Sulla pubblicità dei lavori:
Bruno Donato, Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO
Audizione dei professori Mario Chiavario, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Torino, Enrico Marzaduri, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Pisa, Patrizia Pederzoli, straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna, Mauro Ronco, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Padova e Giorgio Spangher, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, nonché dell'avvocato Giovanni Pellegrino:
Bruno Donato, Presidente ... 3 28 35
Bongiorno Giulia, Presidente ... 25
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 34
Chiavario Mario, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Torino ... 3 28
Contento Manlio (PdL) ... 27 31 32
Ferranti Donatella (PD) ... 25
Marzaduri Enrico, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Pisa ... 10 30 31
Pellegrino Giovanni, Avvocato ... 21 31 34
Pederzoli Patrizia, Professore straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna ... 18 31 32
Ronco Mauro, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Padova ... 13
Spangher Giorgio, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma ... 6 32
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud:
Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 14,35.
(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione dei professori Mario Chiavario, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Torino, Enrico Marzaduri, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Pisa, Patrizia Pederzoli, straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna, Mauro Ronco, ordinario di diritto penale presso l'Università degli
studi di Padova e Giorgio Spangher, ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, nonché dell'avvocato Giovanni Pellegrino.
Dopo aver ingraziato i nostri ospiti per aver aderito alla nostra richiesta, do loro la parola per lo svolgimento delle relazioni.
MARIO CHIAVARIO, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Torino. Ringrazio lei e la presidente Bongiorno dell'onore che mi è stato concesso ed entro subito in medias res, precisando che svolgerò considerazioni soprattutto sul disegno di legge costituzionale del Governo, perché mi sembra che anche le altre proposte di legge costituzionale in larga parte convergano sui temi trattati in tale disegno di legge.
Avanzo un'eccezione sola, se mi è consentito, che riguarda le due proposte di legge n. 199 e n. 1039, relative alla tutela della vittima del reato, perché quello trattato mi sembra un tema che sarebbe opportuno affrontare in ogni caso.
Se non vado errato - non spetta a me svolgere tali valutazioni - mi sembra che esso riscuota un consenso generale in termini di attenzione. In entrambe le proposte di legge si fa riferimento anche a documenti elaborati in sede europea, in particolare alla Convenzione di Strasburgo, e a una Decisione quadro dell'Unione europea.
Mi permetto di affermare che mi sembrerebbe molto opportuno che queste proposte di legge andassero avanti comunque, ma svolgo anche un rilievo sulla loro possibile incompletezza, su una data genericità, per via del rinvio che fanno puramente e semplicemente alla legge. Entrambe le proposte di legge si limitano ad affermare che le vittime sono tutelate dallo Stato o comunque dalla legge. Il rinvio alla legge mi sembra estremamente generico.
Credo che esso potrebbe essere riempito proprio facendo riferimento all'articolo 3 della Decisione quadro dell'Unione europea, la quale contiene numerose norme e direttive che andrebbero valutate e che saranno, se non lo sono già state, sicuramente valutate con notevole attenzione dalle Commissioni.
Metterei in evidenza soprattutto quella dell'articolo 3, la quale dispone che «ciascuno Stato membro garantisce la possibilità per la vittima di essere sentita durante il procedimento e di fornire elementi di prova». Questo elemento, secondo me, potrebbe essere inserito nel testo stesso di una norma costituzionale che potrebbe - provo a suggerirlo - essere formulata nel senso che la legge tutela adeguatamente la vittima del reato. Farei poi un riferimento alla dignità della persona, garantendole comunque senza pregiudizio il riconoscimento di altri diritti e, in particolare, di essere sentita durante il procedimento e di fornire elementi di prova. Credo che questo riferimento all'esigenza del soggetto di essere ascoltato e di fornire elementi di prova dovrebbe essere opportunamente inserito direttamente in una norma costituzionale.
Passo ad esaminare il disegno di legge governativo, spendendo poche parole sulla cospicua e complessa serie di norme di rilevanza ordinamentale. Il cuore del problema, non ho bisogno di ricordarvelo io, è quello della separazione delle carriere o comunque della diversificazione più netta rispetto all'attuale tra pubblico ministero e giudice.
Credo che sia giusto che si discuta senza tabù a questo proposito. Mi permetterei soltanto di svolgere un paio di brevissime osservazioni. Mi sembra che non sia facile conciliare ciò che pure è espresso nella relazione governativa, vale a dire il mantenimento del principio di autonomia e di indipendenza del pubblico ministero con una netta separazione tra le due carriere. O meglio, riconosco che questo elemento è presente in molti altri ordinamenti e credo che vada calato e non sono io a dover stabilire se e come, nel contesto italiano.
Svilupperei solo due osservazioni, di cui una è di carattere psicologico, mentre l'altra fa riferimento di nuovo alla normativa europea.
Comincio con l'osservazione di carattere psicologico. Si sottolinea spesso la necessità di distinguere pubblico ministero e giudice perché un'eccessiva frequentazione od omologazione può essere dannosa anche come immagine della giustizia. Mi domando se tale eccessiva omologazione, tale eccessiva frequentazione, che per i non addetti ai lavori può sembrare a volte non opportuna, non valga un po' per tutti gli operatori della giustizia, avvocati compresi.
Mi pare che il discorso più strettamente normativo debba essere il seguente. Non è del tutto scontato, a mio modo di vedere, il fatto che la separazione delle funzioni processuali all'interno di ogni singolo procedimento, operazione che con il Codice di procedura penale del 1988 si è cercato di attuare fino in fondo, debba necessariamente comportare una separazione a livello ordinamentale.
Di nuovo ce lo indica l'Europa, laddove la risoluzione del 1980 che viene opportunamente citata nella relazione al disegno di legge governativo, al punto 17 dispone che gli Stati garantiscono, in particolare,
che nessuno possa al tempo stesso esercitare le funzioni di membro del pubblico ministero e di giudice, ma aggiunge anche al punto 18 che, se il regime giuridico lo permette, gli Stati debbono prendere misure concrete al fine di permettere alla stessa persona di occupare successivamente funzioni di pubblico ministero o di giudice o inversamente.
Aggiunge, infine, che questi cambiamenti di funzioni debbono ovviamente essere condizionati dal consenso della persona, ma su questo credo che non ci sia motivo di discutere.
Passiamo all'obbligatorietà dell'azione penale, all'articolo 112. Chi mi conosce sa che sono molto lontano da tempo da un arroccamento su posizioni ideologiche sotto questo profilo. Non ho avuto bisogno di leggere la relazione governativa per ricordare le parole di Giovanni Falcone contro la mitizzazione del principio di obbligatorietà. Tale principio, che certamente è stato ed è un forte scudo contro quelle che definisco «le pressioni di potenti e prepotenti», ha però portato indubbiamente, nella formulazione rigida che si trova nell'articolo 112 della Costituzione, anche alcuni inconvenienti.
Alcune proposte di legge sono a favore di tale concetto e addirittura alcune sono per una radicale abolizione, ma la previsione del disegno governativo non arriva a tanto. Esso propone due modifiche. Una mi sembra condivisibile, riportare il principio all'ufficio, al di là della personalizzazione. Ciò naturalmente avrebbe bisogno, però, ma non si può affermarlo in questo contesto, anche se forse si può introdurre un elemento da altre parti, di una caratterizzazione degli uffici che responsabilizzi il titolare, ma lasci spazio a una gestione partecipata. In questo senso il riferimento all'ufficio mi sembra che possa essere condiviso.
Quello che mi lascia molto perplesso è, invece, il puro e semplice rinvio alla legge generico - ci sono troppi rinvii alla legge in questo disegno di legge costituzionale e mi permetto di rilevarlo - che può lasciare spazio a tutto e al contrario di tutto.
Il problema vero ed effettivo è quello delle priorità. Anche in questo caso credo che la normativa europea ci possa dare un'indicazione, che peraltro ha avuto un'eco, in un bellissimo libretto di due magistrati, Borgna e Maddalena, di ispirazione ideologica differente.
Il principio è il seguente: nel punto 11 della risoluzione del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa citata nella relazione governativa, dopo che si è affermato che «gli Stati devono prendere misure appropriate per fare in modo che i membri del pubblico ministero possano adempiere alla loro missione senza ingiustificate ingerenze e senza il rischio di incorrere al di là del ragionevole in una responsabilità civile e penale o di altro genere», si aggiunge che «Tuttavia, il pubblico ministero deve rendere conto periodicamente e pubblicamente dell'insieme delle sue attività, in particolare della messa in opera delle sue priorità.»
Questo riferimento alle priorità, che ha già trovato alcune aperture in norme particolari, come quella sul giudice unico senza che si sia gridato allo scandalo dal punto di vista dell'articolo 112 della Costituzione, mi sembra un argomento che vada approfondito e che possa anche trovare spazio in una riforma.
Mi preoccupa molto di più la proposta di modificare l'articolo 109 della Costituzione. In merito, come è noto alle Commissioni, sono due gli aspetti di rilievo e sotto entrambi i profili mi sembra piuttosto rischioso. In proposito confesso, per quanto può valere la mia opinione, che lascerei le cose come stanno.
Mi pare, infatti, che, anche valutando il contesto delle riforme già attuate e di quelle in cantiere, ci sia il forte rischio di un vero e proprio rovesciamento della scelta del codice del 1988, e ciò da due punti di vista.
Innanzitutto l'abolizione dell'avverbio «direttamente» per cui l'autorità giudiziaria dispone direttamente della Polizia giudiziaria fa pensare, e mi pare che anche la relazione governativa sia molto correttamente chiara su questo punto, a una netta separazione di responsabilità non nella
gestione processuale, ma nella gestione della carriera e della disciplina e a un'abolizione di quelle norme che sono contenute nelle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale, le quali fanno sì che ci sia un coinvolgimento dei vertici delle procure per quanto riguarda la carriera e la disciplina degli agenti di Polizia giudiziaria.
Per quanto riguarda il rinvio del tutto generico alla normativa di legge, anche in questo caso mi sembra che possa suonare soltanto come limitativo.
Intendiamoci bene: io non credo che la Polizia giudiziaria debba essere depressa anche nelle giuste rivendicazioni di una sua autonomia investigativa, però credo che vada compiuta una grossa distinzione tra procedimenti e procedimenti. Porto sempre l'esempio per cui, quando si indaga sul gioco delle tre carte, molto probabilmente il maresciallo ne sa molto di più del magistrato ed è bene, quindi, che abbia una notevole iniziativa di indagine. Quando si tratta, invece, di reati che comportano grosse possibilità di coinvolgimento della pubblica amministrazione o comunque di poteri forti, affidare una preminenza di indagine anche solo nella prima parte del procedimento alla polizia mi sembra estremamente rischioso.
Chiudo con due brevissime parole sulla proposta, che riprende quella della proposta di riforma costituzionale del 2006, di abolizione dell'appello contro le sentenze proscioglitive. Ovviamente è del tutto corretto, da un punto vista metodologico, riportare in Costituzione ciò che la Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale perché contenuto in una legge ordinaria.
Mi permetterei, però, di muovere due rilievi. Quando si fa riferimento, come è giusto, a sistemi che prevedono fortissime limitazioni alle impugnazioni contro le sentenze proscioglitive, bisognerebbe però tener conto del contesto in cui ciò si verifica. Si tratta di sistemi in cui anche gli appelli dell'imputato contro le sentenze di condanna sono fortemente limitati. O si compie una revisione generale del sistema delle impugnazioni, oppure tale richiamo non può convincere del tutto.
Poi c'è un riferimento che francamente non ho mai capito, ma forse solo per mia incapacità, che viene svolto spesso ed è ripetuto anche nella relazione governativa. Mi riferisco all'articolo 2 del protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti umani, articolo che garantisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale.
Non mi sembra che questo riferimento valga per escludere l'appello della controparte, anzi, mi è sempre parso che, in cauda venenum, nell'ultima parte del paragrafo 2 di questo articolo ci sia un argomento al contrario. Dopo essersi affermato che il condannato ha diritto a un doppio grado di giurisdizione, si aggiunge che «tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni» - tralascio ciò che si dice di tali eccezioni e continuo - «nei casi nei quali la persona sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un'impugnazione avverso il suo procedimento.»
Addirittura si potrà sostenere che vi è per tabulas la conferma che può esserci, non essendo contraria alla tutela dei diritti umani, la possibilità di un appello contro le sentenze di proscioglimento.
Avrei concluso la mia esposizione. Sono a disposizione per eventuali domande e richieste di chiarimento.
GIORGIO SPANGHER, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma. Anch'io ringrazio dell'invito. Cercherò di esprimere considerazioni sui profili che conosco, per un verso, e che mi interessano per l'altro, quindi non affronterò tutti i temi.
Comincerò con una considerazione che mi sembra del tutto opportuna, perché legata alla mia esperienza. Per pochi mesi ho fatto parte della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Ritengo che, se esiste un elemento del disegno di legge del Governo che va indubbiamente considerato nel senso della riforma, è indubbiamente lo spostamento della sezione disciplinare al di fuori del Consiglio. Lo affermo essendone stato il presidente.
Non voglio rivelare assolutamente nulla, però certamente la sezione disciplinare ha la necessità di essere portata fuori dalle logiche consiliari. Non voglio affermare che manchi un diritto tabellare, ma la composizione dell'organo, e l'onorevole Ferranti lo sa, è spesso legata alla casualità e nella casualità a volte c'è qualcosa di più della casualità, l'interesse di una determinata composizione.
La composizione vede soltanto la presenza di due laici e di quattro togati, il che naturalmente può incidere sull'esito del processo decisionale. Può incidervi nella misura in cui, per un giudizio di responsabilità, i voti devono essere quattro; a tre voti la decisione non è di responsabilità. La sezione disciplinare allo stato manca di poteri istruttori. Tali poteri sono affidati all'Ispettorato, composto da magistrati, alla procura generale, sempre composta da magistrati, e le decisioni della sezione istruttoria sono impugnate dalle sezioni unite e civili, sempre costituite da magistrati. I laici, cioè gli esterni alla magistratura, gli esterni al potere giudiziario, sono sostanzialmente due in un momento di passaggio.
Al Consiglio superiore si vive per quattro anni in una sorta di comunità, di amicizia, di rapporti di contiguità, tutte situazioni legittime, che però finiscono per mischiare il momento disciplinare con gli altri momenti che il giorno prima nel corso del plenum o nelle Commissioni ci si trova a dover affrontare. Credo di essermi spiegato. Non vorrei insistere di più su questo punto, salvo rimettermi alle vostre domande.
Mi interessa, invece, come processual-penalista, il discorso della separazione delle carriere. Io credo che la Costituzione, quando fu scritta nel 1948 - svolgo un discorso da professore e chiedo scusa - naturalmente partisse anche da quella che era la struttura del processo penale del 1930. È inevitabile e del resto è noto che il processo penale, pur non costituzionalizzato, ma certamente recepito in Costituzione come modello, fu poi bonificato attraverso l'intervento della Corte costituzionale.
Vado al punto. Nella prima parte della Costituzione c'è un riferimento all'autorità giudiziaria. Sono d'accordo con Mario Chiavario sul fatto che le soluzioni alle quali il Parlamento vorrà approdare potranno essere diverse, ciò riguarderà voi come legislatori, però certamente il concetto di autorità giudiziaria era quello in forza del quale l'istruttoria sommaria del pubblico ministero era fungibile con quella formale del giudice, mentre in materia di provvedimento cautelare ordine di cattura e mandato di cattura erano provvedimenti omogenei, suscettibili di essere identici.
