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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
9.
Giovedì 29 settembre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SU DIRITTI UMANI E DEMOCRAZIA

Audizione di attivisti per i diritti umani nella regione del Sahara Occidentale:

Colombo Furio, Presidente ... 2 6 8 10 12
Ardesi Luciano, Presidente dell'Associazione Nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi (ANSPS) ... 8 10 12
Doria Francesca, Attivista per la difesa dei diritti umani nel Sahara Occidentale ... 7
El Ghalia Djimi, Attivista per la difesa dei diritti umani nel Sahara Occidentale ... 2 12
Mecacci Matteo (PD) ... 10 12
Motta Carmen (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 29 settembre 2011


Pag. 2


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 14,15.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di attivisti per i diritti umani nella regione del Sahara Occidentale.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su diritti umani e democrazia, l'audizione di attivisti per i diritti umani nella regione del Sahara Occidentale.
È presente la signora Djimi El Ghalia, accompagnata dall'avvocato Francesca Doria e dal dottor Luciano Ardesi.
Rivolgo il nostro benvenuto agli ospiti della Commissione e do la parola alla signora Djimi El Ghalia.

DJIMI EL GHALIA, Attivista per la difesa dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Buongiorno a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziarvi sinceramente per avermi offerto l'opportunità di prendere la parola di fronte a voi per informarvi, in base alle mie conoscenze, sulla situazione dei diritti umani nel Sahara Occidentale e per parlare, in particolare, della mia esperienza personale.
Mi chiamo Djimi El Ghalia, sono la vicepresidente dell'Associazione Sahrawi per le vittime delle violazioni dei diritti umani commesse dal regno del Marocco. Sono nata ad Agadir nel 1961; la mia sofferenza personale è iniziata proprio con lo Stato marocchino nel 1984, anno in cui la mia madre adottiva, mia nonna, è scomparsa ad Agadir. Mia madre aveva sessant'anni, era una donna Sahrawi che non era coinvolta nella politica, ma negli anni Quaranta si era spostata dal Sahara Occidentale in Marocco per cercare un lavoro e aveva portato con sé la sua cultura, i suoi valori, che sono certo diversi da quelli della cultura marocchina.
Negli anni, aveva aperto la sua casa a tutti i Sahrawi che venivano ad Agadir per ragioni di salute, per ragioni commerciali o per studiare. Non era una sindacalista, né faceva parte di un partito politico, ma soltanto per queste ragioni in fondo personali è stata rapita ed è scomparsa da Agadir. È stata portata via dai servizi segreti a Laayoune, almeno secondo la testimonianza di una donna che ha passato tre o quattro giorni con lei e che poi è riuscita a liberarsi, mentre mia madre è rimasta lì e la sua sorte è purtroppo sconosciuta come quella di migliaia di altri Sahrawi.
Dopo tre anni, nel 1987, ho iniziato a lavorare a Laayoune; il 20 novembre di quell'anno c'è stata la visita a Laayoune di una commissione tecnica dell'ONU, la popolazione è stata spinta, di fronte a un'istanza internazionale, per la prima volta, a prendere la parola sull'embargo mediatico e militare che fino a quel momento esisteva nella regione, e su tutte le scomparse forzate di persone di cui non abbiamo più avuto notizia. Quella era dunque un'ottima opportunità per la popolazione Sahrawi per poter esprimere la propria opinione riguardo all'occupazione marocchina. Ebbene, in questo contesto


