avuto un'erosione della sua quota di mercato tra il 1990 e il 2000, ma ciò è avvenuto mentre la Cina passava praticamente da poco più dell'1 per cento a oltre il 10 per cento, sottraendo quote di mercato non solo all'Italia, ma a tutti i Paesi avanzati.
All'interno dei Paesi del G6, in realtà, l'Italia non ha mai avuto una quota di mercato nell'export tanto alta come appena prima della crisi; siamo infatti arrivati, dal Novecento a oggi - secondo una serie storica dell'ONU che lo mostra chiaramente - ad avere nel 2008 il più alto peso, pari all'11,4 per cento. Solo noi e la Germania abbiamo avuto questa performance, mentre gli altri Paesi del G6 tendevano ad arretrare negli ultimi anni.
Un altro elemento di notevole importanza emerge da un indice di performance competitiva nel commercio internazionale, elaborato dall'UNCTAD e dal WTO recentemente, pur se basato su dati del 2006, vedeva, non a caso, l'Italia e la Germania come i due Paesi più «performanti» a livello mondiale. Su quattordici settori, la Germania era prima per competitività in sette settori e seconda in altri due, mentre l'Italia era seconda in altri quattro e aveva anche un sesto posto nell'industria alimentare. Punti di forza in Italia, oltre al tessile, per quanto attaccato dalla concorrenza asiatica, all'abbigliamento e alle calzature, sono la meccanica non elettronica, gli elettrodomestici, i mobili e i settori di base come piastrelle, marmi e pietre ornamentali.
Nonostante la crisi molto forte, un altro elemento da mettere in evidenza è che il surplus commerciale italiano nel periodo luglio 2008 - giugno 2009, rispetto all'intero 2008, è sceso da 64 a 56 miliardi di euro, ma rimane consistente. La Germania ha avuto un calo da 278 a 223 miliardi di euro, quindi molto più grande, mentre la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna rimangono nettamente deficitarie per quanto riguarda l'export manifatturiero.
Grazie agli ammortizzatori sociali, ha tenuto abbastanza fino a ora anche il nostro mercato del lavoro, se si pensa che il dato sulla crescita del numero dei disoccupati tra giugno 2008 e giugno 2009 è aumentato di 144 mila unità, praticamente
poco più dell'Irlanda, che però è un Paese con una popolazione grande come la Puglia.
Il tasso di disoccupazione a giugno 2009 - questi sono gli ultimi dati comparabili per il nostro Paese - vede l'Italia con il tasso di disoccupazione più basso tra i grandi Paesi europei e gli Stati Uniti. È vero che si è verificato un effetto di scoraggiamento, per cui esso non coglie esattamente la situazione del mercato del lavoro, ma anche se guardiamo ciò che è accaduto in termini di unità di lavoro e in base ai dati di contabilità nazionale, è comunque chiaro che la disoccupazione è cresciuta maggiormente nei Paesi che avevano il problema dell'indebitamento privato delle famiglie e che hanno avuto la crisi in casa - a differenza di noi, che l'abbiamo importata da fuori - e che hanno, quindi, avuto un peggioramento drammatico come Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna.
Negli Stati Uniti la situazione è nota: il tasso di disoccupazione ha superato il 10 per cento e quello reale, considerando la massa dei lavoratori precari - non li abbiamo solo noi, ma anche loro - è forte, vicino al 17 per cento. La situazione in Spagna, come è noto, è drammatica soprattutto nel settore edilizio, che praticamente è entrato in «coma profondo», con un tasso di disoccupazione vicino al 20 per cento. Si pensa che soltanto tra quattro o cinque anni si ricomincerà a vedere nel Paese la costruzione di nuove abitazioni.
Un ulteriore elemento positivo, prima di venire a quelli critici, è che anche i composite leading indicator dell'OCSE dimostrano che da marzo, incessantemente, tutti i mesi, l'Italia - insieme alla Francia, e adesso un po' anche alla Germania - potrebbe essere uno dei primi Paesi ad agganciare la ripresa internazionale. Sta di fatto che gli unici Paesi, tra quelli più avanzati, per i quali il giudizio è stato modificato da semplice ripresa addirittura a espansione sono proprio la Francia e l'Italia. I dati sul PIL del terzo trimestre - probabilmente li avete visti - sono molto positivi. A livello congiunturale, Germania e Italia sono i Paesi che hanno avuto il maggior incremento tra il secondo e il terzo trimestre 2009. La Francia, che sembrava procedere speditamente già dal secondo trimestre, ha un po' deluso, crescendo solo dello 0,3 per cento, mentre Spagna e Gran Bretagna che, fino a poco tempo fa, erano date, nelle previsioni sul
2009, come Paesi più solidi del nostro e anche di altri, in realtà stanno continuando a perdere terreno: la Spagna ha avuto un calo dello 0,3 per cento, la Gran Bretagna dello 0, 4 per cento anche nel terzo trimestre.
Non vanno, però, sottovalutati i rischi per l'Italia di una ripresa mondiale troppo fiacca e lenta, il che rappresenta il vero problema di fondo. Tali rischi sono innanzitutto rappresentati dalle pressioni internazionali sul debito pubblico: mentre una volta eravamo soltanto noi, il Belgio, la Grecia e il Giappone a girare per il mondo con il cappello a chiedere che ci rifinanziassero il debito pubblico, adesso quasi tutti i Paesi del mondo sono pressoché nelle nostre stesse condizioni.
Basti pensare che, secondo il Fondo monetario internazionale, gli Stati Uniti avranno, intorno al 2013-2014, un rapporto tra debito pubblico e PIL che potrebbe essere del 100 per cento, praticamente grande come quello dell'Italia quando veniva additata quale pecora nera da tutti i Paesi del mondo e dalle stesse istituzioni internazionali per il suo alto indebitamento.
Tutti i Paesi che hanno debito pubblico gireranno, dunque, per il mondo a battere cassa, chiedendo ai pochi risparmiatori rimasti che abbiano ancora soldi di investire nei loro titoli di debito pubblico. Questa situazione vale per gli Stati Uniti, ma anche per la Gran Bretagna, che fa una fatica enorme a collocare il proprio debito pubblico incrementale. Peraltro, essa è purtroppo una vera e propria scheggia impazzita, oggi non è possibile considerarla diversamente nel contesto europeo: la Banca d'Inghilterra ha stampato 200 miliardi di sterline di carta moneta, con i quali ha acquistato, di fatto, titoli e obbligazioni di banche, società, e istituzioni varie per inondare di liquidità il
Paese. A fronte di queste sterline stampate, di questa liquidità immessa nel sistema, non c'è però una contropartita in termini di ricchezza reale.
Un altro aspetto critico per noi è dato anche, se la crisi durerà troppo e non ne verremo fuori rapidamente, da un divario competitivo nell'ottenimento del credito da parte delle nostre piccole e medie imprese, nonché dal rischio di mortalità eccessiva di un gran numero di esse, soprattutto dell'indotto manifatturiero.
Oggi non sono tanto in crisi le 4 mila medie imprese strutturate di Mediobanca o le 600 medio-grandi che sempre Mediobanca colloca tra i 290 milioni e i 3 miliardi di fatturato. Queste imprese sono sotto del 30-40 per cento con i loro fatturati, in questo momento, ma sono normalmente ben patrimonializzate. Si tratta di imprese familiari estremamente benestanti che stanno reggendo bene l'urto della crisi e che, in alcuni casi, non hanno nemmeno fatto ricorso alla cassa integrazione.
Vivo in un distretto dove, per esempio, le imprese più grandi, anche solo per non gettare nello sconforto la popolazione locale, non vi hanno fatto ricorso, pur avendo fatturati sotto del 30-40 per cento. Sono, però, imprese solide e tirano avanti.
Il problema è che tutti i lavoratori dell'indotto che, nei momenti di grande domanda, svolgevano anche il compito di assicurare una flessibilità nella risposta dell'offerta - la grande impresa non aumentava la capacità produttiva, ma dava lavoro all'esterno - oggi sono ferme.
Sempre per rimanere nell'ambito del distretto dove vivo, vedo proprio che le famiglie di pulitori di metalli, assemblatori di rubinetti e via elencando, prima lavoravano nel sottoscala notte e giorno, mentre adesso non lavorano più e sono completamente ferme.
Naturalmente, questo tipo di impresa a rischio non comporta una crisi sociale drammatica, perché anche queste stesse piccole e medie imprese familiari sono piuttosto benestanti. Si tratta di lavoratori indefessi, che lavorano ventiquattro ore al giorno, ma magari hanno la Mercedes in garage. Il problema è che se cambiano mestiere, se si stancano ed escono dal circolo dell'indotto del nostro manifatturiero, si perdono molte competenze. È questo il nostro vero rischio: un'erosione di competenze dell'indotto manifatturiero, soprattutto nei distretti industriali.
Un altro elemento di preoccupazione a tutti noto è l'aumento della disoccupazione, soprattutto tra i lavoratori precari e, naturalmente, il rischio che ciò possa comportare tensioni sociali.
Venendo agli aspetti più critici, ricordo che il nostro export ha subito, nel periodo che va da ottobre 2008 a settembre 2009, una caduta di ben 67 miliardi di euro. Questo è stato il vero elemento che ha fatto diminuire il nostro prodotto interno lordo.
Se prendiamo la dinamica trimestrale del prodotto interno lordo italiano, possiamo vedere chiaramente che esso è diminuito, dal primo trimestre del 2008 al secondo di quest'anno - sappiamo che nel terzo trimestre si è verificato un piccolo recupero dello 0,6 per cento - del 6,5 per cento. Di questo, i consumi hanno rappresentato, come contributo al calo, poco meno del 20 per cento, perché non sono diminuiti, anche se molta letteratura cerca di evidenziare il disastro del consumo in Italia. In realtà, sono diminuiti la metà che in Inghilterra e quasi quattro volte meno che in Spagna. Mi riferisco ai consumi delle famiglie.
Negli Stati Uniti, questi sono in calo da due anni e caleranno anche l'anno prossimo, mentre, secondo le previsioni della Commissione europea recentemente elaborate, i consumi delle famiglie italiane torneranno già ai livelli del 2007 nel 2011, il che non succederà in Inghilterra, in Spagna e nemmeno, come dicevo, negli Stati Uniti.
Il problema nostro è il calo dell'export, insieme al calo degli investimenti delle imprese esportatrici, che è stato molto forte. Un'impresa che non esporta smette di fare investimenti: le nostre imprese esportano mediamente il 55 per cento della produzione, ma in molti distretti industriali si arriva a esportare il 60, il 70
o anche l'80 per cento. Vi lascio, quindi, immaginare chi oggi abbia voglia di investire.
Si è verificata una lieve ripresa degli investimenti con la Tremonti-ter. Ho conoscenza di alcune imprese, in molti distretti, soprattutto le 4 mila più strutturate, che hanno deciso di cogliere l'occasione di pagare il 25-30 per cento in meno, anche grazie agli sconti praticati dalle imprese fornitrici, e hanno fatto consistenti investimenti in nuovi macchinari. Stiamo, però, parlando di un piccolo sostegno, che certamente non basta a calmierare il disastro provocato dal crollo della domanda mondiale.
Vorrei ricordare che noi stessi abbiamo vissuto una sorta di bolla, certamente non colpevole come lo è stata quella degli americani, degli inglesi, degli irlandesi e degli spagnoli, perché basata sulla competitività e non sui giochetti della finanza e sulla distribuzione di mutui subprime, derivati, e via elencando. Abbiamo avuto la bolla dell'export.