Tale concetto di autorità giudiziaria si è trasferito nella struttura ordinamentale. Esiste una contiguità e non ci sono possibilità di affermare nulla di diverso. Autorità giudiziaria nella prima parte della Costituzione significa Consiglio superiore della magistratura, nella seconda la magistratura intera.
Questo modello processuale è stato infranto nel 1988. Gli studiosi dell'Associazione del processo penale, come Mario Chiavario sa, nel Congresso di Lecce hanno votato. Non hanno votato il modello, ma si sono espressi per una linea di tendenza, un orientamento, una scelta di direzione di marcia, che è stata sostanzialmente individuata.
Quando è stata varata la riforma del codice del 1988, fu introdotta solo una norma, il filtro nella separazione delle funzioni, ma era tutto ciò che la Commissione presieduta da Zagrebelsky poteva ottenere. La struttura ordinamentale condizionava fortemente l'elemento processuale.
Non si può far riferimento all'astensione e alla ricusazione. Sono elementi deboli che non c'entrano assolutamente nulla con la separazione delle carriere e con i due Consigli superiori della Magistratura. L'astensione e la ricusazione si collocano su piani assolutamente diversi. Se l'avvocato è amico del giudice e il giudice è amico del pubblico ministero, ci saranno motivi di astensione, ma in questo
caso si tratta di un elemento più profondo. È il modello processuale a essere in discussione.
Se mi permettete, purtroppo devo svolgere una considerazione ancora più forte. Se si realizzerà la riforma del Consiglio nel senso auspicato, bisognerà incidere sulla prima parte della Costituzione, cioè sugli articoli 13, 14 e 15. Quel concetto di autorità giudiziaria non esisterà più, perché c'è un rapporto stretto fra autorità giudiziaria della prima parte e Consiglio superiore o Consigli superiori. Evidentemente non è più possibile un'attività che venga svolta, se non in via d'urgenza, dall'autorità giudiziaria intesa come commistione del ruolo del pubblico ministero e del giudice.
L'articolo 111 della Costituzione, volenti o nolenti, ha cambiato i termini del problema. È stata una riforma, quella sì, forse epocale sul processo penale, perché ha collocato il giudice lontano dalle parti, ha allontanato e ha voluto allontanare il pubblico ministero dal giudice. La riforma, se si realizzerà, vuole rafforzare i poteri del giudice e non indebolirli.
Aggiungerò ancora un'osservazione che tutto sommato mi pare piuttosto importante. Noi abbiamo bisogno sotto tanti profili - potrei andare sull'articolo 112 della Costituzione - che il ruolo del giudice sia più forte ed equidistante dalle parti.
Ai miei studenti spiego: è possibile che il Codice di procedura penale abbia pensato di disciplinare la scena dell'udienza? Ha pensato di trasformare un problema di suppellettili in un problema processuale? Ha affermato che le parti siedono lontane dal giudice. È un problema di Aula, di organizzazione? No, è un problema di sostanza, è un problema per forza del quale si vuole che queste due figure siano separate, abbiano carriere diverse.
Io sono entrato in Consiglio affrontando il problema del passaggio di un pubblico ministero a giudice e sono uscito dal Consiglio affrontando il problema del passaggio di un GIP a pubblico ministero, nella procura di Roma.
Ci siamo dibattuti su questo tema. I filtri non servono, non sono sufficienti. Occorre un'organizzazione stabile che allontani queste due figure, rendendo più forte quella del giudice.
A proposito dell'articolo 112 della Costituzione avrei molte osservazioni da fare. In senso critico, manca il riferimento che c'era invece nella proposta della bozza Boato. C'è una norma nel Codice di procedura penale, l'articolo 330, in forza della quale il pubblico ministero può andare alla ricerca della notizia di reato, ma io credo che il pubblico ministero non abbia questo compito.
Nella bozza Boato questo punto era precisato molto chiaramente: il pubblico ministero riceve le notizie, non le ricerca.
Condivido del tutto il riferimento all'ufficio del pubblico ministero. Del resto, è nella legge di riforma: l'azione penale deve essere uniforme e omogenea, i cittadini devono essere trattati nello stesso identico modo. L'ufficio del pubblico ministero va bene se ha questo significato, non se rientra in una logica piramidale che parte da una procura generale che torni a fare le avocazioni; va bene anche in una procura tronca, l'ufficio della procura, sganciato dall'ufficio della procura generale. Comunque l'ufficio del pubblico ministero deve essere un elemento unitario.
C'è un'ambiguità nel testo del disegno di legge del Governo. Parlando in un dibattito con Ennio Amodio non avevamo le stesse idee sulla parola «criteri». Che cosa si intende? Per Ennio Amodio indica le modalità di esercizio, ossia archiviazione condizionata, rilevanza del fatto, condotte riparatorie. Bisogna uscire dall'ambiguità. Per me i criteri sono criteri di priorità dell'investigazione, non dell'esercizio dell'azione.
Il problema è che si vorrebbe che il pubblico ministero trattasse i cittadini tutti nello stesso modo. Oggi la figura del pubblico ministero si è fortemente accresciuta, gestisce i tempi del processo, i registri, i modi attraverso i riti e l'oggetto attraverso la formulazione delle ipotesi di imputazione e può assumere atti da «in
competente» perché situato presso un giudice incompetente con recupero successivo della validità degli atti. Basta non essere informati e non si fa scattare l'articolo 54-quater del codice di procedura penale. Non gli si può sottrarre il processo.
Sarebbe forse il caso che, a prescindere dalla possibilità di intervenire su questi segmenti, che sono a legislazione ordinaria, fossero almeno individuati alcuni criteri di priorità nell'investigazione.
Con molta modestia, non deve scandalizzarvi, ma alcuni esistono già, perché il pubblico ministero può tenere l'udienza di convalida al direttissimo, può portare il limite entro 30 giorni, entro 90 giorni con l'immediato, entro 180 col custodiale. Ha il tempo di un anno per i reati che riguardano l'omicidio della sicurezza.
Esistono già criteri di priorità che il legislatore prevede. Si tratta di completarli e poi di individuare quali possano essere i soggetti, l'organo o l'ufficio, chiamati a decidere quali sono i criteri di priorità, se il Consiglio superiore, il Parlamento, il Ministro. Questi saranno compiti del legislatore.
Ho studiato le impugnazioni, ho scritto saggi sulle impugnazioni, però devo ammettere con molta onestà che questo articolo non serve a nulla. O si ha il coraggio di dire le cose come stanno, oppure non lo si ha. Non mi riferisco alle sentenze di condanna, ma al discorso del proscioglimento.
Che significato ha affermare che le sentenze di proscioglimento sono appellabili nei casi previsti dalla legge? Significa scrivere la legge ordinaria sotto dettatura della sentenza della Corte costituzionale. O si ha il coraggio di affermare che il pubblico ministero non può appellare la sentenza di proscioglimento in Costituzione, oppure, se si afferma che una legge ordinaria dovrà disciplinare la materia, questa legge ordinaria non potrà che riscrivere l'appello nei termini identici nei quali l'ha scritto la Corte costituzionale, consentendo una disparità di trattamento soltanto per quanto riguarda le imputazioni, per esempio contravvenzioni punite con pena pecuniaria, mentre il resto non sarà possibile, perché il rimando alla legge ordinaria dovrà tener conto degli altri valori costituzionali, primo fra i quali il principio di uguaglianza, oltre alla parità delle armi e a tutto ciò quello che quella
sentenza, che personalmente rispetto ma non condivido, ha scritto.
Mi permetterei nella parte relativa alla responsabilità di aggiungere una parola: non si dovrebbe scrivere «la libertà personale», ma «le libertà personali». Ricordiamoci che oggi le misure cautelari reali hanno più incidenza di una misura cautelare personale. Il sequestro di un patrimonio, la confisca di un'azienda sono molto più gravi di quanto possa essere un ritiro del passaporto, un obbligo di firma o un divieto di avvicinamento.
Scriviamo, dunque, «le libertà». Tra parentesi, l'articolo 272 del Codice di procedura penale parla de «le libertà della persona». Ricordiamocelo.
Inoltre, se volete e se potete, per un segno di civiltà, togliamo la parola «carcerazione» dalla nostra Costituzione. Non c'entra con la riforma, però è una parola che non ci sta, perché abrogata dalla legge ordinaria. Non abbiamo più la carcerazione preventiva come istituto, ragion per cui togliamola dall'articolo 13 della Costituzione.
Io mi muovo nella logica giuridica, ma credo che le Commissioni su questo problema, sul quale forse concordate tutti, possa intervenire.
Veniamo al problema dell'articolo 109 della Costituzione. Io non sarei preoccupato dall'idea di rafforzare i poteri della Polizia giudiziaria, né vedrei profili di incostituzionalità. Possiamo sostenere che il codice del 1930 era incostituzionale perché la Polizia giudiziaria aveva ampi poteri e poi concludeva con un rapporto? Direi di no.
Non ci fidiamo, non crediamo nella nostra polizia, non crediamo nella democrazia e nella maturazione che tutto ciò ha avuto? Io non credo. Stiamo attenti: oggi una larga parte del processo penale si basa sulla prova scientifica, sul sopralluogo. Tra parentesi, mi permetto di osservare anche questo alle Commissioni: io credo che la
nostra materia difetti di una disciplina del sopralluogo sulla scena del crimine, che non ci siano i protocolli per quanto attiene a questa determinata fase, che non ci sia il responsabile, che non ci sia controllo sulla catena di conservazione dei reperti.
Sono problemi che emergono all'interno di questa modifica, che personalmente non vedo in termini assolutamente negativi. Del resto, la stessa linea di tendenza del Codice di procedura penale, dopo aver ridotto i termini dell'attività di Polizia giudiziaria, è stata costretta o ha avuto la possibilità di allungare questi tempi e queste modalità di attività della Polizia giudiziaria.
Naturalmente non posso non riscontrare anch'io che nel disegno di legge del Governo ci sono troppi riferimenti alla legge ordinaria e che ciò finisce per diventare un grosso problema. Sarebbe il caso che tali rinvii fossero meglio specificati. Non è assolutamente chiaro per nessuno di quali contenuti tutto ciò potrà essere riempito. Vi ringrazio.
ENRICO MARZADURI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Pisa. Ringrazio anch'io dell'occasione che mi è stata concessa e concentrerò il mio intervento su temi prevalentemente processuali, anche se un passaggio introduttivo è necessario ed è lo stesso che, peraltro, è già stato fornito dall'amico Giorgio Spangher: gli aspetti ordinamentali visti in una logica processuale.
Quando venne approvato il codice del 1988, uscirono due o tre saggi proprio sui problemi dei rapporti tra riforma ordinamentale e riforma del codice, ma dopo quel fuoco di fiamma iniziale anche la dottrina si placò e abbandonò il tema.
Una causa sicuramente è stata costituita dal fatto che contestualmente alla riforma del codice non era stata ipotizzata una riforma ordinamentale e non era stata collegata soprattutto a livello di legge delega con le novità processuali.
Di fatto, tutto è rimasto fermo ed è stata proprio la riforma costituzionale del 1999, con l'introduzione dell'articolo 111, che ha fatto riprendere l'attenzione nei confronti di questo tema.
La problematica della separazione delle carriere o, più in generale, l'individuazione di soluzioni che pongano sul piano ordinamentale in maniera separata la posizione del pubblico ministero e quella del giudice è stata fin troppo, a mio avviso, coinvolta da impostazioni ideologico-politiche. Troppo spesso ci si è avvicinati a questo tema non virgin-minded, se si può cercare di esserlo. Forse è un'utopia, ma sicuramente si è stati troppo condizionati dalle posizioni politiche che favorivano o contrastavano determinate scelte.
L'approccio deve essere più che mai laico nei confronti di una soluzione del genere. Ciò non significa non vedere quelli che potrebbero essere alcuni condizionamenti sulla posizione del pubblico ministero di soluzioni ordinamentali, né, allo stesso modo, non significa che automaticamente la scelta della separazione debba essere intesa come una scelta che viene a condizionare dal punto di vista dell'autonomia e dell'indipendenza la figura del pubblico ministero.
Al limite, proprio perché ci muoviamo all'interno di un contesto particolare, ci dovrebbe essere la massima attenzione proprio per allontanare il sospetto che dietro una riforma ordinamentale di questo tipo possano esserci manovre di altro genere. È stato affermato, e ci crediamo tutti, che, quale che sia la soluzione a livello costituzionale per il pubblico ministero, devono rimanere ferme le garanzie di autonomia e di indipendenza di questa figura.
In questa prospettiva alcune preoccupazioni ha destato certamente una norma che, peraltro, replica in larghissima parte un contenuto costituzionale già presente. Alludo al fatto che con l'ipotizzata riforma si richiama l'articolo 104, comma terzo, della Costituzione sulle norme dell'ordinamento giudiziario, norme che assicurano l'autonomia e l'indipendenza del giudice. Tale articolo ha destato alcune perplessità, ma è anche vero che, se andiamo a leggere l'attuale articolo 107, troviamo contenuti sostanzialmente analoghi.
Questo ci fa capire come l'approccio a un tema del genere risenta quasi a livello emotivo di una difficoltà di lettura - riprendo l'aggettivazione già usata - laica. Ciò non significa, lo ripeto, che l'attenzione nei confronti dell'autonomia e dell'indipendenza del pubblico ministero non debba essere coltivata al massimo livello.
Sotto questo profilo ci sono anche alcune scelte lessicali che talora possono ingenerare preoccupazioni, si vedrà in seguito se giustificate o meno. Mentre per il giudice si parla di un ordine, superando l'incertezza tra ordine e potere, per il pubblico ministero si allude tout court all'ufficio del pubblico ministero. Perché non parlare di una soluzione organizzativa per il pubblico ministero che non legittimi preoccupazioni all'interno della magistratura, in una prospettiva quasi di capitis deminutio dell'organizzazione del pubblico ministero? Occorre pari dignità anche per l'organizzazione del pubblico ministero, nella differenziazione di questa funzione rispetto a quella giurisdizionale.
Giorgio Spangher segnalava la problematica dei rapporti, una problematica non solo lessicale, tra il termine «autorità giudiziaria», presente in diverse disposizioni costituzionali, e la diversa collocazione istituzionale del pubblico ministero.
Sono ben note le incertezze che ha destato proprio la presenza nell'articolo 13 della Costituzione dell'espressione «autorità giudiziaria» rispetto alla diversa espressione «autorità giurisdizionale» o «giudice» e la possibilità, quindi, di ricavare dall'articolo 13 una legittimazione attiva in capo al pubblico ministero, autorità giudiziaria, ma non giurisdizionale. Abbiamo anche visto, però, come dal punto di vista sistematico il medesimo articolo 13 collegato all'articolo 111 facesse sì che si imponesse una lettura restrittiva di questo termine.