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sono stata prelevata dal mio lavoro e per tre anni e sette mesi sono scomparsa.
Mi sono trovata in situazioni difficilissime, ho dovuto subire atrocità e torture abominevoli. Ho passato tre anni e sette mesi della mia vita con gli occhi bendati, mi hanno tolto la benda soltanto quattro giorni prima della scarcerazione. Le atrocità descritte nelle foto che sono state pubblicate purtroppo io le ho vissute sulla mia pelle, sono stata morsa dai cani e ne porto ancora le cicatrici, ho anche perso i capelli a causa delle torture subite. Durante gli interrogatori mi hanno spogliato e messo una fascia sugli occhi; ho vissuto un vero calvario quotidiano, a causa della malnutrizione, della mancanza di cure sanitarie. Per non dire delle atrocità che ho dovuto subire da parte delle guardie, tutti uomini. Eravamo in una prigione segreta, una caserma della campagna di intervento mobile. All'epoca del colonialismo spagnolo in questo luogo venivano allevati i maiali e una sala di questo edificio veniva utilizzato per le torture. Lì dove anticamente venivano messi i maiali, noi eravamo attaccati a corde.
Non parliamo poi dell'igiene della quale una donna avrebbe avuto bisogno. In questi quasi quattro anni ho potuto cambiarmi gli abiti soltanto due volte, la prima volta dopo due anni, quando ormai era rimasto soltanto un pezzettino di stoffa del vestito. Tra l'altro, dovevamo utilizzarlo anche per andare al bagno, condiviso con i soldati della caserma. Dopo due anni, poi, ci hanno dato dei nuovi vestiti e delle scarpe, che avevamo perso.
Oltre a queste atrocità fisiche, abbiamo anche subito intimidazioni da parte delle guardie, che si prendevano gioco di noi, guardandoci seminude. All'inizio eravamo diciannove donne, nove sono state liberate dopo due mesi e 27 giorni, mentre le altre sono rimaste per tre anni e sette mesi in quella prigione, e con loro ho condiviso la mia cella.
Il fatto di essere praticamente nuda era per me una vera tortura, era inaccettabile. Avevo ventisette anni e trovarmi nuda di fronte a degli estranei - sono una donna conservatrice, tradizionalista - per me era veramente inimmaginabile, intollerabile. Ed è inaccettabile anche per gli arabi, per i musulmani, dal punto di vista della religione.
Finora ho parlato delle donne, ma c'erano anche degli uomini in questa caserma, o meglio in questo ex porcile.
Non potevamo parlare, non potevamo lavarci, non c'era aereazione, non potevamo toglierci la benda dagli occhi, non avevamo contatti con le nostre famiglie. Non avevamo alcuna relazione con l'esterno, non avevamo subìto un giudizio e nessuno sapeva che fine avessimo fatto. Abbiamo subìto torture fisiche e psicologiche, attraverso minacce e lavaggio del cervello; abbiamo subìto la tortura tramite scariche elettriche sulle orecchie e sulle dita.
Come vi ho detto, ho perso i capelli perché mi hanno legato piedi e mani e mi hanno messo su una piccola panca, quindi mi hanno messo uno straccio sulla testa sul quale hanno versato zolfo e acqua salata; questo liquido maleodorante mi ha bruciato i capelli e me ne sono accorta quando hanno deciso di liberare alcuni di noi e hanno dato a tutti la possibilità di lavarsi: ho iniziato a lavarmi i capelli, ho visto che li avevo persi tutti.
Ero circondata da amici che si ammalavano e nessuno dava loro medicine o un aiuto. Quando chiedevamo alle guardie di aiutarci, per esempio quando Aminatou Haidar aveva crisi epilettiche, ogni volta ci rispondevano «quando muore chiamateci, la porteremo via». Allora noi donne prendevamo un pezzo di stoffa, quel poco che avevamo per cercare di alleviare in qualche maniera le sue sofferenze. È molto difficile per me raccontare tutto questo.
La liberazione è arrivata nel 1991. Eravamo convinti che l'obiettivo delle guardie che ci trattenevano e del regime fosse quello di distruggerci, di spingerci a provare odio per la nostra stessa causa, smettendo così di cercare di diffonderla. Grazie a Dio, per me che sono credente, e grazie alla legittimità della causa che noi difendiamo, sono riuscita a mantenermi solida, anche se dopo la liberazione mi sentivo e mi sento ancora molto debole. Ogni volta che ripenso a quello che ho vissuto inevitabilmente ritornano le lacrime.


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Ma durante il periodo della mia scomparsa ho trovato il coraggio di superare questo calvario.
Complessivamente la liberazione ha riguardato 324 persone, vittime Sahrawi, tra cui 87 donne che avevano trascorso in questa caserma sei anni o tre anni e sette mesi, come nel mio caso. Queste vittime provenivano da tutte le città Sahrawi e molti venivano a chiederci se avessimo notizie dei loro parenti. Io stessa avrei voluto chiedere dov'era mia madre; addirittura ho chiesto a delle guardie se l'avessero mai vista e mi hanno risposto che era stata in quella stessa prigione. Tanta gente, dunque, veniva a chiederci delle sorti dei familiari, ma spesso non eravamo in grado dare alcuna risposta.
Abbiamo quindi pensato che fosse nostro dovere cercare di capire che fine avessero fatto i nostri cari familiari e parlarne a tutti coloro che non conoscevano queste violazioni orrende contro l'umanità e contro i diritti umani. I nostri amici e fratelli marocchini innanzitutto devono essere informati e anche la comunità internazionale deve conoscere la verità.
Abbiamo cercato, dunque, di fare uno sforzo per diffondere queste informazioni. All'inizio degli anni Novanta il Marocco ha iniziato a parlare di democrazia, di rispetto dei diritti umani, quindi tutti si sentivano motivati, c'era entusiasmo all'idea che questi slogan si concretizzassero realmente, ma purtroppo, nel 1992 e 1993 ci sono state nuovamente scomparse forzate. Anche un mio amico, che oggi abita a Smara e che aveva trascorso moltissimi anni in galera, nel 1992-1993, ha trascorso un altro anno e mezzo in prigione.
La situazione è diventata di nuovo piuttosto vaga. Esiste realmente la democrazia e il rispetto dei diritti umani? La popolazione Sahrawi può effettivamente esprimersi in questa atmosfera di apertura oppure si tratta soltanto di slogan privi di senso e di realtà?
Nel 1994 abbiamo cercato di creare un comitato per preparare un elenco delle persone scomparse e poi liberate e delle persone che, invece, non si sapeva quale sorte avessero avuto. Molti dei nostri compagni sono andati a Rabat, hanno cercato di creare dei collegamenti all'interno del Marocco con i partiti politici, hanno iniziato a parlare con i colleghi per diffondere le atrocità che avevano vissuto e hanno anche stretto delle relazioni con i corpi diplomatici presenti a Rabat, per esempio l'ambasciata americana, francese, eccetera.
Abbiamo iniziato a invitare delle delegazioni straniere a visitare i nostri territori per poter ascoltare direttamente le testimonianze delle vittime. Le autorità marocchine hanno sempre detto che non bisogna ascoltare queste persone perché si tratta di terroristi separatisti e non sono credibili. Noi, invece, abbiamo invitato delegazioni a Smara e Laayoune per far sentire loro le nostre testimonianze.
All'inizio degli anni Duemila, come attivisti per i diritti umani, ma anche come vittime delle atrocità, abbiamo pensato di creare una società civile che potesse diffondere i diritti delle persone e anche il nostro diritto all'autodeterminazione, che per noi non significa necessariamente indipendenza, autonomia o integrazione nel Marocco, ma semplicemente la possibilità per il popolo Sahrawi di esprimersi liberamente. Per una volta, nella storia dell'occupazione di questo popolo, i Sahrawi vorrebbero potersi esprimere liberamente e scegliere, eventualmente, anche l'integrazione con il Marocco, ma ogni volta ci siamo scontrati con la stessa mentalità ristretta, chiusa, che non accetta il dialogo, rifiuta l'altro e cerca sempre di emarginare gli altri, affermando che noi siamo soltanto dei separatisti e dei terroristi.
I Sahrawi non sono mai stati dei separatisti, però esiste una realtà di questo territorio e lo Stato marocchino dovrebbe avere una mentalità più aperta, essere pronto a negoziare, a discutere, a dialogare, per poter assicurare una buona governance ai Sahrawi, il che non è avvenuto dal 1975 ad oggi: è il Marocco che ha creato questa situazione, per il malgoverno, per le sue reazioni eccessive e per l'occupazione del Sahara Occidentale, appunto, dal 1975 in poi. Io già negli anni '60 ho vissuto questa verità; in quegli anni ad Agadir eravamo una piccola comunità Sahrawi


