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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(II e X)
4.
Martedì 17 novembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Gibelli Andrea, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA IN RELAZIONE ALL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 3 INIZIATIVA POPOLARE, C. 503 SILIQUINI, C. 1553 VIETTI, C. 1590 VITALI, C. 1934 FRONER, C. 2077 FORMISANO E C. 2239 MANTINI, IN MATERIA DI RIFORMA DELLE PROFESSIONI

Audizione del presidente del Comitato unitario per le professioni intellettuali (CUP), dottoressa Marina Calderone:

Gibelli Andrea, Presidente ... 3 11 14
Capano Cinzia (PD) ... 11
Orlandi Roberto, Vicepresidente del Comitato unitario per le professioni intellettuali ... 3 12
Siliquini Maria Grazia (PdL) ... 13
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
II (GIUSTIZIA) E X (ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 17 novembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA X COMMISSIONE ANDREA GIBELLI

La seduta comincia alle 12,30.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del presidente del Comitato unitario per le professioni intellettuali (CUP), dottoressa Marina Calderone.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione all'esame delle proposte di legge C. 3 iniziativa popolare, C. 503 Siliquini, C. 1553 Vietti, C. 1590 Vitali, C. 1934 Froner, C. 2077 Formisano e C. 2239 Mantini, in materia di riforma delle professioni, l'audizione del presidente del Comitato unitario per le professioni intellettuali (CUP), dottoressa Marina Calderone.
Avverto che la dottoressa Marina Calderone, impossibilitata a partecipare all'audizione, sarà sostituita dal dottor Roberto Orlandi, vicepresidente del CUP.
Do la parola al dottor Orlando per lo svolgimento della relazione.

ROBERTO ORLANDI, Vicepresidente del Comitato unitario per le professioni intellettuali. Signor presidente, abbiamo redatto un documento che consegno agli atti della Commissione e che credo sia in distribuzione. Pertanto, non tedierò l'uditorio leggendolo testualmente, ma procederò soffermandomi unicamente sui principali temi di interesse.
Chi vorrà approfondire gli argomenti trattati troverà nel documento tutti gli elementi che, in sintesi, richiamerò.
Il primo aspetto che mi preme indicare riguarda il valore del comparto delle professioni intellettuali italiane. Premetto che, in una economia come la nostra, nell'economia della conoscenza, il capitale umano rappresenta una risorsa strategica e fondamentale per tutti gli Stati, in particolare per quelli che non hanno materie prime, sulla base delle quali detenere posizioni di monopolio mondiale.
Il nostro Paese ha una risorsa enorme. Gli iscritti agli albi sono attualmente 1 milione 972 mila e producono il 12,5 per cento del PIL. Negli ultimi dieci anni, inoltre, il numero degli iscritti agli albi è cresciuto di oltre 850 mila unità, con un incremento del 70 per cento.
Nessun settore economico ha avuto uno sviluppo così impetuoso. La storia d'Italia non ricorda un evento simile, se non nel boom del dopoguerra. Il risultato è che oggi un professionista su due ha meno di quaranta anni. Quindi, parliamo di un enorme corpo sociale formato da giovani, alle cui spalle insiste un numero rilevante di praticanti che stanno perfezionando il percorso di accesso agli albi. I professionisti valgono, sull'insieme degli occupati, quasi il 9 per cento dell'intera occupazione italiana.
L'altro elemento di interesse, non statistico e non materiale, è l'enorme valore delle attività intellettuali nel mondo dell'economia della conoscenza.


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La revisione della disciplina nazionale sulle professioni ha dunque un impatto non solo sui professionisti, ma sull'intera società, sia per i numeri che vi ho comunicato, sia per la rilevanza delle attività che vengono svolte.
Per garantire un'ampia partecipazione dei professionisti e delle diverse forze sociali alla definizione di una legge, riteniamo che lo strumento più adeguato da applicare sia quello di una norma che enunci dei princìpi e che demandi - con delega presidiata da criteri e princìpi puntuali e nel rispetto della Costituzione - al Governo il compito di regolare il funzionamento delle singole categorie, valorizzandone le specificità, anche nella piena considerazione del principio di sussidiarietà fra organi dello Stato, quali i consigli nazionali che rappresentano le professioni. In questo senso, occorrerà elaborare uno strumento normativo che riaffermi il principio generale, in materia di attività intellettuali, previsto dall'articolo 33 della Costituzione. Mi riferisco segnatamente all'esame di Stato che per noi è il discrimine tra un'attività professionale, intellettuale e un'attività che intellettuale non è, pur avendo le connotazioni dell'autonomia.
In altre parole, occorre cogliere l'occasione per definire che cosa sia un'attività professionale intellettuale e che cosa non lo sia.
Un ulteriore elemento che indichiamo come fondamentale riguarda il fatto che, una volta fissati i princìpi generali, nei singoli decreti legislativi che dovranno riformare le specifiche attività professionali, le competenze di accesso degli attuali albi dovranno essere trasferite tassativamente così come sono, senza ampliamenti, senza che qualcuno utilizzi in modo surrettizio il riordino per acquisire competenze nuove - anche in ambiti di unificazione di categorie che sono sempre auspicabili - o per cambiare gli accessi alle professioni senza modificare il percorso di studi.
Al riguardo, segnalo un pericolo presente in alcune proposte di legge in discussione, che è quello di una miniriforma dentro alla riforma. In particolare, mi riferisco alla creazione del nuovo albo dei cosiddetti ingegneri tecnici o simili, alla fusione di periti e geometri. Per come è prevista, ossia in una miniriforma, tale norma non solo pare violare l'articolo 76 della Costituzione - assegna infatti al Governo una delega indeterminata, perché non è individuato l'oggetto della delega stessa - ma soprattutto modifica accessi e competenze e va a collidere con le altre attività professionali. Un'operazione del genere andrebbe evitata per garantire una riforma armoniosa e con dei princìpi comuni, che possono poi essere declinati nelle singole categorie, ma, ripeto, senza che questa sia una scusa per ampliare o modificare le competenze attuali di ciascuna professione.
Dicevo in precedenza che il presupposto della riforma è la distinzione tra le attività intellettuali e le attività di lavoro autonomo, o quelle ad esso assimilate. Normalmente, infatti, queste ultime non prevedono particolari percorsi di accesso o forme di tutela a garanzia dei pubblici interessi coinvolti che quindi non trovano tutela da parte di chi svolge la professione. Solo l'esame di Stato garantisce cos'è uno e cos'è l'altro. L'esame di Stato non garantisce in sé la qualità del professionista, ma garantisce il fatto che quel professionista ha svolto un percorso di studio determinato, ha frequentato - quasi sempre - un tirocinio e ha superato un esame abilitante. Inoltre, una volta superato l'esame di Stato e iscritto all'albo, il professionista è soggetto alla deontologia professionale e alla vigilanza dell'ente pubblico di appartenenza. È pur vero che oggi esistono associazioni di tipo privatistico, che si chiamano in modo abbastanza eufemistico nuove professioni e che si sono dotate di un loro codice deontologico. Tuttavia, la differenza fra la deontologia degli ordini e quella di queste associazioni è che la prima si svolge in ambito pubblicistico, quindi con regole precise di garanzia; mentre la seconda è interamente di tipo privatistico, quindi senza nessun tipo di controllo pubblico. Pertanto, nessuno sa se veramente quella deontologia viene svolta, in che termini e in che maniera, appartenendo appunto all'ambito


