Sulla pubblicità dei lavori:
Conte Gianfranco, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME CONGIUNTO DELLA PROPOSTA DI REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO RELATIVO AI REQUISITI PRUDENZIALI PER GLI ENTI CREDITIZI E LE IMPRESE DI INVESTIMENTO (COM(2011)452 DEFINITIVO) E DELLA PROPOSTA DI DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO SULL'ACCESSO ALL'ATTIVITÀ DEGLI ENTI CREDITIZI E SULLA VIGILANZA PRUDENZIALE DEGLI ENTI CREDITIZI E DELLE IMPRESE DI INVESTIMENTO E CHE MODIFICA LA DIRETTIVA 2002/87/CE (COM(2011)453 DEFINITIVO)
Audizione del professor Rainer Stefano Masera, del professor Stefano Caselli e del professor Lorenzo Gai:
Conte Gianfranco, Presidente ... 3 14 17 22
Caselli Stefano, Professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università commerciale «Luigi Bocconi» ... 7 19
Causi Marco (PD) ... 16
Fluvi Alberto (PD) ... 15
Gai Lorenzo, Professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università degli Studi di Firenze ... 10 20
Masera Rainer Stefano, Preside della Facoltà di economia e professore di politica economica presso l'Università degli Studi «Guglielmo Marconi» ... 3 17
Pagano Alessandro (PdL) ... 16
ALLEGATO: Documentazione consegnata dai professori Rainer Stefano Masera, Stefano Caselli e Lorenzo Gai ... 23
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per
il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.
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Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 14,30.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento (COM(2011)452 definitivo) e sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull'accesso all'attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva 2002/87/CE (COM(2011)453 definitivo), l'audizione dei professori Rainer Stefano Masera, preside della Facoltà di economia e professore di politica economica presso l'Università «Guglielmo Marconi» di Roma, Stefano Caselli, professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università commerciale «Luigi Bocconi», e Lorenzo Gai, professore di economia degli intermediari finanziari presso
l'Università degli studi di Firenze.
Sono presenti anche la dottoressa Antonella Pisano, ricercatore di politica economica presso l'Università «Guglielmo Marconi», e la dottoressa Carla Signorello, del Dipartimento della ragioneria generale dello Stato del Ministero dell'economia e delle finanze.
Do quindi la parola al professor Rainer Stefano Masera per la sua relazione.
RAINER STEFANO MASERA, Preside della Facoltà di economia e professore di politica economica presso l'Università degli Studi «Guglielmo Marconi». Innanzitutto, vorrei ringraziare lei, signor presidente, e tutti i componenti di codesta importante Commissione per il tempo che ci è concesso. Il mio intervento sarà abbastanza breve, nonostante la complessità degli argomenti da trattare. In ragione di ciò, mi sono permesso di fornire alla Commissione un'ampia documentazione, alla quale, tuttavia, farò riferimento soltanto in parte.
Preliminarmente, vorrei sottolineare che, occupandomi da molto tempo degli standard di Basilea - ho cominciato presso la Banca dei regolamenti internazionali, quando i nuovi requisiti prudenziali erano ancora nella fase di concepimento -, ho sviluppato valutazioni sostanzialmente negative al riguardo, in considerazione del fatto che i metodi di cui stiamo discutendo, apparentemente rivolti a soddisfare l'esigenza di stabilità delle banche e, complessivamente, del sistema finanziario, possono trasformarsi in elemento di instabilità.
L'attuale situazione europea è basata su alcune premesse che tutti condividiamo:
da un lato, bisogna porre sotto controllo le finanze pubbliche nei diversi Paesi europei, secondo criteri di sostenibilità nel tempo; dall'altro, occorre trovare una soluzione ai problemi del debito; ugualmente, anche le banche devono avere un saldo presidio patrimoniale, a fronte delle perdite che possono rivelarsi nel presente e anche in prospettiva.
Nondimeno, la somma di ciò che è stato fatto muovendo da tali premesse, in sé corrette, ha portato a una situazione molto grave e delicata.
Non è questa l'occasione per addentrarsi in una disamina critica dei problemi posti dal risanamento delle finanze pubbliche in Europa. I mercati sono convinti che il risanamento sia necessario, sebbene i modi e i tempi attraverso i quali tutti i Paesi europei stanno procedendo in tal senso, nonché la mancanza di chiarezza sui problemi del debito, determinino preoccupazioni di carattere recessivo. Si avverte, pertanto, una situazione di crisi prospettica.
La risposta di Basilea 3 alle difficoltà, alla recessione e al rischio sovrano è che le banche devono avere un capitale sempre più grande.
In tale posizione vi sono, tuttavia, due fallacie di composizione: se tutti cercano di risparmiare di più, la somma dei tentativi determina meno reddito e meno risparmio; inoltre, la somma dei tentativi di tutte le banche di ottenere maggiori capitali nel breve termine fa sì che nessuna di esse riesca a conseguire il proprio obiettivo, e si corre il rischio di tornare indietro alla situazione del 2007-2009, quando la crisi delle finanze pubbliche è stata prodotta proprio dal fatto che il taxpayers' money è stato utilizzato per salvare le banche.
Insomma, possiamo dire di essere di fronte a una potenziale «tempesta perfetta», in base a una considerazione analitica di fondo, ossia che il rischio è, in larga misura, endogeno.
Quando le previsioni meteorologiche sono avverse, gli esperti ci possono allertare, permettendoci di contenere eventuali danni alle persone e alle cose. Il punto da evidenziare è che le predette previsioni, e tutte le conseguenti azioni da noi intraprese, non influiscono sull'evento al quale ci prepariamo. Se domani o dopodomani nevicherà, o arriverà un freddo polare, non dipenderà dalle previsioni, né dalle azioni che saranno poste in essere dalla Protezione civile, o da altri soggetti, per limitare i danni dell'evento meteorologico avverso o della tempesta. In questo caso, quindi, il rischio è esogeno.
Nel caso della finanza, invece, il rischio è solo in parte esogeno, poiché le politiche, quantomeno discutibili, adottate da tutti i Paesi europei generano un'oggettiva condizione di stress. Inoltre, il modello VaR (Value at risk), alla base di Basilea 1, 2 e 3, è estremamente pericoloso, in quanto basato su ipotesi di normalità. In realtà, l'utilizzo di modelli VaR sostanzialmente analoghi da parte di tutte le banche, in Italia, in Europa e nel mondo intero, sospinge a comportamenti omogenei, che moltiplicano volatilità e rischio. Ciò genera richieste sempre più elevate di capitale, che i mercati non riescono a soddisfare, l'intervento degli Stati produce ulteriori incertezze sullo stato delle finanze pubbliche e la risposta delle banche va verso il deleveraging e il credit crunch, con accentuazione delle tendenze recessive, dei fallimenti e dei fabbisogni di capitale.
Ciò vale a dimostrare, tra l'altro, che la crisi finanziaria attuale nasce, in larga misura, dal supporto fornito alle banche durante la precedente crisi da molti Paesi europei. Il Rapporto del Gruppo ad alto livello sulla supervisione finanziaria nell'Unione europea, presieduto da Jacques de Larosière, è stato utilizzato dal Consiglio europeo soltanto in parte. Infatti, non è stata seguita l'indicazione a prendere in considerazione simultaneamente, secondo un approccio complessivo, supervisione macroprudenziale, vigilanza, nuovi standard di capitale e nuove regole del gioco, in particolare per quanto riguarda le agenzie di rating e i CDS sovrani. Da tale errore nasce la grande tensione che regna sui mercati.
Per sottolineare la gravità della situazione, come percepita dai mercati, possiamo fare riferimento alla slide 15 della presentazione. Al di là delle fluttuazioni quotidiane, il valore della capitalizzazione di borsa di tutte le banche italiane quotate è pari, nel mese appena trascorso, a 51 miliardi di euro, contro i 261 di giugno 2007. Tuttavia, la cosa più grave è che anche il sistema bancario della Germania vale 50 miliardi di euro. Quindi, anche il Paese più forte e più sano, che detta le regole del gioco in Europa, ha un sistema bancario che i mercati reputano estremamente debole. Vi è, dunque, una fragilità sistemica.
Il rischio endogeno è il principale problema analitico di Basilea 3. Potrei soffermarmi su questo aspetto, ma desidero sottolineare, in una prospettiva di teoria economica, che il problema non si porrebbe se i mercati fossero sempre non soltanto razionali, ma anche fortemente efficienti, cioè se tutte le informazioni disponibili arrivassero sempre ai mercati. In una situazione siffatta, però, non ci sarebbe bisogno di regolazione, e cadrebbe, paradossalmente, la stessa ragion d'essere di Basilea 3, basato sull'inefficienza dei mercati e sull'importanza del capitale. In altre parole, non trova applicazione il teorema Modigliani-Miller: in caso contrario, varrebbe l'indifferenza delle strutture finanziarie, e non ci sarebbe bisogno di accanirsi con Basilea 3 e con le misure sul capitale.
Gli schemi di Basilea impongono, tra l'altro, diverse restrizioni specifiche. Non vorrei soffermarmi su questi aspetti di natura tecnica. Tuttavia, avendo un passato da dottore in scienze statistiche, e avendo continuato a sviluppare l'analisi del rischio nelle diverse fasi della mia vita professionale, sono in grado di affermare che i modelli di portafoglio adottati, apparentemente sofisticati, sono, in realtà, piuttosto fragili, e spesso non sono compresi da coloro che li utilizzano. D'altra parte, alcuni hanno tutto l'interesse a utilizzarli, perché conferiscono un elemento di relativa forza. È difficile, quindi, far cadere il castello di carte che è stato edificato.
