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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(III e IV)
2.
Martedì 26 maggio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Narducci Franco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, IN SEDE REFERENTE, DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1213 CIRIELLI E C. 1820 GAROFANI, RECANTI «DISPOSIZIONI PER LA PARTECIPAZIONE ITALIANA A MISSIONI INTERNAZIONALI»

Audizione del dottor Alessandro Politi, direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma:

Narducci Franco, Presidente ... 3 9 10
Politi Alessandro, Direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma ... 3 10
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 9

ALLEGATO: Documentazione prodotta dal direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma ... 11
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: (Misto-RRP).

[Avanti]
COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 26 maggio 2009


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA III COMMISSIONE
FRANCO NARDUCCI

La seduta comincia alle 13,50.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del dottor Alessandro Politi, direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame in sede referente delle proposte di legge C. 1213 Cirielli e C. 1820 Garofani, recanti «Disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali», l'audizione del dottor Alessandro Politi, direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma.
Do la parola al dottor Politi, che saluto e ringrazio per la sua presenza.

ALESSANDRO POLITI, Direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma. Rivolgo un saluto al presidente e a tutti i membri delle Commissioni riunite esteri e difesa. Innanzitutto, mi sento onorato di partecipare a questa audizione. So che il momento è difficile dal punto di vista politico, sia per la vicinanza dell'appuntamento elettorale, sia perché il momento che precede la stagione estiva è sempre particolarmente gravoso. Dunque, cercherò di non abusare della vostra pazienza.
È mio intendimento illustrarvi in modo rapido non tanto quello che viene fatto da Nomisma, quanto in quale contesto strategico e di politica internazionale la sua azione si colloca. Quindi, dirò cosa stiamo facendo e cosa potremmo idealmente fare, in futuro, sulle missioni internazionali. Ovviamente, al termine di questa rapida presentazione, sarò a vostra completa disposizione per qualunque domanda.
Un aspetto che costantemente cerco di ricordare ai miei colleghi in Italia è che lo scenario minimo per un Paese del G8 (o fosse anche del G14 o del G20) è costituito dal mondo intero. Infatti, il mondo - e per dimostrarlo non c'era bisogno dello tsunami finanziario, che peraltro noi dell'osservatorio avevamo già previsto nel 2006, anche se allora i vostri colleghi Cossiga e Ranieri non credettero alle nostre previsioni - non solo è interconnesso, come ben sappiamo, ma rappresenta la dimensione minima per potersi posizionare in modo ragionevolmente preciso come Paese.
Oggi non basta far parte di un'alleanza in una regione. Infatti questa alleanza e questa regione rappresentano una frazione minima di un mondo assai più vasto e, soprattutto, molto più mobile di un tempo.
Se guardate la slide «Quadro delle missioni Mindife» trovate il quadro - che conoscete benissimo - offerto periodicamente dal Ministero della difesa, in merito alle nostre missioni. Credo che ormai questo quadro sia consolidato da una quindicina d'anni (quando fu impostata


