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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
1.
Mercoledì 21 ottobre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'EFFICACIA DELLA SPESA E DELLE POLITICHE DI SOSTEGNO ALLE AREE SOTTOUTILIZZATE

Audizione del professor Fabrizio Barca, dirigente generale del Ministero dell'economia e delle finanze:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 2 10 16 20
Armosino Maria Teresa (PdL) ... 13
Barca Fabrizio, Dirigente generale del Ministero dell'economia e delle finanze ... 2 16
Calvisi Giulio (PD) ... 10
D'Antoni Sergio Antonio (PD) ... 11
Duilio Lino (PD) ... 14
Marini Cesare (PD) ... 12

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal professor Fabrizio Barca ... 21
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 21 ottobre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 14,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del professor Fabrizio Barca, dirigente generale del Ministero dell'economia e delle finanze.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'efficacia della spesa e delle politiche di sostegno alle aree sottoutilizzate, l'audizione del professor Fabrizio Barca, dirigente generale del Ministero dell'economia e delle finanze.
Questa audizione fa parte dell'indagine conoscitiva deliberata, a suo tempo, da parte della Commissione. Abbiamo avuto alcune difficoltà ad avviare i lavori dell'indagine: anche questa audizione era in fase di gestazione da parecchio tempo e solo oggi riusciamo ad avere una finestra di tempo utile per poter procedere.
Do la parola al professor Barca per lo svolgimento della relazione.

FABRIZIO BARCA, Dirigente generale del Ministero dell'economia e delle finanze. Innanzitutto, ringrazio per questa opportunità, che arriva con una tempistica straordinariamente positiva, in quanto è atteso a Bruxelles per i primi giorni di dicembre - anche se non è ufficialmente confermato - il primo documento formale di un processo che, come ricorderete dal precedente negoziato comunitario, fu affidato alla Commissione europea: la cosiddetta budget review.
L'impegno che i britannici chiesero per chiudere l'accordo era di non arrivare a discutere di soldi nel corso di tale trattativa, ma di avere un momento di respiro, in cui ragionare sul bilancio europeo. Ricorderete che nella passata occasione ci fu un attacco molto forte in merito, soprattutto alla politica agricola e alla coesione, indicate come politiche arretrate, vecchie, non moderne. Poi, tutto passò con un compromesso che non fu considerato di altissimo profilo, ma soltanto di carattere finanziario.
Durante questi due anni la Commissione ha svolto un lavoro che non si era finora tradotto in un documento. Pare che esso stia per arrivare appunto per il mese di dicembre.
Gli spunti che oggi vi sottopongo derivano, invece, da un rapporto che è stato chiesto al sottoscritto, e che ho prodotto con un grosso team di ricerca a livello europeo, volto a mettere sul tavolo un'ipotesi che rispondesse alla domanda se la politica di coesione serve ancora all'Europa, se è veramente vecchia e, nel caso in cui servisse, se vada riformata o tenuta così com'è. Questa è la domanda alla quale io cercherò di rispondere.
Nella prima pagina di una nota che deposito agli atti della Commissione trovate un riferimento di natura motivazionale, che risponde alla questione se a un'unione di Stati, come l'Unione europea, serva una politica di sviluppo. Mi scuso se lo prendo alla larga, ma il problema è che


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la politica di coesione è diventata ormai, nella testa di molti, una specie di fondo di ridistribuzione fra regioni e Stati nazionali. Se ne è perso il senso politico per l'Europa, e, quindi, il rapporto di cui sopra ha tentato di ritrovarlo sia nella storia dell'Unione, sia nella teoria economica dello sviluppo moderno-contemporaneo.
Le conclusioni sono molto semplici: non esistono unioni di Stati nazionali in cui i mercati siano unificati che non abbiano una politica di sviluppo, perché i mercati, di per sé, non producono un miglioramento della qualità di vita dei cittadini. Aprono opportunità, ma creano anche rischi (per il lavoro, per il capitale, per le merci), come è evidente. I cittadini devono essere messi nella condizione di avere l'opportunità di cogliere le possibilità e di combattere le minacce.
C'è una citazione alta - non è soltanto il gusto di presentarvela - tratta da un carteggio tra Einstein e Freud, avvenuto ai tempi della Società delle nazioni, in cui Freud, alla domanda di Einstein su come si fa a evitare la guerra fra le nazioni, risponde che bisogna che il sentimento di identificazione che oggi c'è dentro la nazione divenga anche un'identificazione a cavallo dei confini nazionali. Identificazione significa identificarsi in una stessa finalità. La politica di sviluppo è, dunque, indispensabile all'interno di un'unione. Come osservo nel «nota bene» della predetta nota, essa non serve solo alle regioni povere e arretrate, ma anche alle aree ricche, perché i loro cittadini possono avere difficoltà, possono essere messi in condizioni di non avere l'opportunità di cogliere i vantaggi del mercato, o di essere messi a rischio dal mercato. L'unica differenza fra le regioni ricche e quelle povere è che le povere hanno bisogno di più soldi rispetto alle ricche. La quantità è diversa, ma la qualità della politica non può essere una politica per i poveri.
Che cosa succede se l'Unione europea non intraprende queste iniziative? I cittadini maturano, per certi versi giustamente, la sensazione che l'Unione europea crei problemi senza mettere i cittadini nelle condizioni di affrontarli, e, quindi, inevitabilmente, essi chiedono meno mercato, meno Europa e le imprese chiedono protezione e in tal modo si va indietro nelle liberalizzazioni. Questa è la premessa.
Il punto delicato è: che tipo di politica di sviluppo può condurre l'Unione europea? Nel rapporto si sostiene che la politica di sviluppo che serve è quella rivolta ai luoghi. Si tratta di una traduzione dall'inglese place-based, o territoriale, chiamiamola come vogliamo.
Che cos'è una politica rivolta ai luoghi? È una politica che presti servizi mirati sui luoghi, siano essi aree metropolitane, aree vaste, corridoi, e via elencando, e riconosca che - ed è una consapevolezza maturata nell'esperienza degli ultimi vent'anni, con tutti i relativi errori, della banca mondiale, dell'OCSE, dei grandi organismi internazionali - non si compie alcuna politica di sviluppo se non si estrae la capacità e la competenza dei cittadini dai territori. Al tempo stesso, è anche vero che non si compie nessun intervento se il soggetto che eroga i soldi non subordina il trasferimento a priorità predefinite, chiare, alla fissazione di obiettivi quantitativi - chi prende soldi deve spiegare in che modo migliorerà la qualità della vita dei cittadini - e a impegni istituzionali precisi. Questa è la strategia place-based.
Qual è l'alternativa a questa ipotesi? È quella che in Europa è nota come la via delle politiche settoriali, che io chiamo politiche settoriali «superfederali». Immaginate che l'Europa costituisca - ed è un'ipotesi che probabilmente troverete, tra un mese e mezzo, sul tavolo della discussione - sull'occupazione, sull'innovazione e sull'emigrazione, grandi fondi settoriali, che non siano più allocati ai Paesi, i quali poi, se si impegnano a spendere in un modo o nell'altro, sono responsabili per l'utilizzo nei diversi territori. Tali fondi sarebbero spesi da Bruxelles e allocati ai vari Paesi senza una pre-allocazione definita.
La tesi del rapporto è che questa strada sia impercorribile in Europa, mentre è possibile negli Stati Uniti. Il rapporto è andato, infatti, a verificare la situazione