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completamente emarginata e relegata in un piccolo quartiere. Già allora avvertivo questa forma di discriminazione contro la razza dei Sahrawi, quindi non è un dato nuovo, ma una mentalità e una forma di discriminazione molto antiche.
Abbiamo cercato di collaborare positivamente con gli organi del Marocco che mostravano un'apertura nei nostri confronti; mi riferisco, ad esempio, all'istanza di arbitrato che cercava di indennizzare le vittime. Nel 2005 c'è stata anche la creazione di una nuova commissione per promuovere la collaborazione. Da parte nostra, abbiamo dato tutte le informazioni in nostro possesso sulle scomparse forzate, abbiamo riferito tutti i dettagli, schede tecniche su ogni persona, poiché questo fenomeno delle scomparse è diverso da noi rispetto ad altri Paesi, come ad esempio Argentina o Africa del sud. In quei casi, il fenomeno era assolutamente discreto, nel senso che non si lasciavano tracce, mentre nel nostro caso il Marocco ha pensato che nessuno avrebbe mai chiesto conto allo Stato di queste scomparse.
Nel caso della scomparsa di mia madre, ad esempio, io ero presente al momento del rapimento, sono stata testimone, ma anche tutti i vicini erano presenti come testimoni nel momento in cui sono arrivate le guardie a portarla via, quindi potevamo dare una testimonianza, sebbene lo Stato marocchino abbia sostenuto che mia madre si era allontanata volontariamente per andare in Mauritania.
Stiamo cercando di creare una società civile con una mentalità aperta alla collaborazione con il Marocco e abbiamo pensato di creare delle associazioni per diffondere i princìpi dei diritti umani a livello della società, cosa che in Marocco non esiste.
Il Marocco occupa il nostro territorio dal 1975 e, nonostante tutte le atrocità che abbiamo vissuto, nessun Sahrawi ha mai osato uccidere un civile marocchino; non abbiamo mai fatto del male ai civili. Abbiamo vissuto sempre in coerenza con questi princìpi, perché abbiamo sempre considerato i Marocchini dei vicini, amici, fratelli. Spesso nel Sahara Occidentale sono presenti Marocchini di classi sociali basse che cercano semplicemente di lavorare e migliorare la loro condizione economica. Nonostante le sofferenze che lo Stato marocchino ci ha imposto - a Laayoune ci sono famiglie che hanno perso i genitori, che sono nei campi profughi, ci sono donne nei territori occupati che hanno subito la scomparsa forzata e non hanno mai potuto vivere nell'intimità il loro matrimonio, perché gli uomini si sono uniti al Fronte di liberazione del Polisario, e non hanno potuto avere figli - nessuno di noi, grazie alla fede che abbiamo in Dio, è ha fatto ricorso alla violenza.
Noi condividiamo con il popolo della regione questo senso dell'umanità e non abbiamo mai pensato di usare la violenza e l'odio. Purtroppo, lo Stato marocchino non ci ha restituito questi princìpi, non ha assicurato un buon governo né per quel che riguarda i governanti del Sahara Occidentale né per la sua popolazione.
Nel 1999 ci sono state grandi manifestazioni in cui la popolazione del Sahrawi ha protestato per rivendicare i propri diritti socio-economici. In quel periodo non si poteva certo parlare né di diritti umani né di diritti politici e c'erano fortissime repressioni a danno della popolazione Sahrawi. Tali repressioni hanno colpito profondamente la nostra popolazione, anche perché erano inattese. Sono arrivati furgoni carichi di soldati armati che hanno occupato le case dei Sahrawi, picchiato la gente, distrutto i negozi, rubato le merci e si è creato un clima di estrema tensione che nel passato non si era mai verificato. Questo è avvenuto nuovamente, alla morte di Hassan II, perché i Marocchini hanno sfilato, accompagnati dalla polizia, suonando tamburi e lanciando slogan razzisti contro di noi (ad esempio «Morte ai nemici. Il re ci ha lasciato eredi di questo principio!»); ma noi non ci siamo mai considerati nemici dei fratelli marocchini. Eppure questi fenomeni si sono verificati, cogliendoci di sorpresa, ma grazie a Dio, siamo riusciti a evitare la violenza anche da parte nostra.
Ci sono stati fenomeni simili dopo lo smantellamento del campo di Gdim Isik: a Laayoune ci sono state altre manifestazioni difficili