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privatistico. Il primo punto che porto alla vostra attenzione, quindi, è relativo alla terminologia con cui dobbiamo operare. Le professioni sono quelle attività il cui esercizio è sottoposto al previo superamento dell'esame di Stato. Diversamente, se questa occasione per chiarire cos'è l'uno e cos'è l'altro venisse persa, non sarebbe positivo per il Paese. Senza questa distinzione, infatti, verrebbe surrettiziamente rimosso il vincolo costituzionale dell'esame di Stato, consentendo l'esistenza di un sistema veramente anarchico in cui alcune persone svolgerebbero delle attività secondo un percorso pubblico di garanzie e altri potrebbero occuparsi più o meno degli stessi ambiti, ma in un percorso privato in cui queste garanzie non ci sono, o sono meramente formali, senza nessuna effettività.
Dico questo perché, pur non essendo particolarmente innamorato di regole parossistiche, è pur vero che in questo Paese - o almeno in parte dell'opinione pubblica e anche della politica -, per qualche tempo, ha preso piede l'idea secondo cui il mercato poteva regolare tutto da sé. Ebbene, credo che ultimamente non ci sia persona di buonsenso che non sia d'accordo sul fatto che il mercato non è affatto esente da fallimenti e che questi ultimi - basti pensare alla crisi economica che tutti viviamo - non sono solo molto dolorosi, ma dimostrano anche che in assenza di regole possono avvenire disastri enormi e di rilevanti proporzioni. Esprimiamo tali considerazioni non nell'interesse delle professioni, ma del Paese e parlando come cittadini.
La professione regolamentata ovviamente è attergata nell'ambito dell'interesse pubblico, e non solo costituzionale come si diceva un tempo, perché oggi conosciamo una più ampia accezione del termine pubblico, così come più ampia e diffusa è la cultura dei diritti . È evidente che oggi non esiste solo il diritto alla salute, ma anche quello a vivere in un ambiente salubre e ad avere un'alimentazione salutare. La collettività dunque deve poter sapere che vi sono dei soggetti dei quali fruire, che possono offrire prestazioni di standard elevato sotto il profilo qualitativo e che possiedano delle competenze tecniche che sono state verificate. Dobbiamo avere il coraggio di parlare di attività professionali e intellettuali e di attività che sono autonome, ma che non sono necessariamente intellettuali e che non si riconoscono nei settori dell'autonomia.
Vi sono indubbiamente attività professionali, non numericamente molto ampie in verità, nonostante gli interessati dicano il contrario, che non si collocano nell'autonomia dell'artigianato, per esempio, né nell'autonomia delle imprese, ma neppure nelle professioni intellettuali. Andrà giustamente valutato il numero delle persone che si trovano in questa zona grigia. Alcune proposte di legge riportano dei numeri elevatissimi al riguardo. Ricordo che si parla di una stima di 3,5 milioni di persone. Questa valutazione non è assolutamente fondata. Prova ne sia che è possibile determinare con precisione quanti siano i soggetti che svolgono attività autonoma, ma non intellettuale. Dopo la riforma previdenziale del 1996, tutti coloro che svolgono un'attività autonoma con una partita IVA - diversamente siamo nel campo del lavoro dipendente o altro -, che non siano soggetti già qualificati, come gli artigiani, che hanno una loro previdenza, sono iscritti alla gestione INPS. Quindi, tutti i soggetti privi di albi - gli iscritti agli albi hanno delle casse autonome - sono iscritti alla gestione INPS dei parasubordinati, quella dei vecchi co.co.co., oggi cocopro, in cui è prevista una sezione specifica dei soggetti con partita IVA.
L'INPS dichiara che vi sono circa 220 mila persone con partita IVA e che soltanto un terzo di queste sta pagando i contributi; il che è comprensibile, perché normalmente tale gestione presenta un turn over molto elevato. Spesso si avvia un'attività con partita IVA, perché non si riesce ad avere un lavoro dipendente e non si sono superate le prove per l'accesso agli albi. Successivamente, si trova un lavoro più sicuro, perché magari si accede a un albo superando gli esami o perché si viene assunti. Pertanto, quella indicata è una