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negli Stati Uniti, dove esistono politiche regionali condotte dal Governo federale. Trattandosi però di un Paese dove la legittimità del Governo federale è altissima, questo interviene nelle regioni, che si tratti della Tennessee Valley di cinquant'anni fa o della Delta Junction Area di Bush figlio cinque anni fa, come interviene l'FBI, cioè indipendentemente dal rapporto con le autorità locali, perché in America gli si riconosce questo straordinario potere.
Tale strada è ovviamente impercorribile in Europa, dove i contratti nazionali, o addirittura, a volte, subnazionali, sono talmente forti che essa non sarebbe tollerata. Tornerò alla fine su questo punto.
Passo alla pagina 4 della nota sopra richiamata. Lo scopo della politica di coesione non è quello di ridistribuire fondi fra regioni o Stati membri, perché per questo non servirebbero molte procedure e condizionamenti, ma semplicemente assegni da firmare. Redistribuire fondi fra regioni non serve, perché quelle che non sanno fare continuano a non saper fare, e gli Stati membri che non riescono a intervenire continuano a non riuscire a farlo. Si tratta di una politica di sviluppo adatta alla natura ibrida dell'Unione. Era così nella testa dei padri fondatori, ma tale finalità politica si è completamente appannata. Nella testa di tutti, i fondi di coesione sono diventati un riequilibratore di risorse, come fossero un fondo di equalizzazione.
Il rapporto si è posto la seguente domanda: la politica di coesione, come viene condotta oggi, ammesso pure che serva in astratto, è veramente simile a ciò che ci vorrebbe, ossia al modello che ho appena descritto, di una politica rivolta ai luoghi? La risposta è no.
L'architettura, lo scheletro - conclude il rapporto - della politica di coesione è adatto, ma è riempito di muscoli e tendini che non lo fanno reggere in piedi. L'elenco è davanti a noi. Le finalità della politica sono opache e manca una massa critica su poche priorità.
Non è solo un problema italiano. Noi, a volte, lo riferiamo all'Italia, dove il bilancio è distribuito su mille finalità, ma ciò è vero in qualunque posto d'Europa, dove è distribuito su 84 sottocategorie di spese, nelle quali, per definizione, i cittadini europei non possono vedere una massa critica sufficiente per cambiare loro la vita, perché si tratta comunque di mille piccoli rivoli.
Manca, poi - punto delicato su cui non mi soffermo ora, ma su cui avrò il piacere di farlo, perché è una questione fondamentale in questo momento - una distinzione fra obiettivi sociali ed economici. Si è detto un po' allegramente che, comunque, l'efficienza economica e la crescita vanno insieme alla questione delle eguaglianze, e che quindi noi, spendendo bene i fondi di coesione, portiamo a casa tutti e due i risultati.
Ciò non è vero, perché entrambi gli obiettivi, equità ed efficienza, sono importanti, ma richiedono interventi diversi. Basti pensare, per esempio, alla nostra Calabria: una cosa è intervenire, favorendo alcuni pochissimi centri - forse due, di cui uno universitario o imprenditoriale di valore - il che può anche avere effetti negativi sull'eguaglianza, per un certo periodo; altra cosa è intervenire sull'eguaglianza. In tal caso è fondamentale migliorare le condizioni di sicurezza di tutti i cittadini, la qual cosa non produce crescita nell'immediato.
È vero che crescita e uguaglianza vanno insieme nel lungo termine, ma non nel breve, per il quale servono strumenti diversi. Ci siamo dimenticati questo aspetto.
Un altro elemento molto importante per il nostro Paese sono i contratti. Credetemi, questa riflessione non deriva da un'analisi dell'Italia, ma di 27 Paesi. I contratti fra la Commissione e i Paesi membri, i cosiddetti programmi operativi, che consentono al Paese di spendere i soldi e sono firmati dalla Commissione europea, non si concentrano sui risultati perseguiti, ma soltanto sulle procedure, caricando i Paesi di oneri procedurali molto elevati e non riuscendo a condizionare la sostanza, e neanche ad accertare non solo se i risultati sono conseguiti, ma anche quali dovrebbero essere.


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Vi do un elemento in qualità di chi ha lavorato per un anno e mezzo su questi temi. Ho tentato di mettere insieme una tabella che mi consentisse di capire - faccio un esempio banale - i trasporti. Sapete che le distanze si misurano sulla base del numero di percorrenze e si creano bellissime mappe realizzate dai cartografi, in cui l'Italia diventa lunghissima nella parte sud. Non sto dicendo quanto i fondi di coesione abbiano accorciato l'Europa, ma quanto avrebbero dovuto accorciarla nelle intenzioni di chi spendeva i soldi. Non sono riuscito a costruire una tavola del genere, perché non solo non si conoscono i risultati, ma nemmeno le intenzioni, espresse in termini di obiettivi quantificati, anche per problemi metodologici, su cui ora sorvolo.
Non è sorprendente che non vi sia dibattito politico sui risultati, ma che esso riguardi solo - e non parlo dell'Italia, ma dell'Europa, del Parlamento europeo e della Corte dei conti europea - le irregolarità, che pure sono un aspetto importante, ma costituiscono un prerequisito fondamentale. Anche se si spendessero i soldi in modo regolare, si potrebbero pure buttare integralmente.
Sapete che io personalmente ho avuto una certa responsabilità per le politiche del sud, in e out, per sei anni della mia vita: non una volta mi è capitato di essere chiamato a dover rispondere sulla sostanza, ma moltissime volte sulle procedure. Non c'è discussione sui risultati, ma mormorio sul fatto che si stanno buttando i soldi. Non c'è un dibattito.
L'inadeguatezza dell'attuale assetto della politica di coesione a raggiungere il modello ideale ci deve preoccupare? Sì. Scusate la retorica, ma perché dobbiamo ricordarcene?
Il primo motivo è evidente, ed è proprio per noi italiani. A noi manca, è mancato, io ho sentito mancare anche nella mia esperienza, la sponda di un contratto cogente con l'Unione europea, che ci impegnasse a spendere con qualità. I Paesi hanno sempre addosso la Commissione europea sulla rapidità di spesa, ma non sulla sua qualità. Questo conta, non solo per le risorse che noi spendiamo nel sud del Paese, ma anche per quelle che spendiamo nel centro nord.
Però, c'è qualcosa di più: non vi sono garanzie sul fatto che usino bene i soldi gli altri Paesi, il che ci deve interessare per tre motivi. Il primo è perché non vi sono garanzie di addizionalità: l'attuale sistema non rende certo che il Paese che beneficia dei fondi li utilizzi per raggiungere un obiettivo che non avrebbe raggiunto altrimenti. Non abbiamo questa garanzia.
Spesso è capitato, abbiamo ragione di pensare o lo temiamo, che i Paesi abbiano preso i soldi e attuato iniziative che avrebbero intrapreso comunque; avendo, però, potuto spendere meno soldi nazionali, hanno potuto ridurre le imposte. Abbiamo, quindi, avuto Paesi che hanno ridotto le imposte - il che è molto positivo - ma non avrebbero dovuto farlo giocando. Una riduzione competitiva delle imposte per mezzo di fondi comunitari rappresenta un doppio svantaggio.
Il secondo motivo è perché le maglie sugli aiuti all'innovazione sono larghe, anche in questo periodo di programmazione. Si era detto che gli aiuti non si sarebbero concessi più e che i sussidi si sarebbero erogati solo se si fosse innovato, ma le maglie sono state allargate.
Il terzo motivo è perché non abbiamo garanzia che gli aiuti abbiano effetti sulla crescita degli altri Paesi verso cui noi siamo esportatori. L'ultimo punto - e questo riguarda il nostro Paese e gli altri - è che se la finalità ultima della politica di coesione è acquisire il consenso dei cittadini europei al mercato, perché essi si sentano messi nella condizione di usarne le possibilità ed essere tutelati dai rischi, e la coesione fallisce nel suo compito, vuol dire che essa non fronteggia la montante opposizione sociale alla liberalizzazione dei mercati. Io penso che ciò sia un danno grave.
Che cosa fare? È necessaria una politica di riforma basata su un cambio di direzione su due punti. Il primo è una svolta per lo sviluppo, cioè la politica deve essere più espressamente non redistributiva di finanza, ma mirata allo sviluppo. Ci


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vuole un compromesso politico alto in Europa, che interpreti - o reinterpreti, se volete - la missione della politica di coesione, come lo era stata ai tempi non soltanto di Delors, ma anche del nostro Antonio Giolitti e dell'inglese George Thomson, come una politica di sviluppo rivolta ai luoghi, disegnata territorio per territorio, in stile europeo.
Il secondo punto consiste nella necessità di cambiare la governance. Nel disegno a pagina 7 della nota, le 3 fette della «torta» rappresentano i 3 punti fondamentali. Il cuore della riforma è costituito infatti da concentrazione dei fondi per avere massa critica; contratti cogenti e orientati ai risultati; mobilizzazione e apprendimento. La parola apprendimento è fondamentale. Questa politica si basa sulle conoscenze, sulla capacità di estrarle dai territori. Ma dove sono tali processi di apprendimento?
Queste tre novità devono essere sorrette da due cambiamenti di tipo istituzionale che riguardano Bruxelles: un rafforzamento tecnico della Commissione, perché non possiamo chiederle di avere un ruolo più forte con l'attuale compagine di risorse umane, che si occupa troppo di procedure, di questioni amministrative e contabili, e poco di sostanza e, al tempo stesso, dei contrappesi politici, perché non possiamo rafforzare la Commissione senza avere un organo - il Parlamento europeo e il Consiglio europeo - che sappia tenerla sott'occhio. Tutto ciò ha bisogno di un sistema negoziale nuovo.
Scorro i punti. In merito alla concentrazione sulle priorità, si propone che il sessantasei per cento, fino a due terzi dell'intera risorsa - se fosse nel mondo di oggi, duecento miliardi di euro su trecento, tanto per essere chiari - siano destinate a tre o quattro priorità fondamentali per la qualità della vita dei cittadini europei.
Una o due di esse dovrebbero riguardare la crescita, l'efficienza economica, come l'innovazione o l'adattamento al cambiamento climatico. Quest'ultimo è un tipico obiettivo su cui l'Europa non può soltanto chiedere le mitigazioni attraverso le regolamentazioni, che hanno forti impatti differenziali sui territori. Si rischia di mettere in difficoltà regioni che avevano una base industriale a forte utilizzazione di energia, e non si può non dar loro una leva per realizzare l'aggiustamento della base industriale. Questa sarebbe la parte che compendia la leva della mitigazione. Due priorità, come dicevo, dovrebbero essere molto legate alla crescita, e due, invece, legate al sociale.
Il rapporto propone «giovani», ma soprattutto «migrazioni», e individua in queste un elemento scatenato dal mercato, dalla globalizzazione in generale, ma soprattutto dal mercato interno, che altera la vita di tre categorie di cittadini: quelli delle aree da cui la gente va via, che si ritrovano spesso ad avere impoverimenti; quelli delle aree nelle quali gli immigrati arrivano, che si trovano ad avere una competizione per i servizi e per la qualità della vita, a parità di risorse pubbliche; e quelli che si muovono. Non si tratta di una politica che riguardi soltanto l'integrazione, il che è limitativo, ma tutte le popolazioni - e sono vastissime in Europa - che ne sono toccate in qualche modo. Non è corretto che l'Europa scateni, da un lato, le forze - è importante che lo faccia - e dall'altro non si dia carico delle conseguenze.
La politica dell'inclusione sociale per l'emigrazione significherebbe una politica di sessanta, settanta, ottanta miliardi di euro, a disposizione dei diversi Paesi, che possa essere rivolta a garantire, ai cittadini nelle zone di immigrazione, il mantenimento della qualità dei servizi (scuole, sanità, sicurezza) e, a quelli che si muovono il raggiungimento di livelli di servizi adeguati ai territori in cui essi vanno.
Mi permetto una sola battuta, ma sarò molto lieto di rispondere a osservazioni in merito: se si legge la dichiarazione con cui il Presidente Barroso è stato rieletto dal Parlamento Europeo, si trova la parola «sociale» ritornare improvvisamente e consapevolmente di moda, come una priorità. Si scrive dell'Europa dei popoli e dei diritti, ma il problema è che non si capisce