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da gestire, proprio perché erano presenti Marocchini protetti dalla polizia che venivano armati di bastoni e colpivano le case e la popolazione Sahrawi.
Facciamo un passo indietro. Nel 2005, come vi dicevo, abbiamo cercato di creare un'associazione delle vittime Sahrawi. Abbiamo creato questa associazione in base al diritto marocchino in materia di associazioni, abbiamo seguito tutta la procedura necessaria, ma le autorità ci hanno rifiutato l'autorizzazione necessaria per affittare un locale e avere una sede. Eppure parlavamo semplicemente di diffondere il rispetto dei diritti umani, l'alfabetizzazione delle donne, l'aiuto psicologico alle vittime delle scomparse forzate. Questi erano i nostri princìpi e le nostre prospettive di lavoro.
Quindi, ci siamo nuovamente scontrati con questa mentalità chiusa, contraria ai diritti fondamentali, e abbiamo fatto ricorso al tribunale amministrativo di Agadir. C'è stata una sentenza a nostro favore, ma dopo un anno e mezzo le autorità hanno fatto appello; questo è stato rigettato perché non era legittimo, ma ciononostante al momento siamo bloccati.
Dobbiamo quindi lavorare a casa, non avendo ancora una sede, ma le nostre case sono sempre controllate dalla polizia. Per tutti gli anni precedenti abbiamo cercato di non parlare ai nostri figli delle atrocità che avevamo subito, perché non volevamo diffondere odio e desiderio di vendetta nei confronti dello Stato marocchino. Eppure queste violazioni vengono rese pubbliche, perché tutte le manifestazioni dal 2005 in poi sono state represse in maniera brutale e violenta apertamente; ci sono foto che lo dimostrano e che vengono diffuse ovunque.
Secondo la nostra cultura, la donna ha un ruolo importante; la donna e i bambini sono intoccabili. Anche se siamo ignoranti, nella nostra cultura la donna ha sempre avuto un ruolo preciso e importante nella società. A partire dal 2005 gli anziani e i bambini vedono che le donne vengono torturate, subiscono violenze da parte della polizia di uno Stato che sostiene che il Sahara Occidentale fa parte del proprio Paese.
Il 10 dicembre 2006, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani, la nostra associazione ha deciso di organizzare un sit-in in città, quindi abbiamo avvisato le autorità. Quando siamo arrivati - c'era l'Ufficio esecutivo, con tutti i militanti - siamo stati attaccati. Io stessa sono stata picchiata per strada. Ricordo che una persona anziana vicino a me diceva che se avesse avuto un fucile avrebbe sparato ai soldati. Io non voglio, però, che i Sahrawi siano costretti a pensare di dover prendere le armi.
Il Marocco dovrebbe avere il coraggio storico e morale di riconoscere la libertà di espressione al popolo Sahrawi affinché possa decidere del proprio futuro. Non siamo inferiori agli altri popoli. Noi rispettiamo il popolo marocchino, ma ci sono persone che non hanno rispetto per se stesse, dunque non possono pretendere rispetto dagli altri.
Spero che questa mia testimonianza possa servire a farvi capire qual è la situazione dei diritti umani nei nostri territori.
Non ho parlato degli ultimi eventi a Dakhla, in occasione di un festival organizzato l'8 e il 9 marzo. In una di queste serate di festa ci sono stati degli scontri tra i Sahrawi e i Marocchini, sono state incendiate delle case, ci sono state violazioni gravi.
Stranamente, il Governo marocchino ha sempre sostenuto che i Sahrawi di Dakhla sono quelli che appoggiano maggiormente le tesi del Marocco, ma ogni volta che c'è una manifestazione si verifica una repressione violenta contro i Sahrawi. Si accettano i Sahrawi soltanto se sono mansueti e non chiedono nulla, ma nel momento in cui reagiscono attraverso manifestazioni, rivendicazioni e proteste, vengono immediatamente accusati di essere dei separatisti contro i quali bisogna intervenire violentemente.
Mi sembra un atteggiamento illogico e antidemocratico in violazione di qualsiasi diritto umano. Lascio a voi l'ultima parola, ringraziandovi per avermi ascoltato.

PRESIDENTE. Grazie, signora El Ghalia.


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Do la parola all'avvocato Francesca Doria.

