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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
11.
Martedì 3 maggio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MERCATI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI

Audizione del presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime):

Conte Gianfranco, Presidente ... 3 9 10 14
Abete Luigi, Presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime) ... 3 11
Fluvi Alberto (PD) ... 9
Micossi Stefano, Direttore generale dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime) ... 14

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 3 maggio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 13,45.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, l'audizione del presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime).
Il presidente dell'Assonime, dottor Luigi Abete, è accompagnato dal dottor Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, dal dottor Carmine Di Noia, vice direttore generale, dal dottor Francesco Chiurco, capo ufficio stampa, e dalla dottoressa Alessandra D'Orsi, dell'ufficio stampa.
Gentile presidente, la Commissione desidera conoscere la posizione dell'Associazione fra le società italiane per azioni sulla situazione complessiva dei mercati degli strumenti finanziari e, in particolare, in merito a eventuali interventi cui questa Commissione potrebbe porre mano al fine di garantire, da un lato, una maggiore fluidità di tali mercati e, dall'altro, uno sviluppo delle PMI.
Le do la parola, presidente Abete, per lo svolgimento della relazione.

LUIGI ABETE, Presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime). La ringrazio, signor presidente.
Abbiamo predisposto un documento, che non leggerò integralmente, limitandomi a seguirne lo schema. Sono a disposizione della Commissione alcune copie, in modo tale che chi vorrà potrà approfondirne i contenuti anche in seguito.
Il sistema finanziario italiano rimane strutturalmente caratterizzato dal ruolo dominante delle società bancarie nei flussi d'intermediazione. Infatti, i canali di finanziamento non bancario sono storicamente poco sviluppati, per quanto riguarda sia la parte fornita dalla borsa, sia il finanziamento mobiliare indipendente dalle banche. L'autofinanziamento rappresenta una quota prossima al 40 per cento, più elevata rispetto agli altri mercati sviluppati, proprio perché la struttura di controllo delle aziende è relativamente chiusa.
La debolezza dei canali di finanziamento non bancari è dovuta ad alcuni fattori strutturali, tra i quali è da annoverare, in primo luogo, il basso peso, tra gli investitori istituzionali, dei fondi pensione, la cui crescita è stata storicamente ostacolata dal peso preponderante della previdenza pubblica e dallo sfavorevole trattamento fiscale del risparmio pensionistico privato.
Gli altri investitori istituzionali operano prevalentemente sotto il controllo delle istituzioni bancarie, le quali ne limitano la capacità di collocamento nelle fasi di tensione della raccolta.


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D'altra parte, anche il sistema bancario colloca sul mercato le proprie obbligazioni: il 45 per cento circa presso la clientela retail, talvolta anche con rendimenti inferiori a quelli dei titoli di Stato; poco meno di un terzo è acquistato da altre banche, da imprese di assicurazione, fondi pensione e altri intermediari finanziari, nonché da società non finanziarie, amministrazioni pubbliche e altre istituzioni finanziarie (per quanto concerne le banche, occorre considerare che le regole sul capitale di Basilea consentono accantonamenti ridotti di capitale in relazione a tale forma di impiego).
Negli ultimi anni, non è cambiato molto nella struttura del sistema finanziario italiano: rimangono i vincoli, le abitudini e le limitazioni tradizionali.
La dimensione della nostra borsa è limitata sia in valore assoluto, sia in rapporto al PIL, com'è stato già illustrato dal presidente della Consob in una precedente audizione.
A Francoforte ci sono 931 imprese domestiche quotate, a Parigi 765 e a Londra 656. A Londra, in particolare, il peso della raccolta equity per le imprese è accresciuto dalla presenza di un mercato non regolamentato, AIM UK, sul quale sono negoziate le azioni di oltre 1.000 società, mentre in Francia e in Germania gli analoghi mercati per le PMI registrano la presenza di circa 130 imprese ciascuno.
In Italia, alla fine del 2010, le società quotate erano 286 (lo stesso numero del 2000), di cui 19 appartenenti ai segmenti specializzati per le piccole e medie imprese. Nell'ultimo decennio sono state ammesse a quotazione 160 società, e altrettante sono uscite dal listino. Si possono dare due letture di tale fenomeno: o la borsa è dinamica, o il sistema non è sufficientemente competitivo (per cui vi si entra, ma poi se ne esce).
La capitalizzazione della nostra borsa in rapporto al PIL è del 35 per cento. Se compariamo il dato con quello del 2000, constatiamo che si è dimezzato: allora era del 70 per cento, ma bisogna tenere conto del fatto che il biennio 1999-2000 è stato molto positivo per il nostro mercato borsistico e che, comunque, il valore è doppio rispetto a quello del 1995. Ciò dimostra che i dati percentuali variano anche molto rapidamente in relazione agli andamenti complessivi dei mercati.
Se confrontiamo il nostro attuale 35 per cento con il 157 per cento nel Regno Unito, con il 90 per cento della Francia e con il 50 per cento della Germania, possiamo apprezzare come la percentuale italiana sia notevolmente ridotta anche rispetto a quelle di Paesi più somiglianti al nostro (mi riferisco a Francia e Germania).
L'analisi dei dati indica, quindi, che raramente la borsa è utilizzata come canale di finanziamento di nuove attività o aggregazioni.
Spesso, essa è utilizzata, invece, per rafforzare le strutture finanziarie dopo periodi di forte indebitamento - anche legati a progetti di sviluppo, gestiti dapprima mediante l'indebitamento e, in seguito, attraverso operazioni sul capitale -, ovvero per agevolare passaggi generazionali, nell'ambito di strutture imprenditoriali organizzate su base familiare.
Peraltro, l'ambiente sociale non è favorevole al capitale privato, in quanto, paradossalmente, mostrare un'elevata capitalizzazione, soprattutto nel caso delle medie e piccole imprese, può esporre a rischi di «confisca», sia essa normativa o fiscale (ciò provoca una maggiore riluttanza nei confronti della quotazione in borsa).
D'altra parte, il ruolo delle borse tende a cambiare anche a livello internazionale. Negli ultimi dieci anni il sistema si è indebolito: non c'è più simmetria tra la salute dell'economia e la salute delle borse, a causa della minore connessione tra i comportamenti adottati nei due settori, dell'instabilità dei mercati e delle rilevanti oscillazioni legate a fenomeni di natura speculativa. In tale scenario, aumenta, per le imprese non grandi, il rischio che il circolante, essendo ridotto, sia più facilmente oggetto di tensioni al rialzo o al ribasso.
Si consideri, inoltre, che molte imprese cominciano a scoprire i benefici degli