Io non ho paura dell'interpretazione, quando è un'interpretazione buona, che le norme favoriscono e in alcuni casi anche impediscono. Per me la collocazione all'interno del concetto di autorità giudiziaria del pubblico ministero, anche in una prospettiva di separazione, può ben rimanere, proprio nella consapevolezza che l'espressione «autorità giudiziaria» è un'espressione di sintesi che riguarda i magistrati, che svolgono una funzione giudiziaria e che non sono necessariamente giudici. Possono essere giudici e pubblici ministeri, come del resto si esprime al primo comma il novellato articolo 104, per il quale «i magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri». Vogliamo mettere la magistratura in luogo dell'autorità giudiziaria?
Dietro queste soluzioni, che potrebbero apparire del tutto formali, in realtà si possono tradurre esigenze di autonomia e di indipendenza che talora necessitano anche di formalizzazioni. Proprio perché noi viviamo all'interno di un determinato contesto culturale e normativo alcune riforme possono essere attuate, ma devono essere attuate tenendo conto della situazione in cui vengono a essere inserite e a modificare lo stato attuale della disciplina ordinamentale.
Passo rapidamente a prendere in esame gli aspetti più vicini alla mia specializzazione e, quindi, ai temi processuali e penali che vengono ampiamente considerati dalle proposte di modifica, nel testo del disegno di legge del Governo, degli articoli 109, 111 e 112.
Partirei dall'articolo 111, perché quella che viene introdotta nell'ultimo comma è una disposizione che io condivido, ma con alcune modifiche. Al tempo stesso, però, non so se sia una disposizione che può trovare corretta collocazione in un ambito costituzionale.
Il problema che è stato aperto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007 non è secondario perché, a mio avviso, si fonda su un errore di prospettiva che non è stato adeguatamente censurato.
Si parla tanto del pubblico ministero come organo di giustizia, organo che si legittima solo sul piano della corretta applicazione di legge, ma, se andiamo a vedere il nucleo motivazionale della sentenza n. 26 del 2007, ci accorgiamo che viene coltivata una prospettiva privatistica
del pubblico ministero, il quale viene visto come totalmente soccombente perché c'è una sentenza di proscioglimento.
È una questione inaccettabile, a mio avviso, proprio in una corretta collocazione del pubblico ministero nell'attuale realtà ordinamentale. Una sentenza di proscioglimento non è una sentenza rispetto alla quale il pubblico ministero è totalmente soccombente. Bisognerà vedere se quella sentenza sul piano della corretta applicazione della legge meriti o meno di essere mantenuta.
Laddove si imponga una riforma, allora si pone un problema diverso, che non è stato correttamente letto a sua volta nella citata sentenza della Corte costituzionale. Si pone un problema di esercizio dell'azione penale in una prospettiva di impugnazione, ma la Corte, come sappiamo, dopo la disgraziata sentenza n. 280 del 1995 sull'appello incidentale, ha abbandonato il rapporto tra impugnazione ed esercizio dell'azione penale.
A mio avviso, l'esigenza di una differenziazione tra il trattamento a livello di impugnazione delle sentenze di condanna e di proscioglimento si giustifica. Del resto, mi pare - posso contraddire almeno in minima parte ciò che asseriva Giorgio Spangher - la sentenza del 2007 che rilevava l'illegittimità costituzionale della nuova disciplina dell'articolo 593 del Codice di procedura penale lasciava un po' di spazio, perché era una disciplina troppo radicale.
Ritagliando su determinate imputazioni e su determinate pene, probabilmente si riesce a trovare anche all'interno della prospettiva coltivata dalla sentenza della Corte costituzionale uno spazio per un'inappellabilità da parte del pubblico delle sentenze di proscioglimento.
A mio avviso, il tema si giustifica sul piano della differenziazione del trattamento perché, mentre per riformare una sentenza di condanna è sufficiente individuare il ragionevole dubbio che incrina e fa cadere la situazione di certezza processuale che aveva giustificato la condanna, per arrivare da una sentenza di proscioglimento a una sentenza di condanna si deve, invece, costruire tale certezza. È una questione molto diversa, più difficile da giustificare in una prospettiva quale quella dell'appello, soprattutto dell'appello attuale, perché è un'impugnazione, come sapete, essenzialmente cartolare.
Inoltre, sul piano costituzionale ci sono alcune idee forza che giocano sempre in questa direzione, come l'articolo 27, comma secondo, della Costituzione. Ancora una volta si arriva a costruire una differenziazione non ingiustificata sul piano della disciplina delle impugnazioni.
Quello che non mi convince del tutto è come trovare una collocazione a livello costituzionale di queste considerazioni. Questa è, del resto, una disposizione che, come altre del disegno di legge del Governo, rinvia sin troppo ampiamente alla legge ordinaria per una disciplina e, quindi, si dovrebbe riflettere sulla formulazione di questa norma per individuare forse l'idea di fondo, senza lasciare spazi troppo ampi al legislatore ordinario.
Anche riguardo all'articolo 112 della Costituzione in linea di massima sono d'accordo con la soluzione che legittima formalmente la presenza di criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale. È vero, però, e anche in altre occasioni ho avuto modo di segnalarlo, che quella di «criteri» è un'espressione indubbiamente ampia e generale, che può favorire le letture richiamate da Ennio Amodio e da altri, per le quali i criteri sono le modalità di esercizio, il che potrebbe compromettere la stessa prima parte della disposizione, quell'obbligo che potrebbe venir meno a secondo della struttura che viene data a queste fattispecie, sulla cui base regolare l'esercizio dell'azione penale.
Peraltro, ove ci fosse un riferimento più specifico ai criteri di priorità, io ritengo che non ci possano essere problemi effettivi di costituzionalità. L'esigenza di una differenziazione sul piano dell'esercizio dell'azione penale o, più in generale, dell'iniziativa penale è un tema che si trova a tutti i livelli.
Se ci ponessimo in una logica di indifferenziazione, si porrebbe il problema, per esempio, per i mezzi di ricerca della
prova, che sono consentiti per determinate imputazioni e per altre no, e che pure sono spesso essenziali ai fini di un accertamento processuale. Evidentemente il legislatore sconta in partenza l'impossibilità per determinati reati, sulla base di un bilanciamento tra interessi, di poter utilizzare questi mezzi, che pure potrebbero risultare gli unici utili ad acquisire alcuni elementi probatori.
Ciò vale a tutti i livelli, compreso lo stesso discorso delle impugnazioni. È nota a tutti l'impossibilità per il pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento del giudice di pace. Si tratta di una differenziazione di trattamento che, a mio avviso, riguarda l'esercizio della penale, perché io, come altri, ritengo che nell'articolo 112 rientri anche il potere di impugnazione del pubblico ministero, ma ciò non desta alcuna difficoltà e la Corte costituzionale ha ben spiegato e giustificato tale differenza.
Analogamente, sul piano dell'utilizzazione dei mezzi personali delle risorse della giustizia da distribuire in maniera differenziata a seconda delle caratteristiche di un processo, delle esigenze di una determinata imputazione, si può intervenire senza scivolare - bisogna evitarlo - su piani estremamente evanescenti improntati all'allarme sociale e all'esigenza di dare rassicurazione alla società e su questa base graduare le modalità di esercizio dell'azione penale.
Sulla modifica dell'articolo 109 della Costituzione, mi trovo nella posizione anticipata da Mario Chiavario. Le preoccupazioni che sorgono dalla lettura della disposizione sono legate ancora una volta al generico rinvio alle modalità stabilite dalla legge, ma anche al fatto che scompare l'avverbio «direttamente» che tanto significato aveva avuto in sede di discussione nell'Assemblea costituente, proprio perché - ripeto fatti scontati - si voleva supplire alla mancanza di un corpo di polizia specificamente destinato alle funzioni giudiziarie.
Un altro elemento che lascia perplessi è l'accostamento del giudice e del pubblico ministero nel disporre della Polizia giudiziaria a seconda delle modalità stabilite dalla legge. Ciò ingenera un certo sconcerto, perché mettere sullo stesso piano giudice e pubblico ministero in questa prospettiva significa, a mio avviso, snaturare il rapporto funzionale della Polizia giudiziaria, che è evidentemente collegato al momento investigativo.
Il giudice deve avere attraverso la Polizia giudiziaria la possibilità di disporre dell'ordine all'interno dell'Aula d'udienza, ma non è certo questa la caratteristica normativa che ne consente una presenza accanto al pubblico ministero. Manca il riferimento all'autorità giudiziaria e soprattutto a un collegamento diretto con la Polizia giudiziaria.
In questa logica ritengo anche di dover disattendere le proposte di chi, riprendendo l'ipotesi della bozza Boato, vuole inserire o nell'articolo 112 o in altre collocazioni costituzionali il divieto per il pubblico ministero di andare alla ricerca della notizia di reato. Con una battuta forse banale, non sono tanto preoccupato di un pubblico ministero che, sulla base di elementi di sospetto, va alla ricerca di elementi che costruiscano ulteriormente la notizia di reato. Sono, invece, preoccupato da una Polizia giudiziaria slegata dall'autorità giudiziaria e inevitabilmente organicamente collegata al potere esecutivo, che potrebbe essere - siamo nella logica del sospetto e della preoccupazione, ma li dobbiamo considerare -condizionata dalle scelte dell'esecutivo anche in questa fase estremamente delicata pre-procedimentale.
Peraltro, la fase pre-procedimentale non è disciplinata a livello normativo, se non in due disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale. È un compito del legislatore ordinario, ma alcune disposizioni al riguardo non sarebbero superflue.
MAURO RONCO, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Padova. Ringrazio lei, presidente, e il presidente Bongiorno di questo invito, che mi onora.
Io penso che il primo problema concerna il verificare se vi siano in Costituzione alcuni nodi non modificabili in questa materia e io credo che vi siano. In particolare, credo che vi sia il primato della legge giusta, perché controllabile dalla Corte costituzionale, sulle altre fonti del diritto e, in particolare, in materia penale, sull'interpretazione del giudice, che è vietata in malam partem per la Costituzione.
Il secondo aspetto che mi pare fondamentale e sempre costituzionalmente intoccabile è il primato della legge in quanto distante dal giudice, in maniera, per così dire, aristotelica, comprendendo la legge come un elemento che sfugge alla pressione del caso particolare.
La legge è uno strumento di garanzia anzitutto per il giudice perché gli evita di essere sopraffatto o condizionato dal fatto e dalla vicenda storica, ma il giudice in questo modo è costretto a giudicare sulla base di un criterio previo di giustizia penale generale e astratto e questo è un principio che mi pare si possa dedurre dall'articolo 1 della Costituzione.
Il terzo aspetto irrinunciabile che non si può modificare è l'uguaglianza di tutti i cittadini e, più in generale, di tutti coloro che vengono a contatto con le istituzioni volte a realizzare le esigenze di giustizia di fronte alla legge, prevista dall'articolo 3 della Costituzione.
Il quarto aspetto irrinunciabile costituzionalmente è quello dell'autonomia, dell'indipendenza, dell'imparzialità e della terzietà del giudice, che derivano direttamente dall'articolo 3 e dall'articolo 111 della Costituzione.
Il quinto aspetto è l'autonomia e l'indipendenza dell'ufficio del pubblico ministero dal Governo come garanzia dell'uguaglianza dei cittadini ai sensi dell'articolo 3 della Costituzione.
L'ultimo punto, che però non è contenuto nel disegno di legge del Governo, è l'autonomia e l'indipendenza del Governo e del Parlamento dall'ufficio del pubblico ministero, nel senso di garanzia che le funzioni di indirizzo politico del Governo e la funzione legislativa del Parlamento non siano messe in pericolo dall'esercizio dei poteri coercitivi e invasivi dell'ufficio del pubblico ministero. Sono tematiche sulle forme di immunità processuale che, a mio parere, sono irrinunciabili in un ordinamento in cui sia rispettato il principio della separazione dei poteri.
Se questi sono i princìpi irrinunciabili su cui neanche una legge costituzionale può portare modifiche, io penso che nel nostro caso le modifiche proposte da un disegno così complesso non tocchino tali princìpi. Sotto questo profilo mi permetterei di affermare che la normativa va vista, come oggi si dice, in maniera talora anche un po' superficiale, laicamente, cioè al di là di pregiudizi di carattere ideologico, perché non sono in questione rischi di toccare princìpi irrinunciabili della nostra Costituzione, quelli della parte prima in modo particolare.
Ciò premesso, vorrei svolgere alcune osservazioni sul nodo fondamentale del disegno di legge, che è proprio quello della separazione delle carriere. Già si è affermato, l'ha fatto Spangher e io non vi ritorno, che la separazione delle carriere è un portato inevitabile della riforma del 1988, ma soprattutto della riforma dell'articolo 111 della Costituzione.
Aggiungerei alcune considerazioni su questo punto. La riforma del codice di rito del 1988-1989 ha una doppia faccia, la faccia accusatoria, che va benissimo, e la faccia investigativa.
La faccia investigativa, di cui forse non si sospettava la rilevanza, ha trasformato la funzione del pubblico ministero da soggetto che esercita l'azione penale quasi esclusivamente, che valutava la possibilità di esercitare l'azione penale sulla base del materiale che gli veniva consegnato dalla polizia o che lui stesso integrava o che veniva integrato dal giudice istruttore, a soggetto che investiga e ricerca gli elementi probatori in piena autonomia e libertà, con enormi poteri conoscitivi e coercitivi. Si pensi tra tutti al potere che è stato consegnato ai pubblici ministeri dalle intercettazioni, dall'enorme settore di conoscenze che provengono in maniera molto dilatata attraverso le intercettazioni.
Questa modifica, cioè la faccia investigativa del pubblico ministero, da un lato ha tolto ragionevolezza all'obiezione tradizionale contro la separazione, che era basata sul fatto che il pubblico ministero partecipava alla cultura della giurisdizione e, dall'altro lato, ha imposto un rigoroso controllo giurisdizionale sull'esercizio dei poteri coercitivi e invasivi del pubblico ministero da parte di un giudice terzo fin dall'origine della fase procedimentale, anzi fin dall'origine delle indagini preliminari.
D'altra parte, la pluralità dei riti alternativi che rischiano di portare alla marginalizzazione del dibattimento e, dunque, del contraddittorio impone di ampliare la sfera di controllo sull'attività di investigatore del pubblico ministero da parte di un giudice terzo in un momento del procedimento in cui la forza del pubblico ministero è incomparabilmente più forte di quella della difesa.
Il bilanciamento di questo enorme potere - il pubblico ministero conosce le indagini, è in grado di esporre parte degli atti e non tutti, perché può avere fascicoli diversi nei quali valgono ipotesi alternative o collegate - non può non essere controllato da un giudice effettivamente terzo, che deve godere della prerogativa dell'assoluta indipendenza rispetto al pubblico ministero.
Da qui l'esigenza della separazione delle carriere, che comporta anche la separazione dei Consigli superiori, perché è attraverso il controllo esercitato reciprocamente, ma soprattutto dai pubblici ministeri nell'unico Consiglio superiore, che si determina un indebolimento delle posizioni dei giudici.
La separazione delle carriere è dunque la naturale e logica conseguenza non soltanto del principio della terzietà del giudice rispetto alle parti, ma prima ancora della intrinseca differenza tra la funzione del giudice e la funzione del pubblico ministero.