Altro che declino: contrariamente a quanto si crede - faccio l'esempio della meccanica-mezzi di trasporto - abbiamo avuto, nel 2005-2007, una crescita in euro pari al 22 per cento delle nostre esportazioni, superiore persino a quella della Germania, che ha registrato un aumento del 20 per cento, mentre Francia e Gran Bretagna diminuivano, rispettivamente del 2,6 per cento e del 10 per cento. Il Giappone ha registrato solo un tasso di esportazione pari al 7,6 per cento, gli Stati Uniti al 12,4 per cento.
In termini addirittura assoluti, abbiamo esportato, come crescita della meccanica- mezzi di trasporto, pur non avendo l'elettronica, più del Giappone nel periodo 2005-2007. Siamo stati bravi, però i nostri clienti erano «dopati». Questo è l'aspetto da evidenziare. Abbiamo venduto tantissimo perché c'era gente che comprava, indifferente del fatto che si stesse indebitando oltre ogni limite.
Anche i Paesi emergenti non crescevano in modo virtuoso, perché la Russia ha cominciato a consumare e a investire in una maniera formidabile. Era uno splendido mercato emergente, ma sappiamo in che condizioni si trova adesso: per 2-3 anni, nonostante il prezzo del petrolio si sia abbastanza ripreso, faticherà, a sua volta, a rimettere in sesto le proprie finanze private.
I programmi di investimento sono stati quasi cancellati. Cito un esempio per tutti. Le macchine per le costruzioni italiane, un settore dove siamo fortissimi, hanno raddoppiato, tra il 2005-2007, il loro export, con tassi di crescita persino più alti di quelli cinesi. Si tratta di macchine per costruzione, dalle trivellatrici alle betoniere, alle gru e via elencando. Questo settore ha visto raddoppiare le sue esportazioni da circa 1,2-1,3 miliardi nel 2005 a 2,5-2,6 miliardi, con crescite formidabili nei Paesi emergenti, in quelli arabi, nel Sudamerica e soprattutto in Russia.
La Russia però - cito un caso concreto - per le Olimpiadi invernali di Soci nel 2014 aveva pianificato investimenti colossali. Arrivata la crisi, li ha tagliati del 70-80 per cento. Tutti i nostri macchinari che avrebbero dovuto andare a costruire strade, ferrovie, alberghi, impianti di risalita e sportivi in questa zona si sono fermati completamente.
Che cosa dire di fronte a queste evidenze? I nostri imprenditori sono stati molto bravi, ma purtroppo stavano vendendo in un mercato mondiale irrealistico, che non poteva durare in eterno con quei tassi di crescita. Abbiamo, quindi, avuto una grandissima crescita, ma adesso stiamo pagando le conseguenze anche del fatto che stiamo cadendo da livelli molto alti, che non recupereremo tanto facilmente. Potrei chiudere ricordando un elemento positivo, al di là degli aspetti di preoccupazione che ho ricordato nella seconda parte del mio intervento.
La crisi non annichilirà le nostre competenze manifatturiere: nonostante la letteratura prevalente degli ultimi anni le vedesse in grande declino, ho con me gli ultimissimi dati elaborati sulla base delle statistiche del WTO per il 2008, secondo cui l'export dell'Italia di meccanica non elettronica e mezzi di trasporto diversi
dagli autoveicoli - 178 miliardi di dollari nel 2008 - è più alto, per un confronto, rispetto a quello di prodotti per le telecomunicazioni della Cina, il primo esportatore mondiale in questo comparto hi-tech. Come vedete la nostra meccanica tradizionale, che alcuni ritengono obsoleta, esporta più del maggiore settore hi-tech che esista oggi al mondo, insieme all'elettronica dei computer, ossia quello dei prodotti per le telecomunicazioni (telefonia cellulare, radio, tv, schermi al plasma).
Anche i nostri beni per la persona e per la casa diversi dal tessile e abbigliamento - 51 miliardi di dollari di esportazione nel 2008 - valgono di più dell'export degli Stati Uniti, sempre nei prodotti per le telecomunicazioni.
Infine, il tessile e abbigliamento, nonostante tutti i problemi e i disastri che ben conosciamo in molti distretti, la concorrenza asiatica, le crisi di Prato, della Val Seriana, di Busto Arsizio, di Como, di Biella, ha esportato 41 miliardi di dollari nel 2008, mentre il Giappone, sempre nei prodotti per le telecomunicazioni, ne ha esportati solo 34.
Questi sono punti di forza che abbiamo e che speriamo possano tenere duro in questa crisi e che, quando ripartirà la domanda mondiale - il problema è quando ripartirà - a mio avviso continueranno a rimanere nel nostro sistema.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Fortis per la relazione che ci ha offerto.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
ENZO RAISI. Innanzitutto, la ringrazio per l'esposizione molto chiara e precisa. Non è facile affrontare questi argomenti con la chiarezza con cui lei li ha svolti.
Lancio una provocazione, con la mia domanda, che però a mio giudizio ha un senso. Il paradosso del nostro Paese è che abbiamo un alto livello nel risparmio delle famiglie e un alto debito pubblico, in momenti in cui, effettivamente, la crisi sociale può generare anche conflitti, come lei ha giustamente sottolineato nell'ultima parte della sua relazione.
Vorrei un suo parere su quale possa essere il ruolo delle famiglie e su come la pubblica amministrazione possa sostenerle. Lei ha giustamente citato la Spagna come esempio di alta percentuale di disoccupazione; peraltro, l'ha sempre avuta, ma essa si è accentuata nella fase in cui si è verificata l'esplosione del problema, che ha colpito soprattutto un settore come quello dell'edilizia e delle costruzioni. Va detto che tale settore effettivamente è andato in crisi anche perché non era più sostenibile: il Paese produceva 0,5 milioni di case all'anno, quando in Germania se ne producono meno di 200 mila; era evidentemente un sistema che non funzionava più e destinato a esplodere, al di là del fatto che la Spagna possa essere considerata la Miami per gli europei del nord. In Spagna, comunque, la famiglia ha spesso avuto una funzione molto forte nella questione della disoccupazione. In questo senso, gradirei un suo parere.
L'altro tema riguarda il credito. Il vero problema che continuiamo ad avere - incontrando gli imprenditori locali, questo è evidente - è che nel nostro Paese l'accesso al credito per le aziende continua a essere difficile, se non impossibile. Anche laddove c'è una tradizione di impresa o un progetto imprenditoriale sostenibile e che sta nel mercato, il credito bancario non risponde. Ritengo che un suo contributo sia utile anche su quest'ultimo aspetto.
SAVINO PEZZOTTA. Anch'io ringrazio il professor Fortis. Mi sembrava, all'inizio del suo intervento, che ci desse una visione ottimistica ma, arrivato alla fine, incomincio ad avere nuovamente i brividi, nel senso che non è riuscito a rassicurarmi.
In pratica, è certamente un fatto che la famiglia e alcuni segmenti della piccola impresa abbiano retto, e abbiano retto bene, però il dato vero è che, essendo noi un Paese debole dal punto di vista delle risorse e sostanzialmente esportatore, ci sta cambiando il mondo e non so se siamo preparati al prossimo futuro, in termini di capacità competitiva.
La mia vera preoccupazione è che, se ci assestiamo su una riduzione di fatturato, nei termini che lei citava - sostanzialmente confermati da alcuni imprenditori che conosco -, cioè del 30-40 per cento, chi, come me, guarda la questione economica dalla parte delle radici, ossia dell'occupazione e delle persone, si domanda quanti disoccupati vi saranno, anche se ci sarà la ripresa e un «movimentino» del PIL o un sobbalzo della borsa di Milano.
Lei ha svolto un'osservazione interessante, che nelle statistiche non viene mai riportata: c'è un tasso di disoccupazione al 7,4 per cento, corrispondente a 1,8 milioni di persone circa, ma, se dovessimo aggiungere gli scoraggiati, i senza lavoro, il tasso di attività diminuito, arriviamo al 15-16 per cento, che non è a mio giudizio un tasso basso.
Certo, se effettuiamo comparazioni con altre economie, ci rallegriamo, ma lo facciamo per aspetti che sono negativi.
Vorrei capire bene, da questo punto di vista, fino a quando si è in grado di reggere la situazione. Le famiglie hanno retto, per carità, ma non lo faranno in eterno, perché molte di esse, nonché molte piccole imprese, hanno incominciato a intaccare i propri risparmi. Oggettivamente, chi sta in mezzo alla gente può verificare facilmente queste difficoltà. I tempi di resistenza si accorciano.
Gli ammortizzatori sociali, una grande invenzione del sindacato - per una volta ne parlo bene - hanno consentito di reggere bene alla crisi, ma fino a quando ciò sarà possibile?
Poiché lei sta riferendo che non siamo alla vigilia della ripresa - la vediamo in fondo e forse ci può essere un movimento, ma che non ci riporta alla situazione del 2007 - dobbiamo attenderci un inverno e una primavera abbastanza gelidi dal punto di vista sociale e occupazionale. Non è un caso, secondo me, che la sensazione di timore e paura stia aumentando: tutti i giorni viene occupato un tetto o una gru, un fenomeno piuttosto nuovo nella mobilitazione sociale. Vorrei quindi capire meglio tale questione.
La seconda domanda che le pongo, anche in questo caso in termini di prospettiva, è la seguente: la situazione lombarda, che è stata ed è il punto di forza dell'economia nazionale, sta accusando cedimenti fortissimi. Le grandi imprese multinazionali - penso alla Dalmine, per citarne una - stanno giocando un ruolo tutt'altro che propositivo. Quanto reggerà l'indotto, se la grande impresa incomincia non solo a ritirare in casa un po' di lavoro, ma anche a pensare ad alcune forme di delocalizzazione, di spostamento delle produzioni? Che cosa ci propone la lettura della realtà lombarda rispetto all'economia nazionale? Siamo in una situazione che può esplodere, almeno dal punto di vista sociale, in termini abbastanza preoccupanti.
Non so quanti di voi leggano i giornali che leggo io, ma questa mattina l'Osservatore Romano pubblica, in prima pagina, un articolo di economia che compie un'analisi sulla finanza americana e segnala che starebbe arrivando un'altra ondata. In tal caso, che cosa ci può capitare?
LUDOVICO VICO. Professor Fortis, vorrei porle due domande rapidissime.
Lei ci ha offerto uno studio fondato sulla comparazione dei dati fra diversi paesi. Si tratta di un punto di vista soggettivo-universale. Si potrebbe dire che da una lettura costruita solo su questo elemento, di fronte a un peggioramento complessivo, anche se di entità minore nel nostro Paese, emergono dati che apprezzo, almeno nella forma in cui ci sono stati presentati.
Detto ciò, mi chiedo perché l'unico problema posto dal sistema delle imprese, oltre alle questioni che lei ci ha presentato, riguarda la questione dell'approvvigionamento energetico e del costo dell'energia? La questione del costo dell'energia, nel quadro che ci ha offerto, è uno dei fattori comparabili e di pari dignità rispetto alla bolla finanziaria? È un elemento di pari dignità rispetto agli effetti sociali della bolla finanziaria?. Mi ricollego all'ultima questione che ci poneva l'onorevole Pezzotta.