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aumenti privati di capitale, che consentono di bypassare la borsa e i costi di quotazione.
Il calo del numero delle società quotate si registra non soltanto in Europa, ma anche sul mercato americano, dove le imprese quotate sono diminuite dalle 7.000 del 1997 alle 4.000 attuali (con una tendenza ancora in diminuzione).
Ciò non significa che sia meno importante il ruolo del canale equity di finanziamento. Al contrario, esso è fondamentale per favorire il rafforzamento patrimoniale e la crescita dimensionale delle imprese italiane. È parimenti importante, per cercare di favorire la crescita delle nostre imprese, la disponibilità di finanziamenti obbligazionari dal mercato dei capitali per progetti di investimento a medio e lungo termine.
Tuttavia, ciò sarà possibile alla duplice condizione che questi canali di finanziamento siano in grado di offrire opportunità altrimenti non disponibili e che i costi regolamentari siano ridotti. È evidente, infatti, che la competitività delle borse si migliora riducendo i costi e offrendo qualcosa che non si può trovare altrove.
Noi abbiamo sviluppato alcune riflessioni, analizzando separatamente i profili dell'offerta e della domanda di titoli.
Sul piano dell'offerta di titoli, si potrebbe affermare che la borsa italiana è in precarie condizioni. La parte «alta» del listino conta pochissime grandi imprese manifatturiere, le grandi banche e assicurazioni, le imprese privatizzate, per lo più utilities.
Questo mondo resta alquanto chiuso all'apporto di capitale da parte del mercato, anche a causa dell'abitudine, radicata nel Paese, di mantenere stabili gli assetti di controllo. Non appena si manifesta una situazione di contendibilità, dovuta all'interesse per una società da parte di investitori esteri (ma anche interni), il mutamento che essa prospetta è visto non come un vantaggio per l'impresa e per il Paese, ma come un problema. Si tratta di un atteggiamento sbagliato, che non è né di destra né di sinistra, né di un particolare gruppo sociale, e che ha caratterizzato, costantemente e indistintamente, il ceto politico e dirigenziale in senso lato. Da noi alligna una cultura secondo la quale la stabilità degli assetti di controllo delle nostre grandi società è predominante, in termini di utilità marginale, rispetto alla contendibilità. Tale cultura si traduce in comportamenti volti a scoraggiare o a ostacolare gli investimenti esteri nelle grandi imprese italiane.
Un atteggiamento analogo esiste anche negli altri Paesi continentali, tranne quelli nordici e anglosassoni, per tradizione più aperti e flessibili. Tuttavia, il costo che noi paghiamo è più elevato: avendo carenza di capitale e di investitori forti all'interno, la tendenziale chiusura all'apporto di capitali da parte dei mercati internazionali produce, da noi, effetti più gravi.
Nella parte «bassa» del listino troviamo i campioni del made in Italy, il cosiddetto quarto capitalismo, le imprese internazionalizzate di successo, il nucleo delle nostre imprese più competitive a livello internazionale. Oltre a queste, se ne contano molte altre, forse più di mille, le quali, pur avendo tutti i requisiti per entrare nel mercato di borsa, non hanno finora deciso di quotarsi. Possiamo collocare anche queste imprese nella categoria del quarto capitalismo, intesa in senso lato.
Non è infrequente il caso di imprese che, dopo essersi quotate, scelgono di uscire dal mercato, ovvero sono oggetto di operazioni sul capitale. Ciò accade anche perché, con un listino poco dinamico e incentivante, tali imprese avrebbero paradossalmente, in base alla capitalizzazione di borsa, un valore inferiore a quello reale. Se la quotazione, anziché valorizzare le imprese, le deprezza, è chiaro il motivo per il quale molte delle imprese che potrebbero entrare nel listino se ne tengano, invece, lontane.
Si potrebbe certamente superare tale condizione, introducendo nel sistema elementi attrattivi reali, di natura fiscale e regolamentare. La mancanza di tali attrattività e la presenza di alcuni appesantimenti, fiscali e regolamentari, fanno sì che il mercato rimanga compresso.