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per la prima volta questa cartina lavoravo con Andreatta). Come potete vedere, sono riportate le cifre degli effettivi schierati nei vari teatri: Balcani; Afghanistan, dove ovviamente la preponderanza è NATO; Libano, dove sotto la bandiera ONU la maggioranza delle truppe è europea; Africa (Repubblica democratica del Congo, Sudan e dintorni, Marocco e Somalia). In basso troviamo - a livello di cifre significative, perché dopo si scende non alle centinaia di effettivi, ma alle decine - Israele, l'Autorità nazionale palestinese e il Sinai. Questi Paesi si potrebbero anche aggiungere al Libano, da un punto di vista concettuale, per ovvi motivi. Le prime tre missioni coprono l'88,7 per cento degli effettivi schierati.
Il contenuto di questa cartina dell'Unione europea è risaputo perché è stata già presentata dai miei colleghi dello IAI (Istituto affari internazionali), dopo averla rielaborata da una preesistente e aver aggiunto un'utile legenda. Vediamo, però, che cosa significa questa cartina nel concreto.
In Africa - Repubblica democratica del Congo, Ciad, Repubblica centroafricana, Guinea-Bissau e Somalia - a livello di Unione europea, abbiamo 6.872 effettivi. Faccio presente che quando l'Italia partecipò con un contingente militare alla seconda guerra del Golfo - quella del Kuwait, per intenderci - un istituto americano disse molto sbrigativamente che noi europei avevamo inviato meno del 10 per cento delle forze schierabili, calcolandole però solo sul parametro del Kuwait. Ebbene, oggi questa situazione è nettamente migliorata, perché abbiamo molti più uomini - le cifre vi sono state già fornite nella precedente audizione dai colleghi dello IAI - e tutto questo senza avere la nazione guida americana, che in contesto NATO risolve tanti problemi. C'è stato, quindi, un miglioramento obiettivo delle capacità dell'Unione europea di schierare truppe fuori dal suo territorio, nonostante i problemi a voi ben noti.
Per quanto riguarda l'Italia, colpisce il fatto che c'è una leggera priorità per i Balcani. E qui potremmo chiederci il perché. Da un lato, infatti, i Balcani sono un caso chiuso: chiuso male, ma chiuso! Nei Balcani non si spara più. La situazione è disastrosa dal punto di vista del crimine organizzato e lo vediamo anche per Paesi ben più presentabili del Kosovo, come la Croazia. Tuttavia, è una vicenda dalla quale la NATO sta «disinvestendo» abbastanza rapidamente.
Ovviamente, l'Unione europea, svolgendo il ruolo di attore marginale, entra in questi teatri marginali e riempie quel vuoto. Alla domanda su quanto sia veramente prioritaria la nostra presenza nei Balcani lascio il punto interrogativo, anche se non c'è alcun dubbio che i Balcani sono i nostri dirimpettai.
In Africa c'è una notevolissima assenza. Le cifre, per quanto siano un indicatore un po' crudo, lo dicono chiaramente, fermo restando che parliamo solo di missioni all'estero.
In Libano abbiamo, invece, una missione dell'Unione europea travestita da ONU. I due terzi delle nazioni dell'Unione europea, più diverse nazioni del continente europeo, ma non appartenenti all'Unione europea, sono presenti in questa missione. Da questo punto di vista, la missione è un successo. È una missione alla quale manca soltanto un comando europeo per esprimere completamente la sua valenza politica.
La cosa che ci colpisce, in questo rapido riassunto, è la domanda di quanto sia chiaro tutto quello che abbiamo fatto nelle sue implicazioni strategiche: ciò è stato formulato in un documento organico? Questo è uno dei problemi da affrontare quando bisogna approvare una missione. Non occorre che si riempiano dei tomi; sono sufficienti dei documenti chiari.
Una delle affermazioni che ho sentito pronunciare da anni da amici giornalisti, per di più di sinistra - e che quindi dovrebbero essere pro terzo mondo in automatico - è che l'Africa non interessa a nessuno. Io non ne sono così sicuro. Perché gli Stati Uniti e la Cina stanno facendo la seconda corsa all'Africa, un secolo dopo la prima? Perché la Francia


