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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione XI
5.
Mercoledì 22 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giuliano Cazzola, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO

Audizione di rappresentanti del Consorzio universitario Alma Laurea:

Giuliano Cazzola, Presidente ... 3 6 10 13 15 16 21
Antonelli Gilberto, Rappresentante del Consorzio universitario AlmaLaurea ... 20
Bobba Luigi (PD) ... 11
Cammelli Andrea, Direttore del Consorzio universitario AlmaLaurea ... 3 6 17
Damiano Cesare (PD) ... 11
Ferrante Francesco, Rappresentante del Consorzio universitario AlmaLaurea ... 19
Gatti Maria Grazia (PD) ... 10
Mattesini Donella (PD) ... 14
Santagata Giulio (PD) ... 13 16

ALLEGATO: Documentazione presentata dai rappresentanti del Consorzio universitario AlmaLaurea ... 23
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile Nuovo Polo (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IRNP; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 22 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIULIANO CAZZOLA

La seduta comincia alle 14,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti del Consorzio universitario AlmaLaurea.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, l'audizione di rappresentanti del Consorzio universitario AlmaLaurea.
Rivolgo ai nostri ospiti non solo un augurio, ma anche i complimenti miei e della Commissione perché, se ho ben letto quanto riportato nei giorni scorsi, hanno ricevuto un importante riconoscimento di carattere internazionale per l'attività meritoria svolta.
Sono presenti il direttore del Consorzio, professor Andrea Cammelli, nonché i professori Angelo Guerriero, Angelo Di Francia, Gilberto Antonelli e Francesco Ferrante.
I rappresentanti del Consorzio hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Nel ringraziarli ancora una volta per la presenza, do loro la parola.

ANDREA CAMMELLI, Direttore del Consorzio universitario AlmaLaurea. Buongiorno a tutti i parlamentari presenti. Ringrazio il vicepresidente della Commissione, onorevole Giuliano Cazzola, che ho l'onore di conoscere e che ringrazio a nome di AlmaLaurea per l'invito che ci è stato rivolto oggi. So che la mia presentazione dovrà restare rigidamente, come è giusto che sia, nell'ambito dei quindici minuti, quindi dovrò necessariamente ridurre la molteplicità delle mie considerazioni, che, magari, rispondendo successivamente insieme ai colleghi, potrò approfondire.
Non utilizzo molto tempo nella presentazione di AlmaLaurea, perché credo che i presenti - è già la seconda volta che veniamo in questa Commissione - ne conoscano sostanzialmente il funzionamento. AlmaLaurea è nata per iniziativa del sottoscritto presso l'Università di Bologna nel 1994, con compiti diversi, particolarmente quelli di dotare le università e chi deve governare il processo universitario di una documentazione tempestiva, affidabile e completa per potere decidere. Come diceva Einaudi, conoscere per governare. Oltre a questo, AlmaLaurea è nata anche per aiutare l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
Prego i colleghi presenti di affidarsi anche alla documentazione messa a disposizione, quella che contiene figure e tabelle a cui farò riferimento. AlmaLaurea oggi


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riguarda non più solo l'università di Bologna, ma 64 università che spontaneamente vi hanno aderito. Ciò vuol dire che AlmaLaurea oggi raggiunge sostanzialmente il 77-78 per cento dei laureati italiani di ogni anno.
AlmaLaurea funziona bene. Siamo partiti, uno o due dei presenti, a realizzare AlmaLaurea in modo sperimentale e oggi è un consorzio interuniversitario, con 52 persone che vi lavorano a tempo pieno (non sono universitari) e che realizzano gli obiettivi che ci siamo dati. Tali obiettivi ormai travalicano perfino il Paese, perché la best practice che stiamo realizzando in Italia è diventata punto di riferimento anche all'estero. Stiamo realizzando AlmaLaurea in Marocco, con le università marocchine.
Il riferimento ad AlmaLaurea è guardato con molta attenzione anche dalla Commissione europea e da altri Paesi. Mi pare di aver aggiunto, fra gli allegati che abbiamo inviato, un articolo recentemente uscito sul Times Higher Education, che ci inorgoglisce particolarmente insieme al premio che il vicepresidente Cazzola ha ricordato, un premio a livello internazionale.
Non è frequente avere un riconoscimento così importante con un titolo su otto colonne che parte con le parole «bella figura» in italiano e poi racconta l'esperienza di AlmaLaurea.
Sostanzialmente, come contributo all'indagine conoscitiva sul mercato del lavoro fra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo, abbiamo pensato di mettere in luce alcuni aspetti che emergono dalle indagini che annualmente svolgiamo. Quella sulla condizione occupazionale è un'indagine che facciamo ogni anno e che riguarda non un campione di laureati ma il complesso dei laureati. Quest'anno abbiamo terminato oltre 400.000 interviste ad altrettanti laureati (a un anno, a tre anni, a cinque anni). Sottolineo questo aspetto perché è un elemento importante. La documentazione, in ogni caso, è disponibile sul sito per tutti, dunque, quali che siano le nostre valutazioni, chiunque può documentarsi e magari arrivare a conclusioni diverse. Il vantaggio è quello di avere una documentazione che non è presente in nessun'altra rilevazione nazionale.
L'ISTAT si ferma a un'indagine a tre anni, mentre noi l'abbiamo estesa a cinque anni, perché sappiamo che per conoscere il profilo dei laureati e il loro ingresso nel mercato del lavoro, particolarmente per certi percorsi di studio, tre anni sono pochi. Penso ai medici, agli avvocati, a chi svolge la professione di psicologo: tutte le libere professioni sono difficilmente immaginabili, nel proprio impatto nel mercato del lavoro, con un'indagine a tre anni.
Come dicevo, noi abbiamo spostato l'indagine anche a cinque anni, oltre che a un anno, e quest'anno sperimenteremo perfino la possibilità, ancora più interessante, di spostarla a dieci anni.
L'evoluzione della condizione occupazionale - debbo ovviamente ricordare i tempi che ho a disposizione - ormai la studiamo da diciassette anni. La figura 2 ci dice in modo sintetico che la condizione occupazionale (lo sapevamo tutti, per carità, ma lo abbiamo misurato), anche quella dei laureati del 2009, si è ridotta. Sia se prendiamo la definizione ISTAT sulle forze di lavoro sia se prendiamo quella legata all'inserimento dei laureati è una differenziazione che sottolinea come occupato chi continua la formazione, se retribuita (nell'una definizione è esclusa, nell'altra è compresa). Ma l'aspetto che emerge e che mi pare sia giusto mettere in evidenza è come la condizione occupazionale ad un anno, per i tre livelli dell'istruzione, risulta perfino più elevata per i laureati triennali, quelli che solitamente accompagniamo dicendo che hanno studiato poco e sono rifiutati dal mercato. In realtà, questa situazione vede i laureati a un primo livello a un livello più elevato di occupazione, mentre gli specialistici, quelli che hanno studiato cinque anni, lavorano un po' meno, infine gli specialistici a ciclo unico (laureati in medicina eccetera) sono maggiormente in formazione.
C'è, quindi, una tendenza complessiva a un deteriorarsi della condizione occupazionale che viene confermata dal tasso di disoccupazione (lo trovate alla pagina successiva),


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dalla stabilità nel lavoro (figura 4), e anche dal guadagno mensile netto, con valori rivalutati. Tutti questi indicatori ci dicono che la situazione è andata deteriorandosi a partire dal 2000, in realtà almeno da quando abbiamo cominciato a fare le indagini con questa prospettiva.
Non solo, ma anche l'efficacia della laurea (figura 6) è un indicatore che abbiamo introdotto mettendo assieme due aspetti fondamentali: la necessità del titolo di studio per il lavoro svolto (è richiesto per legge, non è richiesto ma è necessario, e così via) e l'utilizzazione delle competenze acquisite all'università sulla condizione di lavoro.
Anche questo indicatore di sintesi sostanzialmente ci dice che l'efficacia della laurea - ovviamente è più elevata mano a mano che si sale nel livello di istruzione - è andata contraendosi nel corso del tempo.
Il quadro complessivo della situazione è quello rappresentato nella figura 7, che ci dice che l'evoluzione della quota dei laureati - per creare la serie storica ho bisogno di rifarmi ai laureati pre-riforma - è un aspetto importante. Il tasso di disoccupazione che aumenta o la riduzione della condizione occupazionale che aumenta in realtà non riguarda soltanto i laureati post-riforma.
C'è una chiave interpretativa così diffusa sui mass media per cui dopo la riforma tutto è crollato. In realtà, i dati ci dicono che la condizione occupazionale è venuta diminuendo in misura consistente anche per i laureati pre-riforma, quelli nemmeno sfiorati dalla riforma universitaria. Ugualmente anche per loro è venuto diminuendo il guadagno mensile netto, come vedete, dunque i fratelli maggiori, laureatisi nel 2000, sostanzialmente guadagnano di più.
Questo quadro, che apparentemente sembra davvero molto preoccupante, molto complesso e molto difficile, e che naturalmente deve far nascere tanti punti interrogativi, trova tuttavia un elemento forte di conforto non più sui dati di AlmaLaurea ma sui dati internazionali. Come vedete nella figura 9, questo quadro, che pure è andato deteriorandosi nel corso del tempo, niente toglie a un fatto importante: la laurea è e continua ad essere un elemento che garantisce maggiore occupabilità. I dati ISTAT 2010, che sono stati già presentati in questa sede dal presidente Giovannini, ci dicono che il tasso di occupazione dei laureati è superiore di undici punti percentuali a quello dei diplomati e che la retribuzione dei laureati (dato OCSE che riguarda l'Italia) è del 55 per cento superiore a quella dei diplomati. Certo, il calcolo viene fatto lungo l'arco della vita attiva. Fare confronti, come sentiamo frequentemente realizzare anche sui quotidiani più prestigiosi, tra laureato e diplomato a ventiquattro anni è evidente che porta alla conclusione che il diplomato può guadagnare di più o non meno del laureato: il diplomato è sul mercato del lavoro da quattro o cinque anni, mentre il laureato è appena uscito dall'università. È necessario fare il calcolo in modo corretto nel lungo arco della vita.
Questa è sostanzialmente la condizione dei laureati. In questo caso, noi abbiamo approfondito un aspetto che mi limiterò inevitabilmente a sintetizzare; in particolare, abbiamo svolto un'indagine che credo possa essere molto utile in Commissione, cercando di vedere come si è sviluppato un fenomeno importante, quello che viene sintetizzato nel termine così frequentemente usato del mismatch. Abbiamo cercato di monitorare l'andamento congiunturale e di approfondirne anche lo studio dal punto di vista strutturale.
Gli aspetti di sintesi, che in parte abbiamo già visto nella figura 6 che ho prima ricordato, li ritrovate nuovamente nella figura 10, dove l'indagine del mismatch viene estesa a livello di cinque anni di età, e ancora nelle figure 4, 11 e 12.
Naturalmente non c'è il tempo, adesso, per tornare su ciascuna di queste figure, ma certo emerge che il mismatch, ossia questo disallineamento fra percorso di studio e ingresso nel mercato del lavoro è in aumento. C'è da considerare, però, che questo disallineamento ancora una volta non riguarda soltanto i laureati dopo l'ingresso della riforma universitaria del 2001.