FRANCESCA DORIA, Attivista per la difesa dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Mi chiamo Francesca Doria, sono un avvocato di Napoli. Sono andata spesso, negli ultimi anni, come osservatore nei processi ai danni dei Sahrawi in Marocco.
Dal 2005, con l'intifada, ci sono stati molti osservatori internazionali nei processi, soprattutto dalla Spagna, dalla Francia e anche dall'Italia, sostenuti da associazioni che si occupano di diritti umani.
In Marocco i processi si svolgono in maniera un po' approssimativa, quindi la presenza degli osservatori internazionali ha fatto sì che vi fossero riduzioni di pena o quantomeno che le pene fossero più rispondenti alla legge.
Nell'ultimo periodo, c'è stato il processo dei primi sette attivisti che sono andati nei campi profughi e che, al rientro in Marocco, sono stati arrestati: prima sono scomparsi per una decina di giorni, dopo sono ricomparsi, arrestati, in un tribunale militare, con l'accusa di tradimento. Sono rimasti per circa un anno senza processo. Nel corso di questo anno, l'unica donna arrestata, Degia Lachgare, è stata liberata per motivi di salute; altri tre sono stati liberati senza alcuna motivazione; per gli ultimi tre che erano rimasti in carcere - Brahim Dahane, che doveva essere oggi con noi, Ahmed Nassiri e Ali Salem Tamek, - il processo è stato trasferito presso un tribunale civile. Il reato è stato commutato da tradimento a favore di uno Stato estero in un reato commesso all'interno del Marocco. Il processo è iniziato il 15 ottobre, che ha portato delle novità rispetto ai precedenti processi, poiché prima vi erano cittadini Sahrawi, familiari, che affollavano l'aula, mentre nel tribunale di Casablanca abbiamo trovato l'aula affollata di coloni marocchini e anche di numerosi avvocati marocchini, oltre una sessantina, che non erano coinvolti nel processo, ma erano lì solamente in veste di visitatori. Abbiamo subito capito il perché: durante il processo gli avvocati marocchini si sono rivolti principalmente agli osservatori internazionali; in quell'occasione c'erano circa 22-23 avvocati e giudici che venivano, oltre che da Italia, Spagna e Francia, dalla Svezia e dall'Inghilterra (vi era anche un rappresentante dell'ambasciata svedese). Praticamente, gli attivisti sono stati accusati di essere pagati dall'Algeria.
Devo dire che quando vado in Marocco ad assistere ai processi lo faccio a mie spese, quindi non vi è neanche un'associazione italiana, molto spesso, che riesce a sovvenzionare questi viaggi. Quello che mi ha sorpreso - per la prima volta ho visto una cosa simile - è che in aula gli avvocati indossavano la toga, dunque erano nel massimo della loro funzione, e si sono rivolti verso i colleghi di altri Paesi in toni assolutamente sprezzanti, quasi intimidatori. Dopo, infatti, nell'atrio del tribunale si è svolta una piccola manifestazione degli avvocati che inneggiavano al Re, cantavano slogan, sventolavano bandire marocchine. Insomma, non era un atteggiamento consono a un processo. Peraltro, gli imputati non erano stati neanche portati in aula e quando la corte ha visto queste manifestazioni da parte degli avvocati è praticamente sparita, quindi l'aula è stata lasciata a se stessa.
Questo è avvenuto la prima volta; la seconda volta sono riusciti a entrare gli imputati ma non potevano neanche parlare, tanto erano praticamente assaliti e circondati dalla confusione generale; la terza volta la corte si è riservata di decidere, ha rimesso il giudizio, diremo noi, sul ruolo, per un'ulteriore istruttoria e poi improvvisamente ha liberato i tre attivisti. Senza nessuna motivazione, ha concesso la libertà provvisoria. Molti detenuti vengono messi in libertà provvisoria, hanno anche il passaporto, possono andare all'estero, ma la libertà provvisoria è di fatto una sorta di pressione che lo Stato vuole esercitare sugli imputati.
Da allora non ci sono stati altri processi con molti imputati. La signora Djimi El Ghalia ha parlato di Gadaym Izik, un campo di circa otto mila tende, sorto tra il 10 ottobre e l'8 novembre 2010 (giorno del suo smantellamento) a dodici chilometri


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da Laayoune. Questo campo viene definito il primo episodio della primavera araba, perché i Sahrawi che vi si sono recati non erano attivisti o militanti per i diritti umani, ma persone che chiedevano un lavoro, una casa, la possibilità di vivere decentemente. Questo campo è nato in una sorta di autonomia e di autogestione: c'era la sicurezza interna, la raccolta della spazzatura, insomma era assolutamente autorganizzato, ma era circondato dalla polizia marocchina. L'8 novembre improvvisamente la polizia ha assalito il campo, lo ha smantellato, e da lì sono cominciati i disordini nella città di Laayoune, con arresti e feriti. Tra questi, 23 persone arrestate per il lavoro svolto nell'ambito del campo di Gadaym Izik sono state trasferite alla prigione militare di Salé. Queste persone, dall'8 novembre, sono tuttora in carcere, senza avere un capo di imputazione, senza sapere quando si farà il processo, senza avere nessuna certezza e nessun diritto. Sono in carcere e attendono che qualcosa avvenga.
Altre 160 persone arrestate a Laayoune sempre nell'ambito degli scontri e del campo Gadaym Izik sono state in linea di massima tutte liberate, sempre provvisoriamente, senza aver avuto un processo e senza di fatto sapere nemmeno di che cosa sono accusate.
Urge, dunque, ed è auspicata dai Sahrawi la presenza nei processi di osservatori internazionali che tentino di portare al di fuori la voce di questo popolo.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Ardesi.