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Anche in questo caso occorre - non mi stanco di ripeterlo ogni qual volta ne ho l'occasione - un mutamento nell'ambiente culturale e sociale, che induca tutti ad elevare la dimensione media delle imprese.
Il nostro Paese presenta un limite che è, nello stesso tempo, anche un'opportunità, perché molte piccole imprese potrebbero diventare medie e internazionalizzarsi. Pur realizzando prodotti cosiddetti di nicchia, dietro i quali vi sono processi caratterizzati da un livello di ricerca e innovazione molto elevato, esse non hanno ancora raggiunto una dimensione tale da poter competere sul mercato globale. Proprio la borsa potrebbe aiutare queste imprese, le quali, ovviamente, devono essere indotte a compiere un salto che è quantitativo e qualitativo: quantitativo dal punto di vista dimensionale; qualitativo per quanto riguarda la natura dell'azionariato.
Si parla tanto di politica industriale, di politiche a favore delle imprese, di politiche di sviluppo. Ebbene, una politica di sviluppo essenziale consiste nel far crescere la dimensione media delle imprese italiane, nel far diventare medie le imprese italiane medio-piccole - potrebbe sembrare un gioco di parole, ma non lo è -, favorendone il processo di sviluppo su mercati aperti. Sarebbero utili, a tale scopo, anche forme di incentivo che premino l'aggregazione tra le piccole imprese.
Se vogliamo competere a livello internazionale, le medie imprese devono internazionalizzarsi e le imprese medio-piccole devono diventare medie: questo farebbe la differenza, nel senso che ci permetterebbe di superare il break-even tra sviluppo e galleggiamento. Per conseguire tale risultato, occorre operare con grande attenzione, mettendo in campo le opportune politiche fiscali e di attrazione, anche in termini di riduzione dei costi regolamentari.
Vediamo, ora, la situazione della domanda.
Il nostro Paese presenta un'alta propensione al risparmio e un basso debito privato, condizioni che dovrebbero favorire un processo di allocazione di equity. Manca, tuttavia, un nucleo di investitori istituzionali e di fondi pensione, anche perché la cornice normativa e fiscale non li agevola.
Dal canto loro, gli istituti bancari, soprattutto quelli medi e medio-piccoli, come le banche popolari, sono anch'essi competitori, nel senso che collocano i propri titoli sul mercato locale (le grandi banche lo fanno anche sui mercati internazionali).
Registriamo, altresì, una limitatezza strutturale dell'investiment banking - Mediobanca, in realtà, è l'unica banca d'affari italiana di rilievo internazionale -, ma vi sono strutture appartenenti a fondi di private equity internazionali che stanno acquisendo un ruolo crescente sul nostro mercato.
La creazione di fondi pubblici di sostegno non risolve il problema della carenza di investitori istituzionali: può essere un utile corollario, ove sia attuata una politica fiscale e regolamentare di attrazione, in un contesto di valorizzazione culturale dell'impresa in grado di aprire effettivamente il mercato.
In tale quadro, il disegno del sistema delle regole non ha contribuito a favorire la quotazione delle imprese.
Noi abbiamo la buona abitudine di dare attuazione alle direttive europee, ancorché in ritardo. Tuttavia, poiché le predette direttive sono generalmente ispirate a un criterio di armonizzazione minima, abbiamo anche l'abitudine, meno buona, di lasciare in vigore le più stringenti regole previste dalla normativa nazionale, il che genera un problema di mismatching. Se sovrapponiamo la normativa europea a quella italiana, anziché introdurre semplificazioni e maggiore omogeneità, rischiamo di generare complicazioni e di aggravare il gap competitivo.
La semplificazione delle regole è uno dei temi sui quali dobbiamo lavorare. Un passo importante in questa direzione è stato recentemente compiuto dalla Consob, la quale ha costituito alcuni tavoli di lavoro sulla semplificazione della regolamentazione, cui partecipano anche i rappresentanti


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del mercato finanziario. Speriamo che l'iniziativa produca risultati rilevanti in tempi rapidi.
Il secondo tema è quello della stabilità delle regole.
Le nuove norme non possono modificare le regole del gioco in corso di partita, ma devono produrre i propri effetti nel futuro: questo concetto, che ci insegnano a scuola da sempre, fa la differenza tra uno Stato di diritto e uno di diversa natura e dovrebbe costituire un benchmark distintivo per un Paese come il nostro. Gli investitori nazionali ed esteri non devono neanche essere sfiorati dal dubbio che possiamo sacrificare la certezza del diritto alla tutela di interessi contingenti. Indipendentemente dalla legittimità o meno di tali interessi, i nostri obiettivi prioritari devono essere la certezza del diritto e la percezione di essa da parte degli investitori istituzionali.
Da questo punto di vista, bisogna fare molta attenzione: se, come spesso capita in Italia, si dichiara di voler intraprende un'azione e poi, invece, si interviene per tranquillizzare, per relativizzare la portata di ciò che si è affermato, anche il problema virtuale, in quanto percepito dai mercati, può diventare un problema reale. Occorrerebbe pertanto - ciò vale per tutti - un maggiore coordinamento tra ciò che si fa e ciò che si dice, perché la libertà di giudizio senza coerenza crea incertezza sui mercati.
Sarebbe opportuno che la Consob riprendesse la vecchia abitudine di programmare una revisione annuale dei regolamenti - salva, naturalmente, la possibilità di intervenire prontamente a fronte di casi eccezionali -, in modo tale che si sappia dell'esistenza di un certo percorso consuetudinario.
Per quanto riguarda più specificamente alcuni aspetti di tipo tecnico, la tendenza della normativa nazionale è nel senso di aggiungere obblighi addizionali a quelli previsti dalle disposizioni comunitarie. Si pensi alle discipline riguardanti la pubblicazione di documenti su operazioni straordinarie, le operazioni con parti correlate, la trasparenza sui paradisi fiscali, i requisiti di quotazione per emittenti aventi società controllate in Paesi extra-UE.
Se vogliamo favorire la quotazione delle imprese e incoraggiare gli investimenti, dobbiamo rendere omogenea la nostra normativa rispetto a quella degli altri Paesi europei, altrimenti corriamo il rischio che iniziative anche legittime, positive e opportune, determinando disallineamenti tra le norme, creino difficoltà applicative ed altri effetti controproducenti.
Ad esempio, gli emittenti italiani che controllano società in altri Paesi europei hanno rilevanti difficoltà di compliance nei flussi informativi infragruppo, dal momento che i criteri da applicare sono diversi a seconda dei casi.
Inoltre, la soglia minima di comunicazione di partecipazioni rilevanti - stabilita dalla normativa comunitaria nella misura del 5 per cento - è fissata, da noi, al 2 per cento, mentre i principali Paesi la stanno portando al 3 per cento. Poiché tutti i fondi di investimento tendono a collocarsi sotto la soglia, noi abbiamo un tetto implicito dell'1,99 per cento e gli altri Paesi uno del 2,99 per cento. Ciò significa che, a parità di altre condizioni, i fondi possono collocare circa il 33 per cento di risorse in più negli altri Paesi senza superare la soglia. Uniformare la normativa italiana in materia di soglie di comunicazione a quella vigente nei mercati concorrenti sarebbe utile e non porrebbe problemi né di trasparenza, né di efficacia.
Sarebbe utile, altresì, tornando alla disciplina originaria del Testo unico della finanza del 1998, ripristinare completamente la regola di passività del management nel periodo dell'offerta pubblica di acquisto, prevedendo la decadenza di ogni limite all'esercizio del voto in assemblea (mi esprimo da persona con esperienza diretta). Dobbiamo decidere in modo definitivo se la contendibilità sia un valore, per noi, oppure no. Se è un valore, bisogna essere coerenti; se non lo è, dichiariamolo apertamente: almeno saremo coerenti. La nostra scelta, anche se non condivisa da