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Se consideriamo attentamente i dati verifichiamo che questo disallineamento è presente in misura non inferiore anche fra i laureati al primo livello.
Dunque, questa è una risposta, sia pure indiretta, o comunque un punto interrogativo da analizzare con attenzione per capire che evidentemente non tutto questo disallineamento è colpa della riforma. Del resto, non siamo alla ricerca di colpe, ma del modo di intervenire affinché i ragazzi lavorino meglio, il sistema produttivo abbia risposte più efficaci e il Paese possa collocarsi meglio nel proscenio internazionale.
Io suggerisco frequentemente, da qualche tempo - non sempre ascoltato - di andare al di là del significato della media, che noi ci troviamo presentato in ogni documento, anche più analitico. Il valore medio non rappresenta la situazione di tanti fenomeni in Italia, e tanto meno dell'università italiana. Abbiamo valori medi che possono anche essere migliorati rispetto al dato pre-riforma, ma che sono la sintesi di situazioni di una variabilità profondissima fra ateneo e ateneo, fra corsi di laurea e corsi di laurea. Rifarsi soltanto alla media rischia di impedirci di vedere dove i fenomeni si presentano con caratteristiche di eccellenza e dove si presentano, invece, in condizioni di grave difficoltà, quindi con l'esigenza di essere modificati il più possibile in modo rapido.
L'altro aspetto che abbiamo esaminato e che voi potrete considerare con l'attenzione che riterrete giusta riguarda la seconda indagine che AlmaLaurea compie ogni anno, quella del profilo dei laureati. L'indagine che abbiamo visto sulla condizione occupazionale riguarda, in qualche modo, la verifica, al termine degli studi, di come risponde il mercato del lavoro.
L'indagine di cui sto parlando adesso, che riguarda il profilo dei laureati, serve a indicare le caratteristiche del laureato, le performance con cui il laureato ha compiuto i propri studi. Debbo dire che, ancora una volta contraddicendo il luogo comune - che abbiamo sentito ripetere con grande forza, in questi anni, devo dire da tutte le parti, forse in primis dal mondo universitario, che non è contento per tanti motivi di quello che è avvenuto e sta avvenendo all'università - riguardante il profilo dei laureati, che noi ancora una volta non esaminiamo per campione, ma per la totalità dei laureati, restituendoci un'immagine di ciò che è avvenuto in questi dieci anni caratterizzata da una serie di indicatori che sono andati migliorando in modo significativo.
Ad esempio, l'età alla laurea si è ridotta. Apro una piccola parentesi, perché so che è presente un riferimento all'età; faccio presente che l'età alla laurea da sola non è sufficiente a individuare l'andamento, perché mentre essa ci dice il risultato finale, noi sappiamo poco - ma AlmaLaurea lo sa - della data all'immatricolazione. Questa data, per i laureati di primo livello, è aumentata, dall'avvio della riforma ad oggi di due anni: anziché iscriversi all'università a diciannove anni, i ragazzi si iscrivono a ventidue. Questo deriva anche dal maggior numero di persone che escono da famiglie storicamente estranee agli studi universitari che accedono agli studi universitari. C'è oggi, nell'università italiana, una fascia crescente (siamo attorno al 25 per cento) di laureati che arrivano a iscriversi all'università in data diversa da quella canonica.

PRESIDENTE. Nonostante la fine della leva obbligatoria.

ANDREA CAMMELLI, Direttore del Consorzio universitario AlmaLaurea. Nonostante questo, perché probabilmente si tratta di gente che ha fatto esperienza di studio, di lavoro, magari all'estero, il che probabilmente porta anche un arricchimento all'università. Io dico sempre che noi, come università, guardiamo troppo spesso esclusivamente alla popolazione giovanile, quella che storicamente abbiamo considerato come il nostro interlocutore principale. Stiamo dimenticando sempre di più, e dovremmo farlo sempre meno, che nel Paese ci sono oltre due milioni di ultratrentacinquenni laureati i quali avrebbero bisogno di tornare in formazione per poter ricollocare il Paese nelle


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condizioni di competitività a livello internazionale di cui abbiamo bisogno.
Naturalmente è una formazione che, dal nostro punto di vista, le aziende fanno con molta fatica e con poco impegno, sebbene non tutte naturalmente. Questo consegna il Paese a un ritardo che rischia di aumentare.
Abbiamo parlato dell'età alla laurea. Inoltre, va considerata la regolarità negli studi. È vero, ci sono ancora tanti ragazzi che non concludono il percorso di studi, ma nel 2001 erano soltanto meno del 10 per cento e oggi sono diventati il 40 per cento. Questo significa che c'è un 60 per cento che è in regola, ma anche che il sistema universitario ha moltiplicato per quattro la regolarità dei propri studi.
La frequenza alle lezioni è cresciuta molto e soprattutto - sottolineo questo aspetto perché mi pare importante in questa Commissione - si è moltiplicata per tre (questo è nascosto nella gran parte dei riferimenti che leggo sulla stampa, anche su riviste specializzate) l'esperienza di stage in azienda, che non raggiungeva neanche il 20 per cento dei laureati nel 2001 e oggi sfiora il 60 per cento. Ancora una volta sottolineo che si tratta di una media: ci sono corsi di studio nei quali questa quota diventa 85 (giurisprudenza, ad esempio) e altri nei quali resta drammaticamente a quota 30 o 32 per cento. Da quello che ci restituisce questa documentazione si evince che l'incontro, il superamento degli steccati, il dialogo, la sinergia tra la parte migliore del mondo universitario e la parte migliore del mondo produttivo sta completamente realizzandosi.
Naturalmente potremo dare, come indicato nella mia relazione, una lettura di sintesi di queste evidenze empiriche sulle quali mi sono soffermato.
Voglio mettere in evidenza alcuni aspetti. Mi pare intanto doveroso sottolineare che c'è una sorta di contraddizione evidente tra le crescenti difficoltà occupazionali dei laureati, di cui abbiamo appena detto, e quello che emerge dal tendenziale miglioramento delle loro performance di studio. Finora è stato interpretato più volte che c'è una minore capacità di studio da parte dei ragazzi, quindi è evidente che il mondo del lavoro risponde in un certo modo. Invece, qui stiamo dicendo il contrario. In ogni caso, diciamo anche che solitamente sono state individuate tre cause principali di questo deterioramento: un aumento di offerta dei laureati intervenuto a partire dalla metà degli anni Novanta (spesso abbiamo sentito ripetere che ci sono troppi laureati); il peggioramento della qualità dei laureati, dovuto magari alla riforma «tre più due»; un più ampio disallineamento tra competenze possedute e competenze richieste dalle aziende.
Troverete nella documentazione un'analisi un po' più approfondita, oltre alle relazioni complete tenute a marzo sulla condizione occupazionale e a fine maggio sul profilo dei laureati, che sono state inviate e messe a disposizione della Commissione. Prendiamo ora rapidissimamente in esame i tre elementi che ho citato, che credo siano condivisi.
Quanto all'aumento dell'offerta dei laureati (si dice che ci sono troppi laureati in circolazione a partire dagli anni Novanta), dobbiamo stare molto attenti perché a moltiplicarsi in misura rilevantissima sono i titoli di studio piuttosto che i laureati. È vero che i laureati sono passati dai 172.000 del 1991 ai 293.000 del 2009, ma questo calcolo deriva dal fatto che sono aumentati i titoli di studio. Se Andrea Cammelli, ad esempio, ha conseguito la laurea di primo livello e poi di secondo livello, in queste statistiche conta due volte, ma non sono aumentati i laureati, il laureato è rimasto uno soltanto.
Misurato in modo più corretto, come anni di scolarizzazione di cui il Paese ha potuto godere, questo aumento dal 70 per cento diventa soltanto del 22 per cento: un incremento tutto sommato ragionevole.
Occorre inserire questi esempi - non possiamo fare diversamente - nel contesto internazionale. Suggerisco di guardare la figura 13, che mi pare di aver mostrato anche la volta precedente in questa Commissione. Ora, in questa documentazione dell'OECD (Organization for Economic Co-operation