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in che modo l'Europa possa corrispondere alle aspettative che crea nei propri cittadini, visto che il bilancio è modesto.
Il rapporto sostiene la seguente posizione: se l'Europa pensa di farlo dotandosi di un proprio welfare, intraprende una strada difficilmente percorribile, perché non ci sono i soldi e perché noi, Stati nazionali, non tollereremmo un'autorità federale che spieghi, a ognuno di noi, come gestire le integrazioni degli immigrati, o gli interventi sui servizi.
Al contrario, una politica come quella di coesione, che stabilisca princìpi per tutti e lasci, poi, a ogni Paese o addirittura a ogni territorio o regione la facoltà di declinarla - secondo le proprie esigenze - è l'unica possibile.
Sarò molto più rapido sugli altri punti. In materia di contratti orientati ai risultati, il Contratto strategico nazionale - quello che si è chiamato, nell'attuale sistema, il Quadro strategico nazionale 2007-2013, per intenderci - e i programmi operativi, che sono gli strumenti con cui la regione o il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca o il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, utilizza i fondi, devono essere approvati insieme, altrimenti succede che il Quadro rimane un documento dello spirito. Lo dico, avendone la responsabilità nel disegno non attuativo - non ero più il capo dipartimento - ma tecnico del momento, avendo magari tale documento scritti elementi anche molto importanti, ma eterei sul piano dell'obbligo di applicazione. I programmi operativi diventano così strumenti tutti procedurali, mentre c'è bisogno che i due documenti siano approvati insieme e che non contengano tante storie in cui ogni regione spieghi perché ha deciso di spendere i soldi in un caso o nell'altro, fondi che sono spesso destinati solo per le consulenze, prodotte peraltro con lo stampino.
Ogni regione, ogni amministrazione centrale, ogni governo nazionale deve esporre quali sono le priorità che ha scelto, per esempio più fondi per l'immigrazione o per l'innovazione. Si deve trattare di obiettivi misurabili, relativi al modo in cui si intende migliorare la qualità dei servizi dei cittadini o la qualità dell'innovazione, in termini di brevetti o di qualità di ricerca e sviluppo. Devono essere obiettivi verificabili e il Paese si deve impegnare a dotarsi delle istituzioni economiche necessarie per raggiungerli. Permettetemi di essere chiaro, altrimenti rischio di essere vago.
Un Paese decide di spendere i soldi sull'istruzione, perché stabilisce che si tratta di un problema molto serio e, quindi, riceve i fondi comunitari per migliorarla. Ottimo! L'obiettivo è aumentare il livello di apprendimento in matematica o in lettura. Faccio un esempio non a caso, vista la situazione drammatica del nostro Paese in merito, soprattutto nel Mezzogiorno. Si possono ottenere i fondi se si specificano gli obiettivi.
La seconda condizione è che si debbano avere alcune istituzioni a posto, tra cui un sistema nazionale di valutazione che valuti tutto, perché altrimenti è inutile stanziare i soldi se non si sa nemmeno in che modo vengono spesi e che effetti hanno. Poi occorre, per esempio, un sistema di reclutamento degli insegnanti che sia tale da garantire il rinnovamento delle scuole, laddove si identifichino punti di debolezza. Se non c'è, i soldi non possono essere spesi su tale obiettivo, ma su un altro più semplice, per esempio, le infrastrutture.
Occorre, dunque, un'Europa meno invasiva sul «come», che deve essere lasciato ai Paesi, ma molto più cogente su alcuni requisiti fondamentali. Se i contratti fossero fatti in questa forma, diventerebbe possibile per tutti i Paesi scrivere ogni anno un rapporto sullo stato di attuazione, che non sia una descrizione qualitativa (come direbbe Popper, non falsificabile), ma un'illustrazione degli eventuali progressi nella direzione degli obiettivi stabiliti. Qualora tali progressi non ci siano, il che spesso non dipende dalla cattiva qualità della politica o dell'amministrazione, si spieghino le ragioni che hanno impedito il raggiungimento del risultato.


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Il terzo e ultimo punto è la mobilitazione dell'apprendimento. Questa politica funziona veramente e diventa orientata ai luoghi, se questi vengono movimentati. Se essa rimane - lo dico con molta franchezza - una politica decisa da burocrazie centrali o regionali, che possono essere identiche a quelle centrali soprattutto quando parliamo di regioni di cinque milioni di abitanti, la stessa non va da nessuna parte. Bisogna che il livello locale sia mobilitato.
Il rapporto propone, a tale scopo, due direzioni. Una è quella di ridare alla Commissione europea lo 0,1 per cento del totale - 300 milioni di euro, quasi niente per tutta l'Europa - per poter intervenire e compiere alcune operazioni sperimentali in giro per l'Europa, quando ha la sensazione che, nonostante tutto il resto, il mondo non si muova proprio. La Commissione oggi non ha questo potere. Lo aveva quindici anni fa, e i risultati migliori scaturiti dalla politica di coesione, i programmi Leader e Urban, sono venuti proprio da queste iniziative. Parlo di pochissimi fondi, con funzione sperimentale. Non possiamo affidare all'Europa più dello 0,1 per cento.
La seconda direzione è la più importante di tutte. È inammissibile che, nel 2009, vengano spesi fondi senza avere sistemi di valutazione d'impatto controfattuale per accertare che in un progetto «x» o «y» tali soldi abbiano effetto. Riprendendo l'esempio dell'istruzione - lo faccio apposta, perché è una delle aree in Italia dove si sta spendendo meglio, quindi mi posso permettere di citarlo, perché il Ministero ha sempre lavorato molto bene - se si decide di spendere soldi per un miglioramento del livello di apprendimento dei ragazzi, si deve verificare se alla fine si è fatta una differenza. Questa non la si può vedere solo dal fatto che è migliorato il livello dell'apprendimento, che magari è legato a diversi fattori. Si deve, invece, svolgere un'operazione molto banale, come avviene in tutto il mondo: si deve selezionare un gruppo di riferimento di ragazzi in condizioni simili, con scuole simili e in condizioni sociali simili, per i quali non sono stati spesi i soldi addizionali e verificare se, nei tre anni, questi due mondi, queste due realtà, danno vita a differenze significative.
Badate, non sto parlando di un mondo strano, ma di quello che avviene normalmente nei paesi anglosassoni, ormai da venti anni, come anche in Francia, in Spagna, in Svezia e in Germania. Non è ammissibile che la Commissione europea non faccia lo stesso. Essa potrebbe diventare una grande casa della valutazione: non un luogo dove si eseguono le valutazioni, ma di ispirazione, di riferimento e di insegnamento tecnico.
La Banca mondiale ha aspetti buoni e cattivi. Se andate a guardare il lato buono - per esempio gli interventi in Africa, parlo di un bellissimo gruppo - trovate una banca dati dove qualunque soldo venga speso in quella zona, per quel particolare team - ci sono anche soldi mal spesi e non valutati - viene giustificato. Potete consultare, per esempio, in ordine agli interventi sull'istruzione, un database in cui verificare tutti i soldi spesi sull'istruzione e i risultati delle valutazioni di impatto sugli effetti. Certo, esse non sono il Vangelo e sono controverse, ma rappresentano elementi di comprensione e di apprendimento degli effetti della politica.
Chiudo rapidamente, perché gli altri elementi sono talmente ovvi che non mi richiedono molto tempo (parlo dei punti quattro e cinque). Tutto ciò non si può realizzare se la Commissione europea non migliora il proprio livello e il proprio standard di qualità.
Il team con cui ho lavorato per un anno e mezzo, nel caso dell'indicatore di valutazione, è eccelso. La debolezza della capacità di valutazione della Commissione non è dovuta al fatto che i membri del team non siano bravi, ma che sono letteralmente quattro. È un gruppo talmente piccolo che non riesce e non può svolgere una funzione di indirizzo, di assistenza tecnica, ovvero spiegare e illustrare nuove metodologie più avanzate agli altri Paesi.
Parimenti, se si seguisse l'idea, proposta in questo rapporto, di concentrarsi su poche priorità (innovazione, adattamento