Il rischio endogeno derivante dagli standard di Basilea è amplificato dalla combinazione con i principi contabili basati sul mark-to-market. Inoltre, sotto il profilo tecnico, il rischio endogeno e la facoltà offerta alle banche di stimare in autonomia probability of default (PD), loss given default (LGD) e exposure at default (EAD) esaltano il carattere prociclico del sistema.
Peraltro, sotto il profilo statistico-analitico, occorre evidenziare, per quanto riguarda la liquidità, che non si tiene conto del tipo di finanziamento sottostante all'asset, determinando reazioni esplosive da parte dei mercati.
Un altro punto debole riguarda i derivati.
Il sistema di Basilea si regge sull'ipotesi che la regola stabilita sia rispettata. In realtà, i derivati consentono alle banche d'investimento, e a coloro che li sanno utilizzare, di eludere costantemente le regole. Non a caso, ancora oggi, si cerca di distogliere i cervelli più dotati dalla fisica e dalla matematica, per farli lavorare sui derivati. Del resto, continuano a essere estremamente elevate le retribuzioni di coloro che si dedicano all'ingegneria finanziaria, la quale è rivolta, però, non a creare strutture finanziarie utili per il sistema produttivo, ma a eludere le regole. A ogni modo, c'è poco da fare da questo punto di vista, perché, nel sistema attuale, le grandi banche d'investimento riescono a fare con i derivati quasi tutto quello che vogliono.
È fondamentale, quindi, disciplinare i CDS sovrani. Non dico di eliminarli, ma di farli confluire in una clearing house, anche per sapere chi offre protezione e su cosa. Poiché ciò non è stato fatto, si è inferto un primo grave vulnus al sistema di Basilea.
Il terzo aspetto concerne la liquidità.
A tale proposito, la Commissione ha avuto il piacere di ascoltare anche Andrea Enria, presidente dell'European banking Authority. Sebbene l'EBA sia stata istituita
in base alle indicazioni contenute nel Rapporto del Gruppo ad alto livello presieduto da de Larosière, non è stata compresa, come ho accennato, l'esigenza di un approccio olistico, chiaramente indicata in tale documento.
Credo che rappresenti un altro grave vulnus non avere capito che i nessi operativi e regolamentari tra liquidità e capitale sono una componente fondamentale della stabilità delle banche e del sistema. Oggi si rileva un rischio implicito nel portafoglio dei titoli di Stato detenuti dalle banche italiane. Si tratta di un rischio che era già noto, perché le regole di Basilea hanno spinto tutti i Paesi a soddisfare le esigenze di liquidità in termini di titoli di Stato. Adesso, quindi, non si può imporre alle banche italiane di fare non si sa bene cosa, visto che, ovviamente, non possono eliminare i propri titoli di Stato, perché si ritroverebbero senza attività liquide. È anche vero che la Banca centrale europea sta immettendo nel sistema liquidità per centinaia di miliardi di euro. Tuttavia, questa riaffluisce tutta a Francoforte, perché il mercato interbancario non funziona.
Arrivo, quindi, alle conclusioni.
È fondamentale tornare a utilizzare la base monetaria come cardine della stabilità del sistema, facendo rivivere un'enorme quantità di attività che oggi è, di fatto, sterilizzata. Peraltro, l'intervento della Banca centrale europea non è stato inutile, perché, se non vi fosse stato, il sistema sarebbe già imploso. Occorre, però, modificare le regole di Basilea, in particolare quelle concernenti la base monetaria.
D'altro canto, avendo riguardo agli Stati Uniti, dove molto è stato fatto da questo punto di vista, il segno blu visibile nel grafico di cui alla slide n. 25 della presentazione dimostra quali e quante siano, ormai, le riserve in eccesso. Non ho un grafico analogo per l'Europa, ma la situazione è più o meno la stessa.
Oltre a questi rilievi fondamentali, troverete sviluppate nella relazione altre considerazioni, che ritengo opportuno esporre in maniera estremamente sintetica.
Prima di tutto, per quanto riguarda il timeline, Basilea 3 prevede un periodo di transizione eccezionalmente lungo: 12 anni. Ora, se il sistema fosse proiettato verso la crescita, non avremmo quasi bisogno delle regole. Che l'ipotesi di base fosse proprio quella della crescita è confermato da alcune dichiarazioni rese da Trichet a settembre 2010. L'ex presidente della BCE aveva dichiarato, in particolare, che gli accordi di transizione avrebbero permesso alle banche di adeguarsi gradualmente ai nuovi standard, costituendo i cuscinetti di capitale e, nel contempo, sostenendo le economie nella fase di ripresa. Oggi, invece, siamo in recessione, e le banche sono forzate ad aumentare immediatamente il capitale: questo è prociclico.
Vengo alla taglia unica per tutti.
Non è concepibile che tutte le banche del mondo seguano le stesse regole: ciò esalta la prociclicità, perché, in tutto il mondo, allo scatenarsi di una crisi, tutti gli operatori agiscono nello stesso modo. Insomma, la serialità dei comportamenti esalta prociclicità e rischio endogeno. Non è un caso che le regole di Basilea 2 non siano state applicate, negli Stati Uniti, alle banche commerciali di piccole e medie dimensioni. A Basilea si è sempre parlato delle venti, trenta o quaranta grandi banche internazionali. In Europa, invece, per fare i primi della classe, applichiamo lo stesso schema a tutti, anche se non ha alcun senso l'approccio di Basilea 1, 2 o 3, ad esempio, per le banche cooperative. Occorre, quindi, smontare l'impianto. Sotto il profilo tecnico, la taglia unica per tutti implica che i modelli di base, come i fattori di rischio, siano gli stessi per tutti, il che è assurdo.
Inoltre, non è stata risolta, in Europa, la questione delle banche sistemicamente rilevanti. Il problema, apparentemente esoterico, si trova alla radice delle nostre difficoltà, perché eccita l'azzardo morale e può comportare che i Parlamenti dei singoli Paesi siano chiamati a rispondere alle difficoltà delle banche sistemicamente rilevanti fornendo capitali a spese dei taxpayer.
Una risposta concreta al problema delle SIFIs è necessaria perché, se le banche sistematicamente rilevanti crollano, il meltdown investe non soltanto il sistema finanziario, ma anche l'economia reale. Occorre, però, intervenire presto, per evitare gli effetti prociclici cui ho fatto riferimento.
In più, gli asset tossici sono stati fondamentalmente eliminati negli Stati Uniti, mentre in Europa ci sono ancora, e si annidano, in particolare, in Germania. Questo è uno dei motivi per i quali l'intero sistema bancario tedesco vale, paradossalmente, intorno ai 50 miliardi di euro. Le autorità di vigilanza, le quali impongono comportamenti assurdamente virtuosi - basti vedere quello che sta accadendo in Grecia -, non sono state in grado di affrontare la questione degli asset tossici.
Sono gravi e rilevanti anche i disincentivi ai finanziamenti di lungo termine nell'attività bancaria. Infatti, la principale banca d'investimento europea, la Banca europea degli investimenti, incomincia ad avere qualche difficoltà, e si prevede che possa ridurre il ritmo di finanziamento per mantenere il credit rating «AAA».
Infine, mi soffermo rapidamente sulle questioni italiane.
Oltre alle due grandi banche che conosciamo - di cui solo una di dimensioni internazionali, penalizzata dal mercato proprio per questo motivo -, le altre sono fondamentalmente banche commerciali e domestiche. Ritengo, quindi, che esse non debbano essere coinvolte nei meccanismi di Basilea 1, 2 e 3. Anch'esse devono dotarsi di modelli di valutazione dei rischi e di saldi presidi patrimoniali. Tuttavia, è molto pericoloso forzarle ad arrivare tutte insieme, oggi, a livelli di capitale dell'8, 9 e 10 per cento. Di conseguenza, bisogna trovare qualche correttivo, in particolare per mantenere la capacità delle banche di concedere lo stesso ammontare di credito alle piccole e medie imprese.
A tale proposito, non soltanto l'Associazione bancaria italiana ha proposto uno schema operativo che introduce un fattore di scala (small and medium-sized enterprises supporting factor) del 76,19 per cento, da inglobare nella formula dei RWA, ma io stesso ho contribuito all'elaborazione di correttivi analoghi nell'ambito del gruppo di lavoro LTIC (Long Term Investors Club). Appare paradossale che si stia orientando in tal senso anche la Bank of England, anticipando l'Italia, che dovrebbe muoversi per prima. Può darsi che qualcosa accada. A tale proposito, credo che un vostro sostegno sarebbe molto importante.
In conclusione, occorre rivedere Basilea 3.
Personalmente, credo anche che utility banking e casino banking debbano essere considerati separatamente, quanto meno nei termini della Volcker rule. Comunque, anche al di là di tale separazione, mi sono convinto, nel tempo, che le regole di Basilea 3 presentano gravi vizi analitici e operativi: non contribuiscono alla stabilità del sistema e, anzi, possono addirittura destabilizzarlo.
In particolare, per quanto riguarda l'Italia, occorre intervenire per evitare che le piccole e medie banche - la maggior parte, giacché solo una è internazionale -, e soprattutto il sistema delle piccole e medie imprese, siano inutilmente penalizzati da queste regole. Grazie.