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tutti, sarà comunque rispettabile, perché motivata, anche se difforme rispetto all'orientamento comunitario.
Sarebbe opportuno un ripensamento anche in merito alla disciplina degli avvisi a mezzo stampa, ripristinati circa due anni fa. A parte il fatto che l'onere di pubblicazione non è previsto dalla normativa comunitaria, ritengo si possa comunque trovare un modo per assolvere alcuni adempimenti in maniera più efficace e meno costosa. Faccio parte di quella schiera di persone per le quali ha un senso cercare un punto di equilibrio tra le diverse esigenze da soddisfare. In tale ottica, credo che prescrivere l'obbligo di comunicazione in relazione a fatti significativi attribuisca rilievo a tali fatti, mentre richiedere l'adempimento di obblighi di pubblicazione ampi e automatici sminuisca la rilevanza di quanto comunicato. Del resto, sfido chiunque a leggersi tutte le comunicazioni pubblicate.
Le ultime considerazioni che desidero proporre all'attenzione della Commissione riguardano il tema dell'ammissione a quotazione.
Ovviamente, devono essere fissati alcuni requisiti di trasparenza e organizzativi, e deve essere svolta un'attività di vigilanza per assicurare il mantenimento di tali requisiti. Tutte queste attività possono essere attribuite o all'Autorità di vigilanza o alla società che gestisce il mercato. Da noi il sistema è misto, con competenze divise tra la Consob e Borsa Italiana Spa.
Il fatto che Borsa Italiana sia entrata in un grande gruppo internazionale può indurre a riconsiderare l'attuale distribuzione di competenze e, quindi, a riaffidare eventualmente alla Consob le competenze per l'ammissione a quotazione, oggi assegnate a Borsa italiana. È essenziale, tuttavia, che non aumentino i costi e che l'efficienza e la rapidità assicurate da Borsa Italiana siano mantenute anche nel nuovo assetto. Non consideriamo questo tema un tabù, ma teniamo a sottolineare l'esistenza di un vincolo oggettivo, relativo ai costi e ai tempi di risposta.
Quanto all'organizzazione dei mercati, piuttosto che parcellizzare e specializzare, la soluzione migliore sarebbe, a nostro avviso, quella di avere un mercato base semplificato, conforme alla disciplina comunitaria, e un mercato «premium», più qualificato, cui potrebbero aderire, per loro scelta, le aziende del mercato base.
In altre parole, in luogo di mercati regolamentati soggetti a obblighi ulteriori rispetto a quelli comunitari e di sistemi multilaterali di negoziazione (MTF) cui sono di fatto estesi gli obblighi gravanti sugli emittenti quotati, sarebbe più opportuno immaginare un sistema di mercati equity a tre livelli.
Al primo livello ci sarebbe un mercato regolamentato «base», con obblighi in linea con le direttive comunitarie e, di conseguenza, semplificati rispetto all'attuale disciplina.
Al secondo livello opererebbe un mercato di eccellenza, «M» o «premium», cui aderirebbero volontariamente le aziende che ritenessero di assumere impegni più rigorosi, anche in termini di governance (pensiamo al ruolo degli amministratori indipendenti nei consigli di amministrazione, alla trasparenza e ai limiti delle operazioni con parti correlate, alla quantità del flottante, alla tempistica abbreviata per la presentazione dei documenti contabili).
Infine, sarebbe utile un mercato dei titoli di imprese non quotate sul mercato regolamentato, rigorosamente inaccessibile a investitori retail e aperto soltanto a investitori professionali (istituzionali e private equity), con requisiti soltanto di trasparenza e con la presenza eventuale, per dare spessore al mercato medesimo, di un Nomad e di uno specialist. Tale soluzione sarebbe molto più pratica rispetto alla creazione di uno speciale segmento di quotazione per le PMI. Abbiamo constatato, infatti, che tutti i tentativi di creare siffatti segmenti fanno proliferare più i mercati che le società quotate.
Naturalmente, occorre che le piattaforme alternative di negoziazione siano il più possibile trasparenti e che non vi sia una frammentazione degli scambi. Deve