Quando lei ci parla per macroprodotti, quando parliamo della meccanica non elettronica o dei mezzi, la sua analisi riguarda solo l'imprenditore indefesso o può essere estesa a tutto un sistema? È possibile che la tenuta di questi settori sia solo - e a me pare che in parte lo sia - dovuta a fattori storici, culturali, regionali? La tenuta del sistema richiama altri elementi, che sono quelli della filiera corta, lunga e dell'indotto. Gli indotti sono infiniti, in grado di trasformarsi e convertirsi. Se è vero che la crisi - al netto della prossima eventuale bolla, che vorremmo evitare - muterà la situazione, il sistema, compresa la questione dell'energia, secondo lei è in grado di affrontare sia l'uscita dalla crisi economica, sia la nuova bolla?
GABRIELE CIMADORO. Dovrei definirla una relazione filogovernativa, se non fossi a conoscenza della competenza e delle capacità del professor Fortis. Oggi uscirò di qui con il conforto di dati che danno un po' di ossigeno alla nostra economia e, soprattutto, al nostro Paese. Mi sento piuttosto tranquillizzato in questo senso. Non ho letto l'Osservatore Romano, ma saremmo di fronte alla seconda crisi americana, ragion per cui dovremmo ritrovarci il secondo contraccolpo.
Non abbiamo citato il fatto che la crisi comatosa che la Spagna sta vivendo adesso è dovuta soprattutto alla crisi di un mondo che ha contribuito, in questi ultimi anni, a far risalire quel Paese nelle classifiche e nelle graduatorie europee, ossia il mercato edilizio e immobiliare, che tutti conosciamo.
Credo che stiamo subendo anche noi la crisi profonda che ha investito la Spagna sul mercato edilizio. Il Governo sta parlando di un piano casa ormai da un anno e mezzo, ma non vediamo all'orizzonte alcun provvedimento che possa garantire una ripresa del settore. Sono, però, convinto anche che se quel mercato, cui noi, qui dentro e in altre sedi, non diamo molta importanza sarà adeguatamente finanziato, farà da volano all'insieme di economie e di settori che caratterizzano l'attività produttiva del nostro Paese.
È vero - e sono d'accordo col collega Raisi - che le banche (in questa sede l'abbiamo detto mille volte) non rispondono agli appelli del ministro, del Presidente del Consiglio, di tutte le parti coinvolte nella crisi. Non vedo davvero tradotto nella realtà quello che loro promettono, cioè l'accesso al credito alle piccole e medie imprese, che non sono tutelate da nessuno.
ANDREA LULLI. Professor Fortis, sono sostanzialmente d'accordo sui punti di forza che lei ci rammenta, per la verità, espressi non solo in questa sede. Non ho difficoltà a dire che non sempre la politica su questo aspetto è stata conseguente alla lettura reale della società e dell'economia italiana.
Non so se la sua relazione sia stata filogovernativa, ma vi ho colto elementi di preoccupazione seria.
Se è vero che quelli citati sono i settori portanti, che ci fanno mangiare - per andare al sodo - mi domando se esista una politica industriale ed economica adeguata a fronteggiare la situazione di difficoltà in cui ci troviamo.
Quando lei ci riferisce giustamente - sono totalmente d'accordo - che stiamo risentendo del fatto che la domanda mondiale è crollata e che non si capisce neanche bene come si ristrutturerà, quando ripartirà, bisogna capire che dovremo probabilmente affrontare con serietà misure di sistema che consentano ai settori punti forza della nostra economia di ristrutturarsi perché possano agganciare la ripresa. Non è detto, infatti, che, quando la nostra economia ripartirà, saranno richiesti i medesimi prodotti come li conosciamo oggi. Questo è un punto molto delicato, che rimanda, per esempio, alla possibilità di far lievitare nel nostro Paese, difendendo il saper fare di base - elemento fondamentale, perché, se lo si perde, rischiamo davvero grosso - le innovazioni, coniugando il nostro saper fare di base con la tecnologia meccanica, di cui
siamo certamente leader mondiali, almeno sul piano di quella leggera, e in cui, per fortuna, abbiamo ancora ampi margini di tenuta e di sviluppo. Certamente esistono prodotti su cui siamo leader mondiali che dovranno incrociare nuove tecnologie, se vogliono mantenere la supremazia mondiale. Su questo vedo non dico un'assenza del mondo delle imprese, ma molte difficoltà.
La crisi si protrarrà - lei giustamente ci informa, nella visione più ottimistica, che nel 2011 recupereremo il livello del 2007; mi auguro che si recuperi già nel 2010, tanto per essere chiari su quale sia il mio approccio - e bisogna capire se la nostra struttura, da qui al 2010 o al 2011, riuscirà a tenere. Di questo sono molto preoccupato. Ovviamente siamo critici nei confronti del Governo, non solo perché siamo in minoranza allo stato attuale, ma anche perché riteniamo ci siano aspetti che non vanno, anche se non è questa la sede per parlarne. Effettivamente, la classe dirigente di questo Paese non discute su tali questioni, e non solo la classe dirigente politica. Confindustria oscilla sul fatto che bisogna sospendere Basilea 2, per esempio.
In merito al tasso di disoccupazione, come rilevava già il collega Pezzotta, osservo che abbiamo un tasso d'attività sicuramente inferiore a quello di altri Paesi. Non parlo soltanto di quelli anglosassoni, ma anche della Spagna, che in pieno boom economico aveva tassi di disoccupazione del 20 per cento, perché evidentemente aveva una richiesta di partecipazione al lavoro sicuramente superiore rispetto a quella che rileviamo statisticamente in Italia.
Poi si pone il problema dell'economia in nero, fenomeno che andrebbe maggiormente indagato, ma su cui ora non posso dilungarmi.
Con questi dati, nella fotografia che ci è stata proposta in questa sede, rischiamo una rottura del Paese. C'è anche la questione del Meridione, dal momento che i punti di forza che lei richiama sono tutti caratteristici del Centro-Nord. Non sono affatto per la secessione e, peraltro, alcuni punti di forza dell'economia del Centro-Nord dipendono anche da un rapporto con il Meridione. Non è questo, però, il punto che intendevo affrontare.
L'altra questione che vorrei sollevare rispetto alle sue considerazioni riguarda il mondo del credito. Apro una parentesi. Sulla questione dell'indebitamento complessivo del Paese, pubblico o privato, leggiamo bene la situazione fino in fondo, perché la propensione al risparmio delle famiglie, dal 20 per cento cui eravamo abituati alcuni anni fa, è già ridotta al 9 per cento, e si prevede che il debito pubblico salirà al 120 per cento. È una lettura importante, che deve dare la visione di un Paese che non è allo sbando o al declino come molti dicono; mi permetto, però, di osservare che occorre prestare attenzione a non fare giaculatorie su tali questioni.
Sul credito, voglio fare una provocazione. Per rilanciare il rapporto credito e piccola impresa - il problema riguarda soprattutto quest'ultima - è necessaria una patrimonializzazione delle imprese. Del resto, non si può pensare di sostenere un modello bancario solido come quello attuale e credere che esso possa automaticamente dare più credito alla piccola impresa. Dare più credito alla piccola impresa o all'idea dell'impresa significa, infatti, disporre di strumenti in cui i rischi che si assumono sono maggiori rispetto a quelli che attualmente il sistema bancario intende assumersi.
Naturalmente, propendo per questa strada, anche se dirlo oggi può essere antipopolare, però bisogna essere chiari, perché - attenzione - non si può pensare di risolvere il problema all'interno di un rapporto con il mondo del credito di tipo classico. Ho l'impressione che, nonostante tutto quello che si possa fare - e forse si poteva fare qualcosa di più, per esempio incoraggiando in modo migliore il mercato interbancario, magari con garanzie dello Stato in seconda istanza, come più volte abbiamo proposto - ci sia bisogno anche di strumenti concreti che diano una risposta. Altrimenti, non si riesce a capire
l'appello a essere buoni. Alla fine, le banche osservano che le imprese non sono patrimonializzate.
Questo è un punto su cui bisognerebbe svolgere veramente un confronto di verità fino in fondo e uscire un po' da posizioni schematiche - non mi rivolgo ovviamente al professor Fortis, ma al dibattito politico -, perché sinceramente si rischia di non affrontare il problema e di non tracciare strade di risoluzione. Fintanto che si è trattato di difendere il risparmio siamo stati tutti d'accordo. Su questo non c'è dubbio. Abbiamo anche dato atto che su questo punto si è agito opportunamente.
Tuttavia, si tratta di svolgere un ragionamento un po' più ampio e credo che ci sia bisogno di maggiore coraggio, nonché di un confronto politico più aperto e meno statico nelle nostre affermazioni.
PRESIDENTE. Abbiamo, purtroppo, superato le 15 e l'ambasciatore Armellini dell'OCSE ci sta attendendo. Gli ho comunicato che ci prendiamo un quarto d'ora accademico per consentire al professor Fortis di rispondere alle questioni poste. Su alcune domande potrà eventualmente fornirci risposte scritte ad integrazione del suo intervento.
MARCO FORTIS, Docente di economia industriale presso l'Università cattolica di Milano. Le domande sono molte e occorrerebbe molto tempo per rispondere, perché sono state sollevate praticamente tutte le principali questioni che si potevano affrontare sulle caratteristiche della nostra economia, non solo relative all'aspetto congiunturale che stiamo vivendo in questo momento, ma anche strutturali e storiche.
La mia premessa era stata la seguente: abbiamo problemi strutturali storici, tra cui certamente il divario tra Nord e Sud e il tema del sommerso. Non sappiamo esattamente a quanto ammonti il nostro prodotto interno lordo. Ragioniamo sul rapporto tra debito e PIL, ma non lo conosciamo realmente.
Questo ci mortifica, perché, non avendo un'idea chiara, né statistiche ufficiali che colgano il problema del sommerso, non siamo nemmeno in grado di andare a Bruxelles e affermare che possiamo fare anche un po' più di debito pubblico, perché stiamo meglio di quanto sembri nella realtà in base alle statistiche. È un grosso problema.
Il problema del divario tra Nord e Sud è enorme perché, tra il 2001 e il 2008, i consumi delle famiglie nel Centro-Nord sono aumentati del doppio rispetto al sud Italia. Naturalmente si può anche non credere in tali statistiche, perché, in effetti, ciò probabilmente non è successo.
Sappiamo che esiste un'economia sommersa molto più forte al Sud e probabilmente né la produzione industriale, né quella agricola, né i consumi delle famiglie sono stati rilevati correttamente, perché non riescono a catturare il sommerso, che sappiamo essere molto forte. Questi sono problemi strutturali che esistono da tempo e che andranno prima o poi affrontati in maniera seria.
Lo stesso discorso vale per il problema dell'evasione fiscale, che in Italia è enorme e sottrae una quantità di risorse fondamentali che potrebbero essere destinate allo sviluppo. Questi sono, dunque, secondo me, i due grandi problemi: il divario tra nord e sud, nonché il sommerso e l'evasione fiscale; su di essi abbiamo ancora margini di manovra, mentre su altri ne abbiamo molto pochi.
C'è poi il problema dell'energia, che è stato sollevato ed è molto importante. L'avevo messo tra i punti di partenza del ragionamento. Abbiamo alcuni punti di debolezza, ragion per cui è inutile aprire un discorso sull'energia. Mi limito a ribadire che, tra i Paesi del G20, siamo quello con il più basso tasso di autoapprovvigionamento di energia. Su questo tema ciascuno può avere il suo punto di vista: c'è chi dice che abbiamo sbagliato la politica energetica negli anni passati, che abbiamo compiuto una scelta diversa dalla Francia, uscendo dal nucleare e che, prima che essa costruisse la sua prima centrale nucleare, eravamo il terzo Paese al mondo dopo Stati Uniti e Gran Bretagna e avevamo, per di più, anche tutta la tecnologia.