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and Development) si può trovare gran parte delle chiavi di lettura di ciò che il Paese sta attraversando.
Se osservate la colonna di sinistra, vedete che nella classe di età più avanzata, cioè 55-64 anni - là dove c'è la classe dirigente del Paese, gli imprenditori, grandi e piccoli - abbiamo un gap, un ritardo in termini di formazione terziaria, cioè universitaria, elevatissimo, che abbiamo ereditato dall'unità d'Italia, di cui stiamo celebrando i centocinquanta anni. Non dimentico mai che il primo Ministro dell'istruzione, Carlo Matteucci, disse in un intervento che forse si stavano spendendo troppi soldi per l'università, ma all'epoca il 75 per cento degli italiani era analfabeta, quindi questa considerazione era sicuramente ragionevole.
Rispetto alla media OCSE, la nostra popolazione adulta ha metà, in termini percentuali, dei laureati dei Paesi OCSE, senza fare i confronti con gli Stati Uniti e così via. Ho la sensazione - questa è la mia personale valutazione, condivisa dai colleghi - che, in realtà, forse in questo ritardo di istruzione terziaria ci sia una parte della diffidenza che si ha nei confronti degli investimenti da fare per essa; soprattutto, c'è una difficoltà a rendersi conto del ruolo strategico degli investimenti in ricerca e sviluppo. La mia è un'ipotesi, possono esserci altre considerazioni, ma ciò che è certo è che, se guardiamo cosa è successo alcuni anni dopo, nella classe di età più giovane, cioè 25-34, contrariamente a quello che sentiamo ripetere qualche volta nei titoli sulla presenza di troppi laureati, scopriamo che ancora oggi nella classe di età che rappresenta il futuro per il Paese, il futuro per noi, il numero dei laureati è cresciuto, ma è rimasto ancora molto lontano dalla media dei Paesi OCSE e dei Paesi con i quali ci confrontiamo. Ci sono sicuramente situazioni diversificate.
Sottolineo questo aspetto in particolare perché, intanto, è una risposta alla prima questione circa gli effetti dell'aumento della domanda di laureati. Ora, questo aspetto potrebbe anche essere corretto, naturalmente, ma ci sono alcuni dati che ci costringono a ritenere che il futuro non sarà roseo come potremmo invece sperare. La figura 14, infatti, ci dice che noi siamo, purtroppo, al vertice di questa orribile graduatoria internazionale sull'aumento della popolazione.
Abbiamo preso in considerazione il caso dei diciannovenni, perché è il caso tipico per quanto riguarda l'università: il Paese ha perso, nonostante l'ingresso degli immigrati regolarizzati, il 38 per cento dei propri diciannovenni; se guardiamo quella parte di curva che ci separa fino al 2020, non possiamo credere che la cosa migliorerà. Il nostro, quindi, è un Paese che ha pochi giovani, che stanno - meno frequentemente di quanto non capitava fino a dieci anni fa - passando dalla scuola secondaria superiore all'università.
Di certo, il bombardamento mediatico che ha caratterizzato, negli ultimi anni in particolare, la visibilità dell'università non ha aiutato sicuramente ad accrescere l'immagine dell'università stessa, che pure di colpe ne ha tante. Inoltre, bisogna dire che l'accesso all'università, che la riforma aveva in qualche modo avviato a popolazioni che vengono da ambienti socio-economici deprivati, è andato contraendosi per forza di cose. I costi dell'istruzione e soprattutto le difficoltà delle famiglie stanno facendo pesare molto questa questione.
Aggiungo un aspetto che ripeto frequentemente, ma che trovo di grande importanza. Mi piacerebbe rivolgere una domanda a ciascuno di voi, che rappresentate il Paese. Ancora oggi, nel 2010, il 75 per cento dei laureati italiani porta a casa la laurea per la prima volta, cioè un titolo di studio che non hanno né il padre né la madre. Inutile dire che se questo capita per i laureati, per le matricole il dato è ancora più ampio (siamo attorno all'82-83-84 per cento). Questo apre un discorso enorme - che non posso fare - sull'orientamento e via dicendo.
La seconda causa, cioè il peggioramento della qualità dei laureati, è stata appena esaminata ed è contraddetta, in


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realtà, dal fatto che questo peggioramento è avvenuto perfino nei laureati pre-riforma.
Infine, il problema del disallineamento tra competenze possedute e competenze richieste è stato esaminato con grande cura attraverso un'indagine realizzata da AlmaLaurea, che meriterebbe di essere approfondita e spiegata molto più di quanto non mi sia consentito in questa situazione. Se si guarda al livello internazionale, facendo dei confronti attraverso questa documentazione, si arriva alla conclusione che il disallineamento, che esiste e che la stessa documentazione allegata dimostra in diversi aspetti, naturalmente in modo diverso a seconda del corso di studi (ma ripeto che è un disallineamento che riguardava anche i laureati pre-riforma) non risulta più acuto in Italia rispetto alla media degli altri Paesi, non è riconducibile specificamente all'inadeguatezza dei percorsi formativi, non rappresenta la principale causa delle difficoltà di inserimento occupazionale dei laureati.
Qualche tempo fa avevamo anche noi dei dubbi su questa questione. Queste sono le indagini della Commissione europea, Eurobarometro 2010, Eurostat 2009. È sufficiente fare i confronti. Anch'io, per certi versi, sono rimasto stupito del fatto che, in realtà, il confronto internazionale ci vede, sì, in qualche caso un po' al di sotto della media, ma non così drammaticamente distanti sulla questione del disallineamento.
Nella documentazione abbiamo spiegato dove stanno probabilmente alcuni aspetti che riguardano non soltanto la domanda ma anche l'offerta. Forse bisogna guardare meglio al complesso dei fattori strutturali che agiscono sull'uno e sull'altro fronte.
Voglio ricordare che anche la più recente indagine di Unioncamere, per esempio, che riguarda sostanzialmente la domanda espressa dalle imprese, ci dice che su cento nuovi posti di lavoro le imprese ne propongono dodici per i laureati. Questa è una richiesta che avviene indipendentemente dal disallineamento. Le imprese, a domanda, rispondono che su cento nuovi posti dodici sono per i laureati.
Negli Stati Uniti, invece, nel medesimo arco di tempo, per ogni cento nuovi posti di lavoro le imprese ne chiedono trentadue per i laureati. Insomma, abbiamo bisogno di recuperare molti ritardi, di far crescere la nostra classe imprenditoriale. Naturalmente ci sono condizioni strutturali che ce lo impongono. Teniamo conto che anche studi recenti, realizzati da studiosi di un certo peso della Banca d'Italia, sono arrivati a conclusioni di grande interesse.
La domanda di laureati da parte delle imprese è fortemente condizionata dal livello di istruzione degli imprenditori (ma l'avevamo già ipotizzato). A parità di settore e di dimensione, un imprenditore laureato assume il triplo di laureati di un imprenditore non laureato.
È vero che sarà un problema che nel breve volgere del tempo si risolverà, poiché ciascuno di noi andrà in pensione, ma questo è uno dei problemi, non dico l'unico. In più, c'è un aspetto che riguarda gli assetti organizzativi delle imprese in difficoltà a valorizzare il capitale umano e via dicendo. Lascio questi elementi di riflessione, perché il tempo stringe.
Quando si chiede al sistema universitario di produrre di più per l'immediata spendibilità del titolo di studio per le esigenze dell'impresa, si chiede in qualche modo al sistema universitario di fare violenza non solo a sé stesso, ma perfino alle necessità del Paese.
È evidente che il sistema universitario si trova di fronte al bivio tra produrre ricerca scientifica in linea con quanto fanno i Paesi più avanzati, quindi muoversi su quel terreno, e dall'altra parte generare laureati adatti a un sistema produttivo disallineato rispetto a frontiere tecnologiche e di conoscenza che sono quelle che ci collocano meglio a livello internazionale.
Prima ho messo in evidenza che forse una parte della classe dirigente e imprenditoriale non avverte il ruolo importante degli investimenti in istruzione e in ricerca e sviluppo. Osservate la figura 17, che