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essere chiaro, in particolare, perché determinate transazioni siano effettuate a determinate condizioni anziché ad altre: la trasparenza è l'elemento che consente al mercato di introdurre i necessari correttivi in caso di comportamenti anomali.
Le nostre riflessioni nulla hanno aggiunto, probabilmente, a ciò che la Commissione conosce già, ma hanno confermato una posizione tradizionale di Assonime, sintetizzandola in dieci schede il cui approfondimento è agevole.
Noi vogliamo che i mercati finanziari siano sviluppati e abbiano come obiettivo quello di essere al servizio del sistema produttivo italiano, in quanto operano nel nostro Paese e qui da noi si procurano personale e clientela, non perché di proprietà di signori italiani anziché neozelandesi. Ho sempre pensato che gli azionisti debbano avere non il passaporto italiano, ma la qualità.
Ovviamente, è nostro interesse che le imprese italiane lavorino sul territorio, abbiano prodotti adeguati, promuovano la ricerca, sappiano essere innovative e si sviluppino anche sui mercati internazionali. Tuttavia, più che la relazione con gli shareholder, è il legame con gli stakeholder ciò che rende un'azienda italiana o non italiana. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ALBERTO FLUVI. Ringrazio il presidente e la delegazione di Assonime per la ricca e interessante relazione, la quale contiene riflessioni che saranno sicuramente utili alla Commissione.
L'audizione odierna ha luogo in un momento particolare: proprio ieri ha avuto luogo, in Assemblea, la discussione sulle linee generali del cosiddetto decreto Parmalat. Come lei ha giustamente affermato, presidente, la tutela dell'italianità delle imprese non è né di destra, né di sinistra, perché potremmo parlare di Abertis o di altri casi analoghi verificatisi in passato, a prescindere dai Governi allora in carica.
Ciò premesso, desidero svolgere, prima di tutto, una riflessione di carattere più generale. Con l'attuazione della direttiva MiFID si è verificata - forse esagero - una rivoluzione all'interno dei mercati finanziari. Abbiamo assistito a una girandola di aggregazioni che sembra ancora non conclusa. Penso alla fusione di Borsa Italiana Spa con il London Stock Exchange, all'aggregazione con TMX e ad altre già attuate o in corso, che Assonime conoscerà sicuramente meglio di noi.
La mia prima domanda è relativa proprio al processo di revisione della direttiva MiFID. A tale proposito, pensando al contesto finanziario del nostro Paese, mi piacerebbe sapere se abbiate qualche proposta da formulare in merito alle modifiche di cui si sta discutendo in Europa.
Passando a una diversa considerazione, lei, presidente, ha evidenziato la necessità di uniformare la normativa, quanto meno a livello europeo, dal momento che, ormai, i mercati finanziari hanno una dimensione internazionale. Non so se a ciò potesse o dovesse corrispondere la creazione di un'unica piazza finanziaria europea. Comunque, credo che tale possibilità sia ormai da escludere, atteso che i buoi sono già scappati dalla stalla.
Nella relazione ho colto due riferimenti molto importanti.
L'attuale soglia del 2 per cento, al raggiungimento della quale scatta l'obbligo di comunicazione delle partecipazioni rilevanti (peraltro, alla Consob è data la possibilità di stabilirne una inferiore), finisce per condizionare negativamente gli investimenti dei fondi istituzionali nel capitale delle imprese italiane, secondo il meccanismo che lei, presidente, ha illustrato in maniera molto chiara.
Per quanto riguarda la passivity rule, lei sa meglio di me, presidente Abete, che non esiste direttiva applicata più a macchia di leopardo, o a veste di Arlecchino, della direttiva OPA: ogni Paese europeo si è ritagliato il proprio abito su misura. Condivido la sua posizione, presidente, ma o modifichiamo il sistema delle fonti normative europee, incidendo anche sul loro


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rapporto con le fonti nazionali, o diventa complicato avere una sorta di singolo rulebook a livello europeo.
Condivido in maniera particolare, presidente Abete, tra le molte che ha svolto, anche un'altra considerazione. Dobbiamo ragionare in base alla realtà che abbiamo di fronte, vedendola come essa è, e non come vorremmo che fosse. Ebbene, se osserviamo il nostro sistema economico partendo da questa premessa, ci accorgiamo che esso è caratterizzato dalla presenza di un numero elevatissimo di piccole e piccolissime imprese, le quali occupano, nel 90-95 per cento dei casi, meno di dieci dipendenti. Non possiamo immaginare che queste aziende possano quotarsi.
D'altra parte, non esiste un'unica soluzione. Non esiste, in particolare, uno strumento normativo che, come una bacchetta magica, possa aprire alle aziende i mercati finanziari. È necessario, invece, elaborare linee di politica legislativa (con particolare riguardo al settore fiscale) che puntino, attraverso obiettivi di medio e lungo termine, a far assumere all'infrastruttura borsa una posizione di centralità nel sistema economico del Paese.
Secondo lei, per esempio, i costi di quotazione, di compliance, rappresentano o no un ostacolo alla quotazione delle società in borsa? In occasione della precedente audizione, l'amministratore delegato di Borsa Italiana, dopo aver evidenziato che tali costi sono più o meno uniformi, a Milano come a Parigi, Francoforte o Londra, ha affermato che, se in Francia, in Germania e in Gran Bretagna le imprese si quotano più che in Italia, ciò significa che i costi non costituiscono un ostacolo rilevante.
Giustamente, è stato rilevato anche da lei, presidente, come gli incentivi alla quotazione lascino il tempo che trovano. Personalmente, pensavo a un incentivo per accompagnare, diciamo così, il lavoro che sta compiendo il Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese, cui partecipa anche Cassa depositi e prestiti Spa. Sebbene gli interventi realizzati dal Fondo siano, al momento, tre o quattro, ritengo possa essere importante affiancare questa e altre iniziative simili, volte alla crescita dimensionale delle imprese, con agevolazioni di carattere fiscale per gli investimenti dei fondi di private equity finalizzati alla quotazione delle società di piccole e medie dimensioni. Qual è la sua opinione al riguardo, presidente Abete?
La mia ultima domanda non riguarda direttamente la borsa, ma i fondi comuni. Ho apprezzato molto l'esordio della relazione, laddove si afferma, in maniera lapidaria, che il sistema finanziario resta strutturalmente caratterizzato dal ruolo dominante delle banche. È così.
È stato modificato, com'è noto, il regime di tassazione dei fondi comuni italiani, ed era stata già prevista la possibilità, per le imprese che trasferiscono la propria sede in Italia, di chiedere l'applicazione, in luogo della disciplina tributaria italiana, delle regole fiscali vigenti in un altro Stato europeo dell'Unione europea (non so se questa sia un'operazione fattibile). Non credo, comunque, che il problema principale per i fondi comuni fosse quello fiscale.
Probabilmente, tutti i fattori hanno una loro influenza. Tuttavia, ricollegandomi a quanto da lei affermato, presidente, circa il ruolo dominante delle banche nel sistema finanziario italiano, credo che, fino a quando non affronteremo il tema del rapporto fra proprietà e SGR, cioè fra chi produce e chi distribuisce, potremo anche modificare il regime fiscale, ma sicuramente non faremo, per questa strada, la fortuna dei fondi comuni.