LUCIANO ARDESI, Presidente dell'Associazione Nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi (ANSPS). Ringraziandovi di aver organizzato questa audizione, voglio solo aggiungere alcune considerazioni. Prima si faceva riferimento alla primavera araba iniziata non già in Tunisia ma nei territori occupati del Sahara Occidentale. Ora, c'è un filo che unisce tutte queste rivolte: Gadaym Izik è stato chiamato «l'accampamento della dignità»; la parola è diventata più familiare quando hanno cominciato a usarla i tunisini e gli egiziani, ma sempre in queste manifestazioni è stata utilizzata la parola «dignità».
Domenica scorsa, in occasione della marcia Perugia-Assisi, parlavo con alcuni esponenti della società civile marocchina che vogliono far sapere che anche all'interno del Marocco attualmente c'è un problema di dignità, che naturalmente, come nel caso dei Sahrawi, si lega sia a motivi di carattere politico sia a motivi di carattere economico. Si tratta soprattutto di giovani; il «movimento del 20 febbraio» si è espresso in questi mesi e, fra l'altro, lo ha fatto anche in maniera solidale o quantomeno favorevole affinché quel diritto di espressione che i marocchini chiedono nella propria patria venga concesso anche ai Sahrawi.
Il presidente del Comitato è forse la persona più indicata per comprendere uno strano fenomeno che succede in Marocco. C'è stata un'apertura del Re, nell'estate del 1999, ma c'è stato un declino inesorabile per quel che riguarda la libertà di informazione e di espressione. In questo momento un direttore di un giornale è in carcere, diversi giornali sono stati chiusi negli ultimi anni, molti giovani che scrivono sui blog sono stati arrestati e i blog stessi chiusi. Come voi sapete bene, di questi tempi non c'è blog che venga chiuso che non risorga in tanti modi. Credo che questo sia l'aspetto di una contaminazione positiva in queste regioni.
Certamente la causa Sahrawi costituisce una spina nel fianco. Permettetemi di dirvi che ho cominciato ad occuparmi dei Sahrawi perché voglio bene ai marocchini. Conosco il Marocco dal 1967, ci ho lavorato e studiato, ho anche insegnato in Algeria e in altri Paesi arabi. Penso che non si possa volere bene a un Paese, al suo popolo, e vedere che il Governo di quel Paese schiaccia un altro popolo.
I Sahrawi lo sanno e non me ne vogliono se dico che voglio bene al popolo marocchino.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti.


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Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

CARMEN MOTTA. Signor presidente, mi scuso se sono arrivata con qualche minuto di ritardo, ma ero impegnata in un altro appuntamento importante con esponenti della Repubblica democratica del Sahrawi. Ho ascoltato con grande attenzione la testimonianza della signora Djimi El Ghalia. Questa e altre testimonianze che abbiamo già ascoltato in questo Comitato - non è la prima volta, presidente - convergono sul fatto che il popolo Sahrawi nei territori occupati patisce una repressione molto violenta e l'impossibilità di avere riconosciuti i diritti fondamentali, non solo di libertà personale, del rispetto della propria persona, ma anche - lo diceva prima l'avvocato Francesca Doria, quando i fatti di Gadaym Izik l'hanno reso pubblico - il diritto al lavoro, all'istruzione, alla possibilità di condurre una vita normale e dignitosa.
Tutto questo manca nei territori occupati e da parte delle autorità marocchine continuano dei comportamenti che se da un lato ogni tanto sembrano apparire degli atti unilaterali di tolleranza nei confronti degli imprigionati Sahrawi, in realtà credo che siano, purtroppo, solo un modo di tendere ad accorciare la corda di una situazione che vuole portare, secondo me, alla remissione definitiva del popolo Sahrawi, nei confronti del quale evidentemente il Regno del Marocco non intende perseguire quella necessità di confronto, di dialogo e di apertura che richiamavano prima El Ghalia, il dottor Ardesi e l'avvocato Doria.
Dobbiamo prendere atto che, nella situazione attuale, rispetto a diversi anni fa, sostanzialmente non è cambiato molto nei territori occupati. Direi, anzi, che la situazione, se possibile, è addirittura peggiorata.
Presidente, questa è una delle grandi ingiustizie dimenticate nel mondo. Parliamo di un piccolo popolo, di una piccola realtà, che riesce a fare notizia soltanto quando ci sono fatti particolarmente eclatanti. Cito, ad esempio, il caso di Aminatu, che abbiamo avuto modo di ascoltare in questo Comitato, allorchè abbiamo sentito del suo sciopero della fame per vedersi riconosciuto il diritto di poter rientrare nei territori occupati; inoltre, l'episodio di Gadaym Izik, quando la stampa del nostro Paese e internazionale si è occupata di questa sorta di autorganizzazione di una parte di questo popolo, finita come sappiamo. Pare che ci si possa interessare delle cause soltanto quando ci sono vittime o scontri molto duri.
Spero che le ultime prese di posizione - presidente, lei forse avrà avuto modo di apprenderle - del popolo Sahrawi e della sua rappresentanza «istituzionale» vengano ascoltate. È un grido d'allarme, nel senso che queste notizie ci dicono che la pazienza di questo popolo sta forse per finire. La parte più giovane della popolazione è stanca di vivere confinata in esilio o di non vedere riconosciuti i diritti più elementari nei territori occupati, quindi sostiene che se non c'è altra soluzione, se il confronto che cercano di mantenere vivo da decenni non porta a nulla, purtroppo forse devono ritornare a riprendere le armi per vedere riconosciuta la loro identità di popolo.
Dobbiamo lavorare tutti perché ciò non avvenga, ma dobbiamo tener presente che dopo 25-30 anni la popolazione effettivamente può avere esaurito la propria capacità di sperare che pacificamente le questioni si risolvano.
Spero che anche il nostro lavoro di parlamentari, dell'Intergruppo parlamentare, la nostra affermazione di amicizia col popolo Sahrawi possa essere utile per avvicinare le posizioni, per vedere riconosciuti i diritti che questo popolo giustamente rivendica e che sono riportati nelle carte del diritto internazionale.
In Commissione esteri abbiamo fatto approvare una risoluzione, abbiamo presentato interrogazioni, monitoriamo la situazione; presenteremo presto un'altra interrogazione sulle persone Sahrawi attualmente incarcerate senza motivazione alcuna. Penso, tuttavia, che il vero tema sia quello di dare maggiore visibilità a questo problema e, soprattutto, di poterne discutere


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in maniera tale che diventi non il problema del Sahrawi ma uno dei tanti problemi del Mediterraneo nei confronti dei quali spero che il nostro Paese, con la nostra diplomazia, nelle sedi internazionali ma anche nei rapporti bilaterali, possa svolgere una funzione per far procedere un negoziato che purtroppo è fermo e non riesce a compiere passi significativi.