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riporta i dati ISTAT (suppongo che il professor Giovannini li abbia già mostrati). Come vedete, non solo noi spendiamo molto poco in ricerca e sviluppo ma, in questa composizione della spesa, a spendere poco non è soltanto il pubblico ma anche il privato: 0,65 è il contributo del sistema delle imprese, certamente piccole e piccolissime in particolare, ma è una caratteristica molto precisa del nostro Paese che non possiamo dimenticare.
Da un confronto immediato con la Germania, alla quale in questi giorni guardiamo sempre con molta attenzione, vediamo che quel Paese spende oltre il doppio di quanto spendiamo noi e le imprese tedesche investono oltre tre volte quello che spendono le imprese italiane.
Potremmo fare altre osservazioni, ma non abbiamo il tempo. Chiudo rapidamente ricordando che abbiamo predisposto una serie di indicazioni, di suggerimenti, che spero la Commissione vorrà tenere in conto, che riguardano in particolare un'efficace formazione in ingresso e continua.
Suggeriamo di tenere conto che tutte le misure dirette a valorizzare il capitale umano non possono che dare risultati positivi; occorre sottolineare che la flessibilità è importante, ma dobbiamo stare attenti ad evitare abusi di forme di lavoro flessibile nel momento in cui si rende più conveniente l'utilizzazione di queste; è necessario forzare la mano, insistere di più per interventi che siano a sostegno dell'autoimpiego e della creazione di imprese.
Infine, visto che c'è molta insistenza - e mi pare parzialmente condivisibile - sull'importanza dei diplomati degli istituti tecnici, sul loro ruolo e sulla loro formazione, voglio ricordare in primo luogo che i dati che abbiamo esaminato con molta attenzione ci dicono che in realtà non è vero che ci sia tutta questa carenza di diplomati in circolazione; ce n'è un numero rilevante, adulto, espulso dalle imprese, a cui probabilmente le imprese stesse non accedono più, poiché guardano soltanto ai neodiplomati che possono essere pagati meno e magari utilizzati per un minor tempo. È un elemento sul quale riflettere.
In secondo luogo, l'indagine che abbiamo svolto sulle caratteristiche dei docenti delle materie tecnico-scientifiche negli istituti tecnici e professionali ci restituisce l'immagine di un corpo docente che si seleziona a seconda del tipo di insegnamento: sceglie in primis il liceo classico e poi lo scientifico. Insomma, sul terreno dell'insegnamento, che sembra più rilevante o comunque strategico per il Paese, finiscono, soprattutto negli insegnamenti tecnici e professionali, i laureati meno dotati, quelli che hanno avuto carriere meno brillanti e quindi ne derivano problemi elevati nella formazione dei giovani.
Ringrazio per l'attenzione, mi scuso per il tempo che ho utilizzato, ben più consistente di quello che mi era stato promesso.

PRESIDENTE. Grazie a lei, professor Cammelli, per averci riferito notizie interessanti, spesso anche un po' diverse da quelle che abbiamo sentito fino ad oggi in altre audizioni.
Do la parola ai deputati che intendano porre domande o formulare osservazioni.

MARIA GRAZIA GATTI. Ringrazio molto il professor Cammelli per l'esposizione. Leggerò molto attentamente i documenti che ci sono stati consegnati.
Questa può essere l'occasione per cominciare a riflettere, anche in questa Commissione, in modo un po' più concreto sulla qualità dell'apparato produttivo che abbiamo in Italia, sulle caratteristiche della nostra specializzazione produttiva, collegata con le dimensioni, e su quanto tutto questo influenzi anche il mercato del lavoro, l'inserimento lavorativo dei giovani e il reinserimento degli adulti.
Proprio stamattina ho presentato un'interrogazione relativa ai dati presentati in provincia di Pisa dall'Excelsior, il sistema delle Camere di commercio, in cui si rilevavano alcune difficoltà da parte delle aziende della provincia di Pisa (piccole, piccolissime, con l'eccezione della Piaggio)


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rispetto al reperimento di certe figure professionali e si riprendeva il discorso degli istituti tecnici, professionali. A questo punto, l'assessore provinciale al lavoro ha cercato queste figure professionali all'interno dei database attraverso il centro per l'impiego (che secondo me funziona bene) e ne sono state trovate diverse centinaia. L'assessore al lavoro si è allora chiesto se la richiesta riguardasse personale da pagare meno, mentre in questo caso si trattava di persone specializzate.
Personalmente ho trovato una consonanza particolare con le ultime considerazioni espresse e spero che, con l'analisi dei documenti, si possa sviluppare una riflessione al riguardo, perché questo potrebbe dare un segno diverso anche agli interventi che dobbiamo ipotizzare per affrontare con qualche possibilità di successo il problema, molto annoso, dell'inserimento e del reinserimento lavorativo.

LUIGI BOBBA. Ringrazio anch'io il professor Cammelli, al quale vorrei porre una domanda. Mi ha colpito l'aspetto dell'ingresso non lineare ma attraverso percorsi più differenziati all'università, quindi non immediatamente dopo la scuola secondaria superiore. Vorrei capire se questo elemento renda il percorso universitario e l'esito occupazionale più mirato e più realistico, cioè se queste esperienze pre-universitarie, che si collocano in una zona intermedia tra la scuola e l'università, in qualche modo favoriscano nel giovane una migliore finalizzazione o una maggiore capacità di utilizzare il percorso universitario verso obiettivi più mirati e meno indifferenziati o a volte non ben costruiti sulle proprie vocazioni professionali. Vorrei sapere se c'è già una possibilità di valutazione.

CESARE DAMIANO. Anch'io voglio ringraziare il professor Cammelli e i suoi collaboratori di AlmaLaurea, con i quali ho avuto modo di avere nel passato alcuni contatti molto utili.
Credo che questo scambio di opinioni ci aiuti perché noi abbiamo, secondo me, una questione politica enorme che riguarda il tema dell'occupazione giovanile. Tutti ci interroghiamo su questo argomento e facciamo fatica a trovare risposte adeguate.
Ciò che emerge, che veniva anche evidenziato nell'esposizione, è una tendenziale riduzione dell'occupazione giovanile, soprattutto riferita a chi ha un diploma o una laurea (più lunga meno lavoro, un po' più corta più lavoro), e un deterioramento delle cosiddette «condizioni» dell'occupazione, dei percorsi di carriera, della stabilità del lavoro, del livello retributivo.
Insomma, siamo di fronte a questo problema, che segnala anche una rottura rispetto alle convinzioni che noi avevamo maturato nel passato. La mia generazione, quella che entra nel lavoro alla fine degli anni Sessanta, aveva una percezione del rapporto fra studio e lavoro virtuosa: più studio più lavoro, più stabilità, più carriera, più retribuzione. Oggi ci troviamo di fronte a una rottura della linearità di questa relazione.
Abbiamo anche, purtroppo, un altro problema. Molte volte noi, a partire da me, siamo vittime di luoghi comuni. Pur avendo letto molto su questo argomento, mi sono fatto un'idea infarcita di luoghi comuni, e la relazione del professor Cammelli mi aiuta non a sconfiggerli tutti, ma per lo meno a razionalizzare meglio i termini della questione.
I luoghi comuni di cui parlo sono quelli che ho sentito in molte assemblee, in molti incontri, nelle famiglie, nei giovani, nei politici. In particolare, un luogo comune è che non serve più studiare: tanto se studi non avrai nessun risultato, il lavoro non te lo danno e se te lo danno, te lo danno con fatica ed è meglio nascondere che hai studiato meglio altrimenti c'è un'ostilità e ti pagano meno di quanto ti aspettavi, per non parlare della carriera. Come ogni luogo comune, anche questo sta dentro a quel massimo-minimo, che anche lei metteva in evidenza, fra situazioni di eccellenza e situazioni di disagio. Non possiamo ignorare che una porzione di imprese e di mercato del lavoro sottopone i giovani a queste «forche caudine», però non è detto che sia la media e non è detto che sia il