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zona di transito. Questo spiega perché ci sono 220 mila posizioni, ma soltanto un terzo degli iscritti in regola con i contributi. Ovviamente, chi ha pagato i contributi rimane presente in quella gestione, perché avrà comunque diritto alla sua quota di pensione, se l'avrà maturata alla fine della sua vita. Quindi, la sua posizione è presente e non è destinata a sparire. Se anche si interrompe il versamento dei contributi, la posizione rimane. Comunque, 220 mila è il numero massimo di soggetti di cui parliamo, non 2,5 milioni, non 3,5 milioni come qualcuno afferma. Il dato che vi ho riportato può essere agevolmente verificato da chiunque e chi sostiene il contrario, a buona regola, dovrebbe portare elementi probatori a sostegno o smentire quelli da me riferiti. Pertanto, in relazione al fatto che riteniamo fondamentale la definizione di professione intellettuale e premessa della riforma, una delle soluzioni potrebbe essere quella di formulare - abbiamo indicato una proposta in merito nel documento consegnato - una modifica al Titolo terzo del libro V del codice civile, intervenendo sulla disciplina del contratto d'opera intellettuale al fine di differenziarlo dall'attività professionale intellettuale. In via subordinata, abbiamo indicato un'altra proposta: è possibile formulare una modifica all'articolo 2.229 del codice civile. A nostro parere, per professione intellettuale si deve intendere un'attività economica, anche organizzata in forma associata o societaria - questo è pacifico -, diretta al compimento di atti o prestazione di servizi o opere, a favore di terzi, che sia svolta in via abituale e prevalente con lavoro intellettuale, per la quale sono richiesti un titolo di studio universitario o equipollente, il superamento di un esame di Stato, a norma dell'articolo 33 della Costituzione e, ovviamente, l'iscrizione all'albo professionale. Il professionista è colui il quale possiede tutte queste caratteristiche. Naturalmente, ricordiamo che la professione intellettuale è compatibile con il rapporto di lavoro subordinato, perché il discrimine è dato dall'attività svolta, non dal tipo di rapporto che si va ad instaurare.
Passo ora alla recente direttiva relativa alle qualifiche professionali, recepita nel nostro ordinamento nel 2007, pensando anche ad una premessa dell'Unione europea riguardo alle professioni. Si sente spesso dire - oggi per fortuna meno, in passato di più - che il sistema delle professioni italiano è incompatibile con la normativa europea. Anzi, si diceva che l'Europa ci chiedeva espressamente - questo è stata la ragione di alcuni interventi legislativi in materia di professioni in altre epoche - se non di distruggere o eliminare, quantomeno di modificare fortemente il nostro sistema professionale, perché andava adottato il modello anglosassone tipicamente soggettivo. Si confrontano dunque due sistemi che hanno una sola matrice: i Paesi di civil law e quelli di common law. Il punto, tuttavia, è che questa affermazione non è vera. In realtà, in ogni Paese le strutture organizzative esistenti sono frutto della storia di quello stesso Paese. Pertanto, non si deve necessariamente considerare valido il sistema vigente in Inghilterra o nei Paesi anglosassoni e cattivo quello applicato in Italia. Ogni Paese ha il proprio prodotto. Paradossalmente, potremmo dire che in Inghilterra guidano a sinistra e che se qualcuno volesse importare in modo autonomo questo modello in Italia non avrebbe vita facile, né lunga. In realtà, le richieste dell'Europa sulle professioni sono contenute molto chiaramente in una risoluzione del Parlamento europeo molto recente, del 12 ottobre 2006. Si tratta di una risoluzione riferita espressamente alla concorrenza nei servizi professionali che riconosce a ciascun Paese dell'Unione il diritto di emanare regolamentazioni legate a peculiarità tradizionali, geografiche e demografiche. Questo è puro buonsenso. Ogni Paese ha costruito un modello. L'Europa chiede che i modelli dei Paesi partner non siano impeditivi per l'esercizio di quello che viene chiamato il «diritto di stabilimento», ossia il diritto di un professionista, di un cittadino comunitario, di trasferirsi in un altro Paese dell'Unione e ivi svolgere, alle medesime condizioni di quel Paese, l'attività professionale che sta svolgendo