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sta tornando sulla scena, dopo essere stata buttata fuori senza cerimonie da Bill Clinton con la crisi del Ruanda e del Congo? Il Ruanda è stato lasciato andare per spazzare l'ultima presenza europea post-coloniale di rilievo in Africa. Del resto, la stessa cosa è successo con noi in Somalia. Nessuno ci ha fatto sconti.
Perché i tedeschi, che sono molto più discreti dei francesi, coprono quasi tutto il continente africano con loro assistenza? Soltanto il Regno Unito è nella nostra situazione e non credo che sia un gran vantaggio trovarsi in una situazione di debolezza su questo scacchiere.
La slide «Africa, Africom, Ghana» è un esempio di cartina che noi dell'Osservatorio facciamo per riassumere in un colpo d'occhio un teatro strategico. Presso le segreterie delle Commissioni ho lasciato a disposizione una copia elettronica del documento. Le bandierine rosse sono quelle della Cina e indicano le varie missioni diplomatiche cinesi effettuate nel giro di un paio d'anni.
Le bandierine americane indicano i Paesi in cui gli americani mantengono una serie di rapporti e solo da poco vi è un ritorno dei francesi, soprattutto in Libia, dove erano totalmente assenti. I britannici praticamente non ci sono.
Vi è poi un nuovo attore, l'Unione africana, che si sta cimentando con crisi difficilissime. È ingeneroso giudicare l'Unione africana in base alla gestione di queste crisi, ma bisogna dire che sta andando malissimo. Del resto, è andata male anche a organizzazioni ben più robuste dell'Unione africana. Infine, abbiamo la presenza dell'ONU e la presenza europea, che è nuova solo in questo particolare scacchiere, dal momento che nella Repubblica democratica del Congo essa è stata piuttosto continua.
Le zone rimanenti sono aree di conflitti, di disintegrazione politica e di rischi di collasso, come nello Zimbabwe e nel Kenya, anche se, in quest'ultimo caso, adesso la situazione è un po' migliorata.
D'altra parte, AFRICOM, il Comando strategico statunitense per l'Africa, rappresenta una questione in sospeso, poiché finora nessuno Stato africano lo ha voluto, anche a causa della netta opposizione di Sudafrica, Egitto e Nigeria. Tuttavia, alcuni echi della stampa africana sussurrano della possibilità che il Ghana diventi il nuovo Golfo - petrolifero e non - dell'Africa, quindi possibile sede di AFRICOM. Per carità, si tratta ancora di ballons d'essai. Tuttavia, è interessante sapere che prima o poi il Comando, che per il momento ha sede a Stoccarda - e potrebbe benissimo restarci, perché dal punto di vista tecnologico questo non cambia nulla - si dovrà spostare e ciò rappresenterà un cambiamento dal punto di vista politico e della presenza concreta.
In conclusione quello che finora si è visto, nei documenti prodotti da parte governativa, è uno «storico-diplomatico» che giustifica la missione; in altre parole ci viene detto che «si è sempre fatto così» oppure che «abbiamo ereditato questa missione, quindi bisogna continuarla». Insomma conoscete meglio di me questo tipo di dinamica.
Ritengo, invece, che sarebbe utile che il Governo, quando arriva a discutere una missione, chiarisca le proprie intenzioni strategiche, che peraltro non sono un segreto. Infatti gli aspetti veramente segreti sono pochi e comunque sono desumibili se ci si sforza di capire cosa vuole fare il Paese o almeno il Governo. È utile invece che anche i parlamentari capiscano dove andiamo, perché ci andiamo e perché continuiamo a starci.
Chiaramente è più facile giustificare una missione dicendo che ci siamo già e non possiamo ritirarci. Tuttavia la motivazione costituita dal fatto che non possiamo ritirarci si verifica soltanto in missioni di altissimo profilo. Per esempio, l'Afghanistan è tema di un dibattito la cui dinamica mediatica parte regolarmente oltre Atlantico, poi viene un po' «rimulinata» qui da noi e così va avanti. Anche questo «rifriggere» notizie perché gli altri le propongono è un problema, anche se riguarda più che altro i commentatori e i media.
Passando ora al contesto strategico, definirei questo attraverso tre termini:


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Cindoterraneo, catena strategica marittima e trapezio strategico (questo costituisce il minimo che l'Unione europea deve realizzare se vuole contare e vuole non tanto essere un attore di prestigio, quanto occupare uno spazio con una sua capacità decisionale e libertà d'azione politica).
Il Cindoterraneo è rappresentato, nell'omonima slide, dall'area circoscritta dalla linea blu. Questo non rappresenta più il Mediterraneo di una volta, il mare nostrum chiuso, né il Mediterraneo allargato della Marina, ma un flusso di merci che partono dai porti dell'Estremo Oriente, dall'India, dal Golfo arabico e dall'Africa e, infine, arrivano a Gioia Tauro (su questo non mi soffermo perché già sapete tutto).
Fra cinque anni, se le previsioni di Al Gore sullo scioglimento dei ghiacci dell'Artico sono vere, ci sarà un calo stimato del 30 per cento delle merci che approdano da noi passando per Suez; infatti, si arriverebbe prima ai porti britannici passando da nord. Ecco perché è sempre utile avere una carta del mondo sottomano: certe situazioni si colgono subito quando si ha in mente una visione globale.
I mari formano - la cartina della slide «La catena strategica marittima» permette solo una visione in piano, mentre su un mappamondo si vedrebbe più chiaramente - una catena di comunicazione: da una parte, molto compresso sulla sinistra, c'è l'Oceano Atlantico, poi ci sono il Mediterraneo, l'Oceano Indiano e l'Oceano Pacifico.
In tale cartina ho tracciato questi anelli perché oggi l'Oceano Indiano è un'estensione dell'Oceano Pacifico, rispetto agli interessi americani. D'altra parte, questa è stata la funzione storica dell'Oceano Indiano da almeno trecento anni, dal momento che esso rappresentava il transito dall'Inghilterra all'Impero d'India (e a qualche propaggine pacifica per i britannici).
Oggi, questo scenario potrebbe cambiare sia perché il Cindoterraneo estende questo flusso dal Pacifico fino al Mediterraneo, sia perché l'Oceano Indiano potrebbe diventare un oceano non più «eterodiretto». Con la crescita di India e Iran, infatti, esso potrebbe diventare più «indiano» rispetto alla sua tradizionale funzione di transito. Ovviamente, uso il condizionale perché questo dipende dai progressi che registreranno questi due Paesi e dall'andamento dei negoziati tra gli Stati Uniti e l'Iran. Un negoziato di successo può creare un'architettura regionale nella quale gli Stati Uniti fungono da primus inter pares e gli altri due Paesi che contano hanno un ruolo completamente diverso. Certamente, queste configurazioni non si determineranno domani, ma ciò che accade all'improvviso oggi è stato - noi lo sappiamo dal Manzoni - preparato qualche anno prima.
Queste sono, quindi, le responsabilità minime di un'Unione europea che voglia occuparsi di ciò che le è vicino. Badate, non stiamo giocando a Risiko! Ci stiamo occupando di contesti concreti, dove peraltro gli europei sono stati presenti: FYROM, la Georgia, l'Est europeo confinante, il vicino estero russo, la Groenlandia (una colonia danese che potrebbe raddoppiare di superficie utile se l'Artico si dovesse sciogliere) e l'Africa. In quest'ultimo continente noi ci siamo, sebbene in passato fossimo più presenti.
Naturalmente, questo scenario presuppone un'Europa che funzioni. Dobbiamo, però, capire che questo contesto è cambiato molto e che ciò che prima era una stella polare ora è diventato una stella nova che è esplosa e, anche se ne vediamo ancora la luce, non c'è più.
Innanzitutto, gli USA non sono più il Paese numero uno. Intanto occorre vedere come potranno riuscire a realizzare un piano di aggiustamento strutturale della loro economia; infatti, non ho mai visto durare a lungo una superpotenza indebitata. Del resto, «who pays calls the tune», dicono gli inglesi, cioè chi paga chiede la musica. Obama sa benissimo chi paga i suoi programmi d'armamento: i cinesi, i giapponesi, gli indiani, i russi. In sostanza, oggi contano più i soldi che le bombe atomiche e per questo motivo, il presidente statunitense ha promesso di dimezzare