Abbiamo fatto determinate scelte. Come ritornare a essere meno dipendenti dall'estero per l'energia è un problema grosso come una casa e non so chi riuscirà a risolverlo, forse neanche i nostri figli o i nostri nipoti, a meno che non si inventino nuove forme di energia.
Veniamo, invece, ai problemi della crisi. In merito alla domanda se il Paese rischia di rompersi, compio un salto indietro.
Non abbiamo redatto una relazione filogovernativa; avevo passato, più o meno, le stesse informazioni al ministro Bonino, a suo tempo, quando il Presidente Prodi dovette spiegare, nel 2006, che l'economia italiana nel commercio estero e nella manifattura stava andando bene. Si tratta solo di essere coerenti e io sono convinto che il Paese dell'economia reale Italia abbia risorse fondamentali, che non saranno annichilite nemmeno da questa crisi, per quanto essa possa essere forte. Ci sono elementi che non si conoscono nemmeno.
Guardiamo agli altri Paesi, alla Spagna, all'Irlanda; l'OCSE addirittura ci aveva chiesto, a un certo punto, di imitare l'Islanda, vorrei ricordarlo, e per fortuna non l'abbiamo fatto.
Qualcuno suggerisce di guardare all'interno dei singoli settori; vi informo che, tra circa un paio di mesi, completeremo una ricerca condotta dall'Università cattolica e dalla Fondazione Edison, in cui dimostreremo che l'Italia ha circa duecento nicchie - chiamiamole così - in cui è il primo esportatore del mondo. In molte di esse la Cina non è neanche nei primi cinque paesi. Non vi è dunque un rischio urgente e impellente di aggressione asiatica. Tutte queste esportazioni messe insieme ammontano a quasi 100 miliardi di euro. Dobbiamo, quindi, sapere che, per quanto la crisi possa essere forte, ci sono alcune caratteristiche di base del nostro sistema economico, come, per esempio, il fatto che Venezia da sola abbia più pernottamenti di turisti stranieri dell'intera Irlanda, o che l'Alto Adige ne abbia di più di tutto il Belgio, o ancora che Roma ne abbia più dell'Olanda, che rappresentano punti di forza che non ci
può togliere nessuno.
Nell'agricoltura non tutti sanno che siamo il primo Paese esportatore netto di frutta fresca del G20. Si tratta di uno dei pochi prodotti che non è stato sostenuto artificialmente dalla politica agricola europea; quando questa non ci sarà più, almeno avremo la frutta fresca, mentre la Francia avrà un ridimensionamento della sua agricoltura continentale su latte e cereali che, invece, è stata sostenuta dalla PAC.
I punti di forza sono enormi e, quando penso che il Paese rischia di rompersi, ammetto che i rischi sono tanti, ma ritengo anche che forse non si è ancora ben capito che è il mondo a essersi rotto. Quello che sta avvenendo attorno a noi in questi giorni, in questi ultimi mesi, è assolutamente drammatico. Gli Stati Uniti, nonché mezzo mondo occidentale, potrebbero portare i libri in tribunale in qualunque momento, se ce ne fosse uno in grado di valutare la loro situazione economica. L'Italia, ma anche la Francia, la Germania, l'Austria e il Belgio sono Paesi che, per il momento, non lo fanno, perché hanno fatto economia reale, non finanziaria.
Sono d'accordo anche io che i problemi sono tanti e che gli indicatori non ne colgono la drammaticità. Abbiamo parlato prima dei lavoratori scoraggiati e del fatto che il nostro tasso di disoccupazione potrebbe salire forse non al 15, ma certamente al 12 per cento, se consideriamo tutte le componenti che ricordava l'onorevole Pezzotta; quello americano, però, a parità di condizioni - i dati che vi ho fornito sono comparabili - arriverebbe al 20 per cento e quello spagnolo al 30 per cento. In questo momento, l'Italia, pur con tutti i suoi acciacchi storici e le sue pecche, non è un Paese che pensa che al suo interno stia succedendo una catastrofe e che all'estero siano tutti bravi.
Il PIL americano è cresciuto - l'abbiamo visto ieri - non dello 0,9 per cento, ma solo dello 0,7 per cento nel terzo trimestre. Metà di tale crescita è dovuta
alla spesa militare e alla rottamazione delle auto. Gli americani sono fermi, nonostante ci mostrino di essere in ripresa. Gli inglesi sono calati dello 0,3 per cento e gli spagnoli dello 0,4 per cento.
I Paesi che hanno i debiti in casa - quelli delle famiglie, non il debito pubblico - e che adesso stanno facendo debito pubblico per ripianare i debiti delle banche, delle imprese e delle famiglie, rischiano veramente di portare i libri in tribunale.
So anche io che abbiamo tanti problemi, che la ripresa mondiale non arriva e che l'export fatica a coglierla e ad agganciarla, però lo Stato non può sostituirsi al mercato e creare i 67 miliardi di euro di esportazioni in meno che si sono materializzati sul mercato mondiale, anche perché non sono nel tessile e abbigliamento o nell'oreficeria, settori che già avevano sofferto prima, ma di cui non importava niente a nessuno.
Oggi ci si preoccupa delle piccole e medie imprese, ma io sostengo da dieci anni che l'Italia avrebbe dovuto fare di più per arginare la concorrenza simmetrica asiatica: abbiamo perso 10 miliardi di euro di surplus commerciale nella moda, nei mobili e nelle piastrelle tra il 2001 e il 2003 e nessuno ha affermato che fosse un problema.
Oggi abbiamo perso 10 miliardi di euro a livello complessivo e sembra che sia il problema più grande del mondo. Certo, questa volta li abbiamo persi in un anno, e nell'altra occasione in due, ma è stato altrettanto grave, perché abbiamo perso manodopera e qualificazioni.
Il tasso di cambio dello yuan da sette anni è sopravvalutato del 30 per cento su quello dell'euro. Ammettiamo, una volta per tutte, che i cinesi ci stanno portando via posti di lavoro perché hanno una moneta svalutata del 30 per cento. Ne parlai anche a Bergamo, quattro o cinque anni fa, perché si tratta di un problema grosso come una casa, che fa comodo alla Cina e agli Stati Uniti, i quali finanziano i loro consumi, che non saprebbero sostenere, grazie ai finanziamenti cinesi. Il principale azionista di Fannie Mae e Freddie Mac è il Governo cinese, che vi ha investito 400 miliardi di dollari, un terzo del PIL italiano. Dobbiamo renderci conto che si tratta di una situazione assurda, in cui due Paesi, Cina e Stati Uniti, hanno intrapreso una corsa contro un muro e adesso rischiano entrambi di schiantarsi. La Cina non può venire a raccontarci che cresce dell'8 per cento, se fa tutta spesa pubblica, perché, prima o poi,
quando avrà tre ferrovie parallele, tre aeroporti e quattro stazioni per città, ma la ripresa manifatturiera non ci sarà, perché gli americani e gli europei non consumano, avrà problemi di gestione di queste ferrovie e aeroporti e le banche falliranno, perché avranno finanziato aeroporti che non sono efficienti e dove non ci sono i conti in utile.
Anche la Cina ha, dunque, una sua bolla potenziale, che è quella immobiliare, che essa stessa sta creando attraverso la spesa pubblica per continuare a crescere dell'8 per cento. Se ciò non avviene, i disoccupati aumentano di venti milioni all'anno anche lì. Vedete, dunque, che il problema è veramente enorme.
Sono molto preoccupato, perché penso che la ripresa mondiale possa materializzarsi - ahimè - soltanto a macchia di leopardo e sono convinto che l'Europa sia forse l'unica area del mondo ad avere le potenzialità per trovare una soluzione.
Potrebbe trattarsi non di rilanciare i consumi, perché incentivando la rottamazione delle auto non si va da nessuna parte. La Germania quest'anno ha effettuato un più 26 per cento di immatricolazioni con tale sistema, ma che cosa farà l'anno prossimo? Segnerà il meno 15 per cento, perché non si può ottenere un'ulteriore crescita su un più 26 per cento. Ha, quindi, rimandato nel tempo il problema: ha certamente tenuto in fabbrica i lavoratori della Volkswagen, della BMW e della Mercedes, invece che mandarli a casa, però non ha risolto il problema della mancanza reale della domanda di autovetture. I tedeschi sono stati quasi costretti a comprare la macchina e l'hanno fatto, ma l'anno prossimo non lo faranno più. Il vero problema non è rilanciare falsi consumi;
il nostro livello di consumi è già talmente alto da non poter più continuare a consumare all'impazzata. Bisogna, invece, rilanciare gli investimenti produttivi. L'Europa, che ha ancora possibilità di fare debito, Germania, Italia, Francia, Belgio e Austria, che hanno ancora l'economia reale, devono investire in questa, ammodernarla. Potrebbero fare un po' di debito europeo oppure politiche concertate tra Paesi e investire i pochi soldi rimasti per rottamare macchine, letti e mobili degli alberghi, macchine agricole e silos e intraprendere iniziative che non solo creino domanda manifatturiera aggiuntiva, ma che ammodernino anche il sistema produttivo. Altrimenti, continueremo solo a riempire i garage delle famiglie di nuove automobili, che si presume siano più ecologiche - ma sappiamo che non è affatto vero - semplicemente per continuare a tenere un po' su le statistiche dei consumi privati. Dobbiamo, invece, rilanciare
gli investimenti in Europa. Siamo l'unica area del mondo che ha i soldi per poterlo fare. Abbiamo persino le riserve auree, come ha messo in evidenza il mio collega Quadrio Curzio, che si potrebbero benissimo usare come collaterali, non per debiti nazionali, ma per un debito europeo, che potrebbe persino arrivare a mille miliardi di euro, se si mettessero tali riserve a beneficio di una spesa di investimento con cui finanziare infrastrutture, strade, aeroporti, energie, ma anche, ripeto, la rottamazione dei mezzi di produzione della nostra manifattura, dei nostri alberghi, delle nostre fattorie, che sono i settori grazie ai quali potremmo realmente uscire dalle difficoltà.
Gli americani non hanno quasi più tali attività, perché le hanno molto ridotte e non riescono più a far funzionare una macchina in cui l'industria pesa ormai soltanto il 13 per cento. Le aziende americane che hanno delocalizzato in Cina hanno realizzato tanti profitti, ma il valore aggiunto si è trasferito in parte in Cina sotto forma di salari, in parte anche nei paradisi fiscali, perché i profitti realizzati in Cina o in Irlanda non sono più tornati in America, ma sono finiti direttamente alle isole Cayman. In Europa, invece, abbiamo ancora un'attività manifatturiera che non fa transitare necessariamente i profitti dalle isole Cayman, ma li reinveste nella piccola e media impresa.
Dobbiamo credere in questo modello, perché non possiamo aspettare che arrivi la domanda cinese, che non arriverà mai. Vi dico subito - e sono pronto a tornare qui tra dieci anni - che la Cina produrrà da sola tutto quello che le serve e non comprerà i nostri prodotti se non, al massimo, un po' di gioielli o di scarpe di lusso. È una bella notizia, perché sono vent'anni che ci viene detto che la Cina trainerà l'economia mondiale. Trainerà la sua domanda interna, il che è diverso, perché deve dare da lavorare e da mangiare a milioni di persone, che usciranno dalle campagne. Si costruirà la sua Detroit e la sua Silicon Valley, ma non comprerà la meccanica tedesca o la meccanica elettronica americana. Tra un po', lo vedrete, lancerà un'OPA e comprerà la Nokia. I telefonini li produce già, basta solo che si prenda l'headquarter.