MATTEO MECACCI. Ringrazio i rappresentanti dell'Associazione nazionale di solidarietà con il popolo Sahrawi che ci hanno reso queste testimonianze. In particolare, la testimonianza della signora El Ghalia ci ha ricordato come in tutta la regione del Nord Africa il rispetto dei diritti umani sia ancora lontano dall'essere raggiunto; come abbiamo visto negli anni passati e anche nei mesi scorsi, è un tema di grande attualità, anche per le rivolte popolari che ci sono state in quella regione, che evidentemente sono collegate anche a vicende non molto dissimili da quella che ci è stata raccontata. Quest'ultima, tuttavia, reca con sé un tasso di drammaticità e gravità maggiore perché in questa situazione vi è un rapporto tra popoli diversi, quindi anche la repressione e le difficoltà per le popolazioni che si trovano a essere sottomesse alla situazione di non democrazia sono più gravi di quelle in cui, ad esempio, i governanti sono della stessa etnia e della stessa cultura. A me interesserebbe chiedere alcune informazioni.
In particolare, ho letto nella scheda che è stata distribuita che si parla di una popolazione Sahrawi di circa 300 mila persone. Ora, non so quante di queste siano nel territorio e quante siano in esilio, tuttavia mi interesserebbe conoscere anche il numero dei cittadini marocchini che adesso si trovano nella regione - e che immagino adesso siano anche di seconda o terza generazione - per capire anche quale sia il rapporto tra le popolazioni. Io credo che il fallimento del piano Becker rispetto alla tenuta del referendum all'inizio degli anni 2000 e l'apertura (sempre da verificare) da parte del Governo marocchino sulla questione dell'autonomia per i Sahrawi all'interno del territorio marocchino sia una questione politica che deve essere affrontata in un contesto anche demografico che va compreso un po' più a fondo. Dico questo non perché non esista il diritto all'autodeterminazione o, comunque, la necessità per il popolo Sahrawi di esprimersi, ma per capire se vi sia, anche da parte di un Paese come l'Algeria, che evidentemente sostiene la causa del popolo Sahrawi da molto tempo, un interesse a trovare una soluzione che vada incontro alle necessità della popolazione che, innanzitutto, richiederebbero a mio avviso - e su questo credo che ci dovrebbe essere anche un maggiore impegno del Governo italiano - che la missione delle Nazioni Unite autorizzata nella regione abbia un pieno mandato di monitoraggio della situazione. Se, infatti, non si conoscono le realtà vissute dalla popolazione è difficile rivolgersi alle parti per negoziare.
Credo - è la mia opinione personale, dunque non sia presa come una posizione antagonista - che la questione delle indipendenze nazionali assolute nella realtà del 2011 e di relazioni internazionali che vedono ormai processi economici, sociali, finanziari sempre più globalizzati debba essere presa in considerazione con la priorità di garantire i diritti alle persone, agli individui, e su come si possa raggiungere questo obiettivo nel modo migliore, più che attraverso una posizione di principio, magari corretta, come può essere quella dell'autodeterminazione dei popoli, ma che non garantirebbe necessariamente un'evoluzione nel senso del rispetto dei diritti delle persone.
Se ci fossero queste informazioni vi sarei grato.

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

LUCIANO ARDESI, Presidente dell'Associazione Nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi (ANSPS). Prima di darvi le cifre della popolazione, svolgo alcune considerazioni di carattere politico.
Attualmente nei territori occupati la maggior parte della popolazione è rappresentata da coloni marocchini, cioè persone che