STEFANO CASELLI, Professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università commerciale «Luigi Bocconi». Signor presidente, sono lieto di essere stato invitato dalla Commissione a portare nella sede parlamentare l'esperienza di studio da me maturata nel campo del risk management, ovvero della valutazione del rischio, e dei modelli strategici delle banche. Ho predisposto, per l'occasione, una memoria scritta, cercando di pormi dal punto di vista della Commissione. La mia relazione è strettamente incentrata, quindi, sulle iniziative che è possibile suggerire per recepire nella maniera più efficace le proposte di regolamento e di direttiva all'esame della Commissione.
Pur essendo sicuramente corretto trattare congiuntamente i due documenti, occorre rilevare, preliminarmente, come essi abbiano caratteristiche profondamente diverse.
Infatti, mentre la proposta di direttiva appare totalmente in linea con la tradizione della vigilanza bancaria italiana, e non pone, quindi, particolari problemi dal punto di vista del recepimento nell'ordinamento nazionale, la proposta di regolamento deve essere oggetto di attenta riflessione.
Prima di entrare nel merito, vorrei anche evidenziare come sia particolarmente ristretto lo spazio di intervento, nel senso che i margini di discrezionalità dei singoli Parlamenti sono estremamente limitati. Per questa ragione, nella relazione ho cercato, da un lato, di individuare azioni volte a migliorare le proposte legislative europee e, dall'altro, di dare qualche suggerimento in merito alle iniziative da intraprendere nel medio periodo. Infatti, al di là dell'impegno contingente, ho la sensazione che la partita da giocare sarà lunga e impegnativa.
Poiché l'approvazione delle proposte di regolamento e di direttiva è tendenzialmente vista, in sede europea, come un atto dovuto, è possibile apportare ai documenti in esame soltanto piccole correzioni. Bisogna ragionare, dunque, su due piani.
La prima domanda che dobbiamo porci è se i requisiti di Basilea 3 - che, costituendo un addendum di Basilea 2, si innesta su un corpus normativo ampiamente discusso e metabolizzato da tutte le banche - e l'intervento dell'EBA, che credo rappresenti il problema reale, contribuiscano realmente a rendere più robuste le nostre banche.
La seconda domanda è se l'azione dell'EBA e di Basilea 3 consentirà alle banche italiane di servire meglio il sistema economico nel suo complesso. In particolare, la corsa al capitale generata dal combinato disposto dei requisiti prudenziali di Basilea 3 e della Raccomandazione formale dell'EBA dell'8 dicembre 2011 deve essere esaminata con riferimento a quattro aspetti.
In primo luogo, la crescita dei requisiti di capitale sta obbligando gli azionisti delle nostre banche a un investimento ai limiti delle loro possibilità.
Al di là delle opinioni di ciascuno su fondazioni e fondi sovrani, l'estrema sollecitazione degli investitori rischia di destabilizzare gli assetti azionari di molte banche, come stiamo vedendo, in parte, in questi giorni.
Inoltre, se gli azionisti attuali delle banche non ce la faranno a sostenere gli aumenti di capitale, il combinato-disposto Basilea 3-EBA produrrà un credit crunch. Peraltro, se andiamo a leggere gli ultimi dati della Banca d'Italia, relativi al mese di ottobre, ci accorgiamo che siamo ormai prossimi alla crescita zero dei finanziamenti.
Ipotizzando, invece, che gli azionisti ce la facciano, è inevitabile che le nostre banche investano una parte delle risorse derivanti dagli aumenti di capitale nell'acquisto di titoli di Stato, come fanno tutte le banche europee per sostenere i propri Paesi.
Infine, l'eccessiva capitalizzazione potrebbe aggravare uno svantaggio competitivo che già penalizza le banche europee, come rilevava il professor Masera, perché l'applicazione dei requisiti di capitale non sarà omogenea a livello internazionale (basta avere riguardo all'esperienza degli Stati Uniti).
Quali problemi pongono, oggi, le proposte di regolamento e di direttiva, e quali soluzioni ragionevoli si possono prospettare?
A mio giudizio, i temi, sicuramente difficili, su cui la Commissione dovrà ragionare sono quattro.
In primo luogo, è attribuito un potere straordinario all'EBA, soprattutto nella proposta di regolamento. In particolare, più di 70 disposizioni demandano all'Autorità bancaria europea la presentazione di norme tecniche di regolamentazione e di attuazione, che la Commissione è abilitata ad adottare. Non voglio entrare nel merito di tale scelta, per stabilire se sia giusta o sbagliata. Mi limito soltanto a segnalare che le autorità di vigilanza di ciascun Paese vantano un background, una storia, una capacità e un know-how straordinari (sono riconosciuti a livello
internazionale, ad esempio, quelli della Banca d'Italia). Di conseguenza, bisogna fare in modo che le specificità delle autorità dei singoli Paesi siano utilizzate e valorizzate.
Un aspetto più spinoso attiene alla certezza giuridica delle raccomandazioni dell'EBA. Quella del dicembre scorso, in base alla quale le banche devono costituire un buffer eccezionale e temporaneo, in modo da elevare al 9 per cento il rapporto tra capitale di qualità più elevata e le attività ponderate per il rischio, appare in contrasto con il processo di formazione della normativa di livello comunitario. Dunque, recepire il regolamento tout court significherebbe legittimare in qualche modo l'intervento dell'EBA.
Il terzo aspetto è che la proposta di regolamento non tiene conto in alcun modo della diversità degli intermediari, con riferimento sia al profilo giuridico-operativo (banche di credito cooperativo, società di leasing, società di factoring e via dicendo), sia a quello strategico-competitivo (ad esempio, banche commerciali, banche locali, investment banks).
Da ultimo, Basilea 3 inasprisce diverse norme.
Dobbiamo chiederci, allora, cosa si possa fare concretamente. A mio giudizio, le azioni concrete che il Parlamento può intraprendere con riferimento all'iter dei documenti comunitari in esame attengono a tre aspetti.
Vi è, innanzitutto, il tema dell'eliminazione del floor.
L'introduzione di un floor per il calcolo del requisito di capitale, con riferimento alle banche che utilizzavano il metodo IRB, era dovuta all'esigenza di attenuare eventuali imprecisioni nell'applicazione dei metodi di rating interni. Si trattava, insomma, di una sorta di paracadute che il Comitato di Basilea aveva saggiamente introdotto, per evitare che il capitale delle banche che ricorrono ai rating interni scendesse sotto un livello minimo.
Nell'attuale contesto storico, invece, il mantenimento del floor non ha più alcun senso. È essenziale rimuoverlo, quindi, per fare in modo che le banche non siano costrette ad accantonare capitale in misura eccessiva.
In secondo luogo, sposo e faccio mia la proposta dell'ABI di prevedere un balancing factor del 76,19 per cento, volta a lasciare inalterato il requisito di capitale in corrispondenza del portafoglio PMI.
L'introduzione del capital conservation buffer genera un innalzamento del requisito di capitale dall'8 al 10,5 per cento, con un incremento del 31,25 per cento del livello attuale. La proposta dell'ABI è saggia e utile non soltanto per il sistema italiano, ma anche per molti altri Paesi europei, come la Germania e la Spagna, molto simili all'Italia quanto a presenza di piccole e medie imprese. Tra l'altro, l'introduzione del predetto discount è perfettamente coerente con le politiche comunitarie a favore delle piccole e medie imprese, le quali offrono, com'è ampiamente riconosciuto nei pertinenti documenti dell'Unione europea, un contributo fondamentale alla crescita dell'occupazione e alla prosperità economica.
Il terzo aspetto, che la Commissione avrà occasione di approfondire domani, nel corso dell'audizione dei rappresentanti dell'Associazione italiana leasing, riguarda la penalizzazione, da parte della proposta di regolamento, delle specificità del leasing, strumento importante per sostenere gli investimenti a medio termine, mobiliari e immobiliari.
In particolare, il settore in questione è penalizzato sia per quanto riguarda il calcolo dei requisiti di capitale, sia perché si chiede alle società di leasing di avere una quantità di risorse liquide immediatamente impegnabili in caso di stress. Una simile previsione, se è ragionevole per le banche, che raccolgono depositi, non lo è, come qualsiasi studioso della materia sa, per le società di leasing, le quali non raccolgono depositi, ma concedono finanziamenti a medio-lungo termine e, quindi, tecnicamente, non possono avere la liquidità richiesta. A mio avviso, mitigare il requisito di capitale e temperare la norma sulla liquidità, nel modo che ho specificato
nel documento consegnato alla Commissione, sarebbero due misure indubbiamente opportune, tenendo conto della funzione svolta dalle società di leasing.
Un ultimo suggerimento è riferito, in particolare, alla proposta di direttiva. Come ho accennato, essa non crea problemi, perché è in linea con lo spirito della vigilanza italiana. C'è, tuttavia, un passaggio abbastanza delicato. L'articolo 87, paragrafo 5, della proposta demanda all'Autorità bancaria europea l'elaborazione di progetti di norme tecniche per specificare, tra l'altro, la nozione di diversità di cui tener conto per la selezione dei membri dell'organo di gestione, secondo quanto prescritto al paragrafo 3, il quale prevede che le autorità competenti impongono agli enti di prendere in considerazione la diversità come uno dei criteri di selezione dei membri dell'organo di gestione, mettendo in atto, in particolare, una politica per promuovere la diversità geografica, di genere, di età, di formazione e professionale. È opportuno declinare il concetto di «diversità»
anche con riferimento al tema generazionale e all'adeguatezza delle competenze. Non in Europa, ma nei Paesi asiatici e negli Stati Uniti, si sta discutendo molto sulla diversità, riferita non al genere dei componenti, ma soprattutto all'adeguatezza delle competenze e ai profili dei membri dei board.