La funzione di quest'ultimo è complessa e si compone di due aspetti, la funzione di investigare e la funzione di accusare colui nei cui confronti abbia esercitato l'azione penale. In questa seconda assunzione il pubblico ministero partecipa come parte all'esercizio della funzione giurisdizionale e, quindi, in una posizione del tutto diversa rispetto al giudice. Non solo non è terzo, ma è proprio parte, quindi non è imparziale e ha una posizione radicalmente differente dal giudice.
Nella prima funzione, quella dell'investigazione, il pubblico ministero è ancora più distante dalla giurisdizione. È vero che l'investigazione può sfociare in una richiesta di giudizio, ma tale esito non è affatto scontato. L'investigazione postula doti e qualità che sono diverse e talora contraddittorie rispetto alle doti e alle qualità che si richiedono al giudice.
Nella fase delle indagini preliminari, prima dell'esercizio dell'azione penale, l'atteggiamento mentale del pubblico ministero è di tipo inquisitorio. L'inquisitorietà è tornata, non è stata cancellata, fa parte di questa fase precedente all'esercizio dell'azione penale ed è imperniata intorno alla logica del sospetto. Senza sospetti non nascono le ipotesi investigative, senza ipotesi investigative non si esperiscono mezzi di prova e senza l'esperimento dei mezzi di prova non si raggiungono le prove.
La logica del sospetto è la logica dell'investigatore realistico, che sa per esperienza che la trama della vita sociale è spezzata frequentemente dai più diversi momenti delittuosi, che rimangono celati e che egli deve far venire alla luce.
Questo atteggiamento mentale, questa forma mentis, è incompatibile con l'oggettività e con la neutralità quasi adiafora che deve caratterizzare la funzione del giudice, quell'indifferenza - uso il termine in chiave filosofica - che significa perfetta distanza dal doppio pregiudizio colpevolista e innocentista che deve caratterizzare l'atteggiamento del giudice, il quale non si fa influenzare e non si deve far influenzare neanche dalla pressione dell'ipotesi accusatoria che il pubblico ministero formula nella fase precedente all'esercizio dell'azione penale.
Il testo delle norme disegnate nella riforma del Titolo IV cerca di dar conto di
questa radicale differenza di ruoli e io non posso non valutare positivamente le norme, in particolare l'articolo 2 del disegno di legge che modifica il secondo comma dell'articolo 101 della Costituzione, statuendo che «i giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge». Si parla dei giudici e non più dei magistrati, comprendendo i pubblici ministeri.
Inoltre, vi è l'articolo 3, che sostituisce il primo comma dell'articolo 102, statuendo che «la giurisdizione è esercitata da giudici ordinari» e non più dai pubblici ministeri.
In questo modo, prima di procedere con l'articolo 4 sulla separazione delle carriere, il disegno di legge costituzionale mette in luce realisticamente il presupposto concettuale che postula la separazione: la giurisdizione è materia dei giudici e, in quanto protagonisti di questa funzione, essi costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere, ivi compreso il potere dei pubblici ministeri.
In questo modo, come affermava Spangher, e io non posso non condividere, è esaltata la funzione del giudice, è garantita la sua autonomia e indipendenza e non è per nulla sminuito il ruolo del pubblico ministero, la cui autonomia e indipendenza dal potere governativo è costituzionalmente garantita dal medesimo articolo 4, il quale, modificando l'articolo 104 della Costituzione, prevede che l'ufficio del pubblico ministero sia organizzato secondo norme di ordinamento giudiziario che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza. Tali norme saranno sottoponibili al vaglio della Corte costituzionale ove rischino di mettere in discussione o di ledere l'autonomia e l'indipendenza.
Per quanto riguarda specificamente il ruolo del pubblico ministero, vanno verificate alla luce dei princìpi costituzionali irrinunciabili le due modifiche apportate dal disegno di legge costituzionale, la prima consistente nell'individuazione dell'ufficio a designare l'unità organizzativa interna e la rappresentanza indivisibile all'esterno, con la conseguente assunzione di responsabilità del dirigente, la seconda nella nuova formulazione dell'articolo 112, secondo cui l'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge.
Entrambe le modifiche non ledono i princìpi costituzionali irrinunciabili, anzi salvaguardano e promuovono il principio dell'uguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Il coordinamento dei sostituti procuratori in un ufficio diretto da un responsabile ha il duplice intento di assicurare il coordinamento e la funzionalizzazione delle investigazioni e di promuovere l'espletamento delle indagini secondo il principio della ragionevole durata del procedimento, responsabilizzando il dirigente dell'ufficio, operazione che oggi è molto difficile perché ogni sostituto ha motivi particolari di giustificazione, di spiegazione, di dilazione, mentre la responsabilizzazione del dirigente è fondamentale.
Il nuovo articolo 112, poi, pur non rinunciando al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, demanda alla legge l'individuazione dei criteri prioritari di trattazione degli affari penali. Occorrerà individuare mediante la legge questi criteri, il che non sarà assolutamente facile, però indubbiamente si trasferisce sull'autorità legislativa un compito particolarmente rilevante, volto ad attenuare le enormi difformità tra sede giudiziaria e sede giudiziaria, determinate dai diversi orientamenti delle differenti procure della Repubblica, ovvero dall'assenza di orientamenti e dalla conseguente casualità nell'ordine di trattazione.
È un dato di cui tutti dobbiamo prendere atto: si agisce in un modo a Reggio Calabria, a Torino, a Bologna. Sarà logico che ci sia un criterio di carattere unitario che tenga conto anche attraverso legge delle specificità dei diversi luoghi e delle diverse realtà criminali. In questo modo viene introdotto uno strumento diretto a garantire il principio dell'uguale trattamento di tutti i cittadini di fronte alla legge, nella consapevole presa d'atto dell'impossibilità pratica che sia sempre e comunque esercitata l'azione penale per tutti i tipi di reati.
La norma, inoltre, presenta il non trascurabile vantaggio di rendere noto al Parlamento in modo concreto, il che rappresenta una responsabilizzazione politica del Parlamento, lo stato effettivo della giustizia penale e di indurlo a scelte strategiche che ne implicano una precisa responsabilità politica di fronte al Paese. Anche il Parlamento non potrà scaricare sulla magistratura responsabilità che invece non sono della magistratura, ma di realtà di carattere criminale, per cui ci possono essere provvidenze di carattere amministrativo o idonee a migliorare le condizioni.
Sulla costituzionalizzazione, un punto importante su cui ancora nessuno ha parlato, si tratta della costituzionalizzazione delle competenze del Ministro della giustizia. Vengono costituzionalizzate la funzione ispettiva e la funzione di organizzazione e di funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Mi sembra una questione importante, perché il Ministro della giustizia per lunghi anni è rimasto un po' la Cenerentola del sistema giudiziario, come se non avesse alcun ruolo e alcuna funzione. Invece ha una responsabilità. Ricordo i vecchi discorsi dei procuratori generali presso la Corte d'appello in cui erano colpevoli tutti di tutto, il Governo in primis e con esso il Ministro della giustizia, ma non venivano mai individuate le responsabilità dei ritardi all'interno degli uffici.
Viene allora individuato un compito non nuovo, ma specificamente espresso, che sottolinea anche la responsabilità del Ministro di fronte alle Camere e che rende possibile a queste ultime pronunciarsi sulle priorità in ordine all'esercizio dell'azione penale. Il Ministro riferisce annualmente alle Camere sullo stato della giustizia.
Mi sembra che questi aspetti siano particolarmente importanti e che non meritino censure di carattere costituzionale. Dal punto vista della strategia dei princìpi irrinunciabili costituzionali e della strategia politica mi sembra che sia competenza proprio del Parlamento pronunciarsi in modo autorevole su questi problemi.
Sorvolo su diverse questioni. Sulla formazione dei Consigli superiori, vorrei richiamare l'importanza dell'articolo 6, che esclude che il Consiglio superiore possa esercitare funzioni di indirizzo politico e funzioni diverse da quelle previste dalla Costituzione. Mi pare un punto fondamentale, perché il Consiglio superiore, attraverso una sua potestà di carattere normativo subprimario, come viene chiamato in Consiglio superiore, si è attribuito competenze di indirizzo politico che non spettano al Consiglio superiore della magistratura. È un organo di carattere costituzionale, ma in ordine alla gestione del patrimonio dei magistrati italiani, non in ordine all'indirizzo politico dello Stato.
La divisione della Corte di disciplina in due sezioni è un principio assolutamente fondamentale e vi vengono inseriti anche il principio del giusto processo e il principio della terzietà del giudice, che sono straordinariamente importanti.
Tratterò per ultimo il tema dei rapporti tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria. Naturalmente la norma non mi soddisfa, perché rinvia tutto alla legge ordinaria, ma il giudice e il pubblico ministero dispongono della Polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge. C'è un rinvio quasi aperto, con l'eliminazione di quell'avverbio «direttamente» che significa molto, però non c'è alcuna regolamentazione costituzionale e, quindi, si apre tutto alla disponibilità della legge. Questa norma è carente.
Il problema è gravissimo perché è il problema di fondo, per la verità, che finora si era un po' messo in disparte. Già nel 2001, voi lo ricorderete, è stata approvata una norma - eravamo nel 2001, con un Governo di centrosinistra - ossia l'articolo 7 della legge 26 marzo 2001, n. 128, in cui fu aggiunta una seconda parte all'articolo 327, in base a cui la Polizia giudiziaria, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa secondo le modalità indicate nei successivi articoli.
Ci sono due problemi. Il primo è se la Polizia giudiziaria non possa svolgere indagini
autonomamente oppure le possa svolgere. Il secondo aspetto è che il pubblico ministero possa ricercare autonomamente la notitia criminis. Sono due aspetti collegati tra loro certamente, ma diversi l'uno rispetto all'altro.
Io credo che questi due problemi, che sono assolutamente gravi, non possano essere risolti semplicemente dall'eliminazione dell'avverbio «direttamente». Occorre un elemento in più, occorre forse precisare che il pubblico ministero non è l'organo deputato alla ricerca delle notitiae criminis. Questo punto mi sembra assolutamente fondamentale: non ha questo compito, ma ha il compito di dirigere le indagini una volta che la notitia criminis gli è comunicata. Certo, ci possono essere situazioni limite, nelle quali le notitiae criminis nascono dal fascicolo processuale, per cui si indaga su un soggetto e vengono fuori notizie di reato a proposito di un altro. Questo è pacifico, ma non che venga disposta un'attività autonoma, come spesso accade, su determinate situazioni per le quali non c'è una precedente notitia criminis pervenuta al pubblico ministero.
Io ritengo che su questo aspetto occorra contenere il potere di indagine autonoma, di ricerca autonoma di notitiae criminis da parte del pubblico ministero, anche perché ci sono sufficienti notitiae criminis che nascono dai procedimenti e dalle notizie che vengono fornite dalla Polizia giudiziaria per poter indagare correttamente e per svolgere il compito fondamentale del giusto processo, in particolare in un ragionevole tempo procedimentale.
Da un lato, ritengo che bisogna contenere il potere di ricerca autonoma della prova del pubblico ministero, ma, dall'altro, che non sia assolutamente ragionevole il sospetto nei confronti della Polizia giudiziaria che ancora oggi ho ascoltato da parte del collega Marzaduri. La Polizia giudiziaria può compiere illeciti omissivi o invasivi, ma è sempre sottoposta al controllo del pubblico ministero e, quindi, vi è un'autorità che ha il fiato sul collo nei suoi confronti.
Ricordiamo le indagini a proposito della Polizia giudiziaria neghittosa svolta dai pubblici ministeri nell'epoca del codice Rocco e anche attualmente. Non vedo, invece, quale autorità possa controllare non tanto l'esercizio dell'azione penale compiuto dai pubblici ministeri in maniera illegittima, quanto i mancati esercizi dell'azione penale da parte dei pubblici ministeri, la messa in disparte di amplissimi settori di notitiae criminis pervenute perché si dà priorità ad altre notitiae criminis con maggiori o minori motivi di ragionevolezza.
Per questo motivo ritengo che quella norma, che pure è fondamentale, non sia sufficiente e che occorra avere il coraggio di osare di più, senza temere che vi sia una violazione del principio costituzionale, perché il principio costituzionale non è violato dal riconoscimento alla Polizia giudiziaria, sotto il controllo del pubblico ministero, di un ampio potere di indagine anche autonoma.
PATRIZIA PEDERZOLI, Professore straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna. Mi corre l'obbligo di una precisazione: non sono una giurista e, quindi, la lettura che posso compiere del disegno di legge del Governo muove da un'angolazione un po' diversa da quella di chi mi ha preceduto.
Il testo di questo disegno di legge introduce alcuni istituti, alcuni ex novo e altri già esistenti di cui si propone la riforma, che trovano in genere corrispettivi in altri Paesi europei e non europei. Ciascuno di tali istituti, preso singolarmente, non è eccentrico rispetto alla pur composita e variegata tradizione liberaldemocratica. Mi sembra utile ribadirlo, perché spesso si sente affermare che così non è.
D'altro canto, questo progetto di riforma pone mano al governo della magistratura e, dunque, anche alle sue relazioni con gli altri poteri dello Stato. Soffermarsi su singole proposte è utile e indispensabile, però occorre prestare attenzione anche al disegno complessivo che
potrebbe emergere da questo ampio rimaneggiamento del Titolo IV della parte seconda della Costituzione.
Peraltro non è impresa semplice, perché ricorrono spesso formule assai generali e frequenti rinvii al legislatore. Pur con queste incognite a me pare che tutte le proposte muovano univocamente in una stessa direzione. Se attuate, potrebbero circoscrivere e comprimere l'indipendenza della magistratura giudicante in maniera tangibile e depotenziare l'azione della magistratura requirente, con ripercussioni che potrebbero non essere positive in ambito penale.
Provo a spiegare più compiutamente questo punto, che a me personalmente sta a cuore. Noi siamo soliti affermare che l'indipendenza della magistratura, o meglio del giudice, sia essenziale alla qualità e alla caratura democratica di un Paese. Sappiamo anche che quell'indipendenza non è mai assoluta, ma incontra sempre limiti e contrappesi.
Si tratta di un dato descrittivo, non di un'enunciazione di principio. Quei limiti e quei contrappesi si propongono di ancorare in qualche misura la giustizia alle istituzioni che direttamente o indirettamente rappresentano la collettività. È in nome della collettività, infatti, che ogni magistrato rende le sue decisioni.
Ogni ordinamento dispone di un'ampia gamma di strumenti - noi li chiameremmo variabili - su cui può far leva per tentare di bilanciare questi due diversi obiettivi: conferire garanzie alla giustizia e a chi l'amministra ed evitare l'isolamento, la chiusura in senso corporativo e la separatezza della giustizia, quindi bilanciare indipendenza e responsabilità istituzionale - o se si vuole - politica. La si può chiamare in modi diversi.
La mia impressione è che tutte le leve o quasi vengano azionate verso uno solo dei due obiettivi, ossia comprimere, ridurre e circoscrivere l'indipendenza. Passo ora a prendere in esame i singoli punti.
La separazione tra giudici e pubblici ministeri, che sarebbe non solo quella funzionale, che già opera, ma anche quella strutturale, è un principio, un modo di organizzare la giurisdizione che noi ritroviamo nella stragrande maggioranza delle democrazie odierne.