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al cambiamento climatico, e immigrazione) si dovrebbero creare tre task-force di venti ragazzi, i venti migliori cervelli disponibili, come avvenne alla fine degli anni '80, quando sotto il grande ascendente di Jacques Delors, la Commissione europea seppe attrarre il meglio che le università producevano a quel tempo. Portiamo i ventiquattro migliori ragazzi che si occupano di innovation, un pari numero che si occupi di immigrazione e via dicendo, e facciamo in modo che Bruxelles non divenga un luogo burocratico e autoritario che impartisce ordini, bensì un luogo dove telefonare quando si è nei guai e non si riesce a capire come effettuare gli interventi.
Tale obiettivo richiede, però, anche un contrappeso politico, un check and balance, come dicono gli inglesi. Il rapporto propone che venga istituito un Consiglio per la politica di coesione: un marziano che venisse da fuori del mondo non capirebbe perché esiste un consiglio per ogni politica, salvo per quella su cui stanziamo il 37 per cento dei fondi comunitari. Manca un luogo permanente dove si discutono i risultati di questa politica e questo non è comprensibile a un marziano.
Nel Parlamento europeo, secondo l'articolo 275 del nuovo Trattato, è prevista l'esistenza di rapporti annuali. I rapporti annuali di cui parlavo prima potrebbero diventare una parte di questi rapporti annuali, e la Commissione ed il Parlamento, invece di dibattere solo sulle irregolarità finanziarie - argomento francamente non straordinariamente affascinante, anche se dirimente e condizione fondamentale - potrebbero discutere anche di contenuti.
Servirebbe condire ciò con un nuovo calendario negoziale. Il dibattito e le decisioni, se questa riforma o qualsiasi altra fosse condivisa, dovranno maturare entro il 2010. Il periodo 2010-2012 diventerebbe il momento in cui l'Europa, attraverso un dibattito politico che non può vedere impegnata solo la Commissione europea, ma anche il Parlamento e i Parlamenti nazionali - secondo il rapporto tra il Parlamento europeo ed i parlamenti nazionali - decide quali sono le priorità e le regole.
Faccio ora riferimento ad un punto richiamato nella nota depositata. Anche in questo caso, il marziano che venisse da fuori - ricordo che se ne parlò sei anni fa, quando facemmo l'altro negoziato - non capirebbe come funzionano i negoziati in Europa.
La procedura è la seguente: si discute per due anni di soldi; in un certo giorno del dicembre 2005 la discussione si chiude e vengono distribuiti i fondi; la decisione finale sui regolamenti, vale a dire sulle regole per usarli, e quella sugli obiettivi - due documenti che devono essere approvati dal Consiglio con l'opinione del Parlamento - vengono prese sette mesi dopo. In sostanza, i soldi vengono ripartiti prima ancora di avere deciso le regole e gli obiettivi, col risultato ovvio che gli Stati nazionali cessano di occuparsi dei problemi qualitativi nel giorno in cui cessano di farlo i ministeri dell'economia, gli uffici dei primi ministri, e viene abbandonata la questione.
La mission - nel senso meno degenerativo del termine - di un ministero che ha i soldi è quella di avere le mani il meno possibile legate. È evidente che in quei sette mesi le regole di utilizzo vengono rese sempre più lasche. È, dunque, necessario che l'accordo sui soldi, sulle regole e sugli obiettivi sia simultaneo.
L'Italia, a mio parere, ricaverebbe grandi benefici da questa riforma. Questi sono esplicitati nella nota depositata. Nel modo descritto, l'Unione europea verrebbe investita, sulle immigrazioni e sull'innovazione, di responsabilità a cui spesso si sottrae e a cui non può sottrarsi. La riforma ridarebbe un pilastro di sviluppo non burocratico, come lo sarebbero i fondi settoriali, ma ritagliato su misura dei diversi territori, e offrirebbe a noi una sponda esterna per aiutarci a mantenere la qualità.
Ricordiamoci che noi siamo il terzo contributore netto dell'Unione europea. A noi interessa il modo in cui vengono spesi i soldi perché sono i nostri. Se avessimo, dunque, maggiori garanzie sulla qualità


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della coesione, potremmo rassicurare i nostri contribuenti, con molta franchezza. Peraltro, ciò garantirebbe che tali risorse, come dicevo prima, non siano spese per guerre competitive fra gli Stati membri.
Vengono sollevate due critiche a questa riforma. La prima, ossia che non sia fattibile sul piano tecnico, non corrisponde al vero: ci sono infatti le condizioni, soprattutto se si cominciassero ad avviare alcune sperimentazioni già in questo ciclo di programmazione. Sul piano politico, poi, mi limito a dire che questo può essere un punto di compromesso di interessi diversi.
Un'ultima battuta. Ci sono alternative a questa ipotesi? Ce ne sono almeno due, che sono quelle che probabilmente ci ritroveremo ad avere sul tavolo fra pochi giorni.
La prima è quella di smantellare la politica di coesione a favore di un doppio binario, un sistema di trasferimenti - sempre più assegni e quindi sempre meno politica - solo per i Paesi poveri, e non per quelli che hanno regioni arretrate. Un Paese come l'Italia, in uno scenario di questo tipo, potrebbe non ricevere più un solo euro.
Che cosa ne facciamo dei soldi che risparmiamo? Li mettiamo sui fondi che io chiamo «superfederali», destinati all'adattamento climatico, all'innovazione e all'immigrazione, spesi da Bruxelles, a bando fra i Paesi.
La seconda opzione, che sempre alligna, è di non cambiare nulla. Personalmente, il rapporto conclude che entrambe le opzioni siano terribilmente dannose per l'intera Europa e per l'Italia. La prima opzione sarebbe dannosa perché combinerebbe uno strumento debole e iniquo, come quello dei trasferimenti - debole nel senso che non consente di garantire risultati perché non ha condizionamenti, iniquo perché va a raggiungere solo i cittadini di una parte d'Europa, e non tutti, mentre le difficoltà dettate dalle regole del mercato sono generali - con uno strumento dirigista e insostenibile, dal momento che si tratterebbe di fondi governati da Bruxelles.
In particolare, tale opzione sarebbe insostenibile, perché affidare alla tecnocrazia comunitaria poteri di impiego delle risorse nei territori dell'Unione sarebbe incompatibile con i contratti sociali nazionali oggi esistenti, o sarebbe compatibile solo a una condizione: che si racconti che i fondi non sono pre-allocati, ma poi, di fatto, lo siano, che si stabiliscano, cioè, criteri tali che alla fine li abbiano tutti. A quel punto, però, abbiamo costruito un sistema non trasparente sotto la bandiera di un sistema competitivo, che fra tutti è sempre il peggiore.
La seconda opzione, quella di non cambiare nulla, a parere del rapporto è altrettanto disastrosa, dal momento che la politica di coesione ha raggiunto uno stadio in cui o viene modernizzata, oppure rischia non solo di deludere le aspettative, ma anche di provocare effetti negativi.
I tempi - concludo questa mia brevissima presentazione - sono strettissimi.

PRESIDENTE. L'ampia, articolata e documentata relazione del professor Barca ci è sicuramente utile.
Do ora la parola agli onorevoli deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIULIO CALVISI. La ringrazio, professor Barca, di averci offerto questa relazione, ma devo dire che non ne ho compreso un punto. Lei ci ha parlato di una possibile evoluzione delle politiche europee di coesione, quindi ha svolto un'analisi su dove sta andando la politica europea di coesione e sul ruolo che potrà esercitare l'Italia, riferendoci che stiamo andando verso quella direzione e che dobbiamo prepararci. Ha proposto anche alcune ipotesi e ha illustrato alcune alternative. Oppure, al contrario, ci ha esposto le possibili proposte italiane per la riforma delle politiche di coesione? Le due cose sono molto diverse tra loro.
Nel primo caso, penso che l'Italia, nei consessi europei, eserciterà la sua funzione, offrirà le sue opinioni, concorrerà all'elaborazione di un nuovo sistema delle politiche di coesione.