Concludo con una riflessione più ampia, che prescinde dal contenuto delle proposte di regolamento e di direttiva, rispetto alle quali, come ho accennato, i Parlamenti nazionali hanno pochi margini di manovra (la scelta più radicale, di non recepire Basilea 3, avrebbe, dal punto di vista politico e competitivo, implicazioni più profonde di quelle finora analizzate). Tuttavia, il Parlamento italiano, come qualsiasi altro, potrebbe stimolare una riflessione su tre aspetti specifici.
In primo luogo, occorre chiarire il ruolo dell'EBA.
L'approvazione tout court della proposta di regolamento offrirebbe all'Autorità bancaria europea la possibilità di regolamentare direttamente il mercato italiano, senza passare più attraverso il Parlamento. Giusto o sbagliato che sia, la mia opinione è che tale principio non sia accettabile.
Inoltre, credo che il Parlamento debba sollecitare una riflessione in merito ai differenti modelli di banca.
Infine, in linea con i principi comunitari, sarebbe utile cominciare a ragionare sull'introduzione di un discount factor, anche come strumento affidato all'autorità di vigilanza nazionale. Ciò potrebbe essere importante per attenuare gli sbalzi improvvisi che si generano in situazioni di stress. Se, come ho avuto occasione di ripetere spesso, la Banca d'Italia avesse la possibilità di utilizzare un discount factor temporaneo, il sistema bancario italiano respirerebbe molto di più e non sarebbe oggetto di attacchi ingiustificati come quelli che sta attualmente subendo.
Vi ringrazio per l'attenzione che mi avete dedicato.
LORENZO GAI, Professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università degli Studi di Firenze. Anch'io ringrazio la Commissione per l'invito a partecipare all'audizione odierna.
Poiché avverto il ricatto del tempo che scorre velocemente, utilizzerò i minuti a mia disposizione concentrandomi, per lo più, sull'immagine che trovate a pagina 8 del documento consegnato.
Prima di entrare nel dettaglio, avrei da esporre, però, qualche considerazione di ordine generale. Il documento che ho consegnato per l'audizione è stato da me predisposto seguendo una logica precisa: ho individuato alcuni punti che potrebbero essere emendati, riproducendo il testo della fonte (in alcuni casi, si tratta dello Schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche e dei sistemi bancari, elaborato dal Comitato di Basilea a dicembre 2010); ho inoltre specificato i corrispondenti articoli della proposta di regolamento, indicando in quale modo essi potrebbero essere modificati.
Ho ridotto all'osso le considerazioni di carattere generale - ne farò due o tre in
ordine sparso -, perché alcuni aspetti, oltre che essere stati ampiamente trattati in precedenti audizioni, sono stati ripresi dai miei colleghi.
L'unica riflessione generale riportata nel documento riguarda il tema della discrezionalità nazionale, di cui ha parlato anche Stefano Caselli. Difatti, sebbene ritenga anch'io che tale discrezionalità svantaggi, per certi versi, un Paese come il nostro, nel quale si tende a essere più realisti del re, devo ammettere che essa è, per altri versi, l'unico modo per recuperare le istanze e le specificità locali. Pertanto, occorrerebbe un ripensamento, perché mi sembra eccessivo abbandonare del tutto la discrezionalità nazionale. A proposito di ciò, ho l'impressione che demandare all'EBA l'intera produzione normativa secondaria sia una scelta molto forte. Peraltro, non so se l'Autorità bancaria europea disponga delle risorse necessarie per compiere tutte le attività di natura regolamentare cui è chiamata (mi consta, anzi, che il suo personale non sia così numeroso). Su questo punto,
è lecito avanzare, quindi, alcune riserve.
La relazione ha come riferimento, almeno nei miei intendimenti, la realtà, il tessuto dell'industria bancaria e finanziaria italiana e le PMI.
Per quanto concerne il versante dell'industria bancaria, ha detto benissimo il professor Masera, della cui analisi condivido soprattutto le considerazioni relative alle banche di credito cooperativo. Trovo singolare assimilare le BCC alle grandi banche internazionali, specialmente se - paradosso nel paradosso - si scopre che, mentre noi siamo chiamati a dare attuazione a Basilea 3, gli Stati Uniti sono ancora fermi a Basilea 1. È davvero paradossale che una BCC, il cui capitale è composto in un certo modo, sia obbligata a rispettare regole così stringenti.
Sorvolo su altre considerazioni, relative, ad esempio, al deleveraging e alle cartolarizzazioni, perché, più che nei documenti che stiamo esaminando, mi pare che abbiano formato oggetto di Basilea 2,5 (CRD III).
Mi soffermerei, invece, sulla filiera del credito, come rappresentata nella slide 8. Nel box a sinistra troviamo le banche e gli altri intermediari finanziari, che finanziano le PMI. Altri soggetti - confidi o altri intermediari finanziari vigilati - hanno la funzione di mitigare il rischio che la banca assume finanziando le PMI. L'intervento di controgaranti (finanziarie regionali, confidi di secondo livello e fondi nazionali), cogaranti e riassicuratori riduce, in via diretta o indiretta, la quota di rischio dei confidi e degli altri garanti.
Il mio ragionamento verterà su tale impianto.
Non dimentichiamo che il tema reale è quello del capitale non soltanto delle banche, ma anche dei confidi e degli altri soggetti menzionati, a loro volta vigilati e assoggettati a Basilea 2 e a Basilea 3.
Nella prima pagina della relazione ho contrassegnato con il numero 1 gli interventi riguardanti i componenti positivi e negativi del patrimonio di vigilanza. Si tratta, in parole semplici, di recuperare quelli che, se avessimo a che fare con merci lavorate, chiameremmo sfridi.
Il numero 2 indica gli interventi relativi ai fattori di ponderazione del rischio, con particolare riferimento alle attività soggette a rischio di credito e alle PMI. Ho fatto riferimento anch'io alla proposta dell'ABI, che reputo ampiamente condivisibile, in quanto essa consente di ponderare in maniera più favorevole le esposizioni verso le PMI (cosa di cui abbiamo assolutamente bisogno).
Infine, il numero 3 indica gli interventi concernenti gli elementi di mitigazione del rischio di credito. Se non si riesce a valutare meglio il rischio, l'intervento di un altro soggetto permette alla banca di effettuare minori accantonamenti patrimoniali.
Nelle pagine successive alla prima troverete specificato il numero e, quindi, l'oggetto cui ogni proposta si riferisce.
La prima osservazione è riferita al confronto tra perdite attese (expected loss, o EL) e accantonamenti totali ammessi. La perdita attesa è data dal prodotto dell'esposizione
attesa in caso di insolvenza (expected exposure at default, o EAD) per la probabilità di insolvenza (probability of default, o PD) e per il tasso di perdita in caso di insolvenza (loss given default, o LGD). Quando essa supera gli accantonamenti che una banca ha fatto in bilancio, già oggi vi è un obbligo di abbattimento del 50 per cento del patrimonio di base e di quello supplementare. Tuttavia, nel mio documento faccio riferimento al caso opposto, cioè all'ipotesi in cui si scopra che l'ammontare complessivo delle perdite attese è inferiore agli accantonamenti totali ammessi. Insomma, gli accantonamenti sono stati maggiori del dovuto, perché la banca è stata eccessivamente prudente. Ebbene, mentre la proposta di regolamento consente alle banche di riconoscere la differenza all'interno del patrimonio supplementare (tier 2), per un importo massimo pari allo 0, 6 per cento delle
attività ponderate per il rischio di credito calcolate con il metodo IRB, io propongo un approccio più simmetrico, nel senso che una parte della predetta differenza - ad esempio, lo 0,2 per cento - sia riconosciuta all'interno del tier 1, relativamente alle sole banche che adottano la metodologia IRB advanced (AIRB). Sotto questo profilo, ravviso una notevole distonia nella proposta di regolamento.
La seconda proposta riguarda gli investimenti nel capitale di altre banche, soggetti finanziari e assicurazioni esterne al perimetro di consolidamento prudenziale. Lo Schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche e dei sistemi bancari, elaborato dal Comitato di Basilea, contiene, al paragrafo 80, un ellittico e vago riferimento a posizioni «sintetiche» in strumenti di capitale, che le banche detengono attraverso derivati, come future, opzioni su indici o altro. La proposta di regolamento non utilizza in modo esplicito il termine «sintetico», ma prende in considerazione unicamente la detenzione di indici. A mio avviso, occorrerebbe eliminare dall'ambito degli investimenti cui si applicano gli aggiustamenti regolamentari la componente inclusa negli indici, in quanto di difficile calcolo e determinazione per le banche, ma soprattutto perché le posizioni su indici non sono assunte con la finalità di
detenere anche sinteticamente una posizione azionaria su un singolo emittente bancario. Esaminiamo, ad esempio, il caso verificatosi ieri, quando si è avuto un andamento un po' strano del titolo Unicredit: dopo avere stazionato per tutta la giornata su un discreto rialzo, nella fase finale il titolo ha fatto segnare un aumento del 6,5 per cento. Ciò è accaduto perché è stato ricomposto il paniere, e il peso percentuale della capitalizzazione di Unicredit sull'indice FTSE MIB è passato dal 4,8 all'8,8 per cento, per effetto dell'aumento di capitale e dell'incremento del flottante. Ora, se un soggetto detiene una posizione sull'indice, non per questo assume una posizione importante su Unicredit. Pertanto, le componenti incluse negli indici andrebbero eliminate, perché dedotte dal patrimonio di base.