Con ciò si riconosce il ben diverso ruolo che queste due figure ricoprono nell'economia processuale. È indubbio che la separazione si allinei anche alle regole del giusto processo. Sotto questo profilo la creazione di due Consigli superiori, al di là del fatto che a me possa sembrare ragionevole, è comunque in linea con molti altri ordinamenti europei.
Un conto, però, è considerare la configurazione specifica che i due Consigli verrebbero ad assumere. In primo luogo, vengono alterate sensibilmente le attuali proporzioni tra laici e togati. I togati conserverebbero una maggioranza, come direbbe un politologo, «risicata» in forza della presenza quali membri di diritto rispettivamente del presidente e del procuratore generale della Cassazione. Sia concesso osservare che quella maggioranza risicata sarebbe seriamente ipotecata dai metodi di scelta dei consiglieri.
Quanto ai togati si prospetta una formula alquanto singolare, che ho dovuto leggere due volte per tentare di capirla, ossia l'elezione tra eleggibili individuati mediante sorteggio, senza proporzioni e senza riferimenti. L'intento è chiaro e, per quanto mi è dato di sapere, anche condivisibile, cioè rimuovere dai Consigli l'Associazione nazionale magistrati e le sue correnti che effettivamente hanno avuto un peso eccessivo negli anni, come riconoscono anche settori della stessa magistratura associata.
Il punto è che ricorrere a questo singolare meccanismo, oltre a rimuovere le correnti, scardina la rappresentatività dei togati. A mio modo di vedere la mortifica, la riduce a un simulacro. Ricordo che la rappresentatività è elemento qualificante dei Consigli superiori esistenti in Europa. Non è solo l'Italia ad averne, ovviamente.
Per Consigli superiori intendo le istituzioni che in ambito europeo sono chiamate ad amministrare garanzie di status. Altre hanno la stessa denominazione, ma ruoli diversi. I Consigli superiori esistenti in Europa poggiano sempre su una forma
di rappresentatività, siano essi i livelli della giurisdizione - nel disegno di legge del Governo non trovo riferimenti in questo senso - siano esse talvolta le stesse associazioni professionali.
Ricordo che il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa nella sua raccomandazione n. 12 suggeriva di creare un'autorità competente in materia di selezione e carriera con membri designati direttamente dallo stesso ordine giudiziario. In questo senso si è espressa anche la Carta europea per lo Statuto dei giudici nel 1998: Si legge :«Quell'autorità dovrebbe essere costituita almeno per metà da giudici eletti dai colleghi con metodi idonei a garantire la più ampia rappresentanza del corpo togato.»
A mia conoscenza l'unico caso di sorteggio previsto da una Carta costituzionale è dato dalla Grecia, all'articolo 90 della Costituzione greca.
Quanto ai laici, il disegno di legge del Governo lascia intatto l'attuale metodo di scelta. Chiedo scusa per la rudezza, ma noi sappiamo che i laici sono e continueranno a essere giuristi di esperienza, ma sappiamo anche che i laici - non è un segreto per nessuno - sono scelti anche in virtù, impiegando un termine usato da un collega, delle loro sponsorizzazioni politiche.
Questi giuristi d'esperienza non sono solo uno snodo, un elemento di raccordo indispensabile tra Consiglio superiore della magistratura e Parlamento, ma anche un ponte gettato tra il Consiglio superiore della magistratura e i partiti politici. Al di là della minoranza, pur risicata, che avrebbe nei Consigli, la componente laica di estrazione politica si presenta sin da ora come una compagine certamente non coesa al suo interno, ma ben più rappresentativa di quella togata. I laici, inoltre, conserverebbero le attuali prerogative, ossia le vicepresidenze di entrambi gli organismi.
In sostanza, le correnti scompaiono e si può anche ritenere che tutto sommato ciò sia un bene, ma mi sembra che permanga intatta e di fatto si rafforzi l'influenza dei partiti politici e non sono del tutto sicura che questo sia un bene.
Credo che le stesse considerazioni possano valere, passando al secondo punto, per la Corte di disciplina. Anche in questo caso la componente di estrazione politica si rafforza numericamente e conserva intatte le sue attuali prerogative, la presidenza dell'organo e la vicepresidenza di entrambe le sezioni, il tutto in un quadro che sarebbe sensibilmente diverso da quello attuale.
A me pare che anche in questo caso la voce della politica si faccia sentire alquanto forte, al punto che la denominazione stessa di Corte rischia di apparire un po' incongrua, perché dai giudici, anche quelli disciplinari, ci aspettiamo che siano al di sopra delle parti, non espressione di parte. Una volta di più è condivisibile, ed è già stato sottolineato da chi mi ha preceduto come il professor Spangher, l'intento di rimuovere l'attuale giurisdizione domestica, che non sempre ha dato buona prova di sé, ma la soluzione prescelta mi pare creare squilibrio in un ambito particolarmente delicato, in cui sarebbe forse opportuno che la politica e i partiti compissero un passo indietro.
Ricordo che in molti Paesi esistono Corti con questa specifica competenza, ivi compresa la Germania, ma che tali Corti sono formate da giudici. Mi permetto di suggerire, per evitare le insidie della giurisdizione domestica, che potrebbe forse essere sufficiente spezzare il circolo vizioso, il circuito elettori ed eletti, cioè evitare che i controllori, poiché tali i giudici disciplinari sono in ultima analisi, siano direttamente eletti dai loro controllati.
Aggiungo un'ultima considerazione sulla disciplinare. Poco fa sostenevo che la voce della politica si rafforza. Ricordo che l'iniziativa disciplinare è già e resta nelle mani del Ministro. L'articolo 107, secondo comma, della Costituzione non viene toccato, e l'iniziativa spetta egualmente al procuratore generale presso la Corte di cassazione e così è sin dalla legge istitutiva del 1958, ma al procuratore generale la
recente riforma Castelli e il suo decreto di attuazione, il n. 109 del 2006, impongono l'obbligo di esercitare l'iniziativa penale.
Quello stesso decreto ha già fortificato anche le prerogative ministeriali durante la fase preliminare del procedimento. Il Ministro può già ora opporsi all'eventuale archiviazione richiesta dalla procura, può già ora chiedere la fissazione dell'udienza, può formulare in prima persona i capi di incolpazione, fermo restando il giudizio di una Corte di disciplina che sarebbe molto diversa da quella attuale.
Tralascio altri argomenti e chiudo con quello con cui avevo iniziato, ossia l'impressione che nel formulare questa proposta il Governo abbia attuato opera di bricolage istituzionale e costituzionale. L'avrà certo fatto anche al fine di allineare il nostro Paese, come dichiarato, ad altri ordinamenti europei, ma ha raccolto da altre esperienze solo strumenti e istituti che in quei Paesi - ho tralasciato tutto il capitolo sulla giustizia penale - si pongono come freni legittimi all'indipendenza. Ciascuno di tali freni o quasi ha corrispondenza in altre democrazie consolidate, dove però è a sua volta bilanciato da garanzie. Le garanzie in questo disegno di legge vengono, invece, indebolite e allentate. Tutte le leve muovono nella stessa direzione e ciò potrebbe non essere foriero di relazioni meno conflittuali tra poteri dello Stato rispetto a quelle che purtroppo abbiamo sinora sperimentato.
GIOVANNI PELLEGRINO, Avvocato. Ringrazio i presidenti e gli onorevoli membri delle due Commissioni per questo invito. Penso che non avendo titoli accademici, ma una lunga attività professionale maturata in maniera prevalente in Aule diverse da quelle penali, la ragione della mia audizione stia nel ruolo che ebbi nel Comitato per le garanzie della Commissione bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema, che la relazione del disegno di legge del Governo al vostro esame richiama.
Naturalmente - vorrei precisarlo anche dopo le considerazioni che ho ascoltato - io non riesco mai a spogliarmi fino in fondo della mia personalità di vecchio avvocato e, quindi, sono abituato a misurarmi con le istituzioni giudiziarie per come le vedo concretamente funzionare, più che per come le vedo descritte nei modelli astratti delle norme, avendo doverosamente preso coscienza che a volte le istituzioni giudiziarie sono profondamente cambiate nella loro effettività, benché i princìpi ordinatori siano rimasti inalterati.
Vorrei partire proprio dal pensiero di Boato che la relazione al disegno di legge riporta. In fondo, si tratta di prendere atto del nuovo ruolo del pubblico ministero, che è stato disegnato dall'introduzione del rito accusatorio.
È indubbiamente vero, e ne abbiamo avuto conferme autorevolissime anche oggi, che il costituente del 1948 si muoveva nella logica di un modello processuale diverso davanti e che le spinte culturali verso l'adozione di un rito accusatorio si manifestarono nel nostro Paese più tardi, intorno alla metà degli anni Sessanta. È chiaro, quindi, che i nostri costituenti, nel descrivere le istituzioni giudiziarie, presupponessero un modello processuale diverso da quelli che poi abbiamo introdotto.
Dell'esattezza di questa riflessione si è avuta conferma anche in vicende più recenti nell'evoluzione ordinamentale. Penso allo sfavore con cui la Corte costituzionale accolse inizialmente un rito accusatorio puro, con le sentenze nn. 254 e 255 del 1992 e soprattutto con la sentenza n. 382 del 1998, e a tutto il dibattito politico e culturale che ne nacque e che condusse, una volta tanto in modo bipartisan, il Parlamento a inserire nella Costituzione il nuovo testo dell'articolo 111. Ciò avvenne con motivazioni di fondo forse non convergenti, benché l'obiettivo fosse comune.
A mio avviso, c'era chi riteneva intollerabile che nella Costituzione permanessero princìpi che apparissero al giudice costituzionale contrari a un rito accusatorio puro e altri che nutrivano la preoccupazione che il permanere di questa tensione fra rito accusatorio e principi costituzionali avrebbe potuto rafforzare la spinta a una revisione dei princìpi
costituzionali, in particolare quelli che riguardavano l'ordinamento del pubblico ministero.
Tutto ciò premesso, la domanda che mi pongo e che vi pongo è la seguente: è proprio vero che questo nuovo protagonismo del pubblico ministero penale, che tutti abbiamo constatato negli ultimi vent'anni, dipenda esclusivamente dall'introduzione del modello accusatorio? Se fosse così, come si giustifica il fatto che un uguale protagonismo è stato conosciuto dal pubblico ministero contabile, che pure continua a muoversi sulla base di un ordinamento processuale che lo delinea ancora quasi come un amicus curiae più che come un attore del processo di responsabilità amministrativa?
Che c'è allora in fondo a due fenomeni che si somigliano, benché nel secondo, in quello contabile, il modello processuale sia rimasto invariato? Secondo me, e fatichiamo a rendercene conto, siamo in presenza di dati costitutivi della modernità. In tutte le democrazie occidentali, anche a ordinamenti invariati, gli ultimi decenni conoscono un'espansione dell'azione di quelli che in altre occasioni ho definito i poteri neutri, che sono i poteri giudiziari, i poteri paragiudiziari, gli organi di iniziativa quali le procure, ma anche le autorità indipendenti del mercato, un insieme di poteri che non hanno una legittimazione rappresentativa, ma burocratica e che di fatto nel funzionamento concreto delle cose pesano ogni giorno di più, anche a istituzioni invariate.
Io mi occupo prevalentemente di diritto amministrativo. Finché avevo trenta o quarant'anni, i ragazzi, se venivano bocciati a scuola, venivano puniti, non andavano in vacanza, non veniva loro regalata la bicicletta. Adesso la mamma li porta dall'avvocato, il quale impugna il risultato degli esami. Il TAR della mia città ha recentemente accolto, e non solo ritenuto ammissibile, il ricorso di una studentessa che era stata promossa con il voto di 97 su 100 e, poiché ambiva al 100 su 100, ha trovato un giudice che ha ritenuto ricevibile tale ricorso e le ha dato ragione.
Perché avviene tutto ciò? Il discorso sarebbe molto lungo e lo accenno per flash. Innanzitutto si sono modificate le strutture degli aggregati sociali. Ad aggregati sociali in cui erano prevalenti grandi conflitti collettivi che trovavano visibilità nel Parlamento e soluzione nella legge, si è sostituita un'enorme microconflittualità individuale, che ambisce a una soluzione neutrale da parte di un arbitro; chiede di essere arbitrata.
A ciò aggiungiamo che la stessa globalizzazione dei mercati impone poteri regolatori e di garanzia sostanzialmente di tipo arbitrale.
Ancora aggiungerei l'emersione di quelli che potremmo chiamare interessi egemoni, interessi la cui cura va necessariamente sottratta alla volontà della maggioranza. Pensiamo all'interesse ambientale. Se si tenesse un referendum a Roma per abbattere il Colosseo, che ottenesse il 55 per cento di sì, il Colosseo non si potrebbe abbattere lo stesso, perché ci sono interessi che vanno tutelati indipendentemente dalla volontà della maggioranza.
Tutto ciò sta portando anche a ordinamenti invariati, a un diverso punto di equilibrio fra poteri rappresentativi e poteri non fondati su un mandato rappresentativo. In questo indubbiamente si iscrivono pienamente, anche se abbiamo durato fatica a riconoscerlo, quella che è stata definita la rivoluzione giudiziaria degli anni Novanta e cioè, come dicevo prima, il forte attivismo sia delle procure ordinarie, sia delle procure contabili.
Anche i tentativi che sono stati fatti di ridurre con forza l'attivismo dei procuratori contabili non sono serviti a nulla sul piano dell'effettività. Aver disposto che la responsabilità amministrativa contabile esiste solo in presenza della colpa grave e non della colpa lieve ha avuto un effetto semplicissimo, ossia che dal punto di vista dei procuratori contabili la colpa è sempre grave.
La colpa lieve non esiste più e addirittura fanno parte della mia esperienza condanne di amministratori che avevano seguito princìpi, pur affermati da una data
parte della giurisprudenza amministrativa, anche da Sezioni semplici del Consiglio di Stato, sol perché successivamente l'Adunanza plenaria aveva adottato una decisione diversa. Alla domanda su come avremmo fatto a prevedere che le sezioni ordinarie stavano sbagliando, la risposta era che, guardando bene, si capiva che non era così.
Questo moltiplicarsi degli interventi di poteri arbitrali sta portando a un fenomeno che dovrebbe preoccupare tutti. Il combinato disposto degli articoli 113 e 24 della Costituzione determina nel nostro ordinamento una vera e propria esplosione del giudiziario, il che rappresenta la vera ragione del fatto che i sistemi giudiziari non funzionano. Le magistrature togate ricevono un numero di domande di giustizia enorme, cui non riescono a dare risposta in tempi ragionevoli.
Si avverte, dunque, l'esigenza di filtri. Nel processo civile ci sono stati di recente alcuni tentativi. Non condivido le toghe strappate degli avvocati che non amano la conciliazione obbligatoria, ancora una volta un'esperienza che viene da tanti altri ordinamenti di civiltà occidentale. Nel caso del processo amministrativo esiste una legge di delegazione, e spero che venga presto una legge delegata che tenda a recuperare una pregiudizialità del ricorso amministrativo almeno in alcune materie. Se su tutto si può chiedere giustizia, alla fine non si riesce a ottenerla.