Non dobbiamo pensare, dunque, che la domanda venga da quella direzione. Possiamo crearla anche noi all'interno dell'Europa, nell'unica area del mondo dove esiste ancora un po' di economia reale che funziona a livello di Paesi avanzati. Questa è la mia opinione.
PRESIDENTE. Professore, la ringrazio per l'interessantissima relazione. Purtroppo, il tempo a disposizione è esaurito.
Dichiaro conclusa l'audizione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell'economia internazionale,
l'audizione del rappresentante italiano presso l'OCSE, ambasciatore Antonio Armellini.
Do subito la parola all'ambasciatore, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito. Come sa, noi dedichiamo la prima parte dell'audizione alla relazione, cui seguono eventuali domante poste dai colleghi.
ANTONIO ARMELLINI, Rappresentante italiano presso l'OCSE. A titolo di chiarimento, sono il rappresentante italiano presso l'OCSE, non dell'OCSE. Il mio lavoro è per il Governo italiano nei confronti dell'OCSE e non viceversa, anche se la mia relazione riflette l'analisi e la posizione dell'OCSE rispetto ai temi attinenti alla congiuntura internazionale e ai problemi che si pongono.
Come sapete, l'OCSE è un'organizzazione complessa, che coinvolge tutti i Paesi più altamente industrializzati: conta 30 Paesi membri, che diverranno, tra alcune settimane, 32 e probabilmente 34 nel corso del 2010. Il Cile, l'Estonia, la Slovenia e probabilmente Israele, in una fase successiva, dovrebbero diventarne membri; la Russia è un paese candidato, ma con essa il negoziato procede con maggiori difficoltà.
L'OCSE svolge due tronconi fondamentali di attività: da un lato, l'analisi macroeconomica e strutturale, dall'altro l'elaborazione non solo di studi ma anche di ipotesi di lavoro e proposte operative che possano migliorare la capacità di governance complessiva dei Paesi membri e, se possibile, estendersi anche al di fuori di essi. In sostanza, gli obiettivi statutari dell'organismo sono quelli di promuovere il massimo livello possibile di crescita economica sostenibile e di occupazione, nonché l'aumento degli standard di vita dei Paesi membri.
I focus dell'attività dell'organizzazione sono, in linea molto generale, la crescita economica, la stabilità, l'aggiustamento strutturale, l'analisi statistica fondamentale di cui parlavo prima, l'occupazione, i problemi della sanità e della coesione sociale, il commercio, gli investimenti internazionali, lo sviluppo sostenibile, la governance pubblica e privata, le nuove tecnologie e le politiche di sviluppo. In realtà, l'OCSE si occupa delle implicazioni economiche dell'attività governativa nel suo insieme, che abbracciano le attività che si possono concepire sotto il duplice profilo della sorveglianza e dell'analisi e dell'elaborazione di best practice e di proposte operative.
Chiedo scusa se dedico alcuni minuti per illustrare il funzionamento l'organizzazione, ma non sempre è chiaro.
L'OCSE funziona attraverso il meccanismo, tipico e unico di quest'organizzazione, della peer review, ossia della rivista dell'esame fra pari. Lavora attraverso numerosi comitati - sono quasi 280 fra comitati e gruppi di lavoro; i comitati sono molti di meno e danno vita a gruppi di lavoro tecnici - i quali funzionano nel loro lavoro attraverso il citato meccanismo di analisi ed esame fra pari: ciascun Paese membro viene, di volta in volta, esaminato e discusso da tutti gli altri.
Tanto le analisi quanto le proposte operative dell'OCSE sono frutto dell'analisi comparata e del rapporto dialettico che si instaura fra il Paese esaminato e tutti gli altri. L'idea è quella, da un lato, di favorire la massima diffusione delle best practice che da tale Paese possono venire e, dall'altro, che l'analisi della politica svolta sia condivisa, criticamente o meno, e sottoposta al vaglio di tutti.
L'OCSE è l'unica organizzazione internazionale che ha questo funzionamento e questa caratteristica principale, la quale sta acquisendo una sempre maggiore diffusione, proprio perché permette di avere un'analisi al tempo stesso più strutturata e credibile.
Ricorderete forse che una delle conclusioni del G20 di Pittsburgh è stata quella di affidare al Fondo monetario internazionale il monitoraggio delle associazioni economiche dei Paesi membri attraverso un meccanismo di peer review, come quello instaurato dall'OCSE. L'organizzazione si occupa anche, tradizionalmente, di problemi di cooperazione e sviluppo,
che costituiscono uno dei punti fondamentali della sua attività da moltissimo tempo.
Come ho ricordato prima, una delle attività principali dell'organizzazione è quella dell'analisi macroeconomica e strutturale, che viene effettuata con regolarità e si riferisce tanto alla situazione economica di tutti gli Stati membri, quanto a quella delle maggiori economie dei Paesi terzi.
Tale analisi avviene attraverso la pubblicazione - se ne parla spesso nella stampa - due volte all'anno, in novembre e in giugno, dell'Economic Outlook, nel quale vengono passate in rassegna sia le situazioni economiche dei singoli Paesi membri, sia le tendenze generali dell'economia internazionale. Insieme al World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, si tratta del testo di riferimento per l'esame non solo della congiuntura, ma anche delle politiche economiche e strutturali in tutto il mondo.
L'OCSE ha pubblicato il suo più recente Economic Outlook proprio il giovedì della scorsa settimana. Nel rapporto vengono confermati i segnali di ripresa dell'attività economica a livello mondiale, anche se la crescita, a mano a mano che si esce dalla recessione, si preannuncia debole e ancora decisamente dipendente dagli interventi pubblici, nonché dalla dinamica delle economie emergenti, in primo luogo quella cinese.
Il 2009, secondo l'OCSE, dovrebbe chiudersi con una contrazione del PIL attorno al 2,5 negli Stati Uniti, in Canada e in Francia e di circa il doppio negli altri Paesi del G7, ossia Germania, Italia, Regno Unito e Giappone. Il dato, per quanto riguarda l'Italia, è del 4,8 per cento.
L'Economic Outlook sottolinea come i Paesi maggiormente colpiti dalla crisi internazionale siano stati quelli con economie più legate al commercio internazionale, quali il Giappone, la Germania e l'Italia. Specularmente, è probabile che proprio questi saranno i più avvantaggiati dalla ripresa degli scambi, alla quale stiamo assistendo in questo periodo.
Il recupero superiore al previsto del commercio mondiale in Cina, e non solo, è uno dei fattori responsabili del miglioramento delle prospettive dell'economia mondiale. In una parte non secondaria, tale recupero viene attribuito dall'OCSE alla scelta dei Governi di non accedere a tentazioni protezionistiche.
Accanto al commercio internazionale, le altre variabili rilevanti per capire la reazione dei singoli Paesi alla crisi e le loro prospettive di crescita, sono, nell'analisi nell'OCSE, l'esposizione e il peso del settore finanziario, lo spazio di manovra dei bilanci pubblici e le condizioni strutturali dal lato dell'offerta.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il settore finanziario, l'Italia è stata valutata come uno dei Paesi meno investiti dalla dimensione finanziaria della crisi, mentre l'alto debito pubblico e le deboli condizioni strutturali dell'economia vengono giudicate come costituenti effettivamente un freno.
L'Economic Outlook prevede, per il complesso dell'area OCSE, una crescita pari all'1,9 per cento nel 2010 e al 2,5 per cento nel 2011. In questa previsione, l'Italia rimane, fra i Paesi del G7, quello con la crescita più bassa in entrambi gli anni, rispettivamente dell'1,1 e dell'1,5 per cento, nonostante si stimi un contributo significativo dalla ripresa delle esportazioni.
Guardando più lontano, il potenziale di crescita dell'economia italiana per il quinquennio 2012-2017 è stimato pari all'1,2 per cento, un valore indubbiamente basso, che risente tanto dell'impatto della crisi, quanto del progressivo invecchiamento della popolazione. Al tempo stesso, però, l'OCSE sottolinea come tale potenziale possa essere significativamente accresciuto qualora si deciderà di adottare le riforme strutturali necessarie.
Venendo al fronte del mercato del lavoro, il quadro complessivo appare in peggioramento, dato anche lo sfasamento temporale tradizionale fra ciclo economico e occupazione. Ne emerge uno scenario piuttosto eterogeneo, in cui i grandi Paesi, l'Europa continentale, con l'eccezione senz'altro significativa della Spagna, mostrano una crescita della disoccupazione
relativamente contenuta alla luce dell'intensità dello shock, ma più persistente rispetto a quella degli Stati Uniti. Per quanto riguarda l'Italia, il dato per il 2010 si attesta all'8,5 per cento per salire all'8,7 nel 2011.
Come è stato rimarcato in sede OCSE, in maniera particolare anche nella riunione dei ministri del lavoro che si è tenuta in settembre sotto la copresidenza italiana-canadese del Ministro Maurizio Sacconi, la dinamica illustrata è da ascrivere soprattutto alle istituzioni che regolano il mercato del lavoro, più attente a inibire la disoccupazione quelle europee, più propense a lasciare liberi i mercati di aggiustarsi da soli quella americana e inglese.
Nel caso italiano, il riferimento è stato alla cassa integrazione, mentre in quello tedesco le misure a cui si è fatto riferimento sono state quelle rivolte a favorire il part-time. Nell'analisi dell'OCSE, le diverse scelte adottate in materia di processi di aggiustamento potrebbero favorire, nel lungo periodo, in modo maggiore le economie anglosassoni, grazie a una maggiore produttività del lavoro che il loro approccio dovrebbe consentire nel medio periodo.
L'OCSE sottolinea anche l'opportunità di interventi settoriali, che sono stati adottati in settori specifici, in primo luogo quello automobilistico, che è stato giudicato utile a diminuire l'impatto della crisi. Nello stesso tempo, l'organizzazione parigina rileva come tale mercato sia saturo, soprattutto in Italia, ma anche nel resto dei Paesi OCSE, e che andrebbero evitati interventi che inibiscano i necessari aggiustamenti strutturali. Dovrebbero essere, anzi, sviluppate politiche volte ad accrescere l'eco-compatibilità dei nuovi prodotti, nonché a facilitare una maggior penetrazione nei mercati automobilistici cinesi e indiani, che presentano le prospettive di crescita maggiori e per i quali la saturazione è ancora piuttosto lontana.
Gli squilibri internazionali si sono ridotti in maniera significativa grazie alla crescita della domanda interna cinese e alla ripresa dei risparmi negli Stati Uniti. Si tratta di un riequilibrio ancora non sufficiente a mettere l'economia internazionale al riparo da rischi e aggiustamenti potenzialmente bruschi e dirompenti, ma è sicuramente uno degli elementi più positivi degli ultimi mesi. Va, tuttavia, rilevato che l'incertezza che circonda tutte queste previsioni, per quanto meno marcata rispetto ad alcuni mesi fa, rimane senz'altro elevata; soprattutto non si può escludere il rischio di una spirale deflattiva, che non è forse del tutto probabile, ma costituisce lo scenario più inquietante che, in quanto tale, richiede il massimo di attenzione possibile da parte delle autorità di politica economica.