Per quanto riguarda la terza proposta, mi sembra strano che debba essere applicata una ponderazione del 250 per cento agli importi non dedotti, relativi alle attività per imposte anticipate derivanti da differenze temporanee. Non riesco a capire, in particolare, perché si debbano ponderare al 150 per cento una posizione di default e al 250 per cento, invece, un investimento in bonis nel capitale di un'altra banca. Per me è assurdo. Propongo, pertanto, di applicare ai predetti importi l'ordinario fattore di ponderazione del 100 per cento, previsto per l'equity.
Le proposte fin qui illustrate mirano a recuperare capitale senza dover procedere ad aumenti. Ciò a vantaggio di tutte le banche, non soltanto delle nostre.
La quarta proposta riguarda il balancing factor suggerito dall'ABI, che trovo pienamente condivisibile. Si tratta di un moltiplicatore da utilizzare per le esposizioni verso le PMI, in modo che, applicando il futuro coefficiente del 10,5 per cento, ne risulti un requisito patrimoniale equivalente a quello ottenuto con l'attuale coefficiente dell'8 per cento. Poiché il
mercato ha preteso, di fatto, l'anticipazione di una misura che avrebbe trovato attuazione a partire dal 2019, le banche hanno dovuto adeguarsi prima del previsto. Inoltre, la Raccomandazione formale dell'EBA dell'8 dicembre 2011 ha richiesto la costituzione di un buffer tale da portare il core tier 1 ratio al livello del 9 per cento entro il 30 giugno 2012 (per le banche SIFIs siamo al 10 per cento). A questo punto, la previsione di un fattore di bilanciamento appare ineludibile per mantenere l'assorbimento di capitale al livello attuale.
Sempre per quanto attiene ai fattori di ponderazione del rischio, quando una banca presta denaro a una PMI, l'operazione comporta un assorbimento patrimoniale. Se interviene un confidi, si riduce l'assorbimento della banca, cui si aggiunge, tuttavia, l'assorbimento del garante. In particolare, ipotizzando che il finanziamento sia di 200, di cui 100 garantiti da un confidi, la banca deve accantonare capitale per un importo pari a 10, anziché a 12 (senza l'intervento del confidi), mentre il garante deve accantonare 4,5. Mi sembra strano che, in presenza di una ripartizione del rischio tra due soggetti, la quantità di capitale da accantonare debba essere superiore a quella che occorrerebbe se il rischio fosse assunto unicamente dalla banca. Su questo mi batterei, e spero che la Commissione possa fare qualcosa in merito, nell'interesse di tutti.
Peraltro, dopo il declassamento del rating dell'Italia da parte di Standard & Poor's e Fitch Ratings, la ponderazione del rischio per l'esposizione verso intermediari delle banche che adottano il metodo standard è passata dal 20 al 50 per cento, per cui si è ridotto, in questo caso, l'effetto di mitigazione dell'assorbimento di capitale. Se anche Moody's (l'ultima che manca) abbassasse il rating dell'Italia di 3 noch, la ponderazione del rischio per l'esposizione verso intermediari delle banche che adottano il metodo standard salirebbe al 100 per cento, e per le banche aumenterebbe l'assorbimento di capitale. Nel caso, invece, di rapporti con imprese appartenenti al portafoglio retail - con le quali i confidi operano prevalentemente -, la normativa di vigilanza prevede una ponderazione del 75 per cento.
Comunque, il succo del ragionamento è che non deve essere richiesto un maggiore accantonamento di capitale quando più soggetti si ripartiscono il rischio di un finanziamento; diversamente, il costo per la collettività aumenta, perché qualcuno deve fornire il capitale aggiuntivo. Come ricordava Stefano Caselli, le banche e i loro azionisti sono già in affanno e, quindi, si determinano le condizioni per l'ingresso dei fondi sovrani e via discorrendo. Insomma, il problema potrebbe essere risolto prevedendo una ponderazione diversa, in modo tale che l'accantonamento richiesto ai confidi risulti non superiore al risparmio di capitale conseguito dalla banca per effetto della prestazione della garanzia. Esiste, del resto, un precedente specifico: l'intervento del Fondo centrale di garanzia a favore delle PMI è assistito dalla garanzia di ultima istanza dello Stato, che comporta il riconoscimento della ponderazione zero sulle garanzie
dirette e sulle controgaranzie a prima richiesta da esso concesse. Ciò significa che la controgaranzia del Fondo azzera l'assorbimento di capitale tanto per la banca controgarantita quanto per il confidi che interviene nell'operazione di finanziamento.
Un'ulteriore proposta riguarda il riconoscimento come eligible di controgaranti privati (confidi di secondo livello) e di finanziarie regionali, purché assoggettate alla vigilanza equivalente della Banca d'Italia. Infatti, mentre le cogaranzie e le garanzie dirette rilasciate da questi soggetti hanno, ai fini di Basilea 2, una ponderazione del 20 per cento, le loro controgaranzie non trasferiscono alle banche alcun beneficio, sotto il profilo dell'assorbimento di capitale.
Gli aspetti su cui mi sto soffermando hanno ripercussioni soprattutto in tema di allocazione delle risorse pubbliche. Infatti, il soggetto pubblico può operare diverse scelte: attuare direttamente un programma
di agevolazioni per le PMI, destinare capitali ai confidi oppure conferirli al menzionato Fondo di garanzia, come ha fatto recentemente, mediante l'articolo 3, comma 4, del decreto-legge n. 201 del 2011, il Governo Monti. Questa è una scelta politica. Peraltro, l'articolo 39, comma 2, del medesimo decreto-legge prevede che, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, per ogni operazione finanziaria ammessa all'intervento del Fondo di garanzia, la misura dell'accantonamento minimo, a titolo di coefficiente di rischio, può essere definita con decreto di natura non regolamentare adottato dal Ministro dello sviluppo economico, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze. Ciò aumenterà notevolmente l'effetto leva del Fondo. In uno studio del 2009, avente ad oggetto le politiche pubbliche di sostegno alle PMI, ho comparato le diverse vie di intervento pubblico in termini di moltiplicatore dei finanziamenti attivabili, a parità
di somme messe a disposizione. Lo studio ha dimostrato che la predetta riduzione della percentuale di accantonamento minimo è decisiva ai fini di un'allocazione efficiente delle risorse pubbliche.
Il Fondo di garanzia è uno strumento fondamentale per aumentare la capitalizzazione delle PMI. Esso può garantire - ma lo strumento non è al momento operativo - l'acquisizione di partecipazioni nelle imprese, ove si tratti di investimenti effettuati da venture capital o da fondi chiusi. Ritengo, invece, che la controgaranzia del Fondo dovrebbe essere estesa alle garanzie rilasciate dai confidi sulle eventuali minusvalenze generate da apporti di capitale nelle PMI da parte di persone fisiche o giuridiche. Com'è noto, un primario confidi italiano sta progettando di affiancare alla tradizionale operatività sul debito una specifica attività di garanzia a favore delle persone fisiche o giuridiche che finanzino le piccole e medie imprese sotto forma di equity. In pratica, il confidi garantirebbe - ad esempio, fino al 30 per cento - le eventuali minusvalenze derivanti dalla partecipazione al capitale di rischio delle PMI.
Ciò migliorerebbe il rating delle imprese interessate e, di conseguenza, anche l'assorbimento patrimoniale delle banche. A mio avviso, prevedere che il Fondo di garanzia possa controgarantire le garanzie rilasciate dai confidi sulle suddette minusvalenze sarebbe un modo assai interessante per stimolare l'immissione di capitale nelle piccole e medie imprese, sempre con il coinvolgimento degli altri due soggetti.
Infine, per quanto riguarda il ruolo delle finanziarie regionali, consapevole delle enormi difficoltà che incontrano non solo le banche, ma anche, e in misura maggiore, i confidi e gli altri soggetti analoghi - infatti, mentre le banche possono ricorrere al mercato, i confidi hanno natura mutualistica -, l'articolo 39, comma 7, del decreto-legge n. 201 del 2011 ha disposto che al capitale sociale dei confidi e delle banche che esercitano prevalentemente l'attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci possono partecipare, anche in deroga alle disposizioni di legge che prevedono divieti o limiti di partecipazione, imprese non finanziarie di grandi dimensioni ed enti pubblici e privati, purché le piccole e medie imprese socie dispongano almeno della metà più uno dei voti esercitabili nell'assemblea e la nomina dei componenti degli organi che esercitano funzioni di gestione e di supervisione strategica sia riservata
all'assemblea.
A questo punto, anziché alimentare la confusione, investendo nelle finanziarie regionali che fanno concorrenza impropria al sistema dei confidi, le regioni potrebbero destinare i propri interventi direttamente ai confidi, reindirizzando le finanziarie regionali verso un ruolo - che i confidi non sono in grado di svolgere - di coordinamento, di consulenza e anche di direzione e indirizzo delle politiche industriali regionali, anche con riferimento alla rete di garanzie di livello locale.
PRESIDENTE. Professor Gai, lei ha affrontato un argomento - il sistema di garanzie dei confidi - che sarà oggetto,
probabilmente, di una prossima indagine della Commissione.
Do ora la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.
ALBERTO FLUVI. Vi ringrazio, perché le vostre relazioni, tutte molto interessanti, saranno sicuramente utili alla Commissione, la quale si appresta a esprimere, nella fase ascendente dell'iter legislativo comunitario, il proprio parere sulle proposte di regolamento e di direttiva in esame. La prossima settimana avremo modo di confrontarci, in proposito, con alcuni parlamentari europei eletti in Italia, proprio per discutere, insieme ad essi, del lavoro che abbiamo svolto e delle indicazioni che riteniamo di proporre alla loro attenzione.