Anche le misure processuali possono servire, ma non bastano. La riforma del processo amministrativo è stata una buona riforma, stranamente elogiata dai professori, dagli avvocati e dai magistrati. Il Codice del processo amministrativo non è riuscito a rovinarla, anzi in parte l'ha migliorata, però anche in quel settore in cui ormai tutti i TAR chiudono ogni anno con saldi attivi e cioè con più ricorsi decisi rispetti a quelli introitati, si sente la necessità di diminuire le domande di giustizia.
Ma come farlo per settori giudiziari in cui la domanda è pubblica, in cui il monopolio dell'azione è in mano a un organismo pubblico? Come diminuire il numero delle domande rivolte al giudice contabile o al giudice penale, se a domandare giustizia è l'organo a ciò preposto, vale a dire il titolare del potere di prosecution?
Secondo me, lo si può fare modificando il modulo organizzatorio di quei poteri. Per me nel disegno di legge del Governo al vostro esame la norma centrale resta proprio il nuovo terzo comma dell'articolo 104 della Costituzione, che individua nell'indipendenza un attributo non del singolo magistrato del pubblico ministero, ma dell'ufficio del pubblico ministero.
Questo, secondo me, è il punto da cui partire, perché il vero problema che noi abbiamo avuto in questi anni per il lascito di quel sistema diverso è non tanto che magistrati e pubblici ministeri facessero parte di uno stesso ordine giudiziario, ma che, pur svolgendo funzioni diverse e che sono diventate maggiormente diverse con l'introduzione del rito accusatorio, conoscevano lo stesso modulo organizzatorio; il che per chi si occupa di scienza dell'organizzazione è profondamente sbagliato. Se è giusto organizzare una funzione di un dato tipo in un determinato modo, se la funzione è diversa, è difficilissimo che lo stesso modulo organizzatorio possa funzionare.
Il modulo diffuso della magistratura giudicante, dell'indipendenza come attributo del singolo giudice monocratico o collegiale che sia, va sostituito nell'organizzazione del pubblico ministero col modulo gerarchizzato con l'attribuzione dell'indipendenza all'ufficio e non ai singoli magistrati che compongono l'ufficio. Questa, presidente, potrà essere una conseguenza della separazione delle carriere, anzi sarà la conseguenza naturale della separazione delle carriere, ma a mio modesto avviso la separazione delle carriere non servirà a nulla, se i moduli organizzatori resteranno uguali.
Se il pubblico ministero non verrà gerarchizzato, separare le carriere non servirà a nulla, perché resterà sempre la possibilità del singolo magistrato dell'ufficio di andare a inseguire una notitia criminis esercitando prima il potere investigativo
e poi l'azione penale, quando sin dall'inizio la possibilità di arrivare a un giudicato penale di condanna non esiste.
Ognuno di noi potrebbe nella propria esperienza raccontare decine di storielle di questo genere, ossia di azioni penali che sono state esercitate al di fuori di ogni logica, ma che il capo dell'ufficio non è riuscito ad arginare. A volte interrogando il singolo magistrato la risposta era che, secondo lui, il tal fatto poteva essere reato e che a quel punto avrebbe deciso il tribunale. Poi il tribunale assolveva, si faceva appello, la Corte d'appello confermava e si faceva ricorso per Cassazione.
Porto un esempio. Ho presieduto nella scorsa consiliatura la provincia di Lecce. Un assessore della precedente Giunta, che era anche un consigliere della mia maggioranza, era andato in missione con la moglie. La notizia era giunta a un sostituto procuratore, il quale aveva mandato per le indagini la Guardia di Finanza. Furono formulate due ipotesi di peculato, una perché l'assessore aveva dormito in una stanza a due letti, pagando di più, e l'altra perché la macchina della provincia, con il peso della moglie, che era una signora un po' sovrappeso, aveva consumato più benzina e più gomme. È la verità.
Naturalmente si avanzavano queste imputazioni perché si era accertato che all'assessore era stata rimborsata una sola colazione, soltanto un pranzo, una sola cena; e quindi la signora aveva fatto la dieta o l'assessore aveva pagato per la signora o la signora aveva pagato da sé.
Ne emersero due ipotesi di peculato. Nel giudizio di primo grado si ebbe un'assoluzione. Il pubblico ministero propose appello, solo per l'ipotesi dell'utilizzo della stanza, mentre quella del consumo della benzina e delle gomme fu lasciato cadere. In appello si ripeté l'assoluzione; e, in Cassazione, investita del ricorso dell'accusa, si ebbe la conferma della sentenza d'appello.
L'effetto di tutto ciò fu che sul mio tavolo di presidente della provincia arrivava una richiesta di un collega avvocato che pretendeva di essere pagato dalla provincia. Il suo onorario era di 10.000 euro. Ci sono stati tre gradi di giudizio.
Vorrei che si riflettesse sul fatto che in Italia esistono due moduli organizzatori delle procure; uno è quello della procura ordinaria e l'altro quello delle procure antimafia. Già a Costituzione invariata un grosso passo avanti si compirebbe se il modulo organizzatorio delle procure antimafia si generalizzasse, con direzioni distrettuali, uffici a larga base territoriale, e una procura nazionale che coordina tutti. Perché non dovrebbe essere possibile, rendere il ruolo del capo dell'ufficio un po' più forte anche nelle procure ordinarie, dato che lo è nel funzionamento concreto delle Direzioni distrettuali antimafia? È un ruolo che andrebbe opportunamente rafforzato.
Sulle altre norme non vorrei dilungarmi molto, perché non ritengo di avere una particolare competenza. Inviterei, però, a fare sì che, una volta che l'indipendenza viene ritenuta un attributo ineliminabile dell'ufficio del pubblico ministero, le altre regole siano coerenti con questo principio.
Premesso che nell'effettiva realtà l'obbligatorietà dell'azione penale è un alibi deresponsabilizzante, perché qualsiasi persona in buona fede sa che tra tante notitiae criminis il magistrato sceglie discrezionalmente quella cui dedicare la propria attenzione indagativa, a questo punto che senso ha che sia il Parlamento con legge a dettare i criteri regolatori di questa discrezionalità, che viene di fatto esercitata? Potrebbero dettarsi criteri uguali per tutti i distretti d'Italia o le situazioni sono diverse tra distretto e distretto al punto da imporre che sia il capo dell'ufficio all'inizio dell'anno giudiziario a precisare quali criteri l'ufficio seguirà nell'esercizio della prosecution?
Oggi ogni singolo magistrato ha un criterio suo, però non lo enuncia, lo tiene segreto, non lo rende controllabile dall'opinione pubblica. Mentre il titolare di ogni ufficio dovrebbe enunciarlo dall'inizio dell'anno giudiziario e il procuratore nazionale che li coordina spiegherà nell'inaugurazione
dell'anno giudiziario della Cassazione come si stanno orientando l'insieme delle procure distrettuali.
Quanto ai due Consigli superiori della magistratura, sarà che chi è vecchio resta affezionato al suo passato, ma continuo a ritenere preferibile la soluzione delle due sezioni del Consiglio superiore della magistratura, anche per un'esigenza che è stata sottolineata di raccordo con la prima parte della Costituzione, che parla di un unico ordine giudiziario, articolato in magistratura requirente e magistratura giudicante; due funzioni separate, per cui due sezioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura mi sembrerebbero soluzione sufficiente. Al contrario, non separerei in due sezioni l'organo disciplinare. Nel testo Boato noi avevamo pensato a un organo disciplinare intermagistratuale che giudicava insieme i pubblici ministeri, i giudici ordinari e i giudici amministrativi. Se il problema è evitare il carattere domestico della giurisdizione disciplinare, le due sezioni tenderanno all'autoreferenzialità e il pubblico ministero
addenterà meno il collega pubblico ministero. Può essere, invece, che addenterà il giudice ordinario, soprattutto se ha perduto l'ultima causa.
Nel sistema accusatorio la sentenza di assoluzione è una sconfitta per il pubblico ministero, che dovrebbe cominciare a pagarla. Un avvocato che perde tutte le cause alla fine muore di fame perché non ha più clienti.
Resto perplesso di fronte all'idea che le sentenze di assoluzione siano meno appellabili delle sentenze di condanna come il disegno di legge prevede nell'ultimo comma aggiunto all'articolo 111 della Costituzione, che vedo un po' in contraddizione con i commi precedenti, che sanciscono il principio di uguaglianza dalle parti. Ma, signori presidenti, la fonte della mia perplessità è un'altra e nasce da considerazioni di psicologia giudiziaria. Se le sentenze di assoluzione sono difficilmente appellabili, statisticamente diminuiranno. Chiunque sa come funziona un collegio giudicante lo capisce: nel dubbio si assolve, in dubio pro reo. Se si sbaglia, ci sarà una Corte di appello che corregge. Se invece si assolve e si sa di assolvere una volta per sempre, nel dubbio si condanna. Non ci si assume questa responsabilità. Chiunque sa come funzionano le Corti di giustizia è consapevole che ciò non accadrà sempre, ma sa che
potrà accadere un numero sufficiente di volte per ritorcersi contro l'intenzione del legislatore.
Ciò che andrebbe riformato è l'appello penale che, passatemi il termine, «fa ridere». Pensiamo a tutta l'evoluzione della giurisprudenza, per cui la prova si deve formare nel dibattimento. In appello la prova viene valutata da un giudice che a quel dibattimento non ha partecipato, non ha assistito, che non ha visto l'attimo di incertezza sul viso del testimone prima di rispondere a una data domanda.
L'appello penale dovrebbe strutturarsi come nel processo civile è strutturata la revocazione. Ci dovrebbero essere motivi di legittimità, un dato tipo di errori, che consentano l'invalidazione del verdetto. A quel punto il dibattimento si rifà. Non ci potrebbe essere mai una riforma di una sentenza di primo grado, se non da parte di un giudice che ha rinnovato il dibattimento e, quindi, ha raccolto le prove e le ha percepite nel momento in cui si formavano.
PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.
DONATELLA FERRANTI. Osservo che c'è stata una completezza di interventi e considerazioni, che ognuno di noi può condividere o meno. In ogni caso ringrazio tutti gli esperti che sono intervenuti.
Ho una domanda, perché a mano a mano che gli auditi parlavano, mi nascevano perplessità o comunque quesiti. Gli argomenti che sono stati toccati sono tanti. Cerco di individuare alcuni temi che mi colpiscono di più.
Sia il professor Chiavario, sia il professor Marzaduri, sia il professor Spangher fanno riferimento ai cosiddetti criteri di priorità, pur in maniera diversa. In ogni caso il criterio della priorità non viene a essere in contrasto tout court con il principio di obbligatorietà dell'azione penale.
Vorrei andare più a fondo su questo punto. Anche noi, come gruppo del Partito Democratico, abbiamo presentato una proposta di legge ordinaria in cui individuiamo la possibilità di un procedimento per rendere trasparenti e verificabili i criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale e, quindi, anche nelle investigazioni a Costituzione invariata.
Noi riteniamo che non ci sia bisogno di modificare la Costituzione e soprattutto di prevedere la delega in bianco con legge ordinaria che svuota di contenuto e soprattutto decostituzionalizza il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, la quale, anche se vista in questo momento come sempre di più difficile attuazione, rimane un principio costituzionale che rappresenta in ogni caso una garanzia per i cittadini, soprattutto sotto il profilo dell'uguaglianza.
Vorrei che si ci addentrasse un po' di più sul discorso per cui le diverse posizioni potrebbero essere compatibili con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Vorrei capire quali sono i paletti che dovrebbero essere previsti in Costituzione.
Esiste il rischio che la legge ordinaria, che è sottoposta a maggioranze non qualificate ma semplici, possa prevedere come non priorità alcune fattispecie criminose e, quindi, non estrinsecare e rendere verificabili alcuni criteri di esercizio della discrezionalità. Su questo punto vorrei che si andasse a fondo, non sul principio in astratto della compatibilità tra criteri di priorità e obbligatorietà dell'azione penale, ma su come in concreto il progetto di legge governativo realizzi tale previsione dei criteri di priorità.
Poiché ho sentito anche dal professor Marzaduri ribadire un concetto cui non ho difficoltà assoluta ad avvicinarmi, ossia quello di affermare che il principio di separazione delle carriere è compatibile, ritengo che sia compatibile a Costituzione vigente e, quindi, che ci possano essere un magistrato giudice e un magistrato pubblico ministero con separazione di funzione netta o separazione di carriere, ma vorrei che si verificasse se nelle modalità di attuazione - è un tema che ha affrontato in maniera specifica, e ringrazio la professoressa Pederzoli - di questo progetto di legge il principio di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza del pubblico ministero si realizzi concretamente. Non stiamo parlando in astratto, ma in concreto.
Questa mattina, anche in alcuni interventi di alcuni colleghi della maggioranza, ci si è chiesti se siamo sicuri che un pubblico ministero che sia controllabile e responsabile nei confronti di qualcuno, del potere esecutivo, non sia una scelta che possa portare, come avviene in altri ordinamenti, a buoni risultati.
Poiché credo molto nell'autonomia e nell'indipendenza del pubblico ministero e, quindi, del giudice, io vorrei che attraverso un'eventuale separazione delle due funzioni o delle carriere, fosse garantito questo principio, che è a tutela dei cittadini e di noi tutti. Avrei paura - essendo stata anche pubblico ministero per diversi anni - di un pubblico ministero così forte e ulteriormente rafforzato dall'essere il braccio di un potere politico istituzionalizzato.
Passiamo alla Polizia giudiziaria. Al professor Spangher vorrei porre una domanda. Se ho capito bene, lei sostiene che la Polizia giudiziaria non debba essere repressa nell'autonomia investigativa perché ci dobbiamo fidare sostanzialmente di tale corpo, che non dipende direttamente dal pubblico ministero, ma è più autonoma, e addirittura che il pubblico ministero non dovrebbe ricercare le notizie di reato. Mi pare che il codice parli di acquisire, di ricevere la notizia di reato. Non parla di ricerca, ma potrei sbagliare nei miei ricordi.
Non capisco perché francamente, sempre per le mie reminiscenze di professione esercitata - come rileva l'avvocato Pellegrino, l'aver vissuto la giurisdizione fa
capire alcune problematiche reali - ci sia questo pregiudizio nei confronti del pubblico ministero che ricerca o riceve la notizia di reato. Non lo capisco. Se vogliamo che la ricerca della notizia di reato sia effettuata dalla Polizia giudiziaria, che dipende dal potere esecutivo, e ci fidiamo di essa, non riesco a capire perché ci sarebbe un pregiudizio nei confronti di un pubblico ministero che riceve la notizia di reato. Questa è la prima domanda.
Passo alla seconda domanda, che rivolgo a tutti i professori che volessero rispondere e, in particolare, al professor Chiavario, che è uno dei padri del nuovo Codice di procedura penale. Ricordo i corsi di formazione che abbiamo svolto per la modifica che ci fu all'epoca.
Secondo me, questa dipendenza funzionale dei poteri del pubblico ministero e della Polizia giudiziaria, che fu rafforzata nelle norme attuative dal nuovo Codice di procedura penale con il rito accusatorio, è funzionale anche al dibattimento, perché la Polizia giudiziaria e, quindi, il pubblico ministero intervengono in parallelo nella ricerca della prova: la Polizia giudiziaria ricerca la prova e informa il pubblico ministero, il quale può dare la delega immediata.