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nel Paese che lo ospita. In sostanza, si chiede ad esempio che il nostro ordinamento non ponga delle barriere a un ingegnere francese, tedesco, o inglese che venga in Italia e voglia svolgere la professione di ingegnere - che è regolata -, avendola già svolta nel suo Paese di origine.
Come capita spesso - siamo un Paese molto europeista, aggiungo per fortuna -, applichiamo le norme con un realismo superiore a quello del re, tanto è vero che all'ingegnere italiano chiediamo giustamente il superamento dell'esame di Stato, ma non lo chiediamo al professionista migrante. Quindi, non solo stiamo applicando pienamente i principi dell'Unione europea, ma lo stiamo facendo con tale entusiasmo e solerzia da privilegiare addirittura un cittadino comunitario rispetto a un cittadino italiano. Questo, negli anni scorsi, anche in ambito forense, ha dato origine a strane migrazioni. Vi sono stati casi di italiani che sono andati a prendere un titolo in un altro Paese, per poi tornare in Italia.
Come presidente della mia categoria, quella degli agrotecnici e agrotecnici laureati, sto iscrivendo adesso nel nostro albo degli ingegneri agrari della Catalogna, che non hanno assolutamente bisogno di fare l'esame di abilitazione. Devono seguire una procedura abbastanza lunga presso il Ministero di giustizia, che è l'autorità competente ad autorizzare l'iscrizione all'albo, ma evitano questo passaggio.
Con questo esempio pratico, volevo sgombrare il campo circa il contenuto delle richieste che ci vengono dall'Europa. L'Europa chiede che si rispetti questo diritto di stabilimento e che quindi non vengano create delle barriere surrettizie per impedire lo scambio fra professionisti comunitari e ovviamente una concorrenza fra professionisti dei Paesi europei.
La risoluzione del Parlamento europeo è del 12 ottobre 2006, e riguarda specificamente la concorrenza nei servizi professionali, quindi proprio l'argomento di cui stiamo parlando. Con la direttiva n. 36 del 2005, l'Europa crea un sistema di qualifiche professionali, ossia un riconoscimento reciproco di qualifiche necessarie per la migrazione e per il trasferimento di professionisti nei diversi paesi europei. Chiaramente, quella direttiva comunitaria riguarda le professioni che hanno ricevuto un riconoscimento. Del resto, si deve evitare che ci siano delle barriere all'ingresso. È chiaro che questa direttiva non può funzionare per le professioni non riconosciute, perché il professionista appartenente a quella categoria è completamente libero. Anzi, una direttiva destinata alle professioni non riconosciute sarebbe una barriera, perché se si indicasse qualunque parametro, anche generico, qualcuno potrebbe non esserne in possesso. Pertanto, si andrebbe a creare una barriera dove non c'è. La direttiva funziona soltanto per riconoscere chi è già riconosciuto. L'Italia ha applicato tale direttiva correttamente, salvo in un punto. Vale a dire che ha inserito all'interno della direttiva il riconoscimento di associazioni che non dovrebbero esservi. Mi riferisco a quei 220 mila soggetti che svolgono attività varie e che la nostra direttiva, in modo surrettizio, tende a riconoscere. Peraltro, si procede in modo improprio, perché tali categorie vengono riconosciute unicamente allo scopo di partecipare a piattaforme europee.
Ruberò un minuto per spiegare che cosa sono le piattaforme europee e le piattaforme comuni. In precedenza, ho richiamato il caso degli ingegneri di Catalogna venuti in Italia per iscriversi. Questi devono fare domanda ad un'autorità che è stata individuata nel Ministero della giustizia. Naturalmente, ogni domanda è individuale e il decreto di riconoscimento di quell'attività viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Quindi, parliamo di una procedura individuale e abbastanza lunga. Fermo restando questo livello minimo di tutela, quindi il diritto per tutti a migrare e a essere riconosciuti, la norma europea prevede anche delle piattaforme, che sono un riconoscimento a monte. In altre parole, ordini o associazioni professionali europee potrebbero definire una piattaforma comune, quindi potrebbero dire prima che si sono omologati a tale piattaforma, che in quella medesima piattaforma


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si riconoscono, e poi far riconoscere tali attività a livello europeo secondo determinate procedure. Dopodiché, se questa piattaforma è approvata, tutti coloro che vi appartengono potrebbero migrare in un qualsiasi altro Paese aderente e iscriversi nei vari albi, nei vari organismi per svolgere attività professionali del Paese ospitante, senza passare per la defatigante procedura di riconoscimento individuale. Quindi, è un riconoscimento preventivo e a monte rispetto a quello individuale e a valle. Il recepimento della direttiva europea n. 36 nel nostro ordinamento prevede che le professioni non regolamentate, che in questa direttiva non potrebbero stare, siano riconosciute o riconoscibili ai fini dell'inserimento nelle descritte piattaforme. Quindi, non si tratta di interessi a carattere nazionale, ma tale riconoscimento riguarda la partecipazione alle piattaforme. Questo è un problema serio. Il riconoscimento in questo momento sta avvenendo con un parere del CNEL (ma entriamo nel merito di tecnicismi su cui sorvolo perché non voglio tediare l'uditorio). Tale situazione si è creata, perché sono stati confusi i termini. Come dicevamo, nei Paesi di civil law, quelli latini, abbiamo normalmente gli ordini professionali; in quelli di common law, di tipo anglosassone, abbiamo delle associazioni privatistiche, ad esempio la «Royal society of psychology» in Inghilterra che sono riconosciute dalla Regina, ad esempio, ma che sono di tipo privatistico. Ebbene, quelle si chiamano associazioni, ma hanno un riconoscimento pubblico. Non sono le nostre associazioni (articolo 36 e seguenti del codice civile) che non hanno riconoscimento. Infatti, la direttiva parla degli ordini e poi delle associazioni «di cui all'allegato», nel quale sono riportate esclusivamente 43 associazioni di matrice inglese e irlandese, diciamo di Paesi anglosassoni. Pertanto, la direttiva si riferisce alle 43 associazioni indicate, non alle associazioni tout court italiane, che sono tutt'altra cosa e che neanche somigliano a quelle dei Paesi anglosassoni. Oggi, si è creata una confusione notevole su questo punto che, tra l'altro, è aumentata anche per la modalità - lo devo dire - con cui il Ministero della giustizia sta applicando la norma. Infatti, se si devono riconoscere, sulla base delle norme vigenti, le associazioni italiane ai fini delle piattaforme, è chiaro che si potrà produrre il riconoscimento, avendo una piattaforma già presentata, o in fase di presentazione. In questo momento, non ci sono piattaforme in fase di presentazione, né presentate, né in itinere. È chiaro quindi che i riconoscimenti che il Ministero di giustizia si appresta a dare non serviranno a livello europeo, ma unicamente a livello nazionale e, a mio giudizio, creeranno confusione. Qualcuno domani dunque potrà affiggere sulla porta del proprio studio una scritta recante «riconosciuto ai sensi della legge», ma senza spiegarne il motivo.
Gli onorevoli parlamentari vedono quant'è complicata e tecnica la materia, immaginatevi se un singolo cittadino che vede una targa in cui è scritto «riconosciuto in nome della Repubblica italiana» possa capire effettivamente perché quel professionista ha ottenuto il riconoscimento, se per contribuire a scrivere i termini di una piattaforma europea, o per svolgere un'attività professionale.
La materia potrebbe essere modificata quindi prevedendo che i riconoscimenti europei si diano anche alle associazioni non regolamentate - tanto ormai la norma, anche se mal fatta, è fatta - ma almeno quando la piattaforma è in fase di riconoscimento, in modo tale che il riconoscimento sia legato alla specifica funzione, per la quale è stato pensato, e direi neppure così bene.
Sorvolo sulle professioni non regolamentate e sui requisiti fondamentali, di cui ho già parlato nella premessa.
Chiediamo ovviamente che gli ordini debbano essere sempre sottoposti ad un controllo pubblico, perché le regole devono essere di questo tipo. Altrimenti, è difficile farle rispettare e comunque si perdono alcuni elementi di garanzia. Quindi, il controllo di tipo pubblicistico è per noi assolutamente fondamentale.
Ricordo che anche gli ordini svolgono un'attività di controllo continuo sui propri