La debolezza maggiore della timida ripresa cui stiamo assistendo risiede, secondo l'OCSE, nella dipendenza dall'intervento pubblico. Non si vede ancora un sistema privato in grado di guidare l'espansione su basi autonome, il che rappresenta un problema di primaria grandezza, in quanto le autorità fiscali e monetarie dei principali Paesi, con l'eccezione dell'Italia, hanno visto un drastico peggioramento dei loro bilanci. In sintesi, l'OCSE non ritiene ancora matura una exit strategy e propone piuttosto piani di aggiustamento fiscale che siano credibili nel medio e lungo periodo, per esempio intervenendo sulla spesa pensionistica e sanitaria.
L'analisi della sostenibilità del debito pubblico mostra, secondo l'OCSE, una dinamica preoccupante a livello mondiale. Diversi grandi Paesi vedranno un deterioramento drastico delle finanze pubbliche, che comporterà un drenaggio di risorse che avrebbero potuto essere meglio destinate a finalità alternative, e ciò peggiorerà ulteriormente le prospettive di crescita nel lungo periodo.
Tra questi Paesi, nell'analisi dell'OCSE, non rientra l'Italia. L'organizzazione al contrario, ha apprezzato la scelta del Governo italiano di adottare una politica fiscale prudente, alla luce dell'alto livello del nostro debito e del relativo peggioramento, che si avrà al termine della crisi.
Un altro aspetto sottolineato nell'Economic Outlook, ma in generale nell'analisi dell'OCSE, è la necessità di reintrodurre
nel sistema, appena possibile, maggiori dosi di concorrenza nel settore bancario che, a seguito della crisi, è stato in parte rinazionalizzato e ha visto ridursi considerevolmente il numero delle banche.
Per quanto riguarda, infine, il problema generale della riforma dei mercati finanziari, l'OCSE è in prima linea nel portare avanti le proposte avanzate da diversi Paesi; in particolare, questo settore ha visto un contributo molto significativo dell'Italia, attraverso l'insieme di proposte che sono andate sotto il nome di «Lecce Framework», di cui si è parlato al vertice del G8 dell'Aquila e che costituiscono, peraltro, un acquis dell'attività di regolamentazione finanziaria internazionale. L'Italia, quindi, nell'ambito dell'OCSE, continua a operare per un sistema più trasparente e maggiormente in grado di indirizzare il credito verso le attività industriali.
Terminato questo breve excursus sull'analisi della situazione macroeconomica svolta dall'OCSE, ricordo che l'organizzazione non si limita soltanto all'analisi e al confronto attraverso il sistema della peer review, ma che, in alcuni casi, il suo lavoro porta all'elaborazione di strumenti operativi di particolare significato.
In linea generale, l'OCSE non legifera, ma ha un'attività di consulenza e di proposta. In alcuni casi, però, essa si traduce in impegni anche giuridicamente vincolanti, il più importante dei quali è la convenzione fiscale modello, di cui si è molto parlato nei mesi scorsi in merito alla lotta ai paradisi fiscali, nonché alle liste grigie e chiare. Tutto questo lavoro è stato svolto intorno e sulla base di questa convenzione fiscale, che ha permesso, peraltro, di affrontare in maniera diversa il problema della non trasparenza fiscale in molte giurisdizioni e ha dato vita, sulla base dei primi risultati nella prima metà del 2009, anche alla costituzione del forum globale sulla trasparenza fiscale, il quale applica gli stessi criteri, rafforzandoli, non soltanto al livello dei 30 Paesi dell'OCSE, ma a 85-90 Paesi. Si tratta, quindi, di una struttura di carattere effettivamente globale, ancorata all'OCSE e
dipendente funzionalmente e concettualmente da essa, ma più vasta nel suo campo di applicazione.
Fra gli altri strumenti che vale la pena di ricordare, vi sono il noto consensus sulla concessione dei crediti all'esportazione, che costituisce da sempre uno dei punti di riferimento fondamentali in questo settore, la dichiarazione OCSE sugli investimenti internazionali e la convenzione sulla corruzione, nella quale anche si è molto lavorato per affrontare in maniera diversa e più efficace questo forte problema. Tali attività rientrano nell'altro grande filone, cui accennavo prima, dell'azione di questa organizzazione, non solo di analisi ma anche di elaborazione di proposte, fissazione di standard e definizione di strumenti operativi e buone pratiche.
Sintetizzando al massimo, credo che si possa affermare che l'OCSE si propone come una casa di regole, non cogenti ma di comportamento, per le economie industriali delle grandi democrazie industriali avanzate, permettendo a questi Paesi non solo di crescere, ma anche di confrontarsi sulla base non solo di parametri condivisi e compresi, ma anche di criteri, obiettivi, regole di funzionamento e procedure elaborati congiuntamente, che hanno permesso di avere una base progressivamente più efficace e trasparente alla cooperazione internazionale in questo settore.
Il filone di attività più strettamente operativa dell'OCSE abbraccia la grande quantità di settori di cui vi ho parlato in precedenza e costituisce una parte estremamente significativa dell'acquis.
Occuparsi delle conseguenze economiche delle attività di Governo, di regolamentazione, di politica nei suoi diversi aspetti comporta la necessità di affrontare questa tematica con una logica sempre più chiaramente orizzontale. Tale esigenza, certamente presente da sempre in un lavoro come quello dell'OCSE, è stata senza dubbio accresciuta dalla crisi che abbiamo attraversato, la più grave degli ultimi 70 anni, la quale ha messo chiaramente in luce come, per immaginare le vie del suo superamento, dovremo necessariamente
passare attraverso l'elaborazione di un approccio orizzontale globale capace di andare oltre la compartimentazione settoriale degli strumenti di azione economica. In questo campo, vorrei ricordare brevemente due tra le attività più significative che l'OCSE ha attualmente in cantiere, che sono state lanciate e vedranno la loro elaborazione definitiva sul piano operativo nel corso del 2010-2011. Tali due strategie globali sono quella sull'innovazione e quella sulla crescita verde.
Nel campo delle attività svolte dall'OCSE, questi sono i due settori di analisi e lavoro orizzontale di maggiore impatto, sui quali ci si concentra in questa fase in maniera particolare, perché da essi si immagina che possano trarsi non solo utili insegnamenti, ma anche importanti strumenti operativi per fuoriuscire dalla crisi. Sono ambedue work in progress, attività in fase di elaborazione, su cui il lavoro si sta concentrando in maniera particolarmente significativa.
Parto dall'esame della strategia sulla crescita verde. La Green growth strategy è stata adottata dalla riunione ministeriale dell'OCSE del 2009 e vi si sono associati non solo i 30 Paesi membri dell'organizzazione, ma anche quattro di quelli candidati, ossia Cile, Estonia, Israele e Slovenia. La riunione ministeriale ha adottato i princìpi di base e ha dato mandato all'OCSE di elaborare concretamente la strategia nelle sue implicazioni più direttamente operative, partendo dall'assunto di base che non vi è contraddizione fra rispetto dell'ambiente e crescita. Questo è il filo conduttore dell'elaborazione della strategy. L'obiettivo principale della Green growth strategy, che si basa sia sull'expertise dell'OCSE, sia su quello dell'Agenzia internazionale dell'energia, un'organizzazione consorella - insieme all'OCSE, ha sede a Parigi e si occupa di tematiche specificamente energetiche - è quello di
guidare i Paesi membri e anche non membri verso l'identificazione di politiche finalizzate a una crescita economica basata su tecnologia a basso impiego di carbonio e compatibile con la tutela dell'ambiente.
Attraverso lo sviluppo della sua strategia, l'OCSE si propone di fornire non solo analisi, ma anche raccomandazioni operative che possano essere utilizzate per l'elaborazione di politiche internazionali, nonché per l'attuazione dei processi di autoanalisi e di peer review che saranno necessari sia in ambito OCSE, sia nel contesto del G20. Come tutti sapete, ambiente, tutela del clima e lotta al cambiamento climatico costituiscono alcuni degli aspetti fondamentali rispetto ai quali l'OCSE sta collaborando con il G20.
C'è anche un contesto più ampio, in questo settore, che si annuncia alle porte fra alcune settimane, ovvero la conferenza di Copenaghen sul cambiamento climatico, all'interno della quale il lavoro in corso attualmente nell'ambito dell'OCSE verrà fornito come un possibile contributo.
La Green growth strategy verrà finalizzata alla riunione ministeriale del 2011. In questa fase, le opzioni quadro su cui sta lavorando il segretariato dell'OCSE sono le seguenti: in primo luogo, si stabilisce la necessità di sviluppare analisi ad hoc per identificare le sfide prioritarie del cambiamento climatico; in secondo luogo, l'espansione dei mercati verdi, i green market, rappresenta uno strumento funzionale a un'efficiente allocazione di risorse verso prodotti e servizi ecosostenibili. In questo quadro, particolare importanza rivestono le politiche volte a definire il pricing dell'emissione di gas e l'eliminazione dei sussidi, per esempio, ai combustibili fossili, che incentivano l'utilizzo di tecnologie negative per l'ambiente. Sarà anche importante, nell'ambito della strategia, comprendere come il passaggio verso un'economia ecosostenibile si ripercuoterà sul mercato del lavoro e sulle imprese
esistenti, il che creerà la necessità di valutare attentamente l'impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro, nonché quello che tali politiche potranno avere nella riallocazione della manodopera e nel necessario aggiornamento della competenza tecnica dei lavoratori (formazione permanente e via elencando). Altrettanto importante sarà verificare gli impatti distributivi di un modello di crescita
«verde», così come elemento cruciale per il successo di una strategia di questo genere è il sostegno alla ricerca, allo sviluppo e all'impiego di nuove tecnologie per una crescita sostenibile, nonché l'introduzione accelerata di infrastrutture verdi. Da ultimo - estremamente importante nella valutazione dell'OCSE - vi è la definizione di indicatori di crescita ecosostenibile, al fine non solo di misurare, ma anche di rendere comparabili i progressi dei diversi Paesi verso il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla strategia.
È chiaro che, se si parla di strategia verde, di contrasto al degrado dell'ambiente e di lotta al cambiamento climatico, non ci si può limitare soltanto all'ambito vasto, ma non onnicomprensivo, dei Paesi membri dell'OCSE, ma diventa fondamentale la presenza dei Paesi esterni all'organizzazione. Basta pensare alla Cina e all'India e al ruolo assolutamente decisivo che esse hanno in relazione alla tematica di cui stiamo parlando.
Proprio per questo motivo, nell'ulteriore sviluppo della strategia, l'OCSE ha intenzione di coinvolgere in maniera crescente non solo i Paesi candidati, ma anche quelli con i quali c'è un rapporto di collaborazione più stretto, il cosiddetto enhanced engagement, nonché di sviluppare i già esistenti rapporti di consultazione permanenti con le organizzazioni, tanto dei datori di lavoro come sindacali, con le organizzazioni non governative e con le altre istituzioni internazionali attive in questo campo, dalla Banca mondiale al Fondo monetario internazionale eccetera.
Vorrei sottolineare non solo l'importanza di questa strategia nel suo insieme, ma anche il fatto che il nostro Paese possa contribuire attivamente alla sua formulazione attraverso un'implicazione attiva dei diversi attori coinvolti, che sono numerosi, a partire dai diversi ministeri competenti, ovvero quelli dell'economia, dello sviluppo economico, dell'istruzione, della pubblica amministrazione, dell'ambiente, degli affari esteri, del lavoro e delle comunicazioni.