La Polizia giudiziaria comunque ricerca la prova, ma esiste uno stretto rapporto con il pubblico ministero, non finalizzato solo all'indagine, ma anche alla prognosi di valutazione tesa a un'eventuale archiviazione o a una richiesta di rinvio a giudizio. Soprattutto - ci hanno insegnato - si devono formare durante le indagini le fonti di prova che il pubblico ministero deve poter controllare e che devono poi valere nel dibattimento.
Prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice, si aspettava il rapporto del maresciallo capo della determinata stazione (non essendo giovanissima, sono stata pubblico ministero anche negli anni prima del 1989, dal 1984 al 1989) ci trovavamo nel contesto del nuovo Codice di procedura penale, non del vecchio, ma del nuovo rito, in cui la prova si deve formare, il pubblico ministero, soggetto a un discorso di responsabilità sul procedere del dibattimento, su come si porta avanti la prova, sul risultato, deve poter seguire il percorso dall'inizio.
Mentre prima c'era un rapporto più distaccato rispetto alla Polizia giudiziaria, perché si andava al dibattimento e si confermava tutto il rapporto del comandante della stazione o del commissariato di turno, ora il pubblico ministero si trova anche responsabile di un risultato. Ho sempre paura quando si comincia a mettere anche nell'ambito del pubblico ministero l'ottica del risultato, però in ogni caso egli deve essere responsabile di come andrà il dibattimento, deve assicurarsi di non aver sprecato risorse, deve averle potute controllare fin dall'inizio, non aspettarle a braccia conserte, attendendo quella Polizia giudiziaria che poi non governerà nemmeno la lista testi, le fonti di prova, la cross-examination. Non governerà nulla il maresciallo della stazione.
Io credo che in questo ritorno al passato ci sia un'incongruenza enorme e che non sia dettata da ragioni processuali, ma dal fatto che il pubblico ministero con il nuovo Codice di procedura penale si è un po' allargato.
Poiché, a mio avviso, lo scopo non è quello di rendere più agile il processo, ma di controllare le indagini attraverso il potere esecutivo con la Polizia giudiziaria, credo che ciò sia un grave vulnus dell'autonomia e dell'indipendenza anche del giudice, perché il giudice si troverà ciò che la Polizia giudiziaria, governata dall'esecutivo, avrà ricevuto. Vorrei, se fosse possibile, approfondire questi temi.
MANLIO CONTENTO. Vorrei porre a tutti, meno che al professor Ronco, perché sul punto, a mio giudizio, si è espresso chiaramente, la domanda se condividono la sua affermazione sul fatto che la proposta non tocchi princìpi irrinunciabili. Per chi non condividesse tale affermazione, vorrei sapere se può essere tanto cortese da indicarmi quali princìpi irrinunciabili eventualmente fossero toccati, da quali proposte di modifica costituzionale e naturalmente perché.
La seconda questione è rivolta alla professoressa Pederzoli, nella parte in cui fa riferimento alla scelta di rappresentatività sacrificata nel caso della maggioranza risicata del Consiglio superiore della magistratura, in relazione, peraltro, anche alla scelta politicizzata dei membri eletti dal Parlamento. Le volevo chiedere se non ritiene che la politicizzazione delle correnti del Consiglio superiore della magistratura sia quanto meno analoga - non mi permetto di affermare che sia di minore o di maggior dignità - rispetto a quella espressa dal Parlamento italiano.
PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.
MARIO CHIAVARIO, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Torino. Partirei dall'ultima domanda che è stata posta, su cui l'onorevole Contento ha chiamato in causa tutti, meno il professor Ronco, che si era già espresso.
Io credo che non siano in gioco i princìpi supremi - so che la Corte costituzionale ha elaborato la categoria dei princìpi supremi, che a sua volta è alquanto elastica e su cui ci sarebbe molto da discutere - non siano in gioco tali princìpi, almeno in termini palesi. Ci sono alcuni princìpi, e credo di averlo precisato in precedenza, che sono fortemente messi in discussione da alcune di queste proposte. Ho posto l'accento, e lo ribadisco, soprattutto sul principio del rapporto tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria.
Io non mi esprimo, è un po' nuova per me la categoria che ha introdotto l'amico e collega Ronco dei princìpi irrinunciabili, che lui ha prima allargata e poi ristretta parecchio. Per me questo è un punto molto importante. Ho sentito che ci sono dissensi, com'era inevitabile.
Da questo punto di vista la gentilezza dell'onorevole Ferranti mi ha chiamato in causa come uno di coloro che modestamente hanno contribuito a scrivere il vigente e ormai non più tanto nuovo Codice di procedura penale. Da questo punto di vista, secondo me, è un punto caratterizzante quello del rapporto tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria che, almeno per i procedimenti riguardanti fattispecie di peso, corre un rischio - già l'ha corso ed è stata giustamente richiamata una legge del 2001 che ha eroso notevolmente questo principio - dettato dalla combinazione dell'abolizione dell'avverbio «direttamente» e dal rinvio in bianco alla legge.
Su questo tema posso portare una testimonianza, non di una mia convinzione personale, ma di un lavoro collettivo condiviso largamente, anzi unanimemente, all'interno della Commissione che redasse il codice: un'affermazione di subordinazione non significa sfiducia nella Polizia giudiziaria. Non porrei in campo valutazioni di questo tipo. Significa che esiste oggettivamente un rapporto organico tra la polizia, che deve continuare a essere organicamente legata all'esecutivo, e il pubblico ministero. La prospettiva di un corpo di Polizia giudiziaria alle esclusive dipendenze della magistratura o di un ramo della magistratura è stata bocciata all'Assemblea costituente e non credo che nessuno la voglia riesumare.
Il suo rimanere organicamente legata all'esecutivo ci pone, però, problemi quando i procedimenti riguardano fattispecie per le quali l'esecutivo può essere direttamente o indirettamente chiamato in causa piuttosto pesantemente.
Per questo motivo occorre una garanzia e in merito è stata giustamente richiamata dall'onorevole Ferranti l'importanza di quelle norme attuative del codice che potranno essere corrette e riviste, non è il singolo dettaglio che conta, e che però implicano un coinvolgimento dei vertici delle procure per quanto riguarda le determinazioni che possono venire prese in relazione alla carriera e alla disciplina dei membri della Polizia giudiziaria.
Sappiamo tutti che, se alla Polizia giudiziaria - non posso vantare un'esperienza come altri in questa sala, però credo che sia piuttosto intuibile da tutti - arriva una disposizione della magistratura ma la persona in questione sa che poi per quanto riguarda la carriera e la disciplina ciò che conta è la determinazione che prendono altri e che comunque il magistrato non potrà esprimersi a questo proposito, la situazione non mi tranquillizza molto. Chiedo scusa se mi sono dilungato, ma spero di essere stato chiaro.
Sempre come modesto «garzone del legislatore», come affermava Carnelutti, sarà stata la mia insipienza, la mia ignoranza, la mia insensibilità, ma, nel momento in cui si redigeva il codice, non ho avvertito questo legame tra la separazione netta delle funzioni all'interno del procedimento penale, tra chi accusa e chi giudica, che abbiamo posto in modo molto netto e molto chiaro e un problema ordinamentale. Non voglio affermare che non esista, ma mi meraviglia un po' il fatto che a posteriori si sia enfatizzato tanto questo rapporto, che a quell'epoca non mi è sembrato tanto preminente.
Non entro nel merito e non voglio affermare che sia una bestemmia parlare di separazione delle carriere anche in modo esplicito. Se mi consentite, sostenere che adesso esiste una separazione di funzioni e non delle carriere fa un po' sorridere, perché la separazione delle funzioni è quella all'interno del procedimento, mentre al di fuori c'è un problema di più o meno forte separazione delle carriere. Non è questione terminologica, ma di intendersi su ciò che si intende fare.
Spendo ancora due parole, se me lo si consente, sull'articolo 112. Confesso, e chi mi conosce lo sa, che, se dovessi scriverlo io adesso, non lo scriverei in quei termini così rigidi, perché è un unicum. A me piace di più una soluzione come quella che vige in Germania, dove il principio di legalità si ricava da tutto un sistema, ma è un principio elastico che consente eccezioni.
Per come è scritto, l'articolo 112 sembrerebbe non ammettere alcuna eccezione, nemmeno per i reati bagatellari. Ogni norma, anche costituzionale, ha una sua storia e la storia è stata che tutto sommato l'articolo 112 è stato applicato più elasticamente di quanto sembrerebbe disporre.
Per questo motivo non mi sembra tanto importante una sua modifica e nutro un dubbio sui modi in cui lo si vuole, invece, modificare, perché indubbiamente l'articolo 34 del decreto legislativo n. 274 del 2000 (normativa sul giudice di pace), quello sulla tenuità del fatto, è passato. È stato messo in discussione, ma non è arrivato alla Corte costituzionale. Si sarebbe potuto discutere anche del patteggiamento, ci sono tante questioni che si sarebbero potute discutere alla luce di un'interpretazione rigida. A me piacerebbe di più che fosse scritto in altro modo.
Analogamente, sono convinto che l'articolo 112 non debba essere uno schermo dietro il quale poi si legittima tutto, perché vige l'obbligatorietà.
I criteri di priorità, venendo al punto più delicato, secondo me vanno enunciati. Ho un'idea che è difficile cristallizzare in una norma precisa, un'idea di cerchi concentrici, con il Parlamento che individui linee molto generali, con organismi come il Consiglio superiore della magistratura che vadano più in concreto e, infine, con le singole procure. Da tempo sostengo che dovrebbe esserci un sistema simile a quello che i romanisti ci insegnavano, in altre parole faccio riferimento al vecchio editto del pretore, che ogni anno enunciava un programma.
Senza arrivare alla caricatura, ho sentito anche spesso affermare che allora si dà l'impunità e che questi reati non saranno perseguiti. Chiaramente fissare alcune priorità non deve significare questo, ma compiere scelte di allocazione di uomini e di mezzi. È questo il senso delle priorità.
Da questo punto di vista ritengo che sia molto importante, come mi pareva di aver anticipato, che ci possa essere un obbligo dei responsabili degli uffici del pubblico ministero che rendano conto annualmente di come è stato esercitato tutto il sistema.
Penso che, se si vuole - non credo che sia strettamente indispensabile - inserire un elemento del genere direttamente nel testo dell'articolo 112, si potrebbe fare riferimento al rispetto del principio di eguaglianza e alla salvaguardia del principio dell'articolo 79, comma 1, affinché non diventino amnistie mascherate. L'amnistia - dispone, secondo me giustamente, l'articolo 79 della Costituzione nella versione rinnovata - deve essere approvata con legge dei due terzi delle due Camere.
L'onorevole Ferranti parlava di paletti. Credo che due paletti potrebbero essere questi, anche perché non sono del tutto convinto - è una mia vecchia eresia - che l'obbligatorietà di per sé sia necessariamente collegata al principio di eguaglianza. Tendenzialmente lo è, ma dovremmo allora affermare che in nessun Paese del mondo esiste l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ci faremmo ridere dietro da tutto il mondo se svolgessimo simili affermazioni. Sostenere che il principio di obbligatorietà tende a salvaguardare l'uguaglianza va bene, ma sostenere che solo col principio di obbligatorietà si salvaguarda il principio di uguaglianza è eccessivo.
ENRICO MARZADURI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Pisa. Per quanto riguarda il profilo riguardante l'articolo 109, non posso che condividere ciò che è stato appena rimarcato dal collega Chiavario.
Volevo osservare, sul problema del controllo, che esiste un pubblico ministero che controlla la Polizia giudiziaria ed è vero, ma bisogna mettere in condizione il pubblico ministero di controllare tale Polizia giudiziaria. Se cominciamo a rendere meno forte il rapporto, togliendo il «direttamente» che compare oggi nell'articolo 109, se incominciamo a sbilanciare i poteri di Polizia giudiziaria e pubblico ministero sul piano investigativo, il suddetto controllo diventa sempre meno possibile e meno concreto. L'esigenza di controllo postula, secondo me, una situazione sul piano dei poteri almeno di identità.
Se, invece, questo rapporto viene sviluppato in maniera asimmetrica, prevedendo sul piano pre-investigativo solo la Polizia giudiziaria, con spazi di intervento - faccio riferimento al disegno di legge Alfano - autonomi per determinate imputazioni e momento di controllo successivo, mentre la possibilità di verificare effettivamente se la Polizia giudiziaria si sia comportata secondo la legalità diventa problematico, ciò verrebbe a incidere sulla logica del controllo.
Quanto ai criteri di priorità, il problema, a mio avviso, sta nei seguenti termini: non basta parlare di criteri di priorità per risolvere la questione. La legge che darà attuazione al nuovo articolo 112 è una legge che, per rimanere all'interno di un percorso di costituzionalità, deve rispettare determinate regole. Esplicitamente lo esprimeva anche Mario Chiavario, richiamando l'articolo 79.
La prima regola è quella di evitare che attraverso i criteri di priorità si determini l'impunità per tutta una serie di imputazioni. Chi è contrario ai criteri di priorità - cito un giovane costituzionalista che è un allievo di Zanon, il quale è invece favorevole ai criteri di priorità - sostiene che «poiché ogni giorno vi saranno nuovi procedimenti riferibili a reati per i quali è stabilito il carattere prioritario, è del tutto evidente che nella concreta realtà il magistrato si troverà di fatto impossibilitato a iniziare la trattazione dei procedimenti concernenti altri reati».
Ciò va evitato ed è possibile evitarlo, perché nella delibera approvata dal plenum del CSM del 2008 per quanto riguarda i provvedimenti organizzativi inerenti ai criteri di priorità, si è affermato che esiste un criterio di priorità oggettivo che deve essere rispettato già nel silenzio della normativa, ed è quello per cui nei doveri professionali fondamentali del giudice determinate urgenze per così dire oggettive sono legate al reato vicino alla prescrizione, al reato nei cui confronti esiste un pericolo di dispersione della prova. Nella costruzione dei criteri di priorità si dovranno inserire alcune clausole che consentano la tutela di queste
urgenze, per evitare che il perseguire determinati reati significhi non perseguire aprioristicamente tutta un'altra serie di reati, con evidenti scompensi.
GIOVANNI PELLEGRINO, Avvocato. Lo si può intendere anche all'opposto, nel senso di non esercitare l'azione penale per un reato che si sta già per prescrivere.
ENRICO MARZADURI, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi di Pisa. Il problema del criterio di priorità si traduce nell'individuazione dell'organo. Mario Chiavario ipotizzava alcune competenze tra il legislatore, il CSM e le singole procure.
A mio avviso i poteri dovrebbero concentrarsi tendenzialmente a livello legislativo. È ovvio che a livello legislativo non possiamo pretendere una tassatività della fattispecie, però al tempo stesso mi preoccupa l'idea che attraverso la valorizzazione degli interventi di singole procure si venga a disperdere il significato di un criterio di priorità come regola oggettiva che deve valere in maniera generale per tutto l'ordinamento.
PATRIZIA PEDERZOLI, Professore straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna. Rispondo brevemente alla domanda che mi è stata posta sulla questione della rappresentatività.
È difficile immaginare come quel brevissimo passaggio del disegno di legge possa trovare attuazione. Laddove esista uno spazio sensibile per il sorteggio, io credo che sia difficile concludere altrimenti rispetto alla conclusione cui sono giunta io, cioè che la rappresentatività venga menomata, compromessa, alterata.