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Nel secondo caso, guardo con preoccupazione la situazione, anche memore di quanto è successo nell'ultimo anno e mezzo, da quando si è insediato questo Governo. Mi è sembrato di capire che lei avesse un po' di timore - lo ha espresso esplicitamente - nei riguardi dei fondi superfederali, come li ha chiamati.
Noi, in Italia, da appassionati difensori del Mezzogiorno e delle sue ragioni, abbiamo guardato con timore ai fondi supernazionali che il Ministro Tremonti si è inventato già con il DPEF dello scorso anno, con una centralizzazione delle risorse europee e un utilizzo alquanto discrezionale della loro dotazione. Questo vale per i fondi FAS, ma può essere applicato anche a quelli di cui lei ci ha parlato. Le chiederei, pertanto, un chiarimento su questo punto.
Un secondo aspetto attiene sempre a questo schema: fondi «superfederali», oppure fondi «supernazionali», oppure - questo forse sarebbe il modo migliore per dare qualità agli investimenti che si attivano, utilizzando le politiche di coesione e le risorse relative - un eventuale nuovo rapporto fra Stato e regioni, essendo questo il problema che abbiamo. Io non penso che noi, in Italia, possiamo procedere a una riforma delle politiche di coesione centralizzando di più la spesa sul livello nazionale: sarebbe in controtendenza rispetto all'ipotesi di Stato federale. Probabilmente, occorre trovare un nuovo rapporto virtuoso tra Stato e regioni, e su questo le chiederei un approfondimento, perché forse è stato l'aspetto meno trattato nella sua brillante e molto dettagliata relazione.

SERGIO ANTONIO D'ANTONI. Signor presidente, anch'io ringrazio il professor Barca per l'utile contributo di informazione che ci ha fornito e per il punto cui è arrivato, se ho capito bene, questo gruppo, che si propone all'intera Comunità come riforma delle politiche di coesione.
Voglio solo svolgere una valutazione: sarebbe utile conoscere - perché ci viene dato come elemento esistente in tutti i Paesi, ma non viene effettuata una precisazione e non so se il Ministero possiede il dato o se siamo in grado di averlo - qual è il livello di addizionalità, o di sostituzione di tali fondi, tra i fondi europei e quelli nazionali.
Questo è un punto, rispetto al passato, decisivo - a mio giudizio - per svolgere una valutazione sul futuro. Sarebbe utile che, nell'eseguire un rapporto di tale impegno, questa mappa, almeno quella esistente, fosse comunicata.
Si tratta di un punto interrogativo, in particolare per l'Italia - parlo dell'Italia, ma credo che la cosa sia più larga, coinvolgendo almeno i Paesi che hanno saputo spendere tali fondi, come la Spagna o la Germania, che ne hanno fatto un uso migliore rispetto al nostro - perché c'è stata una componente di sostituzione che nel nostro Paese, negli ultimi anni, secondo me, ha raggiunto livelli impressionanti.
La politica di coesione ha tutti i difetti che sono stati descritti, e che lei giustamente ha delineato, perché li conosce da un lato e dall'altro, ma il punto vero è che, se essa non è addizionale, il suo scopo è finito. Che cosa si può mettere allora in coesione? Lei ha presentato l'esempio di Paesi che diminuiscono le tasse, ma nel nostro caso l'esempio classico è che, non avendo le risorse, si usa quello che si ha a disposizione.
Io penso che questo sia un elemento essenziale e che bisognerebbe partire proprio dalla conoscenza, perché la vera conoscenza dà poi la possibilità di svolgere un ragionamento sul resto.
C'è una grande polemica in Italia su questi fondi spesi male, sugli sprechi: tutti fatti veri. Sapere, però, quanto c'è di sostitutivo e quanto di addizionale è fondamentale per capire che, alla fine, non ne ha guadagnato nessuno, né le zone forti né quelle deboli. Se si tratta di fondi sostitutivi, sono soldi che avrebbero avuto comunque e se sono poi sprecati siamo al massimo dell'ignominia. In questo senso, dunque, sarebbe molto utile saperlo.
Introduco la seconda considerazione. Il limite - almeno per come lo vedo io - di questa impostazione, che per il resto è


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condivisibile, è che la parola coesione scompare. Questa è una politica di sviluppo, non di coesione. Lo dico con franchezza.
La questione delle differenze tra zone forti e deboli rimane quella fondamentale per fare coesione. Nelle indicazioni di priorità - innovazione, adattamento al cambiamento climatico, migrazione, giovani - forse si salva solo quest'ultima, perché, per le altre tre, dove sta la coesione? Dove avviene?
Io sono contrario all'ipotesi descritta del dare tutto ai Paesi poveri. Lasciamo tutto così com'è, perfetto, siamo tutti d'accordo, però la coesione è coesione. Stiamo parlando in italiano.
Se voglio fare coesione debbo avvicinare le distanze: esco da una crisi che vede come una delle proprie cause la distanza tra zone, ceti, Paesi. La crisi, quindi, è il sintomo di questa grande disuguaglianza.
Inizia una nuova politica di coesione nel 2013, e non ci si pone il problema di come avviene la coesione, di come avvicinare le distanze tra Paesi e tra zone all'interno dello stesso Paese?
Può darsi che mi sto sbagliando - lo dico con estrema franchezza - ma, tranne la parola «giovani», che dà la presenza di una certa parte del Paese, qui coesione, per il resto, non ci sarebbe.
Io condivido questa nuova impostazione, alla condizione che il primo punto sia la coesione, l'accorciamento delle distanze, che resta un elemento decisivo per l'addizionalità. Altrimenti chiamiamola diversamente, non più politica di coesione, ma di sviluppo, di crescita, nel qual caso tutti i ragionamenti svolti vanno bene. L'Italia non può però perdere - esclusivamente a mio giudizio - la grande battaglia europea per attuare una politica di coesione che accorci le distanze, dal momento che è uno dei Paesi, forse quello per eccellenza, che ha al suo interno quelle maggiori. Per questo motivo l'Italia non può prestarsi a una svolta di politica di coesione che non ne preveda l'accorciamento.

CESARE MARINI. Anch'io, professor Barca, mi associo al ringraziamento che già i colleghi le hanno manifestato.
Vorrei porle una domanda. La politica di coesione europea, perché raggiunga gli effetti che hanno dato origine a questo tipo di impostazione, che noi stiamo seguendo da alcuni anni, ha bisogno di uno sforzo altrettanto adeguato da parte degli Stati nazionali. Se la politica di coesione viene attuata solo dall'Unione europea, prescindendo dagli interventi necessari posti sui bilanci nazionali, finisce con l'essere sostitutiva, perché poi sappiamo che cosa si nasconde dietro di essa.
Per fare un esempio - lei già lo saprà - esiste la pratica orribile dei progetti «sponda», che non sono altro che la giustificazione di spese per non perdere i contributi europei, sulla base della fatturazione di lavori già eseguiti da comuni, enti di Stato, aziende pubbliche, e che in realtà diventano sostitutivi. Quando, infatti, per non perdere i soldi, si chiede alle Ferrovie dello Stato o all'ANAS di avere fatture per poter giustificare le somme, significa che la stessa politica di coesione diventa sostitutiva.
Io credo che uno sforzo propositivo verso l'Unione europea, per legare la politica di coesione a uno sforzo dei bilanci nazionali e quindi delle nazioni, vada compiuto. Noi abbiamo assistito a un caso italiano, ossia che nel 2002 il Mezzogiorno aveva arrestato l'aumento di prodotto interno lordo, accorciando le distanze con il resto del Paese, ma in seguito il PIL ha ripreso a correre e la forbice si è allargata.
Questo non è solo un fatto campanilistico di noi meridionali, che, come si può immaginare in maniera del tutto sbagliata, siamo spinti solo dall'esigenza di avere sempre trasferimenti maggiori. Il punto non è questo. Abbiamo assistito, negli ultimi anni, a un fenomeno nuovo: nei nuovi Paesi dell'Unione europea le zone - chiamiamole così - a ritardo di sviluppo corrono molto di più, non solo dell'Italia, ma di tutti i Paesi dell'Europa originaria.
È un dato allarmante e credo che su questo noi italiani dobbiamo riflettere.