Si tratta di un approccio che richiederà una cabina di regia articolata, se si vorranno mettere a fattore comune le sinergie che sarà necessario trovare per rendere efficace il nostro contributo in questo settore. Aggiungo una piccola chiosa. La Green growth strategy è nata nell'ambito OCSE sotto la spinta di un Paese in particolare, la Corea del Sud. Essa è, fra i Paesi OCSE, quello che ha adottato recentemente un programma di Governo verde fra i più impegnativi in assoluto, ponendosi obiettivi di cui già si comincia a vedere la prima traduzione nei fatti. Tale spinta, da un Paese in cui tradizionalmente non si sarebbe immaginato potesse venire una coscienza ecologica così marcata - forse nasce dal fatto che in Corea il degrado è stato assai più accelerato in passato di quanto non lo fosse adesso - è certamente un dato interessante, ma è anche quello che ha messo la frusta
politicamente all'elaborazione di questi ragionamenti che, peraltro, sono visti come fondamentali per arrivare a una fuoriuscita dalla crisi che abbia basi strutturali più stabili di quanto non si sia immaginato in passato. Tale ragionamento vale, allo stesso titolo, per l'altra grande strategia orizzontale cui ho accennato prima, quella dell'innovazione. Immaginata e messa in cantiere già alcuni anni fa, quando il problema era quello di assicurare un migliore coordinamento della crescita, adesso, quando se ne parla, la si vede soprattutto sotto l'angolo visuale di come sviluppare un sistema integrato che permetta di affrontare la crisi e uscirne in maniera il più possibile positiva.
Il punto di partenza della strategia per l'innovazione, la cui elaborazione è in fase più avanzata, tanto che dovrebbe essere portata all'approvazione della riunione ministeriale dell'OCSE nella primavera-estate del 2010, è la necessità di ripensare il processo di innovazione nel suo complesso. L'evidenza dimostra che non lo si può definire più un percorso lineare, che dalla ricerca scientifica passa alla novità tecnologica e quindi al prodotto, per essere diffuso dalla società. Per innovazione si deve intendere un fenomeno certamente più complesso e interattivo, che va ben al di là dell'area tradizionale della ricerca e
sviluppo della tecnologia, per ricomprendere, da un lato, aree come il marketing, il design e le modifiche organizzative e, dall'altro, il coinvolgimento di una platea di attori sempre più ampia, fino ai consumatori e alle organizzazioni non governative.
Nell'area OCSE, caratterizzata da popolazioni stabili o in declino, il fattore lavoro è destinato ad avere un ruolo sempre più limitato nella crescita economica, mentre uno dei principali elementi dello sviluppo sarà determinato dall'innovazione, come ho cercato di descrivere fino a qui. Al tempo stesso, nel parlare di innovazione, è facile notare come, con il progredire della crescita, il ruolo degli investimenti in risorse intangibili sarà sempre più importante, a fronte di un declino degli investimenti nelle risorse tangibili. L'elaborazione di una strategia credibile richiederà il coinvolgimento di una pluralità di politiche e di attori, che dovranno comprendere le differenti competenze dei Governi, come ho accennato trattando il tema della strategia verde; altrettanto fondamentale sarà l'apporto del mondo imprenditoriale, non solo delle industrie ad alta tecnologia, perché non si sta parlando
solo di tecnologia, ma di una diversa organizzazione complessiva dei fattori.
Nel fenomeno dell'innovazione acquista un ruolo sempre più importante il lato della domanda, che provenga dal consumatore privato che utilizza il commercio elettronico o che si tratti delle imprese, o del settore pubblico, il quale può diventare protagonista dell'innovazione richiedendo nuovi prodotti e servizi per rifondare le sue attività tradizionali e avviarne di nuove, dall'e-government, per esempio, all'utilizzo delle tecniche di informazione in tutto il settore pubblico nella sua più ampia accezione.
Quali sono, secondo l'OCSE, gli elementi di una nuova agenda politica per l'innovazione, che valorizzi il capitale umano, i mercati della conoscenza, le infrastrutture per l'informazione e le comunicazioni? Innanzitutto, una varietà di persone deve poter fruire dell'innovazione: i lavoratori e i loro mestieri, gli imprenditori, i cittadini, i consumatori. La politica per l'innovazione deve prendere in conto l'obiettivo di attrarre talenti attraverso le frontiere, riconsiderare le metodiche dell'istruzione superiore e della formazione e ispirare i mercati del lavoro che facilitino l'innovazione. Le riforme dei sistemi della ricerca devono prendere in considerazione i meccanismi di creazione e trasferimento della conoscenza; non è sufficiente solo proteggerla, ma è necessario diffonderla. Le politiche di promozione dell'innovazione sono, secondo l'OCSE, difficilmente compatibili con la tentazione protezionistica di lungo periodo. La politica deve, anzi,
mantenere aperti i mercati, rimuovere gli ostacoli alla collaborazione tra accademia e industria, tra i ricercatori di Paesi diversi, tra attori privati e pubblici, anche utilizzando le reti globali della conoscenza. Ne consegue che un tema di crescente importanza è quello dell'innovazione nel settore pubblico. Guadagni sensibili di efficacia ed efficienza sono possibili con la diffusione degli strumenti e delle competenze della tecnologia dell'informazione e della comunicazione - lo stiamo vedendo in Italia - che vanno a vantaggio diretto dell'economia, ma anche della qualità della comunicazione tra cittadino e amministrazione e, quindi, in ultima analisi, della democrazia. In buona sostanza, l'OCSE raccomanda di rileggere tutte le politiche strutturali, quali quelle relative al lavoro, alla concorrenza, alle infrastrutture e al capitale umano, per fare spazio all'innovazione. Tra i princìpi operativi su cui si sta riflettendo in questa fase,
l'organizzazione ritiene che la politica economica dovrebbe essere calibrata in modo da incentivare innovazione e imprenditorialità e assicurare l'accesso al finanziamento da parte delle aziende e degli innovatori. La politica della concorrenza dovrà essere, invece, orientata all'apertura dei mercati dei prodotti di servizi.
Nell'ambito del capitale umano, per l'innovazione si dovrebbe incentivare lo studio delle materie scientifiche fin dalla scuola media, privilegiare la formazione
multidisciplinare, rafforzare nella formazione superiore dei giovani l'istruzione manageriale e imprenditoriale e facilitare l'accesso alla formazione superiore dei giovani delle famiglie meno abbienti con politiche di sostegno al merito e di alloggio per gli studenti. Si dovrebbero anche allocare finanziamenti crescenti alla ricerca con una più forte differenziazione, in modo da promuovere l'eccellenza e la sostenibilità del sistema, favorendone l'internazionalizzazione e la multidisciplinarietà. Infine, nell'ambito della politica industriale si può considerare una buona pratica da sviluppare quella delle piattaforme tecnologiche, ovvero iniziative tecnologiche complementari che mettono insieme centri di ricerca e di industria, incentivate da finanziamenti pubblici che convergono su un processo fondamentale. Un esempio buono, a questo proposito, è quello delle reti di comunicazione ad alta velocità che, secondo l'OCSE, dovranno
essere realizzate mantenendo le condizioni di concorrenza del mercato. Questa è stata una illustrazione, spero non eccessivamente dettagliata, delle grandi linee dell'attività dell'OCSE. Non ho potuto affrontare in questa sede l'insieme delle attività dell'organismo, che sono molte di più, ma ho cercato di individuare sia gli aspetti principali dell'analisi, sia alcuni tra i filoni prioritari dell'azione che l'organizzazione sta svolgendo attualmente per favorire, con un occhio particolare alla crisi, una fuoriuscita basata su una logica coerente e su un'analisi strutturale efficace.
PRESIDENTE. Do la parola agli onorevoli che vogliano porre quesiti e formulare osservazioni.
Colgo l'occasione per ringraziare la prima iscritta a parlare, l'onorevole Mastromauro, che è entrata a far parte della nostra Commissione da ieri, per aver voluto partecipare da subito ai nostri lavori. A nome di tutti i colleghi, le auguro buon lavoro.
MARGHERITA ANGELA MASTROMAURO. Ringrazio il presidente per l'accoglienza.
Ho due domande molto brevi. L'ambasciatore ha svolto un breve passaggio sul protezionismo. Si tratta di un argomento che viene spesso tralasciato quando si analizzano i fenomeni di crisi globale, ma che ha, in realtà, un impatto importante. Abbiamo, infatti, la prova che esso viene utilizzato anche dai Paesi più liberisti - è il caso degli Stati Uniti - anche nei confronti di molti prodotti italiani.
Vorrei quindi chiedere all'ambasciatore se all'osservatorio dell'OCSE risulta che, in una fase di crisi come questa, ci sia stato un incremento di forme protezionistiche e quanto esse influenzino l'uscita dalla situazione di crisi globale.
Inoltre, ho una piccola osservazione da fare. L'ambasciatore ha riferito che l'OCSE ha apprezzato la politica fiscale prudente di questo Governo. Vorrei chiederle se ciò non sia in contraddizione con quanto ha dichiarato in seguito, quando ha evidenziato la necessità di effettuare riforme strutturali importanti, soprattutto nell'ottica dell'innovazione, e di incentivare sia l'impresa, sia il settore pubblico con incentivi fiscali, ma anche finanziari.
VINICIO GIUSEPPE GUIDO PELUFFO. Ho due domande da porre. La prima riguarda il tema della disoccupazione che, evidentemente, adesso è la conseguenza della crisi finanziaria di cui si è parlato in più occasioni, anche nel corso di queste audizioni. Cito a memoria e si tratta, quindi, di dati su cui mi posso anche sbagliare. Mi colpiva che il dato in riferimento alla disoccupazione per effetto della crisi negli Stati Uniti vede che, su 6,3 milioni di posti di lavoro persi, il 70 per cento sono relativi a uomini, tanto che, alla fine di quest'anno, nel mercato del lavoro statunitense ci saranno più donne che uomini occupati. Invece, per quanto riguarda il nostro Paese, alla fine del 2008 l'aumento della disoccupazione era dello 0,8 per cento per gli uomini e dell'1,3 per le donne.
I dati di quest'anno sono in evoluzione, però mi sembra che questo finora non siano stati smentiti e che questa sia la tendenza, ossia che la disoccupazione, per
effetto della crisi nel nostro Paese, colpisca di più le donne. Sappiamo che molte entrano nel mercato del lavoro con contratti atipici e sono, dunque, state lasciate a casa per prime. Vorrei capire se vi è quest'evidenza anche nel rapporto OCSE e se vi è l'indicazione della necessità di politiche specifiche in questa crisi.
La seconda domanda riguarda, invece, l'ambito degli investimenti cui lei faceva riferimento. Sulla riconversione orientata alla green economy credo che ci ritroviamo negli auspici e nelle indicazioni cui lei faceva riferimento. Invece, per quanto riguarda il tema dell'innovazione e degli investimenti infrastrutturali, la domanda è la seguente: c'è un Paese europeo - mi riferisco alla Finlandia, con i 100 mega - che ha dato un obiettivo per legge relativo all'accesso alla banda larga. Noi siamo il paese dei 56 K, che, peraltro, sono oggetto di un confronto stringente, dal momento che gli 800 milioni che dovevano essere investiti sulla banda larga a oggi non risultano essere realmente disponibili.
La mia fonte sono i giornali; quando entreremo nel vivo della discussione in sessione di bilancio andremo più nel dettaglio. Sollevo la questione anche perché vedo, sempre riportato dai giornali - cito la fonte: Il Sole 24 Ore - che il viceministro Romani parla di uno sprint del Governo sul digitale, cioè prima dell'anticipo dello switch-off e poi della banda larga.