PRESIDENTE. Presidente Abete, premesso che presto si porrà mano alla semplificazione auspicata nella relazione, lei ha delineato, sostanzialmente, un sistema a tre livelli: un mercato base, uno di eccellenza, e un sistema di negoziazione di titoli di imprese non quotate sul mercato regolamentato aperto esclusivamente a investitori istituzionali. Quest'ultimo dovrebbe sostituire AIM e MAC?
Per quanto riguarda l'attività di listing, il dottor Jerusalmi ha sostenuto in questa sede che essa fa capo a Borsa Italiana,


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sotto la supervisione della Consob, mentre i canadesi di TMX, dopo la progettata fusione, si occuperanno esclusivamente dell'attività di promozione e marketing. Ciò è tutto da dimostrare. Comunque, stando a quanto riferisce lei, presidente, sarebbe opportuno riconsiderare l'attuale distribuzione delle competenze, in funzione dell'attribuzione del listing nella sua interezza alla Consob (o a un soggetto terzo, che non deve essere necessariamente Borsa Italiana).
Che ne pensa, presidente, dell'istituzione di un mercato di obbligazioni, come presupposto per la quotazione di PMI, prevedendo che, in una fase successiva, tali titoli possano essere convertiti in equity?

LUIGI ABETE, Presidente dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime). Signor presidente, risponderò ad alcune domande, lasciando al dottor Micossi, con il suo permesso, il compito di intervenire riguardo alla borsa, tema sul quale egli potrà fornirvi informazioni più complete, essendosene occupato anche a livello comunitario.
Cominciando dall'ultima considerazione, penso si possa ricorrere alla metafora del cane che si morde la coda: se esiste un mercato quantitativamente significativo e «non regolato», purché trasparente, ciò produce inevitabilmente la possibilità di aprire a latere iniziative che funzionino come canali di finanziamento per le imprese interessate, che possono a loro volta essere oggetto di un mercato. È difficile immaginare che qualcuno vada a comprare o a negoziare un titolo se non conosce bene, o non ha qualcuno che conosca bene, chi sia l'emittente.
La sua osservazione, signor presidente, che io ritengo condivisibile, si inserisce bene nell'ottica del terzo livello organizzativo di cui ho detto in precedenza.
Non possiamo considerare AIM e MAC alla stregua di veri e propri mercati, se ne fanno parte dieci o venti società. Si tratta di piattaforme di negoziazione organizzate che accolgono un numero esiguo di imprese: ciò è legittimo, sia ben chiaro, ma non basta affinché si possano applicare loro definizioni ben più pregnanti. Se le 1.000 imprese famose, in attesa di andare sul mercato «ufficiale», accedessero a un mercato regolamentato con adeguati livelli di trasparenza e specialist dedicati, potrebbero svilupparsi, probabilmente, anche commercial paper e strumenti aggiuntivi a quelli esistenti. Tuttavia, il conseguimento di tali risultati presuppone la conoscenza e la trasparenza dei soggetti, che devono, quindi, essere garantite.
Per quanto concerne i fondi comuni, bisogna aspettare il tempo necessario per verificare quali effetti produrranno le modificazioni intervenute sul piano fiscale (abbiamo finalmente risolto una dicotomia a livello europeo). È difficile esprimere un giudizio nel breve periodo, soprattutto in una fase di instabilità dei mercati. Fra due o tre anni vedremo se l'intervento sarà stato rilevante. Personalmente, penso che sarà piuttosto rilevante, anche se non decisivo, con l'avvertenza che la mia è soltanto una previsione, e non va presa, pertanto, come un'informazione.
Penso che il fattore fiscale abbia avuto un'influenza maggiore rispetto al fattore governance. Le grandi strutture finanziarie e bancarie che lavorano su mercati aperti hanno tutto l'interesse, oggi, ad avere controparti forti, perché ciò riduce il rischio connesso all'impiego del capitale. Il mondo è cambiato. Una volta, le banche potevano anche pensare che fosse più «comodo» il rapporto con un cliente non di massima affidabilità. Oggi, invece, il cliente più utile per la banca è quello che le offre il massimo di affidabilità: l'adozione di questo criterio di condotta consente alle banche di erogare finanziamenti adeguati a tassi competitivi e con rendimenti maggiori, anche se unitariamente minori (essendo le masse più ampie), di finalizzare a tali attività un capitale di vigilanza più basso e di moltiplicare, in tal modo, il numero delle operazioni.
Al di là del fatto che le regole di Basilea 2 e 3 intervengono su una situazione in divenire, esse si basano sul presupposto che, in una società fortemente competitiva, evoluta e globale, si deve lavorare con