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Insisto sulla necessità di uno sforzo maggiore e adeguato da parte degli Stati nazionali, perché a noi, per la verità, finito l'intervento straordinario, l'unico aiuto che veniva dato alle aree a ritardo di sviluppo, sia del Mezzogiorno che del centro-nord, era il FAS, il fondo istituito dal Governo Prodi.
Abbiamo visto, però, negli ultimi anni, come è andata a finire. Esso è servito per finanziare tutto, fuorché i problemi inerenti le aree per le quali era stato istituito. Io credo che sia necessario insistere sulla coesione, proprio per il motivo che sosteneva anche il collega D'Antoni, ossia che altrimenti l'aggiuntività va a farsi friggere e diventa sostitutiva dell'intervento ordinario.
Ciò è avvenuto, per la verità, da quando è nato l'intervento straordinario creato con la Cassa per il Mezzogiorno, uno dei limiti del quale fu che l'aggiuntività divenne poi sostituiva dell'intervento ordinario dei vari ministeri.
Vorrei porre anche un'altra domanda. Noi abbiamo, in prospettiva - una prospettiva che ritengo piuttosto immediata - l'area di libero scambio nel Mediterraneo, il che significa che il mercato si apre e diventa enorme, forse il primo al mondo, perché coinvolgerebbe circa 750 milioni di cittadini. Una politica europea deve guardare verso questo tipo di prospettiva, che non è lontana e che dovrebbe essere per noi alle porte. Una nuova area di libero scambio, per evitare che si possa trasformare da un momento di crescita del mercato a uno di aumento delle disuguaglianze, deve unificare però il mercato dell'Unione attraverso le infrastrutture e i servizi. Se non si compie questo sforzo, che succederà? L'area di libero scambio non si svilupperà, oppure lo farà in maniera diseguale.
Questo è un passaggio importante, perché significa immaginare come sarà possibile, in prospettiva, una nuova direzione degli scambi internazionali e dei trasporti. Il Mediterraneo può diventare centrale rispetto a quello che è adesso, considerato che i trasporti avvengono attraverso l'Atlantico. Su questo io non vedo una consapevolezza adeguata delle necessità che ci sono.
Vorrei porre un ultimo quesito sul problema dei risultati. Spesso, i cosiddetti Programmi operativi regionali (POR) fondano l'ammissibilità dei progetti e delle iniziative legandoli alla possibilità di aumentare la manodopera, cioè ad alcuni parametri che oggi mi sembrano, per come è strutturato il mercato, inutili.
Se un'azienda inoltra una domanda e riceve aiuti perché è nuova, sapendo che la possibilità di essere ammessa al contributo è legata anche al numero di posti che va a creare, magari lo fa a cuor leggero e poi il mercato sarà tale che non le consentirà di mantenere l'impegno.
Io credo, dunque, che noi abbiamo bisogno soprattutto di dati certi rispetto ai risultati degli sforzi compiuti. Che cosa ha prodotto il POR in una regione? Ha prodotto un aumento del PIL, dell'occupazione, dell'esportazione, un ampliamento del mercato? È necessario capire che cosa è avvenuto, anche per categorie merceologiche, anche disaggregando il dato generale. Altrimenti non capiamo niente. Una politica di intervento aggiuntivo nazionale si deve basare su questi elementi, perché deve intervenire laddove è necessario correggere deficit o storture.

MARIA TERESA ARMOSINO. Ringrazio il professor Barca per l'analisi molto attenta e lucida, nonché per i suggerimenti portati alla discussione.
Credo che la questione - ed è emerso dall'intervento di molti che mi hanno preceduta - possa portare a ridefinizioni o a volontà che a tutti piacerebbero, di riscrivere tutte le regole del gioco, perché non ho sentito alcuna osservazione che non fosse degna di nota.
Ritengo, tuttavia, che siamo in presenza di un tempo che ho capito essere molto stretto per decidere se partecipiamo o meno a questa scommessa, con l'effetto che se non partecipiamo le possibili soluzioni sono due: lo status quo negativo ovvero la distribuzione dei fondi su altri settori o la loro soppressione.


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Personalmente, credo che l'Unione europea, e tutto ciò che crea un allargamento al di là delle nostre frontiere, anche ideologiche e di cuore, abbia bisogno di fondi per essere supportato. Deve crearsi una coscienza collettiva europea, per la quale mi pare che si debba ancora procedere, e ritengo che su questo siamo tutti piuttosto d'accordo.
Nell'ordine, mi pare che gli interventi da effettuare per tentare di supplire a tale problema siano, a livello di politica comunitaria, nell'erogazione e distribuzione dei fondi e nello stabilire regole assolutamente condivise e valevoli per tutti, che dettino il criterio della misurabilità dell'efficienza e dell'efficacia delle somme che vengono erogate. Diversamente, diventerebbe molto difficile, in assenza di ciò, non sentirsi opporre che, se investiamo tutti i fondi in infrastrutture, queste produrranno di sicuro qualcosa.
Credo, quindi, che si debba smettere con una politica di utilizzo dei fondi di coesione come falso ammortizzatore sociale. Abbiamo bisogno, in questo Paese, di una costruzione vera di ammortizzatori sociali. È un dato che ci manca, ma un utilizzo strumentale di altro sposta i termini del problema, non risolvendo la questione.
Credo che le regole per dettare e far crescere una più consapevole partecipazione di cittadinanza europea debbano essere tali per cui, a livello europeo, venga data la cornice, ma l'applicazione non possa che essere rimessa ai singoli Stati nazionali, non solo per la loro sovranità, ma per il principio di responsabilità, sul quale, di nuovo, tutti ci troviamo d'accordo.
Da ultimo, penso - esprimo ovviamente un'opinione che è solo ed esclusivamente personale - che questi fondi debbano essere erogati se e quando vi sia un cofinanziamento da parte dei soggetti percettori. Questa è l'altra grande affermazione del principio di responsabilità, e anche del principio per cui, forse, si osserva un po' meglio, se si deve investire anche del proprio, utilizzando del denaro che, come abbiamo visto, è per il 30 per cento dell'Italia, e quindi, in ipotesi, di entità molto rilevante.

LINO DUILIO. Mi scuso per essere arrivato in ritardo. Professor Barca, lei oggi aveva la concorrenza, qui alla Camera, della regina di Giordania, e quindi capirà il fascino della monarchia, vista la deriva democratica verso cui andiamo.
Le pongo brevemente tre questioni, ovviamente ringraziandola, anche e soprattutto per aver messo a tema il discorso della politica di coesione, che giustamente richiede che si faccia il punto di dove siamo arrivati, e di quale livello di avanzamento abbiamo realizzato nel continente e nel nostro Paese. Sappiamo tutti che la situazione è piuttosto delicata, per usare un termine eufemistico. Io credo che non abbiamo compiuto passi in avanti, almeno rispetto alle nostre speranze in materia di politiche di coesione.
Vorrei, innanzitutto, porre una domanda su questo punto: rispetto a quello che lei cita nella documentazione che ci ha portato, questa sorta di trade-off, con riferimento al carteggio Einstein-Freud del 1932, tra il calo del sentimento comunitario nazionale e la crescita di quello comunitario dell'Unione, io credo che, quanto meno in questa fase, forse tale approccio andrebbe un poco temperato. Mettendola in questi termini - non so se sono pessimista - il sentimento comunitario nazionale fa premio su quello comunitario dell'Unione, per ragioni che si legano, come è sempre accaduto storicamente, alla dimensione degli interessi per cui la gente si muove, e all'assenza di una dimensione visibile di respiro comunitario rispetto a ciò che intercetta la vita reale dei cittadini, a meno che non vogliamo elevare il discorso comunitario alla retorica comunitaria che spesso evochiamo, lasciandola poi, al massimo, agli interscambi culturali, a esperienze Erasmus e ad altre iniziative del genere. In che modo si può


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temperare questo trade-off, questo scambio? Ovviamente è un'opinione che sottopongo alla sua valutazione.
Ne abbiamo parlato anche negli anni precedenti, anche in questa legislatura, in alcune occasioni a Bruxelles: secondo me, un espediente utile - non so se interpreto male - al fine di conseguire lo sviluppo armonico di cui lei sempre parla, associandolo alla felicità statunitense e, più concretamente, alla politica di sviluppo rivolta ai luoghi, con i trattini che congiungono, potrebbe e dovrebbe essere, stanti le risorse a disposizione, che come tutti sappiamo sono risibili, cercare di prospettare la possibilità di obiettivi di eccellenza che, anche simbolicamente, oltre che concretamente, possano essere sostenuti con ciò che è possibile fare finanziariamente a livello comunitario nei singoli Paesi, in modo che siano paradigmatici di ciò che può essere l'Europa attraverso risultati visibili e concreti.
Gli esempi che abbiamo fatto in alcune circostanze erano i seguenti: se noi riusciamo a costruire, nel sud del nostro Paese, o nel nord, un ospedale d'eccellenza che, finanziato da risorse comunitarie, mostri che l'Europa è anche sanità di eccellenza, che può attrarre utenza non solo dal nostro Paese, se noi puntiamo a costruire università europee di eccellenza, che siano sostenute e finanziate con risorse comunitarie, e potrei continuare con altri esempi, stante la scarsità delle risorse, ritiene che negli obiettivi che lei evocava, cioè di una politica di sviluppo rivolta ai luoghi, possa rientrare, appunto - perché una politica di coesione vera si concretizzi - l'individuazione di obiettivi concreti e simbolici che, coltivando la dimensione dell'eccellenza, abbiano anche un'esplicita caratura europea e facciano percepire che Europa è meglio, per certi versi, ed è anche concretezza di obiettivi e di interesse della vita reale dei cittadini?
Sino adesso, se ci dovessimo chiedere che cosa è rimasto in testa agli italiani di qualcosa che vada in tale direzione, a me, che cerco di curare un po' di alfabeto, non viene in mente granché. Mi vengono in mente le solite storie delle quote latte, per cui andiamo a combattere una guerra per recuperare un po' di soldi per rimborsarle, oppure quattro sciocchezze - mi permetto di dire così - laddove surrettiziamente ci ripartiamo, o vogliamo ripartirci, i soldi che abbiamo dato a livello comunitario, peraltro andando a sostenere molto spesso, se non quasi sempre, settori che, piuttosto che essere di avanguardia, sono rendite di posizione più o meno medioevali. Uso termini molto forti per intenderci. Questa era la prima domanda che volevo porre.
La seconda è la seguente: non crede che il discorso di politica di coesione, con un po' più di coraggio, dovrebbe portare anche a innovare il linguaggio, il vocabolario della politica economica e finanziaria europea, anche in questo caso, non solo astrattamente, ma con ricadute concrete? Faccio ricorso a un approccio che abbiamo visitato senza grande successo, ahimé, negli anni scorsi.
Pagare l'IVA al 20 per cento in Italia, mediante una fattura con IVA al 20 per cento, piuttosto che pagarla sempre al 20 per cento, ma con un 19 per cento di IVA nazionale e un 1 per cento di IVA comunitaria, probabilmente, oltre che condurre a un discorso, che certamente va fatto, rispetto alla quantificazione circa la dimensione che dovrebbe andare altrove, a parità di aliquota complessiva, potrebbe anche portare a un'innovazione di linguaggio che fa entrare, nel corpo diffuso della realtà economica, sociale e culturale del Paese, il tema dell'Europa, ovviamente collegandolo agli obiettivi di cui prima, non solo individuando ciò che potrebbe apparire come nuova forma di tassazione.
Sappiamo che in questo Paese, ormai c'è la religione del non pagare più tasse: anche quando ci sono le tragedie, i terremoti più violenti, sappiamo solo dire agli italiani che non si paga nemmeno un euro di tasse in più, il che poi non è vero, come sappiamo in Commissione bilancio. In questo clima religioso, che oramai esiste, sarebbe certamente autolesionistico il discorso