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iscritti, tramite dei regolamenti interni. Molte categorie, in particolare quelle tecniche, hanno dei regolamenti di formazione continua, quelle sanitarie hanno l'ECM, quindi c'è una forte tensione su questo aspetto.
Naturalmente tutti gli ordini hanno codici deontologici che, essendo a base pubblica, hanno una funzione realmente cogente che, ovviamente, è importante. Detto questo, si può ragionare per capire se la deontologia e la disciplina vengano realmente applicate. Da questo punto di vista, si apre il grande tema della giurisdizione domestica. Molti dicono che gli ordini dovrebbero essere privati della giurisdizione domestica per renderla terza - noi siamo d'accordo ovviamente -, perché la possono utilizzare come una specie di clava, per cui chi controlla l'ordine potrebbe colpire chi vuole scalare l'ordine. In realtà - se mi è permessa una chiosa di tipo assolutamente personale - direi che gli ordini usano troppo poco la disciplina interna. Credo che tra i miei professionisti, ma anche in altre categorie assai più numerose della mia, vi siano dei casi da sanzionare in maniera molto più pervasiva di quanto viene fatto. Quindi, semmai, se qualcosa devo rilevare è che lo strumento deontologico, ma più che altro disciplinare, non viene utilizzato nel modo in cui dovrebbe. La sua importanza è a tutti nota. Voglio portare un piccolo esempio in merito. Se un'impresa, che pure è iscritta, non paga i suoi clienti o fa del filibustering nella sua attività commerciale, avrà una causa in tribunale coi tempi della giustizia, però non verrà mai inibita dallo svolgere la sua attività, salvo reati gravissimi verso la pubblica amministrazione. Viceversa, un professionista che si comporta male con la sua clientela o che venga denunciato da un utente può essere colpito da un provvedimento che gli può impedire temporaneamente, o anche permanentemente, di svolgere l'attività. Capite dunque la differenza e anche l'importanza di questo strumento. Dovrebbero essere rese note al pubblico le modalità in cui fare queste segnalazioni. Agli ordini infatti ne riceviamo poche, probabilmente perché da parte dei cittadini questo strumento non è ben conosciuto nei suoi modi di utilizzo. Per noi questo aspetto è fondamentale, perché serve a mantenere alto il livello di etica e di deontologia all'interno degli ordini.
Come dicevo all'inizio del mio intervento, nell'ambito della riforma - se andrà in porto, come auspichiamo -, nel momento in cui saranno emanati i singoli decreti di riconoscimento, occorre regolamentare la sovrapproduzione di competenze professionali. A tal fine, andrà previsto che al momento dell'emanazione di un decreto per uno specifico comparto, tutte le categorie ad esso appartenenti siano informate, in modo tale da poter avviare un contraddittorio sul contenuto di quei decreti. Occorre quindi una consultazione non solo della categoria della quale si viene a riformulare l'ambito a seguito della riforma, ma di tutte quelle collegate, per evitare colpi di mano indebiti. Abbiamo anche sentenze recentissime della Consulta, che ricordano come gli ordini rispondano all'esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico. Naturalmente, gli ordini rientrano principalmente nella competenza statale. Lo ha ricordato la Corte costituzionale, anche recentemente. Qualche giorno fa, è stata annullata la legge regionale dell'Emilia-Romagna sul turismo, perché i profili professionali che la regione aveva individuato ledevano la competenza dello Stato nel quadro generale. Non si tratta della prima, ma dell'ennesima sentenza della Consulta in questo senso. La sentenza in oggetto è la n. 271 del 29 ottobre 2009. Come dicevo, è stata annullata la legge della regione Emilia-Romagna, che peraltro è anche la mia regione, perché individua profili professionali mentre questo spetta in via esclusiva allo Stato. A legislazione vigente, quindi, le regioni hanno delle competenze concorrenti, al di là della effettività di questa concorrenza, nel merito della quale non entro.
Infine vorrei affrontare altri due elementi molto velocemente. Il primo di essi riguarda la pubblicità. Già oggi molti ordini professionali consentono la pubblicità.