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il debito entro la fine del suo mandato. Si tratta di un ottimo proposito e forse ce la farà.
Per quanto riguarda la NATO, essa è un'organizzazione che funziona. I miei colleghi dello IAI parlano - in verità se ne discute molto anche in ambito euroatlantico - di una NATO globale. Occorre, però, capire che nella NATO non si fa più politica. È un'organizzazione utile nella quale si realizzano combinazioni per determinate operazioni; è una struttura che logisticamente funziona e, forse, si ammoderna. Tuttavia, occorre notare che la NATO non effettua quasi più grandi programmi comuni di armamento - il JSF (Joint Strike Fighter) non lo realizza la NATO, eppure potrebbe essere come il G91 di tanti anni fa, ovviamente molto più tecnologico - perché è morta il 12 ottobre del 2001.
Per noi cresciuti, più o meno a lungo, durante la guerra fredda, l'articolo 5 del Trattato di Washington era quello supremo. Era un articolo di guerra anche se la formulazione era molto più blanda e, difatti, ingannevole. Ebbene, noi abbiamo invocato l'articolo 5 e gli americani ci hanno detto chiaramente che non saremmo andati in Afghanistan come NATO; saremmo andati uno alla volta, ma non come NATO. A questo proposito, ricordo ancora i commenti molto sprezzanti del mio collega Carlo Jean, che riportava voci americane secondo le quali l'Europa era una vecchia signora inutile. L'intera gestione (otto anni) dell'amministrazione di Bush è andata esattamente in questa direzione. Molto coerentemente, devo dire.
Che cosa vuole fare Obama? Vuole resuscitare la NATO dal punto di vista politico? Per ora non vedo segnali in questa direzione. Posso augurarmeli, ma non li vedo.
Ricapitolando, dunque, la NATO c'è e continua a svolgere la sua funzione, ma a Bruxelles non si tiene più una discussione politica seria. Per esempio, il dibattito sul sistema di difesa antimissile avrebbe dovuto essere sviluppato nell'ambito della NATO, esattamente come accadde per gli euromissili nei nostri anni più verdi. Tuttavia, non è stato così e la discussione, sostanzialmente, ha avuto una dimensione limitata a livello bilaterale o trilaterale.
L'ONU è figlia di Yalta, e si vede. Peraltro, non ha riformato nulla. Infine, da europeo, nemmeno europeista, devo guardare in faccia la realtà: l'Unione europea è in crisi profonda.
Nella slide «Europa, situazione in sintesi» è riportata un'altra delle cartine sintetiche che realizziamo per capire un teatro complesso: le bandierine ONU indicano i Paesi che sono presenti in Libano, mentre le fiammelle indicano i rischi di terrorismo. Tralascio tutto il resto, per attirare la vostra attenzione sulle due grandi croci rosse su fondo nero. Al riguardo, spero di essere una Cassandra che si sbaglia. Tuttavia, richiamo la vostra attenzione sul fatto che il Belgio sta vivendo una situazione «pre-jugoslava»: un'intera generazione non parla più la lingua dell'altra comunità e i militari - vi esorto a fare una chiacchierata con i militari belgi - si comportano come facevano i loro colleghi jugoslavi, con le stesse preoccupazioni che questi ultimi avevano quando la Jugoslavia era ancora unita.
Dicono che il Kosovo non è un precedente, ma perché i fiamminghi non dovrebbero prenderlo come tale e autodeterminarsi? Per loro questo aspetto è estremamente chiaro; infatti, alcuni sondaggi mostrano che i Valloni vogliono annettersi alla Francia. Certo, si potrebbe pensare che si tratta della libera dinamica di uno Stato; in altri termini, di una separazione consensuale. Peccato, però, che questa divisione avvenga dentro l'Europa e non prima dell'ingresso nell'Unione come è stato per la Cecoslovacchia.
Per il momento, l'appuntamento con la crisi è rinviato, ma fino a quando? Per fare una stima prudente - non si può essere ottimisti a tutti i costi - potremmo dire fino al 2012 o al 2013. Ciò nonostante, se il Belgio esplode, Bruxelles - la capitale europea - rimarrà appesa nel nulla e incapace di gestire una situazione del genere. Ovviamente, questo vale per lo stato attuale delle nostre conoscenze, ma può anche darsi che - come mi auguro