D'altro canto, abbiamo indicazioni di natura molteplice che provengono dall'Europa, e mi riferisco in particolare al Consiglio d'Europa e ai suoi diversi organismi - non ho citato l'ultima opinione del Consiglio consultivo dei giudici europei - e a diverse mozioni che ci provengono da ambito europeo a sostegno di organismi competenti in materia di selezione e carriera in cui si dispone che i giudici, almeno per metà, siano scelti con metodi idonei a garantire la rappresentatività. La mia impressione è che nel presente disegno di legge si vada in direzione diversa. Questi, peraltro, sono strumenti di soft law e non impongono un vincolo.
Sulla politicizzazione forse non sono stata sufficientemente chiara. Onorevole Contento, lei ha perfettamente ragione, le correnti in seno all'Associazione nazionale dei magistrati sono state e sono tuttora laboratori culturali, anche con diramazioni su scala sopranazionale. Sarebbe difficile negare che siano stati elementi di politicizzazione unitamente ad altri.
Mi sembrava di essermi espressa favorevolmente in relazione all'uscita di scena di questi elementi, che peraltro hanno ripercussioni non positive anche sulla tutela dell'indipendenza personale del magistrato. Constato che nella configurazione che il legislatore si appresta forse in futuro a votare permangono, anzi si accrescono e si irrobustiscono elementi di squilibrio.
A mio modo di vedere, le Costituzioni non dovrebbero essere scritte solo con lo sguardo rivolto al passato, con elementi quasi di rivalsa. Bisognerebbe, invece, cercare di costruire istituzioni in grado di operare nell'interesse della giustizia e, quindi, anche della collettività intera. Sono gli squilibri che mi inducono a non essere sempre ottimista, quando vedo questi elementi.
MANLIO CONTENTO. Lo squilibrio o l'equilibrio, se preferisce, dal suo punto di vista, da che cosa è dato, dalla preminenza della nomina da parte dei magistrati all'interno del Consiglio superiore della magistratura? Vorrei capire perché lei parla di squilibrio o di equilibrio.
GIOVANNI PELLEGRINO, Avvocato. È dato dal rapporto numerico fra eletti ed eleggibili. Da quello dipende tutto.
PATRIZIA PEDERZOLI, Professore straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna. Non è definito in alcun modo. Noi
non sappiamo in questo momento se, per esempio, i livelli della giurisdizione debbano essere rappresentati e con quali proporzioni.
MANLIO CONTENTO. L'unico elemento di giudizio è la maggioranza risicata.
PATRIZIA PEDERZOLI, Professore straordinario di sistemi giudiziari comparati presso l'Università degli studi di Bologna. È una formula veramente molto laconica. Al momento, nel testo attuale scelto dal Governo, è a tal punto laconica da conferire al legislatore ordinario margini di azione e di apprezzamento ben più ampi di quelli che hanno sinora consentito i ripetuti interventi sul sistema elettorale dei togati, sempre - lo faccio notare - a Costituzione invariata.
Il termine è già stato usato in più di una circostanza e assomiglia molto a una delega ad ampio spettro. Non è solo la proporzione numerica, esiste una maggioranza che in forza dei componenti di diritto viene conservata ai togati e il diverso modo di formarsi delle due compagini può essere elemento di squilibrio.
Spero di essere stata più chiara. Resta invariata l'estrazione dei laici, ma diventa nebulosa e prevedibilmente non tanto rappresentativa l'elezione della componente togata.
GIORGIO SPANGHER, Professore ordinario di diritto processuale penale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma. Cercherò di rispondere alle domande dell'onorevole Ferranti. Cominciamo per singoli punti e veniamo sull'azione penale.
Mi permetto di leggervi l'articolo 330 del codice di procedura penale: «Il pubblico ministero e la Polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato». Figurano sicuramente nell'articolo 330 due elementi, ossia la ricerca e la ricezione.
Non voglio svolgere un discorso lungo da professore, ma racconto un fatto accaduto a Torino prima del codice. Il pubblico ministero ebbe notizia che nelle farmacie di Torino non si emetteva lo scontrino fiscale. Il pubblico ministero torinese partì, quindi, a tappeto svolgendo un'indagine su tutte le farmacie di Torino per vedere dove la norma fosse stata violata.
Credo che questo sia un problema. Mi riferisco all'episodio torinese delle farmacie, da cui la vicenda è nata ed poi è rifluita nell'articolo 330, il quale ha, peraltro, avuto un'azione di rigetto, perché, se nella bozza Boato si è pensato di eliminare questo profilo, credo che il dibattito - cui era consenziente anche Vigna, ossia l'idea che un pubblico ministero vada a ricercare una notitia criminis - sia condivisibile.
Io credo che tale attività non si configuri in relazione al ruolo che il pubblico ministero deve avere. È una mia opinione personale. L'articolo 330 individua questo elemento e io lo pongo all'attenzione. Se riterrete che il pubblico ministero debba svolgere questo ruolo, siete liberi di farlo. Personalmente ritengo che non debba svolgerlo e che l'articolo 330 dilati le funzioni al di là di quello che dovrebbe essere il suo ruolo. Comunque il codice oggi dispone due attività e la bozza Boato, quando ne avete discusso, era giunta a una conclusione di tipo diverso, cioè aveva eliminato una delle due, e io credo che tale scelta non sia stata irragionevole.
Come secondo elemento, io distinguo nettamente i criteri di priorità dall'azione penale. Il criterio di priorità è l'indagine, mentre l'azione penale è il dato successivo all'indagine. Questa è la scelta del codice del 1988: prima si indaga e, alla luce di ciò che si è maturato, si esercita l'azione penale.
I criteri di priorità a che cosa si riferiscono, all'esercizio o all'attività investigativa? Io ritengo che bisogna essere chiari. Dei criteri di priorità, peraltro, abbiamo avuto già alcuni esempi nella legge di attuazione transitoria del giudice unico, agli articoli 220 e 223 del codice di procedura penale. Il legislatore ha compiuto una scelta. Il discorso è di renderli il più possibile trasparenti, il più possibile
normativamente controllabili. Non basterà la relazione dell'anno giudiziario per verificare le modalità di esercizio dell'azione penale.
Il senatore Pellegrino ha espresso una giusta considerazione, ossia che il responsabile sia il capo dell'ufficio. Se non potrà essere il capo dell'ufficio, può essere un altro, tralascio il modello organizzativo, ma c'è già un elemento nella legge di riforma, quando si dispone che si deve assicurare l'uniformità nell'esercizio dell'azione penale. Si parla di esercizio dell'azione, ma in realtà, secondo me, si tratta di criteri di priorità investigative.
Il terzo momento è l'esercizio dell'azione, che è obbligatorio. Se si ha una notitia criminis, non la si può nascondere nel cassetto. Dopo aver indagato alla luce dei criteri di priorità, si materializza una notizia di reato e si esercita l'azione penale. Possiamo inserire gli elementi di deflazione di cui parlava Chiavario, ma che sono altro, come le archiviazioni condizionate, le tenuità del fatto, le condotte riparatorie, tutti elementi che non incidono sulle indagini, ma sulle modalità di esercizio. Chiavario ricordava, infatti, che c'è stata una difficoltà per le tenuità del fatto, perché si incide sull'obbligatorietà dell'azione penale quando il PM chiede l'archiviazione, tanto che la si è costruita come mancanza di una condizione di procedibilità proprio per darle una veste giuridica di copertura e per non mostrare che si trattava di un'azione penale
discrezionale.
Teniamo distinte tre questioni: il pubblico ministero può cercare la notizia di reato, con quali criteri e come esercita l'azione penale. Sono tre questioni diverse. Se possibile, teniamole distinte nella norma, perché, se usiamo la parola «criteri», non si capisce a che cosa ci riferiamo.
Veniamo all'altro profilo, quello sul quale l'onorevole Contento si è rivolto a tutti. Io non credo onestamente che vengano violati i princìpi fondamentali. Se noi dovessimo pensare che un diverso rapporto tra PM e Polizia giudiziaria fosse contrario alla Costituzione, dovremmo ritenere - parlo di Costituzione e non di sistema processuale - che il codice del 1930 nella sua disciplina fino al 1988 fosse chiaramente contrario ai princìpi costituzionali.
Ricordo che erano previste l'attività di PG, l'attività del PM e l'attività del giudice. L'attuale articolo 350 del codice di procedura penale sulle indagini per la prosecuzione era collocato nell'articolo 225 ai tempi del terrorismo. Questa attività era collocata nella funzione di PG e poi interveniva l'attività del pubblico ministero.
Dobbiamo pensare che il cambiamento di modello processuale renda incostituzionale la norma? Forse no. Il sistema o è incostituzionale o non lo è, non è vero che il sistema dei rapporti tra PM e PG col codice inquisitorio non è incostituzionale e col codice accusatorio lo è. Parlo dei princìpi.
Altro discorso può riguardare l'opportunità delle scelte, altro ragionamento sono le modalità. Porto un esempio. Abbiamo il modello del giudice di pace, nel quale lo spazio dell'attività di PG è più ampia, di quattro mesi, con possibilità di interferenza del pubblico ministero in relazione ad attività invasive con provvedimenti autorizzativi e con la possibilità del PM di assumere in sé la direzione delle indagini. Può essere un modello attraverso il quale contemperare esigenze diverse.
Nel disegno di legge si esprime un concetto differente. Non si dispone necessariamente che debba essere considerato tutto, né lo credo. Devo essere sincero: io sono convinto che la società italiana sia profondamente cambiata. A quale esecutivo ci si riferisce? Chiunque è esecutivo. Si afferma che nessun esecutivo deve condizionare l'attività del giudice.
Siamo sicuri che oggi non possiamo fidarci? Io non sono convinto che, se passa il criterio del proscioglimento, i giudici condannano. Se in questo Paese non possiamo neanche fidarci dei giudici, siamo messi bene.
Capisco quello che intende l'avvocato, però spero che non siamo ridotti a queste
condizioni, ossia che, se c'è il proscioglimento, si condanna, perché in questo modo la sentenza viene appellata.
Torniamo al punto. Io ritengo che ci siano spazi nell'ambito della disciplina ordinaria, perché non si può disciplinare tutto il rapporto tra PM e PG. Ciò sarà effettivamente frutto di una norma di attuazione, di un modello processuale, un elemento che dovrà essere particolarmente approfondito.
Non è giusto naturalmente discriminare i reati, perché contrasterebbe con l'articolo 3 il fatto di stabilire che per alcuni reati si interviene e per altri no. Ciò non è proponibile e chiunque lo proponga, dal mio punto di vista, ha un grosso torto.
GIOVANNI PELLEGRINO, Avvocato. Devo una risposta innanzitutto sulla questione posta dall'onorevole Contento. L'autogoverno è inseparabile dall'indipendenza. Non c'è indipendenza se non c'è autogoverno. Su questo siamo tutti d'accordo.
L'aspetto che non funziona nella norma è proprio quell'espressione brevissima, ossia il «sorteggio degli eleggibili».
Come funziona in genere l'autogoverno? Funziona con una coincidenza fra elettorato attivo ed elettorato passivo. Ci sono mille persone, vogliono eleggere i loro rappresentanti e le scelgono fra di loro. Mille votano e mille possono essere votati, anche se ci possono essere forme di selezione per cui alla fine il numero degli eleggibili si riduce, ma sempre per effetto di scelta.
Se il sorteggio degli eleggibili riduce l'elettorato passivo al 50 per cento o al 33 per cento la rappresentatività funziona, perché in quel campione del 33 per cento ci si può orientare, ma, se alla fine gli eleggibili fossero il doppio dei membri, non c'è più rappresentatività. Se si è sfortunati e il sorteggio fa venire fuori venti «fessi» e si devono eleggere dieci membri, come si fa a trovarne dieci bravi, se tutti non sono un granché? Questo è il punto.
Secondo me, la formula è troppo sintetica. In Costituzione andrebbe chiarito qual è il rapporto per evitare la coincidenza piena tra elettorato attivo ed elettorato passivo e evitare il gioco delle correnti; però si deve trovare un meccanismo che espliciti meglio, altrimenti il legislatore ordinario stabilisce che si sorteggia un numero ristretto di magistrati tra i quali scegliere quelli che devono far parte del CSM.
GIUSEPPE CALDERISI. Io avevo capito, ma non so se male, che il meccanismo fosse di questo tipo: supponendo che il sistema di elezione sia a collegi uninominali, si eleggono in collegi uninominali cinque volte di più elementi dei membri effettivi e poi fra i cento eletti si sorteggiano i venti.
GIOVANNI PELLEGRINO, Avvocato. Nel testo al nostro esame è l'opposto. In tal caso, si deve cambiare la formulazione, perché l'espressione «sono eletti previo sorteggio degli eleggibili» significa che il sorteggio degli eleggibili viene prima dell'elezione e non dopo. Dovrebbe essere, invece, «vengono nominati per sorteggio fra gli eletti». In tal caso è diverso, è l'opposto.
Secondo il testo, il sorteggio viene prima dell'elezione e, se l'elezione porta sfortunatamente a 20 eleggibili non rappresentativi, la rappresentanza viene meno. Sarebbe come se si affermasse, dal momento che ormai non si parla d'altro che di primarie, che in uno schieramento alle primarie le elezioni si svolgono in un dato modo e nell'altro fra i sorteggiati. Sarebbe svantaggiato il primo schieramento.
Per riprendere quanto affermava la professoressa Pederzoli, quanto ai criteri, se l'azione penale è obbligatoria e si devono stabilire alcuni criteri, questi che funzione possono avere, se non quella della deflazione? Non è pensabile una funzione diversa. Non si potrebbe girare tutto sui titoli di reato, per sostenere che alcuni reati si perseguono e altri no. Ci sono tante altre considerazioni.
Io sono al vertice di un ufficio legale organizzato e detto criteri per il funzionamento
dei miei collaboratori, indicando quali cause accettare e quali non accettare.
Per esempio, vogliamo ammettere che ormai la garanzia dell'articolo 25 della Costituzione è «andata a pallino», non c'è più? Ormai l'interpretazione delle norme è diventata estremamente elastica, perché viene prima un giudizio di riprovazione del fatto e poi si va faticosamente trovando in quale reato lo si può ascrivere. Si allarga al massimo la fattispecie e ve lo si include.
Ciò porta spesso a esiti assolutori del processo. Se per contestare un reato contro la pubblica amministrazione devo impegnarmi a dimostrare che Mara Venier era un'incaricata di pubblico servizio, sto compiendo uno sforzo ermeneutico che tutto sommato potrebbe essere escluso dal criterio. Non è il caso di andare a ricercare le ipotesi limite, visto che non c'è il tempo di punire tutti i fatti che sicuramente rientrano nella fattispecie.
Avevo portato come esempio anche l'ipotesi in cui l'evento è ormai così remoto nel tempo che è difficile pensare che, anche con una ragionevole durata del processo, si possa arrivare alla condanna e poi alla rilevanza sociale. L'attore penale e, secondo me, anche quello contabile, dovrebbe essere legato a regole di efficienza e di prudenza insieme, volte a scoraggiare l'attore processuale da un esercizio improduttivo della prosecution.
PRESIDENTE. Ringrazio ancora gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 17,30.