Quando la Commissione ha esaminato, circa tre anni fa, la Comunicazione della Commissione europea concernente la nuova architettura del sistema europeo di vigilanza finanziaria, abbiamo avuto modo di ascoltare il professor Masera, in qualità di esperto della materia, avendo egli fatto parte, all'epoca, del Gruppo ad alto livello sulla vigilanza finanziaria nell'Unione europea, presieduto da Jacques de Larosière. Nell'audizione informale alla quale egli partecipò si convenne, in particolare, sulla natura di compromesso delle soluzioni prospettate dalla Commissione europea: si trattava di un primo passo e, probabilmente, c'era ancora molto da fare per costruire un sistema di vigilanza veramente efficace. Tra l'altro, non sembrava sufficientemente garantita l'indipendenza delle tre autorità di vigilanza dalla Commissione europea, organo titolare del potere esecutivo. Infatti, l'Autorità bancaria europea, in quanto organismo dotato di
competenze tecniche altamente specialistiche, è incaricata dell'elaborazione di progetti di norme tecniche di regolamentazione, non comportanti scelte politiche, ai quali conferisce valore giuridico vincolante la Commissione, che li approva mediante atti delegati ai sensi dell'articolo 290 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Ovviamente, questo aspetto della nuova architettura destava qualche perplessità, soprattutto in chi, come noi, auspicava l'istituzione di un sistema di autorità di vigilanza con caratteristiche di maggiore indipendenza dagli organi politici.
A ogni modo, oggi m'interessa affrontare una questione diversa, che non so, onestamente, se e come sia possibile risolvere. In una precedente audizione, il presidente dell'ABI ha segnalato il rischio di una deminutio sostanziale degli organi titolari della sovranità, derivante dal cortocircuito tra funzione tecnica e attesa dei mercati. In altre parole, le misure definite dagli organi tecnici, proprio a causa della natura dei soggetti che le propongono, producono un impatto diretto sui mercati, nel senso che questi le considerano immediatamente obiettivi concreti da realizzare. Anche nel caso delle proposte di regolamento e di direttiva che stiamo esaminando, la reazione dei mercati sta determinando un'anticipazione sostanziale degli interventi in esse indicati, sebbene siano ancora lunghi i tempi per l'approvazione da parte degli organi politici. Come ricongiungere, allora, i due aspetti, se è possibile?
Inoltre, come si conciliano le considerazioni che facevamo circa la scarsa indipendenza delle autorità di vigilanza europee con l'esigenza - oggi ribadita dal professor Caselli - di utilizzare e valorizzare background, storia, capacità e know-how delle autorità di vigilanza dei singoli Paesi?
Peraltro, non sono in contraddizione tra loro l'invocazione di una sorta di libro unico delle regole a livello europeo (è stato sottolineato, ad esempio, il range di variazione, nei diversi Paesi europei, dei risk weight relativi ai mutui residenziali) e l'esortazione a tenere conto di talune specificità, evitando di adottare una taglia unica valida per tutti? In effetti, un conto sono le banche di credito cooperativo e le piccole banche in generale, un altro le banche di importanza sistemica (ne abbiamo solamente una) o, comunque, di una certa dimensione. Negli Stati Uniti, i
criteri di Basilea si applicano soltanto a un piccolo gruppo di banche di grandi dimensioni. Anche questo potrebbe essere argomento di discussione. Se, come sembra, gli Stati Uniti hanno adottato soltanto Basilea 1, ciò rappresenta sicuramente un elemento di distorsione della concorrenza.
Un altro tema che desidero affrontare riguarda le agenzie di rating.
Premesso che la situazione attuale richiede una valutazione complessiva, basta avere riguardo all'azionariato delle singole agenzie di rating per avere conferma di quanto sia rilevante, nella materia di cui ci stiamo occupando, la questione del conflitto di interessi. Se il problema esiste, come io ritengo, mi piacerebbe sapere cosa ne pensiate, e perché ancora non sia stata istituita un'agenzia di rating europea. Non sono molto favorevole a tale proposta, attualmente in discussione presso il Parlamento europeo, ma vorrei comunque conoscere la vostra opinione in merito.
Vengo all'ultima domanda.
Il lavoro di questi ultimi mesi è stato svolto con l'intento di presentarci come sistema Paese al confronto con la Commissione e con il Parlamento europei. Ciò riguarda anche l'iter legislativo delle proposte di regolamento e di direttiva in esame. Se il percorso è questo, sarebbe bene evitare di compilare un lunghissimo elenco di questioni da trattare in sede europea, concentrando la nostra attenzione su tre o quattro temi che, come sistema Paese, riteniamo importanti. Se doveste indicarne due o tre, quali sarebbero e in quale ordine?
MARCO CAUSI. Vorrei chiedere al professor Masera quali tra le indicazioni elaborate dal Gruppo ad alto livello presieduto da de Larosière siano rimaste fuori dalle proposte di regolamento e di direttiva.
ALESSANDRO PAGANO. Innanzitutto, vorrei ringraziare i nostri ospiti perché sono stati illuminanti. Condividiamo, infatti, le loro relazioni, caratterizzate da una ricchezza di contenuti che ci consente di allargare i nostri orizzonti.
Venendo al merito dell'audizione, si parla poco delle difficoltà generate dal sistema bancario americano o, in senso più ampio, dalla finanza americana. Sotto questo aspetto, è stato ben evidenziato come si trovi ancora a uno stadio arretrato, negli Stati Uniti, il processo di trasposizione delle regole di Basilea 2, sebbene il sistema bancario statunitense non meriti, a mio avviso, di restare fermo a quel livello.
Viene il sospetto che la cabina di regia degli avvenimenti che si stanno sviluppando sotto i nostri occhi sia proprio oltreoceano. Purtroppo, per colpa di partner europei con i paraocchi, si corre il rischio che sfugga la reale portata del problema.
Presentando, ieri, il rapporto Outlook 2012, il responsabile della ricerca economica, tassi e valute di Unicredit, Erik Nielsen, si è fatto scappare che certe decisioni finanziarie sono state prese a New York. L'affermazione ha fatto sorridere molti tra i presenti al meeting, che, forse, subito dopo averla udita, hanno pensato che si trattasse di un esempio tipico di lapsus freudiano. Essa ha, indubbiamente, un contenuto di verità, se inquadrata in un determinato contesto geopolitico: a causa della cosiddetta preoccupazione cinese, un certo tipo di finanza potrebbe avere come proprio obiettivo quello di omogeneizzare il più possibile. Da un certo punto di vista, ciò potrebbe anche lasciarci indifferenti, o vederci addirittura favorevoli, se non ci penalizzasse. È chiaro, infatti, che il nostro sistema è penalizzato, a cominciare dalle BCC, come ha ben spiegato il professor Gai.
Temo, allora, che la nostra buona volontà non sia sufficiente per trovare qualche soluzione, specialmente se essa si scontra con la cattiva volontà generale.
Quando il presidente dell'EBA è venuto in audizione, nessuno di noi è stato tenero nei suoi confronti. A parte la piccola soddisfazione che ciò può aver procurato ad alcuni, rimangono, tuttavia, le preoccupazioni manifestate anche oggi.
A questo punto, penso che occorra parlare anche di strategie. Avete evidenziato le criticità, con un'analisi che, come ho già detto, condividiamo. Credo, però, che ora ci sia bisogno di qualcosa di più, perché neanche un Parlamento nazionale, benché animato da buona volontà, può prevalere su certi poteri.
La vera e propria domanda riguarda le PMI. Essendo le piccole e medie imprese una specificità nostra, avrei bisogno di capire meglio, anche per esprimermi con maggiore chiarezza nelle sedi opportune, il trattamento differenziato che si propone per esse. Trattandosi di un punto nodale, vi chiedo qualche delucidazione ulteriore, per comprendere meglio le specifiche problematiche riferite alle PMI.
PRESIDENTE. Professor Masera, quando esaminammo la Comunicazione della Commissione europea relativa alla nuova architettura del sistema di vigilanza finanziaria nell'Unione europea, che prevedeva, tra l'altro, l'istituzione dell'Autorità bancaria europea, esprimemmo alcune perplessità sul modo in cui era stato definito il raccordo tra tale organo e il livello politico. Ci chiedemmo, in particolare, quali sarebbero state le reazioni della politica alle decisioni dell'EBA.
In proposito, mi sono interrogato sulle ragioni che possono avere indotto la Gran Bretagna - la quale si tiene un po' fuori dalle scelte strategiche dell'Unione europea - a battersi per avere a Londra la sede dell'EBA. Credo che l'intento degli inglesi sia quello di tenere in qualche modo sotto controllo un'istituzione che potrebbe danneggiarli. Da questo punto di vista, condivido l'idea, esposta lucidamente dall'onorevole Pagano, che tali organismi siano eterodiretti, o comunque influenzabili, e capaci di causare danni anche rilevanti.
Lo stesso discorso vale per le agenzie di rating. Come l'onorevole Fluvi, anch'io ho molte perplessità sull'istituzione di un'agenzia di rating europea, in special modo se si pensa di adottare il criterio di delimitarne il campo d'azione, decidendo che alcune cose può farle e altre no. A queste condizioni, è preferibile, forse, mantenere il sistema attuale, magari chiedendo a Dagong di aprire una propria sede in Europa. Vorrei conoscere il vostro approccio a tale tema e come pensiate si possa intervenire.