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Sappiamo che la direttiva servizi, il cui recepimento è in atto, impone una uniformazione di questa possibilità, e noi certamente non la neghiamo. Come dicevo, già oggi molti ordini la consentono, sia pure con limiti di decoro, di veridicità della pubblicità, di non comparabilità, di non ridondanza, ed essa viene svolta. Certamente, nella riforma andrebbe introdotto questo principio, lasciando che siano i codici deontologici a fissare, secondo le sensibilità e le specificità delle varie categorie professionali, limiti entro i quali la pubblicità può essere ammessa o meno. Ovviamente ci sono professioni che hanno - parliamo sempre di sede pubblica - limiti più ampi (mi riferisco alle professioni sanitarie) rispetto magari a quelle tecniche.
Voglio rilevare inoltre che molti regolamenti o codici deontologici di ordini prevedono già oggi l'obbligo di copertura assicurativa che sicuramente è un elemento sensibile di qualità. Ove tale aspetto venisse previsto in via generale nella riforma, l'invito che rivolgiamo anche in questo caso è quello di prevederlo, secondo il principio di sussidiarietà, lasciando l'applicazione concreta alle singole categorie professionali, facendo in modo che non sia ridondante, quindi limitandolo a chi svolge effettivamente l'attività professionale, cioè a chi può incorrere in un problema di responsabilità civile professionale. Dico questo perché alcune categorie sono composte da pubblici dipendenti che operano nel settore tecnico e spesso anche in ambito sanitario. Come sapete, i pubblici dipendenti non possono svolgere attività professionale, se non in determinati casi. Quindi, quando vi sia un divieto a monte, è chiaro che porre una previsione del genere per tutti gli iscritti all'albo e non per chi svolge l'attività rappresenterebbe un principio eccessivo. Anche il tirocinio è un tema molto sensibile e riguarda molte categorie professionali. Al riguardo, vi è una sensibilità della pubblica opinione relativamente ai giovani professionisti e anche l'Antitrust ha svolto molti richiami in merito. Riteniamo che il tirocinio debba essere improntato a criteri di proporzionalità e di effettività e che non debba diventare ridondante, un'inutile barriera o un inutile parcheggio. La legge di riforma dovrebbe individuare dei princìpi comuni relativamente alla valenza e alle modalità di svolgimento del tirocinio, fermo restando il valore legale del titolo di studio. Naturalmente, nell'ambito dei tirocini, la regolamentazione deve essere lasciata ai singoli ordini, con l'invito a non predisporre norme di arretramento rispetto a quanto si è conquistato negli ultimi anni. Mi riferisco, in particolare, alla possibilità di svolgere il tirocinio anche in maniera non tradizionale, fuori dagli studi professionali. Già oggi abbiamo una norma, il decreto del Presidente della Repubblica n. 328, che mette in collegamento gli accessi universitari. Abbiamo una norma molto intelligente che fa riferimento alla sussidiarietà degli ordini con le università, in cui è prevista la possibilità di svolgere tutto il tirocinio, o parte di esso, durante il percorso di studi. Si tratta di norme moderne che evitano certi fenomeni negativi - per fortuna non ampi - di sfruttamento dei giovani negli studi professionali. Se il tirocinio viene fatto in tutto o in parte durante il percorso di studi, è chiaro che ha maggior forza rispetto al suo dominus, al professionista ospitante. Su questo versante, non bisognerebbe tornare indietro, naturalmente non imponendo a nessuno di avvalersi di queste norme, ma consentendo ad ogni categoria, secondo la sua sensibilità e il suo segmento di attività, di agire in questo senso.
In questa prospettiva, penso anche alle convenzioni che esistono fra ordini e università. La mia categoria ne ha tantissime, 72. Per noi, ormai, il tirocinio viene effettuato quasi completamente fuori dagli studi professionali. Questo aiuta i giovani ad entrare prima nel mondo del lavoro. Si potrebbe pensare a una convenzione quadro a livello di Ministero, non obbligatoria però, perché altrimenti andremmo a ledere l'autonomia degli atenei e degli ordini.
Quanto alla formazione professionale continua, riteniamo tale aspetto importante.


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Anche in questo ambito andrebbe sancito il principio essenziale della obbligatorietà della formazione permanente.

PRESIDENTE. Mi scusi, vicepresidente Orlandi. La interrompo solo per un'organizzazione più efficiente dei nostri lavori, considerato che entro le 13,30 dobbiamo concludere l'audizione.
Mi sembra di capire che i colleghi considerino l'illustrazione del documento esaustiva per il completamento dei nostri lavori, fatta eccezione per l'onorevole Capano, che desidera intervenire per una richiesta di chiarimento.
Do quindi la parola alla collega, in modo tale che il dottor Orlandi possa poi completare la sua esposizione tenendo anche conto delle questioni poste.

CINZIA CAPANO. Chiederò alcuni chiarimenti sulla base della relazione svolta. Come ricorderà, presidente, lei ha evidenziato il problema maggiore che abbiamo in questa riforma. Vale a dire che ci avviciniamo più concretamente a un'ipotesi di legge-quadro e di decreti legislativi, anche se assistiti da «paletti», come diceva il vicepresidente. Quindi, siamo arrivati in qualche modo a sciogliere un nodo che non era irrilevante e che era stato sollevato proprio dal presidente Gibelli. Ebbene, a tale riguardo, ciò che non mi sembra chiaro neanche in questo documento è quali sono le materie che riteniamo debbano essere oggetto della legge sui princìpi e quali invece debbano essere demandate ai decreti legislativi.
Vi porto un esempio in proposito. Quanto alle questioni più rilevanti, come quelle dell'accesso, del tirocinio, delle società tra professionisti - man mano che mi verranno in mente altri esempi li evidenzierò -, non mi pare che ci sia una omogeneità di vedute né tra gli stessi professionisti che fanno parte del CUP, né in relazione a riforme che stanno già andando avanti per esempio al Senato, come quella forense, che pure è una categoria rappresentata nel CUP. Quindi, credo che si ponga l'esigenza di chiarire alcuni passaggi.
Sulla questione società, ad esempio, c'è una riforma forense al Senato che prevede una certa tipologia di società, con esclusione delle società di capitali.
Nell'audizione che abbiamo avuto la settimana scorsa in Commissione giustizia, il rappresentante degli architetti, invece, ovviamente contemplava anche la possibilità di società di capitali. È facile capirlo, perché anche le esperienze precedenti delle società di engineering contemplano questa possibilità, forse collegata alla struttura del lavoro e del mercato per quelle categorie professionali.
Voi, invece, vi limitate a ipotizzare la costruzione di una fattispecie ad hoc - se non ho capito male - di società di professionisti, senza però indicare se questa deve contemplare l'ipotesi di società di persone, ovvero anche quella di società di capitali. Essendoci diversità di posizioni, mi sembra difficile che si possa mettere il capitolo società dentro la legge-quadro, visto che le esigenze fino ad oggi declinate da parte delle varie categorie sono diverse.
Vengo alla questione dell'accesso. Nel documento da voi proposto, e lei vicepresidente lo ribadiva nella sua relazione, invitate a far transitare - ho preso questo appunto - così come sono i sistemi di accesso, senza modificazioni lì dove non vi siano modifiche di iter di studi. Lei riferisce tale questione alla proposta di legge dei geometri. A questo punto, le chiedo se la posizione da lei espressa appartiene a tutto il CUP. Del resto, anche in questo caso, abbiamo la riforma forense, in discussione in Commissione giustizia del Senato, che stravolge totalmente il sistema di accesso ad oggi esistente, senza modificare per nulla l'iter degli studi. Quel sistema di accesso, cambiando totalmente il precedente, entra anche in profonda contraddizione con un elemento che lei citava prima a proposito del tirocinio. Infatti, rende assolutamente impossibile far svolgere un tirocinio durante gli studi universitari, perché addirittura ipotizza che questo sia possibile solo se, dopo la laurea, lo studente supera una prova di tipo informatico per l'accesso al tirocinio.