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vivamente - la RELEX (Direzione generale per le relazioni esterne della Commissione europea), Barroso, Solana o il suo successore dimostrino, improvvisamente, il dinamismo necessario per gestire la situazione.
Che cosa può succedere, però, se questa crisi esplodesse? In un programma congiunto con l'ufficio ricerche e studi di Alenia Aeronautica, abbiamo prefigurato una serie di scenari di disintegrazione dell'Europa, cercando di prevedere come sarà il mondo tra venti o trenta anni. Infatti, dal settore commerciale ci è stata rivolta una domanda molto concreta: se l'Europa si evolvesse, chi è che comprerebbe e che cosa?
Un primo scenario (slide «Scenario1») è quello del «minieuro a strati», che prevede un nucleo politico duro - un maggiore contenuto politico tuttavia non implica un'Europa più integrata - indicato con gli euro in rosso; un nucleo medio, rappresentato dagli euro in giallo, che presenta una coordinazione economica, (migliore, ma non di molto, di quella attuale) e, infine, la zona esterna monetaria, ovvero nulla. È, dunque, evidente che il resto, non dico del sogno, ma del progetto europeo finisce.
Tuttavia, potrebbe capitare anche di peggio, ovvero che l'euro perda qualunque valenza seria (secondo lo scenario indicato dalla slide «Scenario2»). Se devo guardare all'Europa come una zona geopolitica, vedo tre grandi zone che contano: l'area oceanica, quella delle grandi piane orientali e quella mediterranea o del Cindoterraneo.
Del resto, se torniamo di nuovo al planisfero della slide «Il mondo: teatro minimo G8», vedete che l'Europa è un'insignificante appendice euroasiatica. Ebbene, che cosa ha permesso ad essa per mezzo millennio di diventare grande e importante per tutto il mondo, dai tempi di Carlo V? La capacità di saper cavalcare queste tre zone geostrategiche che si intersecano nel continente europeo: il Mediterraneo, l'Atlantico e le grandi piane. Ecco perché l'Europa è diventata grande. Ecco perché, prima del 1914, cinque capitali decidevano il destino del mondo.
Tuttavia, se essa dovesse perdere la capacità di tenere insieme queste zone, allora anche l'Europa sarebbe spartita. Questo è il problema. Non parliamo di un futuro improbabile, ma di qualcosa con cui dovremo fare i conti tra poco. D'altra parte, è dal 1989 che abbiamo l'opportunità di realizzare un'Europa intesa come spazio politico significativo per gli europei, quindi libero e capace di autodeterminarsi, ma abbiamo perso tempo prezioso.
L'alternativa alla disintegrazione (slide «scenario A») viene chiamata «a mosaico» perché si impiega l'acquis europeo, la leadership è affidata a una troika per sei anni, il Parlamento europeo nomina la Commissione, ma le aggregazioni sui progetti sono molto più pragmatiche. Si tratta, infatti, di un'Europa in cui la diplomazia si muove con la rapidità di Facebook e non con i rituali delle cancellerie attuali. Insomma, non è più una costruzione piramidale, confederata o federata attorno allo Stato nazionale. D'altronde, oggi, lo stesso Stato nazionale devolve la sovranità verso il basso e non verso l'alto.
La crisi dell'Europa non dipende dai tre referendum, che rappresentano i sintomi, bensì dal fatto che gli Stati nazionali - tutti e 27 - non hanno più, da soli, la massa critica per mandare poteri a Bruxelles; ognuno si arrangia come può. Meglio, perciò, un mosaico, che può avere una coerenza, piuttosto che la disgregazione.
Il vecchio multilateralismo di cui abbiamo discusso tutti - non solo qualche italiano nostalgico - in ambito euroatlantico, è morto con il G20 di Londra. Per questa ragione, a L'Aquila potrete vedere un grande numero di riunioni e di vertici con la partecipazione estremamente variabile da parte dei diversi Paesi. Badate che non si tratta di un escamotage creativo della nostra diplomazia: significa riconoscere, nei fatti, anche senza teorizzarlo, che il multilateralismo è finito e che siamo in un'era di multilateralità basata su equilibri fluidi, realizzati da attori più instabili dei bei tempi della guerra fredda e che, quindi, hanno relazioni multilivello simultanee.