La mia domanda è, in ragione della discussione di questi giorni rispetto agli investimenti sulla banda larga e anche alle suddette dichiarazioni, se il Paese dei 56 K, se l'Italia sia al passo con gli obiettivi indicati dall'OCSE e se, in caso di risposta negativa, nel rapporto vi siano indicazioni in merito a politiche specifiche per diminuire il gap.
LUDOVICO VICO. Intervengo solo per porre all'ambasciatore due domande molto semplici.
Lei pensa che l'OCSE serva? Mi spiego: in base alle competenze istituzionali dell'OCSE, di fronte alla situazione in corso, si pensa ancora di ragionare su come intervenire sui Paesi industrializzati, dal G20 al G27, ma potremmo trovarci al G2. C'è un problema di globalizzazione, di mercati globali, dove non si capisce più su che cosa si ragiona. Cito un continente, l'Africa, ma in termini di mercati e non di I care o di interventi del genere.
La prima domanda è la seguente. Vi è necessità di rinnovare questo istituto? Mi permetterà ma, con grande rispetto per l'OCSE, le vorrei citare quattro agenzie uscite in quattro giorni, una dietro l'altra: il 19 novembre l'OCSE riporta che il PIL in Italia è del meno 4,8 per conto, nel 2010 del più 1,1, nel 2011 del più 1,5; il 23 novembre - dopo due giorni - il comunicato è che il PIL è al meno 4,6 annuo, nel secondo trimestre al più 0,6 e, nel 2010, al più 1,5, nel 2011 al più 2; il 24 novembre un comunicato OCSE, mai smentito, afferma che la pressione fiscale in Italia fa salire il nostro Paese al quarto posto, che la misura straordinaria dello scudo fiscale è utile e che il PIL è al 4,7 per cento. In contemporanea, in questi quattro giorni, i dati della produzione industriale sul PIL fornivano altre cifre, come anche quelli dell'ISTAT. Che questa sia materia
dell'élite politica non fa bene né a questa né al Paese.
PRESIDENTE. Do la parola all'ambasciatore Armellini per la replica.
ANTONIO ARMELLINI, Rappresentante italiano presso l'OCSE. Cercherò di rispondere per quello che posso, perché le domande semplici sono sempre le più complicate.
Quello del protezionismo è certamente un tema molto discusso e controverso, su cui ci sono opinioni diverse. Io ho cercato di indicare quale sia quella dell'OCSE, che ha preso una posizione molto netta contro il protezionismo, ritenendo che non sia una soluzione adeguata per le strategie di fuoriuscita dalla crisi. L'analisi dell'Economic Outlook guarda ai dati complessivi. Peraltro, l'OCSE conduce a intervalli regolari analisi dettagliate sulle condizioni dei singoli Paesi, all'interno delle quali vengono esaminate le politiche nazionali.
Per quanto riguarda, invece, la definizione delle macrotendenze, si fa un riferimento
di carattere generale. Per rispondere alla sua domanda, non è stata effettuata un'analisi puntuale Paese per Paese, ma c'è un'indicazione precisa di quella che dovrebbe essere una scelta di politica economica condivisa, evidentemente all'interno delle condizioni che prevalgono in qualsiasi Paese.
Per quanto riguarda la politica fiscale, in realtà si intendeva stricto sensu. L'OCSE ritiene che il fatto che l'Italia non abbia messo in cantiere pacchetti di stimolo analoghi a quelli di altri Paesi sia stato positivo, tenuto conto della consistenza molto elevata del debito pubblico interno. Ci si riferiva a questo.
Delle diverse strategie che, come lei sa, sono state adottate, l'OCSE sostiene che quelle di stimolo in determinate condizioni possono essere servite, ma che pongono un serio problema di rientro, per il quale non ci sono ancora indicazioni precise; non si vede una exit strategy e l'OCSE raccomanda sin da adesso per tutti, sia per chi ha messo in piedi pacchetti di stimolo rilevanti, sia per chi non l'ha fatto, di prestare attenzione alla qualità e alla gestione della spesa. Le riforme pensionistiche sanitarie sono importanti in tutti i Paesi. In Italia la scelta compiuta, rispetto a valutazioni effettuate in altri contesti, è giudicata dall'OCSE coerente con le condizioni economiche del Paese e ha prodotto risultati non negativi. Era questo il senso del mio ragionamento.
Sulla disoccupazione non credo che ci siano dati disaggregati, o comunque non li conosco. Certamente, la questione di gender nella disoccupazione ha, peraltro, incidenze molto significative nel discorso relativo alla tendenza evolutiva del mercato del lavoro. La riunione ministeriale di settembre ha indicato alcuni approfondimenti, che verranno eseguiti nel corso dell'anno, e questo è un aspetto che certamente deve essere preso in considerazione perché, come lei ha giustamente osservato, si sta verificando effettivamente una diversa articolazione del mercato del lavoro, che sottende problemi strutturali molto seri.
Per quanto riguarda il lavoro svolto dall'organizzazione sul piano generale, la disaggregazione non c'è e le tendenze sono quelle che ho indicato. I dati sulla disoccupazione sono, peraltro, quelli che lei ha citato. Anche questo è un work in progress, perché l'attenzione dell'OCSE verso la tematica complessiva del lavoro è, da un lato, un dato immanente alla sua attività ma, dall'altro, sta diventando una priorità particolarmente significativa. Credo che nella riunione ministeriale che si terrà quest'anno il tema del lavoro e della disoccupazione sarà al centro, perché, come osservavo, lo sfasamento fa sì che stiamo vedendo adesso segnali di ripresa più meno in tutti i Paesi, ma stiamo aspettando ancora che il lag si verifichi completamente per quanto riguarda il mercato del lavoro e la disoccupazione. Questo sarà, nelle previsioni, non soltanto di OCSE ma generali,
il grande tema di quest'anno: come affrontare l'aspetto di una crescita che non produce occupazione, o che la produrrà con un distacco temporale molto lungo.
In merito alla banda larga, la strategia di innovazione è in cantiere. Sostanzialmente, deve essere rivisto il modello complessivo di azione economica. Tra gli interventi da compiere vi sono investimenti importanti nelle infrastrutture, fra cui certamente la banda larga; tutto ciò che è tecnologia di informazione deve essere incentivato.
Mi sembra che lei affermasse che vi era una contraddizione con la politica fiscale. In realtà sono due cose diverse, perché si parla di politica fiscale in senso stretto. Certamente l'OCSE sostiene che la politica degli investimenti debba essere portata a privilegiare questi settori di intervento, non solo a livello nazionale, ma anche sviluppando il concetto di rete nella sua globalità. È difficile parlare di un investimento di infrastrutture, soprattutto se parliamo di tecnologie dell'informazione e della conoscenza, «compartimentandole» a livello nazionale. Non funziona.
Questo è uno dei messaggi importanti che verrà dalla definizione della strategia per l'innovazione che, peraltro, è ancora in
fase di elaborazione. I princìpi generali che ho indicato nelle ultime parole del mio intervento sono, in realtà, i capitoli ai quali si sta lavorando, definizioni che si stanno riempiendo di contenuti, in questa fase. Certamente è un settore assolutamente fondamentale: innovazione non vuol dire solo innovazione di prodotto o passaggio lineare della ricerca al prodotto, ma sviluppo delle reti in senso complessivo, sia fisiche, sia immateriali, nonché di diffusione delle conoscenze e di apertura e integrazione dei mercati. Questo è uno dei dati che emergono.
Serve l'OCSE? Dal momento che ci lavoro, devo dire di sì, ma non è una risposta coerente. Non c'è dubbio che un organismo come l'OCSE rimane credibile nel lungo periodo, in quanto è in grado di integrare e modificare la sua funzione, tenendo conto delle evoluzioni intervenute.
Molto brevemente, l'OCSE nasce nel 1948 come la clearing house del Piano Marshall. Esso si realizza e nel 1960 si decide che cosa fare. Lei mi potrà dire che l'entropia dell'organismo internazionale fa sì che nulla si distrugga. Forse sa che la Lega delle nazioni ha tuttora un piccolo l'ufficio stralcio a Ginevra. Al di là della battuta, se me la consente, credo che nel 1960 si decise di mantenere l'impianto scientifico di questa organizzazione, che è di altissima qualità, facendone non più la clearing house di qualcosa di inesistente, ma un organismo che permettesse, sostanzialmente, di elaborare standard comuni fra economie fra di loro omogenee, che rispondevano ai criteri dell'economia di mercato, che erano necessariamente portate a un'integrazione crescente e che potevano avvantaggiarsi non solo del fatto di lavorare insieme, ma di disporre di una base di dati, non solo statistici ma comportamentali
come il codice degli investimenti, la convenzione sulle tasse, la lotta alla corruzione, i lavori di elaborazione di strategie dell'istruzione, il famoso PISA, di cui si parla, tutto un insieme di attività che l'OCSE svolge e che ha una funzione paranormativa, ossia non normativa in senso stretto ma in quello dell'elaborazione di parametri che possono essere tradotti in politiche nazionali comparabili e condivisibili.
Questo è ciò che l'OCSE ha fatto e direi che, tutto sommato, ha raggiunto risultati estremamente positivi, perché tali economie si parlano e si capiscono tramite un linguaggio comune, non solo ma anche grazie all'elaborazione effettuata in quest'ambito.
Ora si apre un capitolo completamente diverso. I Paesi OCSE rappresentavano, fino a 4-5 anni fa, l'80-85 per cento dell'economia mondiale. Adesso stanno progressivamente calando: fra una decina d'anni saranno il 50 per cento e poi forse anche meno.
Il problema è capire - è una scelta politica che l'organizzazione non ha compiuto, ma che certamente dovrà compiere e sulla quale si sta ragionando - se la prossima tappa, che io chiamo la terza fase dell'organizzazione, dovrà essere quella di coinvolgere al suo interno non solo le economie di mercato avanzate dell'Occidente, ma anche tutti i major player dell'economia internazionale, come l'India e la Cina, che è esattamente quanto si sta facendo adesso.
L'OCSE ha dieci Paesi a corona, cinque dei quali sono candidati all'adesione e cinque hanno un rapporto cosiddetto di cooperazione rafforzata - si tratta, sostanzialmente, dei Paesi BRIC (Brasile, Russia, Indonesia e Cina), oltre al Sudafrica - e dovrà decidere se diventare il luogo in cui si elaborano best practice, regole di comportamento, standard che permettano a tali economie non certo di diventare uguali, ma di collaborare fra di loro, di ragionare e di parlarsi sulla base di uno stesso linguaggio. Fare ciò comporterà certamente una revisione dei criteri, perché, oggi come oggi, per essere membri dell'OCSE, bisogna aderire rigidamente anche a criteri di economia di mercato, così come li abbiamo elaborati e li concepiamo, che non sono quelli del Brasile, dell'India, della Cina o della Russia, anche se tutti questi Paesi vanno evolvendo verso forme di economie di mercato diverse da quelle avevano in precedenza.
L'alternativa, come io la definisco, è fra purezza ed efficacia. L'OCSE deve decidere se vuole rimanere l'organismo che racchiude al suo interno Paesi molto più omogenei fra di loro, accettando di diventare progressivamente più marginale, o se vuole essere il luogo dove si elaborano regole di comportamento in senso lato comuni, che coinvolgono tutte le grandi economie del mondo. La mia personale opinione è che, se compirà quest'ultima scelta, l'OCSE continuerà certamente a essere molto utile, mentre se non la compirà, avrà sempre un ruolo importante, ma residuale.
PRESIDENTE. Ringrazio l'ambasciatore per la puntualità delle risposte che ci ha fornito.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16,20.