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che farei, se non fosse collegato agli obiettivi concreti di eccellenza, di cui prima.
Nello stesso tempo, parlavo anche di un linguaggio economico-finanziario, che probabilmente dobbiamo modificare per far vedere che questa Europa c'è.
Lego questa considerazione con un'ultima domanda: dal momento che il tema delle risorse - come dice il proverbio popolare (io sono un popolare), «senza soldi non si cantano messe» ed è quindi bene che prima o poi ci poniamo questo problema - lei pensa che la situazione dei versamenti all'Europa, legati in percentuale al PIL, che è la voce più significativa, per diverse ragioni, debba permanere, o il tempo si sta accorciando rispetto all'individuazione di altre forme, che, ovviamente assicurando una parità di condizioni nei diversi Paesi, possa portare a forme di dotazione di risorse comunitarie diverse e diversificate, oltre che auspicabilmente anche un po' più cospicue?

PRESIDENTE. Do la parola al professor Barca per una replica di non più di 10 minuti, se possibile.

FABRIZIO BARCA, Dirigente generale del Ministero dell'economia e delle finanze. Le domande sono talmente ricche che potrei essere tentato di sforare, ma non lo farò, e rimarrò quindi nei minuti che lei mi ha concesso.
Grazie, innanzitutto, per le sollecitazioni e le questioni. Io sto girando, in questo periodo, in Europa, e ciò mi consente subito di chiarire che questo documento, del quale ho esposto alcuni risultati e spunti, non è né un'individuazione delle tendenze, né una proposta italiana, ma il risultato di un lavoro indipendente, svolto dal sottoscritto, prestato per un anno e mezzo alla Commissione europea come persona informata dei fatti. Come tale, quindi, mi è stata data anche la possibilità di metterlo sul tavolo ovunque, mi sono lasciato, se volete, «usare» dalla Commissione europea.
In questo periodo mi capita di incontrare autorità in Parlamento: sono stato sentito dal Parlamento europeo, dalla Corte dei conti, dal Comitato delle regioni, in Spagna, in Francia, in Austria, in Polonia. Credo che questo chiarisca una prima questione che è stata posta.
Ho capito la raffinata equazione superfederale-Stato italiano e superfederale-Europa, però non li metterei sullo stesso piano. L'Italia è, a tutti gli effetti, uno Stato nazionale legittimamente autorizzato a svolgere le proprie funzioni, non un'unione lasca di regioni. È evidente, quindi, la possibilità dello Stato centrale italiano di svolgere una funzione ben diversa da quella che può essere attribuita all'Europa. Il rischio per l'Europa di interventi superfederali è quello di affidare a una struttura che non ha il riconoscimento di legittimità un ruolo che risulta eccessivo.
Faccio una battuta sul presente. Io non vedo nei numeri - perché io guardo quelli - un processo di centralizzazione. Le risorse europee non hanno avuto alcuna riprogrammazione in Italia, in questi mesi, rispetto al disegno originario. Nel FAS la parte regionale è stata modificata nell'allocazione della parte centrale, ma non c'è stata una sua alterazione. Nella combinazione regioni-centro non si è verificata un'alterazione degli equilibri.
Se confrontate l'Italia con il resto d'Europa, vi rendete conto che nel nostro Paese i fondi sono molto più regionalizzati che nel resto d'Europa. Noi siamo, con la Germania e la Polonia, il Paese che ha il massimo livello di regionalizzazione delle risorse. Gli altri tendono ad avere assetti costituzionali e/o politici più centralizzati.
Per quanto riguarda il rapporto fra Stato e regioni - ultimo punto - nel rapporto presentato si suggerisce di mantenerlo come è attualmente. È una questione troppo delicata perché la Commissione europea prenda una decisione per tutti, e quindi è corretto che ogni Stato nazionale trovi, francamente, nelle modalità di attuazione, una linea adeguata ai propri assetti costituzionali e politici. La tentazione che è stata di Delors di spingere le regioni contro lo Stato centrale ha fatto,


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per certi versi, il suo tempo. Pertanto, è bene che la Commissione europea non interferisca negli equilibri delicati del rapporto tra Stato e regioni. Questo suggerisce il rapporto.
Veniamo alla questione centralissima dell'addizionalità, che poi è stata ripresa in modo diverso, parlando del ruolo dello Stato nazionale. A mio parere, la risposta a una domanda precisissima è che non lo sappiamo se non per l'Italia. A tal proposito, rivendico non i risultati, ma certamente la trasparenza, la leggibilità, la misurabilità delle operazioni che sono state compiute a partire dal 1998 nell'utilizzo dei fondi comunitari.
L'Italia è l'unico Paese che intraprese, nel precedente ciclo di programmazione, una trasparente ricontrattazione delle condizioni, perché si accorse che non avrebbe rispettato l'addizionalità. È l'unico Paese di cui si può dire che non l'ha rispettata, avendola rinegoziata per via di Maastricht.
Si mormora che alcuni grossi Paesi non l'abbiano rispettata, ma poiché sono incomprensibili i numeri, a differenza dei nostri, non si può sapere per certo.
Lo stesso varrà anche per l'attuale ciclo di programmazione. Mi aspetto, fra tre o quattro mesi, di leggere il rapporto del Dipartimento per le politiche di sviluppo e di trovare - unico Paese in Europa - una trasparente illustrazione. Questo non risolve il problema, ma almeno c'è chiarezza dei dati.
Una delle proposte del rapporto è esattamente quella di rendere l'addizionalità trasparente, in una maniera molto semplice, ossia facendo sì che la relativa contabilità sia la stessa di Maastricht, calcolata con gli investimenti accumulati, in modo tale che quello che sul tavolo del Patto di stabilità è un «meno» sul tavolo dello sviluppo sia un «più», e che il trade-off politico sia evidente.
Il convincimento non scritto - lo confesso - della proposta del suddetto rapporto è anche quello di far comprendere che forse sarebbe ragionevole che l'Europa esentasse almeno questa parte degli investimenti del cofinanziamento, e questo aprirebbe delle strade diverse.
Il rapporto non arriva a sostenere ciò, propone che la contabilità dell'addizionalità sia semplificata, divenga trasparente e sia la stessa del Patto di stabilità, il che si può fare senza cambiare di una virgola il Trattato. Questo, secondo me, modificherebbe significativamente anche il dibattito a Bruxelles fra il tavolo stabilità e il tavolo sviluppo.
È stato affermato che la parola «coesione» scompare. Non è così, ma capisco e vedo il rischio che è stato evocato. Dico che non è così, nel senso che viene scomposta, nel rapporto, in due pezzi. La differenza fra i luoghi, che è ovviamente più forte fra quelli arretrati e quelli avanzati, viene scomposta in due, quella dovuta al fatto che alcune aree continuano, maledettamente, a sottoutilizzare il loro potenziale produttivo e quella che, anche nei singoli luoghi, divide gli individui, e non i territori. Le iniquità sociali ci sono anche a Londra e provocano tensione, difficoltà sociali, sentimenti anti-Europa, resistenza ai mercati.
Ovviamente i soldi per affrontare i problemi degli esclusi sociali di Londra sono assai inferiori a quelli che servono per affrontare il problema della sottoutilizzazione delle risorse in alcune grandi aree. Non c'è un abbandono di questo concetto, tuttavia - secondo punto dell'obiezione - si chiede se non ci sia, di fatto, un problema nella scelta delle priorità.
Questo è un punto molto rilevante. Non lo è con i giovani, ovviamente, e, a mio avviso, neanche con l'immigrazione. È vero che non sono luoghi di arrivo, ma sono di passaggio. La situazione di alcune aree del sud è drammatica - per parlare del nostro sud - proprio in relazione ai fenomeni di immigrazione di passaggio, che lascia il peggio di sé, mentre passa, andando invece a consolidarsi in altre aree del Paese. Il tema dell'invecchiamento e dell'abilità, che non ho citato oggi e che sono le altre due ipotesi prioritarie, vanno comunque nella