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Vi sarebbero altre questioni da affrontare, ma per brevità mi fermo a queste che sono le più significative. Tali situazioni mettono in luce la profonda difficoltà di riuscire ad approvare una legge quadro che disciplini princìpi uguali per tutti. Peraltro, pur essendo un avvocato, condivido più il suo approccio che quello dell'avvocatura rispetto a questi argomenti. La mia non è dunque una difesa corporativa, ma occorre considerare che ci sono posizioni assai diverse.
L'ultima questione che vorrei sollevare è la seguente. Rispetto alle altre forme di lavoro autonomo, pensate che una legge quadro debba disciplinare solo per differenza le attività di lavoro autonomo o ritenete che debba comunque riguardare i princìpi generali anche di questo contratto d'opera?

ROBERTO ORLANDI, Vicepresidente del Comitato unitario per le professioni intellettuali. La ringrazio perché le domande poste sono molto pertinenti e incisive e la ringrazio anche per la condivisione delle opinioni.
Vorrei ricordare la complessità del mondo professionale. Gli ordini professionali sono 24 e hanno delle specificità circa le attività svolte. Pertanto, alla base di questo documento - probabilmente è anche un nostro difetto, forse diamo degli elementi per scontati, quando dovremmo essere più chiari - vi sono le seguenti considerazioni.
Quanto alle società, riteniamo che debbano essere consentite, anche nella veste di società di capitale. Oggi, infatti, in un mondo molto più interdisciplinare, abbiamo bisogno di superare lo strumento dell'associazione fra professionisti, che è uno strumento-ponte. Tuttavia, va detto che queste società devono essere adattate alle specifiche situazioni, quindi il principio di un nuovo tipo societario va certamente previsto, però va lasciata alla singola categoria professionale la possibilità di scegliere tale strumento. Quello che chiediamo, come tutti in generale, è che siano fatte le società, che non vi sia mai una prevalenza del socio medesimo o di capitale, e che venga lasciata ad ogni singola categoria professionale, la facoltà di scegliere la tipologia di società più idonea. Quindi, avremo società che sono solo di persone, per alcune attività di particolare delicatezza, per la quale è la stessa categoria che sceglie di dover adottare quel sistema; ed altre che invece devono avere la libertà - lei ricordava giustamente gli architetti, cioè le categorie tecniche, che hanno già forme societarie disciplinate nella cosiddetta Merloni-ter - di prevedere l'utilizzo del capitale, perché magari in quel tipo di attività, più che in altre, è richiesto un intervento di capitale nelle opere. Come sappiamo, inoltre, si pone il problema degli appalti. Gli appalti sono liberi. I professionisti possono partecipare alle gare d'appalto, ma è chiaro che anche il migliore, il più grande, il più bravo professionista - penso a Renzo Piano come architetto - può avere un fatturato enorme che tuttavia è nulla rispetto a quello di una Spa di costruzione. Pertanto, se Renzo Piano partecipa a una gara d'appalto, ha un fatturato ridicolo rispetto a FIAT Engineering, all'Impregilo o altre. Su questo versante, una recente sentenza ammette anche l'avvalimento dei professionisti per le imprese, quindi amplia la concorrenza. È evidente, tuttavia, che alcune categorie professionali hanno necessità di avere il capitale. Saranno loro a decidere. Credo quindi che lo strumento che verrà adottato dovrà essere flessibile e adeguato al mondo moderno. Tuttavia, in ossequio al principio di sussidiarietà che più volte ho richiamato, deve essere consentito alla categoria di applicare in determinati termini il principio, la formula, lo strumento o il tipo societario previsto.
Lo stesso discorso vale per i tirocini, nel senso che alcune categorie vogliono il tirocinio - credo siano gli psicologi - assolutamente fuori dal percorso formativo; mentre ne abbiamo altre, come la mia, che sono ben disposte ad averlo dentro il sistema formativo, perché talvolta tale percorso viene fatto meglio. Anche in questo caso, il punto è che non deve esservi un arretramento rispetto alla