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sono state «invitate» a emigrare nel territorio del Sahara Occidentale. Addirittura il sito della CIA quantifica i Sahrawi in 400 mila, un numero forse leggermente sovrastimato, mentre - tenendo conto che in questo momento è in corso un censimento in Marocco - l'ultimo censimento generale del 2004 riporta una popolazione complessiva di 400 mila persone. Per questo dico che la stima della CIA mi sembra un po' al di là delle cifre reali. È vero anche che nella definizione del censimento marocchino si parla di popolazione «legalmente» residente, ma anche all'interno dello stesso Marocco evidentemente ci sono movimenti di popolazione che non sono monitorati dalle stesse autorità.
Nei territori liberati si stimano oltre 20 mila Sahrawi, nomadi; nei campi profughi in Algeria, secondo la stima dell'Alto Commissariato per i rifugiati, sono 165 mila. Ormai contiamo almeno 100 mila Sahrawi distribuiti all'estero, principalmente in Spagna, a cominciare dalle Canarie che fronteggiano la costa del Sahara Occidentale, fin nella Spagna continentale, in altri Paesi dell'Europa e ormai anche al di fuori dell'Europa.
Cito un dato interessante a proposito della demografia: i Sahrawi non hanno mai posto il problema della presenza dei marocchini nel territorio autodeterminato; hanno già ufficializzato la proposta secondo la quale i coloni che vorranno restare nel Sahara Occidentale, se dovesse diventare indipendente, avrebbero la nazionalità Sahrawi e quindi potrebbero restarvi.
Svolgo un'ultima considerazione che riguarda le frontiere. Siamo in una fase un po' strana, alla quale in Europa abbiamo dato il la, ufficializzando la dissoluzione della ex Jugoslavia, con l'indipendenza del Kosovo. L'Africa si sta muovendo su nuove piste. Si pensi all'indipendenza del Sudan del sud il 9 luglio: è il primo Stato africano che nasce al di fuori di frontiere coloniali (anche all'Eritrea, tutto sommato, le frontiere le avevamo date noi con la colonizzazione italiana).
Nel caso del Sahara Occidentale - si consideri che stiamo parlando di un Paese che ha una superficie grande quasi come l'Italia - proprio la consapevolezza di questi problemi, non solo demografici, ma in generale politici ed economici, ha fatto dire già da molto tempo ai Sahrawi, al Fronte Polisario, che l'indipendenza formale del Sahara Occidentale aprirebbe finalmente la strada a un'unione, a una federazione del Maghreb, che potrebbe andare dalla Libia fino alla Mauritania. In questo ambito federale si potrebbero trovare anche tutte le composizioni di carattere sociale, economico, ma anche etnico. I berberi hanno un'esistenza molto sofferta sia in Marocco sia in Algeria; in Libia e Tunisia non resta ormai quasi più niente.
Probabilmente la soluzione del Sahara Occidentale, con l'idea di una federazione, aprirebbe anche la strada alla soluzione dei problemi sia etnici (o etnico-linguistici come nel caso dei berberi, che come sapete sono tra di loro molto frammentati), sia di regionalizzazione. La nuova Costituzione marocchina prevede una regionalizzazione, ma la struttura di potere è assolutamente centralizzata; il decentramento è semplicemente di carattere amministrativo (per dare un riconoscimento istituzionale a delle regioni) ma la catena di trasmissione del potere è sempre rimasta centralizzata. Consentitemi di dire che è così da secoli; da questo punto di vista non c'è, ahimè, neppure nella nuova Costituzione, alcuna novità.
Penso al fatto che la figura del Re venga in qualche modo costituzionalmente protetta; non si entra nei meriti delle competenze e soprattutto delle responsabilità. Nella Costituzione del Marocco, anche nella nuova, il Re non ha nessuna responsabilità, cioè è al di sopra della stessa Costituzione. Ancora una volta, la catena del potere discende dal Re che detiene di fatto il potere assoluto.
Sebbene vi sia qualche frangia repubblicana nel Marocco, i Sahrawi e gli stessi marocchini non contestano la monarchia. Personalmente, da studioso di questa regione ritengo che il problema non sia la monarchia in sé, ma la gestione del potere. Intendo dire che probabilmente uno Stato federale obbligherebbe anche la struttura del potere marocchino a democratizzarsi. Come può costituirsi uno Stato federale in cui


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in un angolo esiste una regione il cui supremo rappresentante non ha responsabilità alcuna né verso i suoi sudditi né, a questo punto, verso i partner di una possibile unione del Maghreb o di uno Stato federale?

MATTEO MECACCI. Ma la proposta di autonomia è stata mai formalizzata in qualcosa di declinabile anche a livello istituzionale o è solo...

LUCIANO ARDESI, Presidente dell'Associazione Nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi (ANSPS). Esiste. C'è una proposta che noto, peraltro, nessuno conosce. Stranamente le stesse autorità marocchine non l'hanno diffusa, ma il testo esiste. È stata depositata come proposta al Consiglio di sicurezza.
A volte le stesse autorità marocchine ci dicono che proprio noi italiani abbiamo l'esempio delle regioni autonome, quindi dovremmo essere in Europa particolarmente attenti a questa soluzione. Nella proposta di autonomia la cosa che più sorprende è che c'è il riconoscimento di un'autonomia amministrativa - questo sarebbe vero anche per le altre regioni del Marocco - ma non c'è, ad esempio, nessun riconoscimento dell'identità Sahrawi. È come se la Provincia autonoma di Bolzano nel suo statuto autonomo non contenesse accenno alcuno alla possibilità di parlare tedesco nei tribunali o di insegnare la lingua tedesca nelle scuole.

DJIMI EL GHALIA, Attivista per la difesa dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Vorrei fare una piccola osservazione in merito all'intervento dell'onorevole Motta. Sono perfettamente d'accordo con lei circa le preoccupazioni che ha espresso. Anch'io spesso dico che la comunità internazionale commette un errore o addirittura un crimine se non decide di reagire positivamente per trovare una soluzione, in quanto sta spingendo il popolo Sahrawi, che pure è un popolo pacifico, a fare ricorso alla violenza. Bisogna sottolinearlo. È necessario cercare di risolvere questa situazione, perché penso che quello dei Sahrawi sia l'unico popolo al mondo che fa di tutto per evitare la violenza.
Riguardo all'intervento dell'onorevole Mecacci, vorrei aggiungere che sulla popolazione Sahrawi non abbiamo statistiche affidabili. I Sahrawi, nei territori del Sahara Occidentale occupato, dovrebbero rappresentare il 25-30 per cento della popolazione totale, quindi una minoranza. È per questo che quando parlo di malgoverno del Marocco mi riferisco anche al fatto che dovrebbero cercare di risolvere i problemi di una piccola popolazione grazie alle enormi risorse naturali di cui dispone la nostra regione (fosfati, pesca, eccetera). Si tratta di una cattiva gestione da parte dello Stato marocchino.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti. Noi restiamo come il vostro archivio, il luogo in cui si depositano le vostre voci, facendo in modo che non vadano né dimenticate né disperse. Grazie.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.

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