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stessa direzione. Certo, innovazione e adattamento climatico sono meno stringenti.
Ricordo, tuttavia, che il documento non propone la concentrazione dell'intero ammontare delle risorse sul problema del 66 per cento. Le aree arretrate potrebbero, quindi, scegliere di stanziare l'intera parte non pre-allocata su priorità che siano di compensazione dei divari infrastrutturali, per esempio. Questo vale non solo per noi, ma anche per la Polonia. Ho ricevuto le stesse obiezioni discutendone col Ministro polacco, il quale sostiene che occorrono interventi infrastrutturali per completare il sistema di strade nelle aree arretrate. Loro hanno il 33 per cento delle risorse, anche supponendo che le considerazioni che ho scritto abbiano un senso. Si tratta di un punto delicato che potrebbe costituire proprio l'oggetto della discussione fra il 2010 e il 2012 su quali priorità scegliere.
Non sono in grado, per una mia mancanza di competenza, di dare una risposta di valore e di utilità sulla questione dell'ampliamento dell'area di libero mercato. Ovviamente, prescinde e trascende i termini della politica di coesione, che riguarda la politica estera. Passo quindi oltre.
Condivido completamente la preoccupazione manifestata sull'utilizzo automatico di parametri occupazionali che, peraltro, sono ormai completamente estranei alla logica dell'utilizzo stesso degli incentivi. Fanno proprio parte della menzionata confusione fra equità ed efficienza, per cui io racconto che voglio raggiungere un obiettivo di efficienza, ma in realtà per poterlo raccontare, affermo che il parametro produce occupazione immediatamente. Questa è roba di venti anni fa, che purtroppo sopravvive ancora all'interno di questa politica. Devo dire sempre meno, ma sopravvive.
Per quanto riguarda la riscrittura delle regole del gioco, mi fa piacere che è stato colto il senso dell'urgenza, perché ci si troverà probabilmente a prendere le decisioni nei prossimi quattro o cinque mesi.
Peraltro, i due requisiti, che sono stati colti, il criterio della misurabilità e delle regole di cornice, sono assolutamente corretti. Non è pensabile che la Commissione europea indichi a ogni Paese, per mantenere l'esempio precedente della valutazione della scuola, come debba essere costruito il sistema di valutazione, o come debba essere disegnato quello di selezione degli insegnanti. È, però, possibile indicare, e sappiamo che oggi esistono, alcuni princìpi generali che devono essere rispettati. Sta all'Europa ricordarci che bisogna costruire istituzioni coerenti con tali princìpi.
Come temperare il trade-off? Ebbene, è proprio il punto nodale. C'è un bellissimo documento, preparato per l'Open method of coordination da Tony Atkinson e da un gruppo di altri, sull'inclusione sociale, in cui si pone la seguente domanda: che cos'hanno in testa i cittadini europei quando parlano di livelli socialmente accettabili di qualità della vita, di sicurezza per le strade, di livello di apprendimento? Pensano allo standard del Paese o a quello europeo? Sono cittadini nazionali o europei? La risposta è, di nuovo, nella linea un po' dell'ambiguità che ho illustrato.
Oggi un cittadino bulgaro e uno italiano guardano a tutti e due gli standard, ed è pensabile che per i prossimi cento anni - non dieci - i cittadini europei si sentano europei o italiani, ovvero bulgari, a seconda di come conviene loro, dell'umore della situazione, del momento culturale, e pretendano di essere trattati almeno come la media di un cittadino europeo, o italiano, ovvero bulgaro.
Questo vuol dire che il temperamento del trade-off è inevitabile, in un processo - che non sappiamo come andrà a finire - che va da Stati nazionali alla formazione progressiva di uno Stato federale, un guado che, ripeto, potrà durare cento anni. La risposta non può che essere quella di corrispondere alla domanda di servizi che viene dai cittadini.
I cittadini pretendono che, perlomeno durante tale itinerario, non peggiorino i servizi. Quando si arriva al punto di Reggio Emilia, di cui già sapevamo quattro


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anni fa - l'ho scritto nel quaderno bianco sulla scuola che avremmo avuto, a breve, tensioni fortissime tra immigrati e residenti sulla qualità del servizio scolastico - siamo davanti a situazioni che bisogna prevedere in anticipo.
In conclusione, occorre almeno non peggiorare la qualità dei servizi e, possibilmente, garantire un lieve miglioramento, specialmente per un Paese come il nostro, che, notoriamente, non riesce a valorizzare gli immigrati che arrivano.
Vengo adesso da una discussione su un libro di Ignazio Visco in Banca d'Italia, che presenta dati impressionanti sulla nostra incapacità di dare una qualità e un livello di scuola agli immigrati, il che poi significa che non riusciamo ad avere una loro produttività, né una loro convivenza sociale, e che quindi c'è un peggioramento delle condizioni.
È evidente che questi sono tutti strumenti che temperano il trade-off, perché fanno apparire l'Europa come un pezzo del nostro vivere.
Le eccellenze, secondo me, sono una buona strada, e credo che vadano accompagnate, come propone il rapporto, con una massa critica su poche priorità. Non è vero che non abbiamo avuto nessuna eccellenza in questi anni, persino nella nostra Italia, spesso però mi sono sentito lanciare battute relative al fatto che con tutti i soldi che abbiamo speso non siamo nemmeno riusciti a costruire un ospedale ad opera d'arte, o un aeroporto che funzioni bene. Quando abbiamo discusso - mi è capitato tre, quattro o cinque anni fa di cercare di comunicare eccellenze - ho avuto questa risposta e l'ho trovata anche ragionevole, entro certi limiti.
Mi sono andato convincendo che le eccellenze sono importanti. Stiamo intervenendo sull'innovazione e, all'interno di una politica per l'innovazione in cui l'Europa aiuta tutti, abbiamo cinque o sei eccellenze.
Chiudo con l'ultimo pezzo, che tocca anche la questione del linguaggio. Un modo per valorizzare le eccellenze in una maniera che non sia pubblicitaria: con il sottoscritto come Capo dipartimento, a un certo punto scrivemmo un opuscolo relativo a tutti gli aspetti che andavano bene, di fronte ad alcune critiche selvagge, irragionevoli e mal costruite; ci fu ritorto contro, anche in un noto libretto, dicendo che queste erano «quattro cose» e che l'opuscolo era pieno di falsificazioni. C'era tuttavia qualcosa di sbagliato anche nel metodo: semplicemente non si può fare pubblicità con il simboletto europeo e raccontando alcune storie, ma bisogna fare una sistematica valutazione d'impatto.
La valutazione d'impatto controfattuale è un linguaggio: è importante il fatto che un programmatore, un amministratore pubblico della Campania, del Friuli-Venezia Giulia o del Piemonte, quando realizza un progetto di intervento per realizzare un'università o un ospedale, abbia accanto a sé un valutatore di impatto, non da chiamare cinque anni dopo, quando magari è passata la festa e a nessuno importa più capire se tale ospedale è servito veramente, ma a fianco a sé, come avviene ormai in tutto il mondo, il quale chieda qual è l'obiettivo, dove si vuole raggiungere l'eccellenza, e quali sono le aspettative.
Gli obiettivi che ci si è posti devono essere annunciati alla cittadinanza, e poi il valutatore effettua la sua valutazione e considera se in una determinata zona, dove è stato effettuato il dato intervento, la condizione sanitaria delle persone è migliorata oppure no.
Questo è il modo moderno, che modifica in modo significativo il linguaggio - mi scuso perché ho superato il limite di tempo di dieci minuti - perché farebbe, per una volta, apparire l'Europa, la Commissione europea, non come una sorta di gruppo di burocrati che scrive regole e procedure, ma come una fonte di una modalità più moderna, più raccontabile e più interessante - se posso permettermi di dirlo - per la politica. Il linguaggio della valutazione di impatto controfattuale, rispetto ad altre storie statistiche composte di modelli econometrici - quando li compilavo, in Banca d'Italia, si parlava di garbage in and


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garbage out, immondizia che entra e immondizia che esce, sono macchine che producono ciò che vi hai inserito - è più comprensibile e consente la concorrenza fra territori, la quale permette di affermare che si è costruito un ospedale che funziona o che non funziona.

PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal professor Barca (vedi allegato). Si chiude qui la prima delle nostre audizioni all'interno dell'indagine conoscitiva. Ringrazio il nostro ospite e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.


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ALLEGATO


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