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riferimento principale. Ne parlo perché questo luogo comune, di cui anch'io sono a volte preda, porta ad una semplificazione presente ormai nel corpo sociale: non studiate più!
Tutto questo è profondamente contraddittorio - siamo in Europa, in Italia - in un continente che ha fatto, nella parte migliore della sua esperienza politico-culturale, della conoscenza l'elemento motore per uno sviluppo di qualità. C'è una grossa contraddizione tra l'idea che si diffonde dell'inutilità dello studio e il pensare che si possa vincere la competizione con i nuovi colossi emergenti nel mondo se non basandoci sulla conoscenza. Delle due l'una: o è così, o è il contrario.
Credo che sia molto importante far conoscere questi dati. Mi sto domandando, presidente pro tempore (bisogna sempre sottolineare pro tempore), che cosa può fare la politica, che cosa può fare la Commissione lavoro, ad esempio, per aiutare una giusta divulgazione e conoscenza di questi dati. AlmaLaurea, per lo meno, ha un grande vantaggio: svolge le sue inchieste non per campione ma sulla totalità del corpo sociale di riferimento. Non è una cosa comune, non è un dato normalmente disponibile, non è la raccolta di umori e di sensazioni, ma piuttosto una catalogazione oggettiva di punti di vista sedimentati dalla platea vasta rappresentata dalla totalità degli intervistati.
Credo che la conoscenza di questi dati ci aiuti anche a orientarci su quello che la politica, la società, l'università, il corpo che si riferisce ai temi dell'istruzione, possono mettere in cantiere per intervenire su una situazione. C'è un tema che a me interessa in modo particolare, avendo un'idea più chiara, grazie a questa relazione, della situazione che si è determinata: il tema del disallineamento tra lo studio, la formazione e il lavoro. Credo - è una domanda che rivolgo al professor Cammelli - che, naturalmente, questo tema richiami immediatamente quello dell'orientamento scolastico, dell'indirizzo dei giovani a forme di studio di un certo tipo o di un altro tipo.
Credo anche - non so se mi sbaglio - che questo tema del rapporto fra orientamento allo studio e disallineamento del rapporto tra mercato del lavoro e formazione sia da ricondurre in qualche modo anche alle caratteristiche del territorio. Il disallineamento, in altre parole, non è un dato medio e generico, ma fa leva sulle caratteristiche produttive, industriali, occupazionali e via dicendo, degli insediamenti di un determinato territorio. Peraltro, ancora in questi luoghi comuni, abbiamo ripetuto a macchinetta che ci sono pochi diplomati, pochi ragionieri, pochi geometri, pochi istituti professionali, pochi periti chimici, molti archeologi, molti dottori (sebbene poi abbiamo visto che con il numero chiuso questi mancano).
Come interveniamo, dunque, se c'è - e c'è - il disallineamento? E se c'è un problema di orientamento come si può intervenire? Come si può legiferare? Come può la politica, come possono i corpi sociali intervenire su questo punto? Credo che il problema sia molto rilevante.
In secondo luogo, voi avete una banca dati formidabile, anche suddivisa sulla base del territorio; non è una banca dati generale, ma chiaramente sarà «territorializzata». Come può questa esperienza, ad esempio, interagire con altri soggetti che trattano questi dati? Cito un esempio: pensando al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ai Centri per l'impiego, a Italia Lavoro, non è possibile promuovere una convergenza sul tema delle banche dati? Quando ero Ministro del lavoro, tra i vari istituti, vi era anche Italia Lavoro, e sentivo favoleggiare di una famosissima banca dati. Francamente non so se questa banca dati funziona, ma non mi pare. Qui, invece, siamo di fronte a una banca dati che funziona, a qualcosa di concreto.
Si può, allora, creare una sinergia oppure funziona ciascuno per sé e Dio per tutti? In tal modo, alla fine, quel che risulta nell'impatto mediatico, quando si osservano i temi dell'occupazione giovanile, sono i luoghi comuni di cui parlavamo. Nessuno, infatti, riesce in qualche modo a catalogare effettivamente quello che sta succedendo nei termini che qui


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sono stati sommariamente descritti. Io credo che quello delle banche dati sia un problema fondamentale, sebbene non saprei come affrontarlo e risolverlo.
L'altra questione che emerge è la difficoltà al basso e all'alto della catena anagrafica, vale a dire che l'accesso è difficile e vi è l'espulsione a una certa età di chi non ha più l'accesso al mercato del lavoro. Vi sono due milioni di ultratrentacinquenni laureati che dovrebbero tornare a formarsi, ma le imprese non li vogliono formare, non spendono risorse per formarli; queste persone, dunque, sono doppiamente disallineati, licenziati o licenziabili, vittime dei processi di ristrutturazione, sostituiti da quelli che costano meno.
Allora, forse, in una relazione sinergica, positiva, virtuosa tra legislazione e intervento, non è possibile pensare che le politiche debbano privilegiare la sistemazione, l'assunzione di quelli che sono molto giovani e di quelli che sono non più giovani, vale a dire quella parte estrema della catena anagrafica dell'attuale mercato del lavoro? Questi sono i due elementi sui quali forse oggi varrebbe la pena di incidere. Come può la politica intervenire - io non lo so, mi rendo conto di aver fatto un discorso un po' «campato per aria» - con una legislazione? Di leggi ne abbiamo proposte tante, di tutti i tipi, e tutti i giorni ne inventiamo una. Ma occorre un provvedimento circostanziato, che riesca a intervenire su questi elementi di contraddizione - disallineamento, orientamento, banche dati, troppo giovani, troppo anziani - attraverso un sistema di incentivi, di interventi mirati per favorire questo incontro e, soprattutto, debellare l'idea che, in sostanza, oggi studiare non serve più. I dati di trend, infatti, dimostrano che è ancora conveniente studiare.
Né si può sottovalutare, in una porzione non secondaria del mercato del lavoro, che questo disallineamento purtroppo condanna - ho trovato giovani con lavoro a progetto nei call center, con un diploma, una laurea, due lauree, un master, due master, a 500 euro al mese, con contratti di tre mesi - una porzione non insignificante di questi giovani a una condizione di precarietà a vita e di sottoretribuzione. Anche questo elemento, secondo me, andrebbe indagato ed evidenziato.
Mi dirà che non dobbiamo rivolgere domande a lei, ma a noi stessi e trovare soluzioni, ma lei capisce che la mia è una domanda che ha semplicemente l'intenzione di stabilire un dialogo, che mi auguro questa Commissione continui, perché effettivamente il vostro lavoro è degno di menzione. A parte le citazioni internazionali, credo che faremmo bene anche noi a valorizzarlo.

PRESIDENTE. Abbiamo diversi iscritti, ma faccio presente che alle 15 riprendono i lavori dell'Aula e vorremmo dare anche al professor Cammelli un tempo congruo per rispondere. Faccio appello a me e agli altri colleghi iscritti di utilizzare con parsimonia il tempo che ci rimane. Tutto sommato, credo che abbiamo avuto un'audizione ricca.

GIULIO SANTAGATA. Me la caverò in un tempo relativamente breve, perché condivido le domande retoriche - che retoriche non sono - poste adesso dal collega Damiano, che mi sembra affrontino il fulcro della questione. Siccome sono stato (lo dichiaro subito) vittima di una sindrome da '68, guardando questi dati e ascoltando alcune affermazioni che girano, voglio sfogare la mia sindrome.
Parto da un dato che ho letto ieri in un giornale locale della mia città: in maniera trionfale, il preside di un istituto tecnico diceva di aver bocciato il 35 per cento degli alunni delle prime. Se per un'istituzione formativa il fatto di bocciare il 35 per cento degli alunni è causa di merito, mio padre, buonanima - sono figlio di un preside - si sarebbe dimesso se avesse avuto insegnanti che portavano alla bocciatura il 35 per cento degli allievi. Si trattava, nel caso specifico, della prima classe di un istituto superiore. Stiamo ancora parlando di obbligo scolastico, che arriva fino a 16 anni.
Tutto questo fa parte della logica che, da un lato, vede la richiesta al mondo


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giovanile di posizionarsi verso l'alto del merito, e dall'altro non c'è alcuna rispondenza del mondo non giovanile, e per meglio dire del mondo dell'impresa ma non solo, a riconoscere tale merito.
Dai dati che ho scorso - mi riservo di guardarli con più attenzione - e che considero molto interessanti emerge esattamente quello che era già emerso nell'audizione dell'ISTAT: senza un calo del 35 per cento di giovani da un punto di vista demografico, il nostro 20 per cento di laureati nella classe di età 24-35 sarebbe per un buon 35 per cento condannato statisticamente a non fare il lavoro per cui hanno studiato. Se è vero, infatti, che le imprese chiedono laureati solo per il 12 per cento e noi ne produciamo il 20, fortuna vuole che questa percentuale riguarda una classe di età che è calata del 35 per cento. Bisognerebbe fare il conto con carta e penna, ma a spanne direi che si sta più o meno in equilibrio grazie a questa questione.
In base a un luogo comune, il problema della non rispondenza dello studio alla domanda di lavoro viene scaricato con grande facilità sullo studio, ma il problema è almeno da dividersi in parti uguali. Personalmente, a dire il vero, io sono dell'idea che non sia da dividere in parti uguali e che la responsabilità del mondo dell'impresa sia enorme, da questo punto di vista. Noi siamo un Paese che butta via una quantità di risorse che cominciano con il 35 per cento di bocciati nelle prime e finiscono con i laureati; sarà anche un luogo comune, ma io, senza applicarmi al voto di scambio e facendo il parlamentare, ricevo decine e decine di richieste di giovani che mi manifestano la loro difficoltà, perché portando i loro master alle imprese si sentono rispondere che il loro curriculum è troppo qualificato per loro.
Si tratta di decine di casi che io, senza avere la statistica in mano, ma a livello personale mi trovo ad affrontare continuamente. Nella mia provincia, fatta di piccole e medie imprese, se un ragazzo ha davvero fatto un paio di master all'estero, o anche uno solo, è condannato a lavorare all'estero, perché nella realtà della mia provincia non troverà mai un lavoro. Tra business administration e ragioneria vince ragioneria quattro a zero. Non c'è partita!
Io credo che questo Paese avrebbe addirittura potuto - questa è il vero «sessantottismo» - approfittare di un calo di 350-400.000 giovani per consentire a quelli rimasti di essere assai poco preoccupati dell'allineamento con il mercato del lavoro e preoccuparsi, invece, maggiormente di essere l'elemento trainante di una qualificazione futura.
Io faccio parte del baby boom, allora si sgomitava perché eravamo tanti. Diventa preoccupante se siamo diventati pochi eppure non possiamo nemmeno dire ai nostri giovani di studiare quello che preferiscono - esagero - tanto l'importante è che si faccia seriamente la propria attività di formazione che il nostro Paese provvederà a trovare loro una collocazione.
Credo anch'io, quindi, e concludo, che ci sia bisogno di migliori conoscenze e che questi dati, e non solo, mettano in condizione tutti di orientare un po' meglio l'attuale politica disallineata in maniera preoccupante.