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Di conseguenza, con i libici possiamo essere d'accordo sull'immigrazione e sull'energia, ma poi «prenderci a calci» per le zone di pesca; possiamo vendere loro armamenti, ma essere in disaccordo sulla Palestina. Insomma, le relazioni tra i vari attori non sono più coerenti, bensì molto contraddittorie.
Devo dire che noi italiani in questo scenario ci troviamo benissimo, a patto di capire che cosa davvero vogliamo.
Anche l'ordine internazionale o mondiale è finito, poiché presuppone l'egemonia di alcuni Paesi. Non credo che la Cina abbia voglia veramente di investire il suo capitale per essere il nuovo Paese egemone, né per una diarchia. Certo, si parla di «Chimerica», di «duo», di G2, ma io non ne sono affatto convinto.
La Cina ha proposto - è interessante che lo abbia fatto, ma bisogna vedere se la proposta ha le gambe per camminare - una nuova unità di conto internazionale basata sugli Special Drawing Rights, ovvero i diritti di prelievo speciale che sono una sorta di moneta del Fondo monetario internazionale.
Ciò dal punto di vista simbolico - mi sbaglierò, ma gli intellettuali adorano queste interpretazioni - significa passare da una moneta in un sistema dove vige il signoraggio del dollaro a un signoraggio condiviso e corresponsabilizzato per quote proporzionali (un paniere si fa, ovviamente, per proporzioni). Tuttavia, mentre l'ordine deriva da un Paese egemone che lo impone, nel caso di un sistema di riferimento il discorso è diverso: c'è un punto di orientamento, ma quello che conta sono le relazioni, esattamente come nel mercato dei cambi.
Vengo, ora, alla seconda conclusione. Siamo in campagna elettorale europea; ho cercato invano nei siti dei partiti italiani qualche accenno al tema delle missioni. Alcuni parlamentari hanno riflettuto al riguardo, ma si è trattato di singoli casi. Inoltre, devo ammettere che nemmeno i nostri colleghi europei si differenziano da noi - qualche volta fanno di meglio, ma non sempre - e gli stessi Governi, riguardo alle missioni, procedono spesso per una combinazione di inerzia e reazione. Le iniziative, quindi, sono di frequente prese più per istinto politico che per scelta consapevole.
A questo proposito, il processo di ratifica del Trattato di Lisbona è una risposta classica, tuttavia è sufficiente pensare anche alla missione «Alba» o allo stesso Libano. Non c'è stata una riflessione strategica e approfondita. È partita la missione e abbiamo fatto bene. Tuttavia una media potenza che non soppesa, pensando in modo aperto e non convenzionale, questi problemi, rischia di fare il vaso da fiori.
Ho concluso la mia esposizione, ma rimango a vostra disposizione per le eventuali domande.

PRESIDENTE. La ringrazio molto per questa estremamente interessante e, per certi versi, politicamente provocatoria esposizione, che potrebbe innescare un dibattito molto acceso. Tuttavia, poiché alle 14,30 iniziano le votazioni dell'Aula, ci restano ancora circa sei minuti. C'è lo spazio per una o due domande e per una risposta del dottor Politi.

ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Sarò velocissima, in modo da lasciare spazio alle risposte e ad altre eventuali domande.
La prima domanda è la seguente: nel contesto in cui si proiettano gli interessi nazionali ed anche europei, nello spazio Cindoterraneo, quale rilevanza hanno - dai cerchi che lei ha tracciato non mi pare si evinca - le risorse energetiche e, in particolare, il petrolio?
Nel suo documento, infatti, non è sottolineata la rilevanza di un Paese o di alcuni Paesi - in particolare pensavo al Kazakistan - soprattutto in riferimento ai nuovi oleodotti che si stanno costruendo e alle relazioni tra Russia e Cina. Questa rilevanza, nello scacchiere che ha descritto, è senz'altro uno dei punti di riflessione da cui partire per capire dove, come e perché dobbiamo andare in missione.
L'altra domanda si collega a quanto emerso nell'audizione dello IAI. Nella sua


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relazione, il professor Silvestri ha sottolineato in maniera decisa la questione della carenze di risorse, che rappresenta una criticità anche per il nostro Paese, in particolare per quanto riguarda gli armamenti. Nella sua relazione questo elemento è poco considerato o lo è solo in termini negativi, quando afferma, per esempio, che la NATO non provvede più a decidere su sistemi d'arma. Le chiedo, dunque quale sia la rilevanza di questo aspetto nel contesto che ho evidenziato.

ALESSANDRO POLITI, Direttore dell'Osservatorio scenari strategici e di sicurezza di Nomisma. Risponderò in modo sintetico per lasciare spazio ad altre domande.
Sull'Asia centrale abbiamo dato uno sguardo rapidissimo, senza soffermarci sui vari teatri in modo più dettagliato. Stando in Afghanistan, adesso stiamo parlando di «Af-Pak». Tuttavia, nel nostro volume Nomos & Khaos del 2008 parliamo del «cuneo degli -stan». O si guarda quel teatro osservando tutti gli «-stan», ossia i cinque Paesi ex sovietici, più Afghanistan o Pakistan, oppure si corrono due rischi: il primo è quello di essere strozzati logisticamente dai russi (le vie logistiche sono quelle che contano per approvvigionare i nostri); il secondo è quello di destabilizzare alcuni di questi «-stan», che non sono molto più stabili dell'Afghanistan o del Pakistan, ma solo meno noti. Intendo riferirmi a Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Uzbekistan. Alcuni di questi Paesi sono più stabili - un paio - perché hanno risorse energetiche che pagano l'apparato repressivo e di consenso.
Insomma, non siamo ben combinati. Naturalmente, quello che non funziona in Afghanistan prima o poi si ripercuote, anche senza parlare di facili effetti domino, sui Paesi vicini. Questo è un punto che tocca la nostra presenza in Afghanistan in modo pregnante.
C'è, poi, il problema degli armamenti. È assolutamente chiaro che, come europei, abbiamo rinunciato a sviluppare ulteriormente alcuni settori. Pertanto non realizziamo, per fare un esempio, un successore del Typhoon (che un tempo si chiamava EFA). Evidentemente, anche se non è mai stata discussa in modo aperto in nessun Paese europeo, è stata una scelta di grande politica: abbiamo deciso di lasciarlo nelle mani degli americani. Non so perché, ma questa è stata la scelta.
Quello che conta, però, è essere in grado di usare oggi in modo più integrato quello che si ha. I battle group sono una risposta, anche se non sarà brillante. Tuttavia, se non viene portata avanti politicamente e operativamente, sarà un altro esercizio, nel quale la NATO fornisce certe risposte e l'Unione europea ne deve fornire altre che la NATO non fornisce. Quindi, siamo in una situazione non particolarmente brillante, in mezzo a due sedie che si stanno aprendo.

PRESIDENTE. Mi dispiace, ma dobbiamo concludere l'audizione.
Ringrazio il dottor Politi per la documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato), e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,30.

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