Penso che la piena attuazione di tutte le proposte elaborate dal Gruppo ad alto livello presieduto da de Larosière sia assolutamente necessaria, con una scansione temporale dei vari interventi più ravvicinata. Da questo punto di vista, trovo molto singolare che l'unica banca sistemica italiana, essendo soggetta a giurisdizioni diverse, si trovi nella condizione di non poter spostare liquidità da un Paese all'altro senza autorizzazione. Delle due l'una: o si tratta di una banca sistemica, che, come tale, ha diritto di fare tutte le operazioni che crede, almeno in ambito europeo, oppure bisogna confrontarne la patrimonializzazione con quella delle banche tedesche o austriache, prima di assumere decisioni in base alla considerazione di parametri relativi al solo sistema italiano.
Insomma, alcune valutazioni delle autorità di vigilanza non mi convincono. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.
Do ora la parola agli auditi per le loro repliche.
RAINER STEFANO MASERA, Preside della Facoltà di economia e professore di politica economica presso l'Università degli Studi «Guglielmo Marconi». Risponderò ad alcuni quesiti che ritengo di particolare rilievo e che mi sono stati posti nella mia veste di ex componente del Gruppo ad alto livello guidato de Larosière.
Le preoccupazioni manifestate sono pienamente giustificate. In realtà, senza volerne assumere la difesa d'ufficio, il Rapporto del Gruppo ad alto livello indicava chiaramente l'esigenza di un approccio olistico, in assenza del quale si sarebbe lasciato spazio, a causa del funzionamento dei mercati, agli arbitraggi regolamentari, i quali avrebbero finito per disfare proprio ciò che si mirava a costruire.
Ricordo due punti fondamentali, che, peraltro, ho già posto in risalto.
Sotto un primo profilo, anche in relazione alla proposta di regolamento sulle agenzie di rating del credito che era stata presentata dalla Commissione europea, il Gruppo riteneva senz'altro fondamentale una riforma in materia, ma non faceva alcun riferimento all'istituzione di un'agenzia di credit rating europea.
Sotto un secondo profilo, per quanto concerne i credit default swap, il Gruppo raccomandava la creazione nell'UE di una stanza di compensazione centrale ben capitalizzata, soggetta alla vigilanza del CESR e delle pertinenti autorità monetarie.
In merito alle agenzie di rating del credito - al di là di ogni considerazione riferita agli Stati Uniti, anche se la collocazione degli azionisti può ingenerare qualche dubbio -, il primo conflitto di interessi nasce, come ho sempre detto, e come continuo a ritenere, dal fatto che i loro servizi, segnatamente l'attribuzione del merito di credito, sono pagati non dai risparmiatori, ma dagli emittenti i titoli oggetto di valutazione. Tale sistema ha prodotto conseguenze particolarmente deleterie nel settore della finanza strutturata, dove si è assistito a qualcosa di vergognoso: diverse banche di investimento sono andate alla ricerca dell'agenzia disposta ad accordare il rating migliore ai derivati sintetici di seconda e terza generazione che esse intendevano emettere.
Da questo punto di vista, Basilea 2 è stato un disastro: infatti, dopo averlo modificato, con Basilea 2.5, si è subito cominciato a pensare a Basilea 3. Basilea 2 attribuiva importanza ai rating esterni, senza tenere conto - o avendone, forse, perfetta cognizione - del sottostante conflitto di interessi. A mio avviso, occorrerebbe pensare a un'agenzia di rating non pubblica, ma organizzata in maniera appropriata, magari con azionariato internazionale (cinese, americano, europeo), sulla base del principio, da attuare secondo le formule opportune, che chi paga è il risparmiatore. Vi posso assicurare - anche perché mi è stato chiesto dal Tesoro italiano recentemente - che sono reperibili, nell'ambito dei lavori preparatori, le indicazioni formulate al riguardo non soltanto dai membri del Gruppo ad alto livello, ma anche da altri esperti della materia.
Riguardo ai CDS sovrani, chiunque avesse avuto un minimo d'intelligenza - a dire il vero, in tanti l'avevano, ma hanno chiuso gli occhi rispetto a quello che stava avvenendo in Europa -, avrebbe potuto accorgersi che c'era una discrasia fra la crescita dei debiti e la capacità di tenuta del sistema. Peraltro, la crescita dei debiti era fondamentalmente dovuta ai salvataggi delle banche. L'Italia ne è rimasta sostanzialmente fuori, poiché le nostre banche hanno retto molto bene. Insomma, si invitava a dedicare una specifica attenzione al sistema dei CDS, da mettere sotto controllo prima che fossero definite le altre regole, per evitare il vulnus istituzionale che, altrimenti, ne sarebbe derivato.
Su entrambi i punti il Parlamento europeo ha continuato a lavorare sin dal 2009, con studi, analisi, progetti di risoluzione su proposte della Commissione: documenti rimasti tutti, finora, lettera morta. Allora, qualche dubbio rimane. Come mai questi due elementi fondamentali, che coinvolgono interessi spaventosi, sono stati tenuti fuori dal sistema di controllo? In questo modo si nega l'esigenza di un approccio olistico, chiaramente indicata dal Gruppo ad alto livello. Non ha senso, in tale ottica, che si lascino fuori dalla regolamentazione due segmenti importanti come le agenzie di rating del credito e i derivati OtC.
L'aspetto forse più delicato riguarda le garanzie offerte da alcune banche sul debito pubblico tramite repos sui titoli sovrani, le quali esaltano l'intreccio tra rischio sovrano e rischio bancario. Si dice che ci sia, in questa ipotesi, un contratto assicurativo. Comunque sia, le compagnie di assicurazione italiane non possono offrire simili garanzie. Ad ogni modo, è paradossale che le banche di un Paese
vendano protezione sul rischio sovrano del Paese stesso, quando sarebbero le prime a essere travolte dal suo default. In termini analitici, si tratta di un evento non assicurabile. Basilea evidenzia l'intreccio. Eppure, anche a tale riguardo, nulla è stato fatto. Sempre in termini analitici, il mio dubbio è che i CDS spread siano alla radice delle differenze tra i tassi di interesse. Si è inserito un meccanismo destabilizzante all'interno del sistema senza controllarlo.
Questi aspetti sono stati evidenziati, probabilmente, anche nelle audizioni precedenti. Come ho detto, anche il Parlamento europeo se n'è occupato. In effetti, la Commissione europea sta portando avanti alcune proposte, e corre voce che qualcosa di concreto accadrà nell'arco del 2012. C'è da sperare che i buoi non siano scappati dalla stalla quando si avvereranno le condizioni per procedere lungo la strada già tracciata.
Un'ultima considerazione riguarda il tema cui potremmo dare il seguente titolo: «Banca d'Italia versus EBA». Personalmente, penso che l'EBA sia andata oltre le proprie attribuzioni, compiendo un'azione dirompente sotto il profilo operativo. Dopo che Basilea 1, 2 e 3 avevano spinto, in qualche modo, verso la detenzione di titoli sovrani, non si poteva, soprattutto in un momento come quello attuale, scoprire improvvisamente la necessità di un intervento che penalizzava le banche italiane. Peraltro, ciò era controproducente anche sotto il profilo economico, in quanto rendeva esplosivo il rischio endogeno.
Mi sembra che manchi, in Europa, un'autorità di vigilanza per le grandi banche: non si può pensare che Unicredit sia vigilata dalla Banca d'Italia, con mille difficoltà, le grandi banche tedesche dalle autorità di vigilanza tedesche, che non hanno saputo farlo, quelle britanniche dagli inglesi e via dicendo. Dal mio punto di vista, le banche sistemicamente rilevanti - le sole da assoggettare a regole complesse che cerchino di ridurre il rischio - dovrebbero essere disciplinate e vigilate a livello europeo. Per le altre, non ho un punto di vista ben chiaro da esprimere. Tuttavia, negli Stati Uniti vi sono banche cooperative anche importanti che sono vigilate a livello non federale, ma statale, salvo l'intervento sovrastatale in caso di difficoltà non altrimenti risolvibili.
Non ho risposto a tutte le domande. Tuttavia, poiché ho già occupato troppo tempo, lascerei la parola ai colleghi, i quali hanno focalizzato alcuni aspetti specifici. Per parte mia, mi sono permesso di farvi rilevare che l'impianto complessivo di Basilea 3 deve essere posto in discussione, come, peraltro, sta avvenendo: essendo poco solido, occorre correggerlo almeno in alcuni punti.
STEFANO CASELLI, Professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università commerciale «Luigi Bocconi». Ritengo opportuno ribadire, in premessa, che vi sono due piani di azione: uno riguarda le iniziative che si possono intraprendere nell'immediato; un altro quelle da sviluppare nel lungo termine. Bisogna considerare entrambi gli aspetti. Cercherò, quindi, di seguire tale criterio, prendendo le mosse dai temi a me più vicini.
Per quanto concerne le agenzie di rating, non c'è dubbio che, nel medio termine, il dibattito si concentrerà sulla questione, indubbiamente importante, dell'istituzione dell'agenzia europea. Tuttavia, sembra necessario compiere alcuni passi concreti in relazione alle agenzie che già oggi operano sul mercato.
Le cose fattibili, ponendosi dal punto di vista di un'azione europea, sono sostanzialmente due.
Da un lato, si pone una questione di timing.