DONELLA MATTESINI. Ringrazio anch'io per i dati offerti e per il materiale così importante. Ci avete fornito chiavi di lettura nuove e anche alcune riflessioni sufficientemente suggestive.
Anch'io condivido le domande rivolte dai miei colleghi. Vorrei solo sottolineare un aspetto. Giustamente, diciamo che bisogna capire meglio quali sono i fattori che incidono nelle dinamiche di accesso al lavoro, quali i settori e i fattori di sviluppo. Mi viene in mente che proprio qualche giorno fa nella mia città, ad Arezzo, il polo universitario e l'università locale hanno svolto una piccola prima indagine, ancora da approfondire, per verificare le ragioni significative del calo degli iscritti negli ultimi anni. Emerge in maniera abbastanza ovvia, ma che mi piacerebbe poter approfondire, che c'è un gap abbastanza forte tra maschi e femmine.


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Sappiamo benissimo che sia l'accesso al mercato del lavoro sia i fattori di sviluppo hanno a che fare con questa diversità. Oltretutto, il ragionamento che affrontiamo ha soprattutto lo scopo di capire insieme quali sono gli strumenti che possiamo mettere in atto per ottimizzare: poiché i dati a vostra disposizione sono importantissimi, potete anche aiutarci in una lettura che differenzi il percorso tra maschi e femmine? Sicuramente, ad esempio, il dato sul guadagno mensile a distanza di cinque anni è molto diverso. Poiché gli interventi, per essere efficaci, hanno bisogno di essere mirati, forse questo è un dato che sarebbe utile avere.

PRESIDENTE. Faccio qualche considerazione, ovviamente non conclusiva. Per quanto riguarda la questione di AlmaLaurea, voglio ricordare che il 28 gennaio del 2010 nella seduta n. 275 della Camera dei deputati è stato presentato un ordine del giorno a prima firma di Silvano Moffa, cui si aggiungeva la mia firma, quella di Foti, quella di Ceccacci Rubino e quella di Vassallo, quindi in qualche modo bipartisan, che concludeva «impegna il Governo a tener conto dell'esperienza di AlmaLaurea al fine di una possibile collaborazione nella formazione e nel funzionamento della Banca continua del lavoro, allo scopo di utilizzare nel migliore dei modi le risorse e non disperdere energie preziose qualificate, nell'impegno a favore dell'occupazione giovanile e del sistema produttivo nazionale».
Credo che possiamo anche fare di più come Commissione e sicuramente faremo di più. Infatti, nell'elaborare il documento conclusivo di quest'indagine, daremo una valorizzazione adeguata alle considerazioni di AlmaLaurea. Tuttavia, sono convinto - è una mia convinzione a cui ho cercato anche di dare un contributo di carattere personale - che in effetti AlmaLaurea potrebbe essere meglio utilizzata anche dal Governo della Repubblica.
So che ci sono stati dei contatti tra il direttore e il presidente di AlmaLaurea, che peraltro sono miei carissimi amici di lunghissima data, con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Mi auguro che questi superino i problemi che ci sono stati e che possano effettivamente mettere a disposizione una banca dati con 1,5 milioni di curricula, in cui si può anche individuare - mi ci sono trovato - chi si è laureato con una tesi sul teatro giapponese con breve giro informatico (mi pare fosse a Perugia). Mi auguro che si possa veramente razionalizzare e massimizzare le risorse ovunque siano state prodotte. Per quanto questa Commissione abbia fatto, per quanto ognuno di noi abbia potuto fare, credo che si debba ancora insistere sotto questo punto di vista.
Venendo al dibattito di oggi, ribadisco il ringraziamento al professor Cammelli per il contributo che ci ha fornito. Per quanto mi riguarda, trovo, però, che se guardiamo le figure che ci ha illustrato, non abbiamo davanti a noi una situazione drammatica. Si parla di un'occupazione a un anno dalla laurea: probabilmente, se dovessimo guardare i tre anni e i cinque anni che, come ha detto il professor Cammelli, per le libere professioni sono assolutamente anni di tirocinio, credo che ne uscirebbe un quadro che comunque dimostra che studiare serve e consente anche di realizzare, anche con difficoltà e magari contraddizioni, le aspirazioni delle persone.
C'è, però, indubbiamente un disallineamento, ci sono delle discrepanze. Anch'io sono molto suggestionato dalle considerazioni del collega Santagata sugli andamenti demografici. Non vorrei essere male interpretato, ma se guardiamo al passato, arriviamo senza dubbio alle conclusioni di Santagata quando diceva che abbiamo una situazione grave della disoccupazione giovanile che sarebbe peggiore se facessimo ancora figli come negli anni Sessanta.
In effetti, abbiamo forse perso la metà dei giovani al di sotto dei 35 anni negli ultimi vent'anni. Credo che adesso nascano 500.000 bambini all'anno, e tra questi ci sono forse anche molti figli di immigrati, mentre negli anni Sessanta la cifra era quasi doppia. Peraltro, abbiamo davanti a noi un futuro, ce lo dicono i demografi, in cui questo crollo proseguirà.


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Credo, allora, che non si tratti di andare a prendere in giro le persone che stanno protestando fuori dicendo loro che tra dieci anni troveranno tutti lavoro perché è chiaro che il lavoro lo aspettano adesso. Io ho fatto quest'obiezione anche al dottor Giovannini, il quale mi ha detto che fare discorsi di questo genere, che nessuno fa ovviamente, vuol dire sprecare risorse, ma credo che dobbiamo cominciare a incrociare anche questi dati, vedere come gestire una fase una fase di transizione che presenta degli squilibri gravi, dolorosi, collocandoli però in un contesto nel quale questo problema camminerà su un tapis roulant di andamenti demografici che probabilmente darà problemi anche sul versante dell'offerta oltre che su quello domanda di lavoro.
Ciò detto, voglio mettere insieme due osservazioni di carattere soggettivo quasi antropologico che il professor Cammelli ha individuato quando ha detto che un imprenditore non laureato stenta ad assumere laureati e quando dice che ancora oggi i laureati varcano per il 75 per cento il traguardo della prima laurea di una famiglia. Forse qui c'è anche una risposta ad alcune difficoltà a cui andiamo incontro? Mi sono trovato, ad esempio, a un dibattito ad Anzole dell'Emilia, cintura bolognese, sull'occupazione giovanile. Ovviamente, ero in grandissima difficoltà perché rappresentavo il Governo cattivo, della precarietà, della fame, del freddo e della paura. Con me c'era un amico del PD, collega e docente universitario responsabile del lavoro del PD Emilia-Romagna, il professor Marinucci. È intervenuta una ragazza laureata in scienze politiche che ci ha detto che stava facendo uno stage per 200 euro al mese, che il cugino è stato assunto a tempo indeterminato, sottolineando l'espressione «a tempo indeterminato», una giusta aspirazione, in una fabbrica ad Anzole dell'Emilia, per cui non aveva neanche avuto bisogno di spostarsi, con un diploma di perito industriale per 1.500 euro al mese.
Cosa direbbe, professore, a una laureata in scienze politiche? Quale prospettiva occupazionale può avere quando il giornalismo versa nella condizione in cui versa, la scuola fa fatica ad assorbire le lauree che un tempo assorbiva, la pubblica amministrazione ha problemi in tutto il mondo? Che colpa possiamo assumerci noi politici, io vicepresidente della Commissione lavoro, esponente del Popolo delle Libertà, se una laureata in scienze politiche non trova lavoro?

GIULIO SANTAGATA. Mi chiedo perché non abbia chiuso la facoltà di scienze politiche! La facoltà di Bologna ha cambiato nome in «Cultura e diritti umani» per prendere in giro gli iscritti.

PRESIDENTE. Posso dare una spiegazione. Ho i dati: in dieci anni in Italia sono stati istituiti 2.500 corsi di laurea in più e sono stati assunti 6.000 docenti. Abbiamo un docente universitario ogni 29 iscritti.

GIULIO SANTAGATA. Capisco che è come se fosse ad un seminario del PD, come sempre in questa Commissione. Parla degli ultimi dieci anni e la sua parte politica è stata al Governo otto anni e mezzo. Questo non è successo in Burundi, ma qui, con questo Governo. È inutile, quindi, che si chieda cosa avrebbe potuto fare. Abbiamo preso in giro una quantità di giovani dicendo loro che potevano studiare quello che volevano, e poi stiamo dicendo loro che non è vero.