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interlocutori al proprio livello, perché ciò consente di migliorare l'attività e i profitti.
Non penso - ripeto - che si ponga un problema di governance, come poteva accadere, forse, vent'anni fa. Penso che il problema fiscale sia quello dominante, ma lo verificheremo.
Onorevole Fluvi, lei ha sollevato la questione del rapporto tra i costi di quotazione e l'accesso ai mercati. La domanda ci pone davanti a un trade-off relativo. Noi riceviamo segnalazioni, evidenze e sentiment da parte degli operatori, i quali sostengono che i costi sono, da noi, mediamente più elevati, a causa di una pluralità di adempimenti derivanti da una regolamentazione molto complessa.
Facendo finta che questo sentiment sia eccessivo, il problema non è il costo in sé, ma il costo in relazione ai benefici. Se ho un costo di 2, cambia molto, per me, che il beneficio atteso sia di 10 ovvero di 5: bisogna guardare al rapporto tra numeratore e denominatore. Abbiamo un valore assoluto che è generalmente ritenuto più pesante, ma il vero problema sta nel fatto che il rapporto tra costi e benefici non è conveniente per le imprese che si quotano. Ciò spiega perché alcune imprese, dopo essersi quotate, escano dal mercato. Evidentemente, alcuni imprenditori ritengono, a un certo punto, che valga la pena di sostenere un costo maggiore, pur di non permanere in una situazione di minore competitività.
A mio avviso, il problema va affrontato in due modi fondamentali: il primo è certamente una riforma fiscale che rimetta in equilibrio rendita, profitto e lavoro. Mi rendo conto che si tratta di un compito difficilissimo. Avvertendo il problema, Assonime ha elaborato una proposta di riforma fiscale, che formalizzeremo a giugno in termini organici.
Per abitudine mentale, siamo portati a confondere due piani che, invece, sono distinti.
Uno è quello della dimensione quantitativa. Che la pressione fiscale, in Italia, sia maggiore e che, quindi, debba essere ridotta, penso sia condiviso da tutti: anche se il problema non fosse reale - ma lo è, purtroppo -, tutti riterrebbero comunque utile ridurla. È generalmente condiviso, inoltre, che bisogna lavorare, a tal fine, per ridurre la spesa e l'evasione.
Da questo punto di vista, si può agire bene e anche velocemente, con la consapevolezza, tuttavia, che la dimensione quantitativa è solo una parte del problema.
Se vi sono attività, tipologie di imprese e gruppi sociali che concorrono maggiormente alle spese pubbliche, ciò non avviene perché qualcuno ha elaborato un diabolico disegno per ottenere tale risultato, ma per motivi che possiamo individuare, tra l'altro, nella stratificazione storica delle norme e nelle abitudini comportamentali dei soggetti.
Dobbiamo lavorare, quindi, a una razionalizzazione qualitativa del contributo alla finanza pubblica, in mancanza della quale non risolveremo mai il problema, per la semplice ragione che, anche nel caso di riduzione della pressione fiscale, ci saranno sempre coloro che riterranno di pagare troppo e coloro che, purtroppo per noi, o buon per loro, pagheranno un po' meno di quanto dovrebbero pagare.
Il tema della dimensione qualitativa è molto più difficile da affrontare. Infatti, mentre nessuno è contrario alla riduzione delle tasse, se proponiamo di riequilibrare la pressione fiscale, in un periodo dato, nei confronti di Tizio, Caio, Sempronio ed altri, è probabile che gli interessati non siano soddisfatti, in quanto ciascuno di essi riterrà di aver subito un trattamento deteriore rispetto a qualcun altro.
Tuttavia, il tema non può essere eluso: è necessario avviare un processo di maggiore razionalizzazione, facendo in modo che nessuno debba sopportare un peso non compatibile con la dimensione temporale data. Si tratta di una sfida culturale e tecnica, oltre che economica.
Lascio a voi valutare quanto ciò possa influire sul livello di crescita e di sviluppo. Per quanto mi riguarda, non ritengo possibile crescere fino al 4-5 per cento. Quando un giornalista ipotizza simili tassi di crescita, gli consiglio di porsi l'obiettivo di raddoppiare quello attuale. Del resto,