Attualmente le agenzie hanno la libertà di diffondere i propri rating secondo un timing che non è governato né dalla legge né dal mercato. Abbiamo visto cosa è successo quando hanno annunciato il downgrade della Francia a borse aperte. Comportamenti simili sono unfair, contro le regole del mercato. La soluzione della questione del timing potrebbe rappresentare, quindi, un primo risultato.
Il secondo aspetto riguarda il conflitto di interessi nelle agenzie di rating, la cui esistenza è oggetto di una vecchia disputa tra studiosi.
Il conflitto è abbastanza evidente se si guarda alla struttura degli azionisti. Trattandosi, ovviamente, di un conflitto potenziale, bisogna verificare se esso si manifesti in concreto. Sotto questo profilo, genererebbe ricadute immediate l'estensione alle agenzie di rating del credito delle norme in materia di controllo sugli assetti azionari delle banche.
Passando al rapporto tra EBA e autorità di vigilanza nazionali, viene in considerazione la madre di tutti i problemi, come si suole dire, perché il modo in cui si organizza tale rapporto costituisce un aspetto fondamentale del sistema europeo di vigilanza finanziaria.
Come affermato dal professor Masera, si dovrebbe prevedere un'unica autorità di vigilanza per poche grandi banche sistemiche, le quali sarebbero assoggettate a un controllo veramente uniforme, lasciando alle singole autorità di vigilanza nazionali la sorveglianza sugli intermediari finanziari minori.
Se è questo l'obiettivo, bisogna capire cosa fare nel frattempo, considerato che all'EBA è demandata, dalla proposta di regolamento in esame, la predisposizione di molteplici norme tecniche di regolamentazione e di attuazione, che saranno poi adottate dalla Commissione europea. Vi sono, quindi, anche problemi di tattica e di opportunità.
La mia sensazione è che si potrebbe lavorare su una sorta di rapporto di scambio tra l'EBA e le autorità di vigilanza nazionali. In altre parole, si potrebbe introdurre l'obbligo, per l'EBA, della previa consultazione delle singole autorità. Pur non essendo la soluzione di tutti i problemi, tale previsione potrebbe almeno stemperarne alcuni.
Inoltre, troverei abbastanza ragionevole introdurre la possibilità, per le autorità di vigilanza domestiche, di applicare un discount factor sui requisiti di capitale, previa autorizzazione dell'EBA: potrebbe essercene bisogno per garantire la sopravvivenza di qualche soggetto in difficoltà. Inoltre, uno scambio informativo e decisionale tra EBA e singole autorità di vigilanza nazionali consentirebbe di mitigare una parte dei rischi potenziali.
Al più alto compito dell'elaborazione di una strategia e di un'architettura comune delle autorità di vigilanza ci si potrebbe dedicare, invece, nel medio periodo.
L'ultimo passaggio è riferito al tema delle piccole e medie imprese, quelle il cui fatturato annuo è compreso tra i 5 e i 50 milioni di euro. Per le attività relative a tale segmento di imprese, Basilea 2 prevede un coefficiente di ponderazione del rischio più favorevole, che genera, quindi, un minore assorbimento del capitale. Questo è un risultato che l'Italia, insieme alla Germania, è riuscita a conseguire a difesa degli interessi nazionali (mi riferisco all'azione congiunta svolta al riguardo dal Parlamento, dall'ABI e dalla Banca d'Italia).
Nel momento in cui Basilea 3 chiede di elevare i requisiti di capitale, in maniera indifferenziata per tutte le tipologie di portafoglio, è praticamente disconosciuta la specificità delle piccole e medie imprese. Da qui la proposta dell'ABI di introdurre un fattore di bilanciamento del 76,19 per cento, che consenta, pur in presenza dell'innalzamento dei requisiti patrimoniali, di lasciare inalterato l'assorbimento di capitale corrispondente al portafoglio PMI.
Applicando il predetto fattore, le banche potrebbero continuare a prestare soldi alle piccole e medie imprese senza subire una penalizzazione a causa del transito da Basilea 2 a Basilea 3. Si tratta di una proposta estremamente efficace per conseguire un risultato concreto.
LORENZO GAI, Professore di economia degli intermediari finanziari presso l'Università degli Studi di Firenze. Parto dal punto trattato per ultimo dal collega Caselli, per rispondere all'onorevole Pagano.
Sulla ponderazione per le PMI abbiamo combattuto una battaglia comune con la Germania. Questo a livello di lobby. Sul
piano tecnico, a giustificazione del trattamento diversificato è stata addotta una specifica argomentazione: se non è vero che le PMI falliscono meno rispetto alle grandi imprese, esse sono, tuttavia, meno procicliche. In altre parole, la tabaccheria risente meno del ciclo economico rispetto alla FIAT. Questa è stata la giustificazione tecnica.
Venendo alla domanda posta dall'onorevole Fluvi, che ci chiedeva di indicare due o tre questioni importanti da porre in sede europea, direi che la prima è proprio la difesa della ponderazione più favorevole per le PMI. Il fattore di correzione proposto dall'ABI sarebbe applicato a fronte dei prestiti alle PMI, indipendentemente dalle metodologie di valutazione del rischio - standard o IRB - adottati dalle banche che le finanziano.
Come secondo punto, invece, indicherei la rete delle garanzie per l'accesso al credito. Gli interventi pubblici dovrebbero cercare di favorire l'accesso al credito delle PMI, attraverso la crescita di una rete di garanzie.
Sul versante delle banche, concentrerei l'attenzione più verso le BCC. Ciò sia per le ragioni logiche che ho poc'anzi ricordato, sia perché, nel periodo della crisi, gli impieghi delle BCC verso il target di clientela delle PMI si sono mantenuti stabili, o sono addirittura cresciuti. Abbiamo una sola banca sistemicamente rilevante, cioè Unicredit, la cui causa avranno interesse a perorare molti altri Paesi e molte altre banche appartenenti alla categoria delle SIFIs. Anche per questo motivo mi concentrerei maggiormente sull'altra parte del sistema.
Per quanto riguarda il rating, concordo con il professor Masera: c'è un vizio originario nell'azionariato, ma ancora più forte è l'influenza del committente, che paga il servizio fornito dall'agenzia. Oltre a questo, poiché, quando facciamo le nostre analisi empiriche, misuriamo anche gli effetti, sarebbe interessante confrontare le «predizioni» delle agenzie di rating con gli eventi effettivamente verificatisi.
Altre due brevissime notazioni.
La prima riguarda la vigilanza, in relazione alla quale è calzante l'esempio di Unicredit. Si dovrebbe sapere, infatti, che quei pochi asset cosiddetti tossici che Unicredit si ritrova in pancia li ha assunti dal mercato della Germania, dove tali strumenti sono molto più diffusi. L'arbitraggio regolatorio, o normativo, deporrebbe a favore delle regole uniche e, di conseguenza, dell'eliminazione delle discrezionalità nazionali.
La seconda è una battuta - consentitemela - sulla BCE, il cui comportamento ho trovato un po' schizofrenico. Infatti, è vero che, recentemente, essa ha orchestrato un'operazione di quantitative easing (sostanzialmente, di questo si tratta) all'1 per cento. Tuttavia, con una mano ha rifornito di liquidità il sistema bancario, con l'altra ha imposto la valutazione al prezzo di mercato degli investimenti in titoli di Stato.
Buona parte della liquidità resa disponibile dalla BCE non ha una direzione precisa: alcuni vorrebbero che andasse alle imprese; altri che fosse destinata alla sottoscrizione di titoli di Stato (ma sarebbe una iattura); altri ancora sostengono - e credo abbiano ragione questi ultimi - che servirà alle banche per rifinanziare le obbligazioni in scadenza nel 2012, di quantità notevole, senza accedere al mercato.
Tornando indietro negli anni, da quando la BCE ha fissato per la prima volta il tasso di riferimento all'1 per cento - è accaduto nel 2009 -, le banche hanno già avuto modo sia di rifornirsi di liquidità a tale tasso, sia di investire in titoli di Stato. All'epoca, tuttavia, non c'era ancora la percezione del rischio sovrano, nel modo in cui poi si è manifestato. Il tasso dell'1 per cento consentiva anche di finanziare le imprese a condizioni ragionevoli. Sennonché, a causa dell'atteggiamento soprattutto della Germania, ha cominciato a diffondersi l'idea che gli Stati possono fallire, con il coinvolgimento anche dei creditori privati. Da qui è partito tutto il processo che abbiamo visto svilupparsi sotto i nostri occhi nell'ultimo anno.
Personalmente, trovo che la valutazione a prezzi di mercato dei titoli di Stato, alla data del 30 settembre 2011, abbia rappresentato una forte contraddizione.
Vengo a un'ultima osservazione sui CDS e sul rischio sovrano della Grecia. La chiave sta nella definizione di default: se c'è default in senso tecnico, ne conseguono tutti gli obblighi di pagamento a carico dei soggetti che hanno assicurato banche o altri intermediari contro il relativo rischio. Occorre, quindi, riportare sotto controllo tutta la massa di CDS sovrani esistente e il relativo mercato. Questo aspetto emerge da un esame un po' in filigrana dei documenti europei alla nostra attenzione. Infatti, le proposte di regolamento e di direttiva riguardano più il patrimonio di vigilanza e il rischio di liquidità che la sfera del rischio di credito, su cui mi sono appena soffermato, perché il tema dei contratti derivati aventi ad oggetto la copertura del rischio di inadempimento dell'emittente è affrontato in altra sede.
PRESIDENTE. Ringrazio i professori intervenuti per i loro contributi.
Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta della documentazione consegnata (vedi allegato) e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16,05.
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