PRESIDENTE. La soluzione, quindi, sarebbe il numero chiuso, la programmazione? Comunque, noi abbiamo lavorato tutti in questi anni per quelli che lavorano nelle università più che per gli studenti. Abbiamo oggi un docente ogni 29 studenti iscritti, ovvero ogni 15 frequentanti.
In ogni caso, mi pare che studiare serva. Su questo non c'è dubbio. Nei dati degli occupati della Germania, troviamo quanto meno - vado a memoria, mi corregga professore - un 46 per cento di lavoratori manuali diplomati, per cui in sostanza è possibile svolgere un lavoro manuale ed essere diplomato. In Italia, invece, solo il 12 per cento di quelli che svolgono un lavoro manuale sono diplomati,


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ma non possiamo costruire una struttura economica a misura dei giovani laureati, del mondo di quelli che cercano lavoro. Bisognerà pure fare in modo che, appunto, chi cerca lavoro si adatti alla struttura produttiva.
Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

ANDREA CAMMELLI, Direttore del Consorzio universitario AlmaLaurea. Ringrazio molto per le riflessioni che sono emerse perché ho visto che non si tratta di cose formali, sono state poste questioni di grande interesse, alle quali proverò a rispondere in parte io, in parte i miei colleghi, che hanno seguìto con attenzione questa riflessione e hanno anche approfondito alcuni di questi temi.
C'è una questione che mi sta molto a cuore, non solo perché ho dato vita ad Almalaurea: passando una volta dai banchi universitari, mi sono interrogato attorno agli anni del nono centenario su come fare per tradurre in pratiche le prediche che facevamo di giorno in aula. Poiché insegnavo Statistica sociale e continuavo a parlare di sistemi formativi, mi ero chiesto come fare a tradurre questi principi in qualcosa che aiutasse davvero.
Il presidente pro tempore mi ricorda un'iniziativa di cui sono molto orgoglioso e che forse potrebbe entrare in una riflessione riguardo agli istituti tecnici e professionali.
Da assessore per cinque anni a Bologna, occupandomi di istituti secondari superiori, avevo posto all'attenzione un argomento che può essere di grande di attualità, quello dell'integrazione tra attività di formazione, attività di lavoro e università. Lanciai un progetto dalla scuola al sistema formativo integrato. Prendemmo un'importante iniziativa (Giuliano Cazzola faceva parte del comitato scientifico e diede una grande mano in quest'operazione). Gli istituti tecnici e professionali, quelli che hanno fatto grande Bologna e l'Emilia-Romagna, avevano attrezzature talmente obsolete da licenziare diplomati ormai non più adeguati a operare in un'azienda. Le aziende, quindi, lamentavano di dover formare il diplomato a loro carico per un anno o due.
Poiché nessun comune può permettersi il lusso di aggiornare le attrezzature di un istituto, l'idea fu quella di farlo fare alle aziende. Chiesi alle aziende di fornire le attrezzature per i laboratori, di aggiornarle tutte le volte che fosse necessario e noi avremmo formato i tecnici in grado di ridurre i tempi di formazione.
Inoltre, questi istituti restano aperti di fatto fino a mezzanotte e sono al margine dell'autostrada di Bologna (conoscerete sicuramente Aldini Valeriani): vantaggio aggiuntivo per l'azienda era renderli degli show room. Chiamai l'Olivetti per prima e alcune altre aziende nei settori sui quali gli istituti erano formati e furono firmate delle convenzioni, che partirono benissimo. Il primo incontro avvenne con il direttore dell'Olivetti, che mi chiese di quanti soldi disponessi. Gli spiegai che, contrariamente a quanto avveniva alla SMAU di Milano per esporre le sue attrezzature, avrebbe potuto esporre gratis dalle 4.00 del pomeriggio fino a mezzanotte nei locali dell'amministrazione comunale, che quando avrebbe venduto un'attrezzatura avrebbero pensato alla formazione per l'acquirente gli insegnanti che avevano utilizzato le macchine per formare i ragazzi senza spendere una lira.
Abbiamo lavorato in questo modo con tre o quattro imprese, poi la pratica è finita, ma credo che questo sia il momento di rilanciarla. Sono tante le imprese interessate e che hanno voglia di personale attrezzato. Viceversa, ce ne sono che forse speculano su altri terreni.
Mi sono dilungato, ma ringrazio per quest'opportunità perché si tratta di proposte di cui più volte abbiamo detto. Perché non lanciamo una proposta che vada in questa direzione? In questo modo finirebbero le diatribe e i distinguo. Facciamo assieme un'operazione che cambi il Paese, formi i ragazzi e ci rimetta a competere a livello internazionale.
La seconda considerazione che vorrei fare riguarda la questione di AlmaLaurea. Il presidente l'ha ricordata, io ho dovuto correre molto in fretta su questa partita,


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richiamando il contributo della Commissione e il documento. Voglio ricordare due aspetti importantissimi, che mi piacerebbe fossero assunti non solo dal Governo, ma da tutto il Parlamento come di grande peso. AlmaLaurea non è soltanto una banca dati dei neolaureati. In questi 17 anni di attività abbiamo sviluppato, e funziona molto bene, una vera e propria anagrafe delle professioni.
I laureati, infatti, sono invitati periodicamente, anche attraverso interviste telefoniche, ad aggiornare il curriculum. Il presidente Cazzola ha ricordato che abbiamo cercato, per fare un esempio, il laureato che lavorava da anni sul teatro Kabuki, che conosceva il giapponese, che aveva esperienze informatiche e via di questo passo. Ne abbiamo trovati, in realtà, 12. In particolare, ci siamo soffermati sulla laureata che sta svolgendo un lavoro da receptionist in un alberghetto di Ostuni, in Puglia, proprio per dimostrare la scarsa valorizzazione del capitale umano prodotto.
La ricerca dimostra che le imprese italiane e straniere hanno una formidabile possibilità di individuare esattamente le persone di cui hanno bisogno, con esperienze già maturate a prescindere dal fatto che si siano laureate al Politecnico di Torino o a Catania, o a Messina, o a Bologna.
Cercano, infatti, come abbiamo fatto recentemente con Unioncamere a Bologna da poco, il project manager che abbia lavorato in quel ruolo per almeno due anni e sappia il russo, l'inglese, che abbia conoscenze informatiche e sia disposto a trasferirsi, anche con la residenza. Lo trova e non paga il servizio.
Abbiamo ricevuto dei riconoscimenti. Mi pare che abbiamo messo in circolazione, anche con giusto orgoglio, qualche articolo apparso sulla stampa internazionale più prestigiosa. Uscire sul Times Higher Education col titolo che avete visto è, certamente, una cosa non frequente.
Ora, da qualche tempo ci sono dei problemi col Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Ho incontrato il Ministro assieme al presidente un mese fa e abbiamo riconosciuto ambedue che, se l'obiettivo comune, e non ce ne sono altri, è di dare maggior lavoro ai nostri giovani, maggiore appoggio alle imprese che hanno bisogno di capitale umano serio, e far decollare il Paese, non possiamo che collaborare.
AlmaLaurea ha voluto dimostrare la sua volontà di collaborazione. Il «Collegato lavoro», approvato a novembre dell'anno scorso, faceva obbligo alle università di mettere i curricula dei laureati almeno in una forma sintetica ciascuna nel proprio sito. All'inizio non abbiamo potuto fare a meno di immaginare che questo ci avrebbe messo in difficoltà, ma siamo portati a pensare in positivo e abbiamo fatto presente al Ministro Sacconi che per il ministero per le 64 università di AlmaLaurea, anziché costringerle a inventarsi un sistema faticoso, costoro e così via, avremmo provveduto noi, gratis ovviamente.
Spero, quindi, fortemente che queste difficoltà, che forse nascondono altre cose - ma spero di no - si risolvano facilmente perché il Paese ha bisogno di iniziative come queste. Inoltre, il fatto che sempre più frequentemente ci sia chiesto di realizzare sistemi analoghi in altri Paesi europei ed extraeuropei ci riempie davvero di orgoglio, ma ci dice anche che questa è la strada giusta che è necessario che l'intera Europa intraprenda.
Fondamentale, infatti, è stato offrire una risposta di sistema ai problemi delle imprese, delle libere professioni e delle università, evitando che ciascuna costruisca il piccolo mercatino locale, che non ci fa fare dei grandi passi avanti in questo settore.
Damiano ricordava, giustamente, la convergenza con altre iniziative: per carità! Abbiamo deciso di battere solo ed esclusivamente questa strada. Di polemiche potremmo farne tante, ma non ci interessano. L'interesse comune è realizzare questo elemento. Aiutateci anche voi, per cortesia.
Damiano ci ricordava, a proposito della percezione virtuosa studio uguale lavoro, che non serve più studiare. Tuttavia,


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l'obiettivo che l'Unione europea si è data per gli anni 2020 è quello di una società della conoscenza, fissando dei livelli di presenza di laureati da cui noi siamo distanti anni luce. Mi pare che si parli del 40 per cento dei laureati nella fascia di età di popolazione fino ai 35 anni: noi oggi siamo al 19 per cento. È chiaro che non possiamo fare a meno di investire su questo terreno di più e meglio.
D'altra parte, ci sono ancora due sottolineature che mi paiono importanti: quando si parla di disallineamento, tanti aspetti sono reali, ma non dobbiamo dimenticare che i nostri ragazzi all'estero ci vanno ed, evidentemente, non sono disallineati, mentre i ragazzi stranieri laureati che, invece, arrivano in Italia, sono molto pochi.
Allora, se le cose stessero in questi termini, ma abbiamo già dimostrato che fonti internazionali dicono che le cose non stanno in modo così grave, noi non avremmo il saldo negativo di fronte al quale siamo. Per ogni ragazzo che entra, noi ne portiamo fuori uno e mezzo. Questo è, quindi, un elemento che non nasconde il problema, ma in qualche modo ci obbliga a guardarlo meglio, più in profondità, evitando ancora una volta questa guerra di luoghi comuni che indicano che non siamo in grado di approfondire gli aspetti fondamentali.
Sul mismatch il professor Ferrante, nominato dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca nel comitato scientifico di AlmaLaurea, potrà indicare ciò che ha avuto modo di approfondire un paio d'anni fa proprio con la documentazione AlmaLaurea. Il professor Antonelli interverrà quindi su un altro argomento avanzato nei vostri interventi.