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«raddoppiare» è una bellissima parola, che dà un senso di grandeur (per usare un'espressione riutilizzata in un altro Stato). Se passassimo dall'1 al 2 per cento, avremmo già ottenuto un grande risultato.
I fondi possono dare un contributo utile, ma penso che dobbiamo capire bene quale sia l'obiettivo da conseguire mediante tale strumento. Il problema della patrimonializzazione delle piccole imprese italiane si risolve molto più facilmente mettendo in campo politiche fiscali a favore di quello che io chiamo l'investitore di prossimità, vale a dire il cliente, il fornitore, il parente, il professionista, soprattutto nei periodi di tassi di interesse bassi. Comunque, nessun fondo può investire in un'impresa con un fatturato annuo di 5 milioni di euro, perché la gestione dell'investimento costerebbe più del rendimento atteso dall'operazione.
Bisogna attuare, quindi, politiche fiscali di massa, se vogliamo usare questo termine, rivolte alle piccole imprese, considerando tali quelle che hanno capitale e lavoro: se confondiamo nel novero delle piccole imprese quelle che hanno solo il capitale o solo il lavoro, non ci indirizziamo verso il cliente giusto. Le imprese da far crescere sono quelle che mettono insieme capitali e lavoro, quelle che organizzano entrambi i fattori della produzione (giuridicamente, invece, è impresa anche quella che organizza solo lavoro o la società che amministra beni).
Il Fondo italiano di investimento può dare un contributo utile, ma il fatto è che deve rivolgersi a un particolare segmento di imprese: non a quelle che richiedono strumenti diversi (ad esempio, fondi locali), e nemmeno a quelle già sui mercati, non essendo plausibile che puntino sullo strumento pubblico le imprese che già possono fare ricorso a uno strumento privato. La linea di incontro tra domanda e offerta è, in questo caso, molto sottile.
Formulo molti auguri a coloro che gestiscono l'iniziativa: se saranno capaci e fortunati, otterranno un risultato che io considererò importante, ma che tutti i cittadini italiani riterranno insufficiente, perché le «multinazionali tascabili» - così definiva Vittorio Merloni, quando era presidente di Confindustria, le nostre imprese non grandi, ma con una struttura organizzativa flessibile e adattabile - vanno sui mercati per conto loro (ed è questo il motivo per cui l'industria italiana regge).
Come si fa a integrare le normative europee evitando che si possa rimanere spiazzati a causa di politiche protezionistiche o neoprotezionistiche? Questo è un problema reale e di difficile soluzione.
Innanzitutto, bisogna evitare di cadere negli eccessi opposti.
Faccio parte - la premessa può aiutare a comprendere meglio ciò che dirò - di coloro i quali hanno scoperto l'Europa da giovani: nel 1979, da presidente dei giovani imprenditori, invitavo il presidente di Confindustria, Carli, a schierarsi a favore di un ingresso immediato dell'Italia nello SME; negli anni dal 1992 al 1996, da presidente di Confindustria, sollecitavo la classe politica a compiere uno sforzo per aderire all'euro fin dalla nascita della moneta unica. Insomma, non ho dubbi: i costi che comportano, per noi, le furbizie degli altri sono minori di quelli che ci creiamo noi stessi quando pensiamo di essere più furbi degli altri.
Ciò non significa che dobbiamo abbassare la guardia rispetto a comportamenti neoprotezionistici, o che non garantiscono la par condicio. Le asimmetrie esistono ed esisteranno sempre, ma dobbiamo combatterle obbligando gli altri a eliminare le loro, non introducendone altre per nostro conto. Noi abbiamo bisogno di un mercato aperto, perché siamo più competitivi e anche perché la storia dimostra che cresciamo di più. Il mercato aperto per noi è un vantaggio: quindi, ci serve.
Il mio è un discorso non accademico, ma pragmatico, ispirato dalla tutela degli interessi delle categorie imprenditoriali, che ho avuto occasione di conoscere piuttosto bene per motivi diversi.
Penso che in tale ambito si possa fare molto di più. Bisogna lavorare facendosi rispettare, ma anche tenendo conto della necessità di non introdurre ulteriori elementi di asimmetria.


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Signor presidente, se lo consente, lascerei la parola al collega Micossi.

PRESIDENTE. Prego, dottor Micossi.

STEFANO MICOSSI, Direttore generale dell'Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime). La MiFID ha portato molte novità positive, ma nella sua impostazione di fondo è stata misguided, mal concepita.
Nei nostri mercati, caratterizzati da strutture concorrenziali di tipo tendenzialmente oligopolistico, la propensione alla concentrazione crea nuovi monopoli. Ciò vale per il trading e, a maggior ragione, per il post-trading. Probabilmente, dovremo tornare a ragionare di controlli pubblici e di public facilities. È probabile che i servizi di depositario centrale tendano a concentrarsi, e forse è desiderabile favorire tale processo.
Per quanto riguarda la borsa, ormai il processo ci è sfuggito di mano: l'Europa ha perso la capacità di orientarlo. Le aggregazioni stanno avvenendo in maniera trasversale. Non avere creato il mercato dell'euro è stata una grande occasione perduta. Serviva un intervento pubblico che non siamo riusciti a concretizzare.
La concorrenza tra le piattaforme di negoziazione ha prodotto una dispersione della liquidità e un aumento di opacità. Dopo aver ceduto alla tesi inglese sull'internazionalizzazione delle negoziazioni all'interno delle banche, adesso ci accorgiamo che essa ha prodotto molta opacità e che la trasparenza nelle fasi di pre-negoziazione e di post-negoziazione è, in realtà, completamente inadeguata.
Il problema è che non sono sorti in maniera spontanea, come pensava la Commissione, meccanismi di consolidamento dell'informativa di mercato atti a realizzare un'efficace price discovery. Su questo punto la revisione della MiFID può produrre un miglioramento.
Il risultato è che stanno emergendo blocchi di scambi opachi, dark pool, che dovranno essere regolamentati. Non so se vi sia consapevolezza, a livello europeo, del fatto che abbiamo sostanzialmente preso un abbaglio. La MiFID ha prodotto avanzamenti importanti e significativi, ad esempio in materia di tutela del cliente e di trasparenza, ma i problemi che ho indicato, se non saranno affrontati, si riproporranno.

PRESIDENTE. Ringraziamo i rappresentanti dell'Assonime per l'interessante audizione e anche per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,55.

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