FRANCESCO FERRANTE, Rappresentante del Consorzio universitario AlmaLaurea. Vi ringrazio per le domande relative al disallineamento perché credo che offrano l'occasione di puntualizzare alcuni aspetti che non è stato possibile approfondire.
Credo che sia opportuno, intanto, dire che è molto difficile misurarlo nelle sue diverse dimensioni, quindi trovo spesso superficiali analisi che presuppongono sia facile misurarlo e fornire delle indicazioni di policy. Le comparazioni internazionali, infatti, hanno questo problema perché si basano a volte su indicatori diversi che non consentono di effettuare confronti.
Penso che il tema del rapporto tra formazione e disallineamento sia centrale tra i temi affrontati oggi e tra quelli relativi agli interventi di politica del lavoro. Se, infatti, analizziamo i dati, ci rendiamo conto che il disallineamento è fortemente collegato all'assenza di formazione in ingresso. Ci dicono anche che nel nostro sistema produttivo si investe poco in formazione, anche in formazione d'ingresso, al di là delle competenze possedute dai diplomati e, soprattutto, dai laureati. Il problema deve essere affrontato e non può comportare l'idea, che ritengo sbagliata perché nell'esperienza internazionale le cose non funzionano così, che debba essere la scuola o l'università a fornire la formazione specifica che consente al laureato o al diplomato di entrare immediatamente nel sistema produttivo. A mio avviso, questo sarebbe un errore.
Formare, infatti, un diplomato o un laureato immediatamente fungibili nel sistema produttivo significa formare un individuo che, probabilmente, a causa della dinamica tecnologica, dell'obsolescenza delle competenze, nel giro di pochi anni non sarà più un buon lavoratore. Credo, quindi, che la questione formazione in ingresso sia centrale.
Ne consegue che va affrontato un problema in termini di misure di intervento. Si tratta di una materia complessa, mi rendo conto, e bisogna affrontare anche la questione di chi deve finanziare questa formazione. Sappiamo che si tratta di un tema anche molto discusso nella letteratura economica a partire dal fatto che noi riteniamo, venendo dal mondo della formazione, che forse è inappropriato pensare, appunto, che questa formazione di tipo specialistico debba essere fornita direttamente dalla scuola e dall'università.
L'altra questione, anch'essa legata alla formazione, si collega a quella della mancanza di diplomati nel settore tecnico-professionale.


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È una questione importante anche perché il dibattito in questi ultimi due anni si è basato su dei calcoli di questo gap che io ritengo abbastanza discutibili. Il grafico normalmente mostrato, che dovrebbe indicare la presenza di un deficit di diplomati tecnici-professionali, si basa sul confronto tra la domanda di diplomati tecnici-professionali delle indagini Excelsior e il numero di diplomati «sfornati» dalle scuole superiori in quell'anno.
Ora, questo dato dimentica che esistono 900.000 disoccupati con diploma nel mercato del lavoro. Allora, o le imprese ritengono che, di questi 900.000, i disoccupati con diploma almeno 500.000 saranno col diploma tecnico-professionale, o che questi diplomati non possono assolutamente essere riassorbiti e rioccupati, la qual cosa mi preoccupa assai perché questo significa, evidentemente, immaginare che queste persone non abbiano le competenze adatte e si tratterebbe di 500.000 persone. Può trattarsi di un problema ancora diverso: come è stato in parte prima evidenziato, vi è un differenziale di costo tra il neodiplomato e il diplomato con esperienza che rende non conveniente all'impresa assumere un diplomato che abbia anche l'esperienza già pregressa, che quindi forse potrebbe anche essere valorizzato.
Bisogna porsi come problema come mai le imprese, legittimamente, affermano di avere difficoltà a trovare dei diplomati quando, contemporaneamente, abbiamo un tasso di disoccupazione di diplomati dell'ordine dell'8,5 per cento. Ancora una volta, probabilmente, la soluzione è trovare degli strumenti che consentano alle imprese di formare i lavoratori in età più adulta.
L'ultima questione che pongo alla vostra attenzione, e qui concludo perché credo che non resti molto tempo per i miei colleghi, è che il fabbisogno di formazione cresce con il livello di istruzione - questo è un dato valido in tutto il mondo - e la produttività della formazione con il livello di istruzione. Questo significa che il nostro gap in termini di investimenti di formazione in qualche maniera si correla a quello in termini di livelli di istruzione della forza lavoro, e quindi le due questioni vanno affrontate assieme.

GILBERTO ANTONELLI, Rappresentante del Consorzio universitario AlmaLaurea. Sono state poste alcune domande complesse che credo vadano al cuore della questione facendo riferimento proprio alla complessificazione dei mercati del lavoro cui ci troviamo di fronte.
Poiché non c'è tempo per rispondere adeguatamente, mi riservo di farvi avere della documentazione prodotta in AlmaLaurea proprio ragionando su questo tipo di percorso. Devo dire che, a fronte del timore che possa affermarsi un'idea in cui si segnala che non serve più studiare, c'è una preoccupazione parallela, quella che la conventional wisdom di Albright torni di moda, per cui appunto l'unico modo per stimolare la produttività dei lavoratori è usare i canali della disoccupazione.
Vedo una forte correlazione tra queste due idee e segnalo, appunto, come del resto fa la nota che abbiamo distribuito, come non si possa, in realtà, parlare di un mercato del lavoro. Dovremmo imparare anche dagli insegnamenti della crisi e dagli errori commessi in passato, che devo dire vanno al di là degli schieramenti. Posso citare, per interagire con l'onorevole Santagata sul Sessantotto, che allora si commise un errore drammatico sull'interpretazione della disoccupazione intellettuale aiutando una separatezza tra sistema formativo e sistema produttivo che adesso viene riproposta con altri caratteri.
Di questo tappo nell'attenzione ai dati empirici si trova riscontro sia sul fronte delle imprese sia su quello della scuola. Ho esperienza di insegnamenti in vari master per dirigenti scolastici e vi assicuro che discutere di capitale umano è molto difficile a causa di un tappo culturale che porta a individuare o la necessità di risultati immediati del percorso formativo o il fallimento di tutto il percorso.
Siamo, invece, in presenza, in generale, di mercati del lavoro che si stanno frammentando, come si è frammentato e si sta


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frammentando il processo di produzione, e a mercati del lavoro che accompagnano le catene del lavoro, che si realizzano nelle diverse produzioni su scala globale con caratteristiche profondamente diverse. È questa la grana fine che bisogna affrontare. In questo AlmaLaurea, insieme ad altre fonti importanti in Italia, può dare un contributo sicuramente significativo.
Dobbiamo anche imparare a ripensare alle categorie. Che cosa producono l'università e la scuola? Un bene pubblico? Un bene privato? Forse è giunto il momento di parlare di un bene sociale, che ha caratteristiche diverse dal bene privato puro e dal bene pubblico puro.
Quanto al disallineamento, ci sono aspetti patologici, come prima si segnalava, e aspetti fisiologici, proprio perché la formazione non è completata al termine del percorso formativo sia del diploma sia della laurea. Vi è una pipeline formativa che va seguita attentamente e, se ci sono forme di disallineamento, bisogna anche pensare, come si diceva, al fatto che vi possono essere anche delle specificità.
Pensiamo al lavoro autonomo: quanta parte dell'occupazione è coperta dal lavoro autonomo in Italia? Sicuramente, al di sopra del 20, forse 25 per cento. Questo è un caso in cui la Legge di Say domina: ogni offerta crea la propria domanda. Se la persona è laureata, organizzerà un tipo di lavoro con produttività, con risultati diversi rispetto a chi non è laureato, sarà imprenditrice di se stessa.
La stessa cosa vale per il mercato europeo. I mercati del lavoro si aprono nel tempo e molti dei nostri giovani, magari forse i più privilegiati, stanno esplorando con forza la dimensione internazionale. Anche su questo bisognerebbe avere attenzione.
Quanto alle ricette, è difficile ragionare. Nel testo che abbiamo distribuito vi sono alcune proposte concrete. Io insisterei sul fatto che usciamo da un sistema in cui le due dimensioni dell'organizzazione economica della conoscenza potevano viaggiare autonomamente l'una dall'altra, la scuola come agenzia formativa specializzata, le imprese con un grande contributo formativo, che non dobbiamo dimenticare, nell'ambito dei sistemi locali di produzione, della formazione tacita che ci portava anche nelle classifiche internazionali a recuperare scollamenti fortissimi legati alla considerazione della sola formazione esplicita.
Quella fase, però, è terminata. La formazione, l'organizzazione della conoscenza interna all'impresa e quelle esterna devono procedere sistematicamente. Credo che, nella individuazione di indicatori di misura del capitale umano dal lato della domanda di lavoro, quindi delle imprese, questo sia uno strumento fondamentale per intervenire, mentre le politiche fatte finora sono prevalentemente politiche di offerta.
La frontiera nuova è quella della domanda e su questo credo ci sia molto da fare. Se avrete la bontà di leggere il materiale che vi invieremo, troverete delle proposte già sul piatto.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti di AlmaLaurea e i colleghi intervenuti. Credo che abbiamo svolto un discussione proficua.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,45.

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