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situazione attuale. Fino al 2001, anche ove vi fosse stato un ordine professionale estremamente virtuoso - non per dire che gli altri non lo fossero - che avesse voluto introdurre modalità nuove per non far fare il tirocinio negli studi professionali, perché magari veniva fatto male o perché c'era uno sfruttamento dei giovani, non avrebbe potuto farlo perché mancava lo strumento. Dal 2001, lo abbiamo. Lo strumento dunque va previsto anche nell'ambito di questa riforma. È chiaro che chiediamo di non arretrare rispetto a quanto già prevedono le legge attuali di categoria, ma di consentire alle singole categorie di decidere in che misura svolgerlo. Vi saranno poi alcune categorie che ritengono di dover avere un tirocinio più significativo. All'epoca, formulammo anche altre proposte, ormai superate - sto parlando di proposte di legge di iniziativa popolare che avete anche voi in discussione, per le quali, come CUP, raccogliemmo le firme alcuni anni fa -, che a proposito del tirocinio prevedevano addirittura la possibilità per i singoli ordini, ove l'avessero deciso, di ridurre una prova di esame di fronte ad un tirocinio più lungo.
In sostanza, chiediamo che vengano messi a disposizione strumenti flessibili per favorire l'immissione nel mondo del lavoro dei giovani, lasciando alle singole categorie - una volta previsto lo strumento - la decisione relativa alle modalità di applicazione. È possibile anche prevedere che alcune misure debbano essere applicate al minimo. La norma potrebbe stabilire, ad esempio, che non c'è solo la previsione, ma anche che entro un certo limite quello strumento deve essere applicato per tutti, ove lo si ritenga. In ogni caso, chiediamo che venga lasciata la flessibilità, perché come giustamente si diceva è assai difficile poter contemperare gli interessi comuni di 24 professioni che magari su alcuni punti hanno sensibilità non peregrine, ma che corrispondono ad esigenze reali in base alla storia professionale.
Non vorrei fare battute facili, ma si pensi ad una Spa di avvocati il cui capitale sia controllato al 51 per cento da «una 'ndrina» (sinonimo di cosca malavitosa). Gli avvocati potrebbero giustamente ritenere che non debba esserci capitale nella società. Le professioni tecniche, invece, possono ritenere necessario prevedere la presenza del capitale, per acquistare strumentazione, per concorrere alle gare d'appalto o per allargare la platea della concorrenza.
Quanto alla riforma forense, non crediamo che sia antitetica a questo tipo di riforma. Per quanto sappia, essa è in discussione nell'altro ramo del Parlamento, quindi credo che vi siano gli strumenti per fare una riforma armoniosa.
Per quanto riguarda l'invito generale degli accessi, ho riportato un esempio concreto. È evidente che non può servire una riforma, se è una legge-quadro, a risolvere questioni di dettaglio relative a specifiche professioni.
Alcune categorie ritengono di dover modificare i propri ordinamenti. Ogni legislatura raccoglie - credo - un centinaio di proposte di ordini che vorrebbero ampliare l'ordinamento. L'importante è che ciò avvenga in un percorso trasparente, che non ci siano delle furbizie o scorciatoie per cui qualcuno, in fase di discussione di un'ampia riforma, decide di ampliare le proprie competenze, non avendo a monte un percorso di studi adeguato.
Il nostro invito è quello di effettuare il transito nella legge di principi delle competenze professionali e del sistema degli accessi così come sono attualmente previsti per evitare il rischio di cui sto parlando. Alla base di tutto questo ragionamento vi è il principio di prevedere strumenti utili e moderni, lasciando alle categorie professionali un apprezzabile margine per utilizzarli.
Questo già avviene oggi, ma in maniera non sistematica. In prospettiva chiaramente ciò avverrebbe in una maniera molto più armoniosa e in un quadro di principi generali.

MARIA GRAZIA SILIQUINI. Signor presidente, prendo solo un minuto per rispondere al quesito posto dalla collega Capano. Anche io penso che si possano


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trovare delle formule che stabiliscano quei princìpi comuni, sui quali stiamo ragionando e sui quali abbiamo già ampie richieste, che riguardino tutti senza esprimere contrasti o problematiche di competenze all'interno dei singoli settori, perché abbiamo anche l'opportunità di fare questa legge.
Vorrei richiamare l'attenzione sulla tempistica che è del tutto casuale, perché non è stata decisa da nessuno. Tuttavia, può darsi che già per la fine del mese di novembre, o forse alla fine di questa settimana, l'esame del testo recante la riforma della professione forense sarà concluso presso la Commissione giustizia del Senato. In proposito, ho letto alcune dichiarazioni congiunte della maggioranza e dell'opposizione. Penso a quelle dell'onorevole Casson, ad esempio, che coincidono completamente. Pertanto, su alcuni emendamenti saranno approvati con un ampio consensi nei prossimi giorni. Ho voluto portare questo esempio per dire che affrontiamo una materia che, in un certo senso, è più complessa. Tuttavia, sulla base delle richieste del CUP, che condivido, possiamo stabilire dei princìpi generali che facciano chiarezza nel caos oggi esistente tra Costituzione, codice civile che non è chiarissimo, sentenze della Corte di giustizia, sentenze della Corte di cassazione, legge Bersani e suo recepimento da parte del Governo Prodi che ha trasformato la direttiva in qualcosa di completamente diverso. Insomma, abbiamo una specie di calderone nel quale dobbiamo fare ordine. Questo, però, non vuol dire necessariamente essere in contrasto con percorsi più settoriali, quali ad esempio quello dell'avvocatura o quello notarile, che è completamente diverso, perché si tratta di pubblici ufficiali. Ad ogni modo, abbiamo sempre detto in premessa - almeno personalmente, come relatore, mi pongo l'obiettivo di essere trasparente - di non voler incidere settorialmente sulle competenze, né sull'accesso che si ritiene idoneo nel singolo ordine professionale. Porto l'esempio dei notai, perché ci è stato ricordato che hanno ridotto l'attività di pratica - se non ricordo male - a 18 mesi, prevedendo la possibilità di svolgere il tirocinio negli ultimi sei mesi di università. È un aspetto che loro hanno già messo «nella carne viva» della loro attività professionale e così per le società professionali.
Credo dunque che, con il buonsenso e l'attenzione che abbiamo tutti per queste problematiche, potremo trovare quei fili comuni che, sulla base del principio di sussidiarietà e della flessibilità, lasciano ai singoli ordinamenti la possibilità di effettuare le proprie valutazioni. Ovviamente, quelle degli avvocati saranno diverse da quelle degli ingegneri e viceversa.
Vorrei comunque dare rassicurazioni circa il fatto che non c'è alcuna volontà - lo devo dire, come relatore - di intervenire nei singoli settori, laddove è un diritto avere una legge settoriale come quella che stanno facendo al Senato. Per di più, il tempo ci agevola, perché cominceremo a elaborare un testo, quando il testo del Senato sulla riforma forense, di settore, sarà già stato redatto. Quindi, l'obiettivo da seguire è quello di favorire un'armonizzazione che non crei contrasti.

PRESIDENTE. Ringrazio il vicepresidente Orlandi per il suo contributo e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,25.

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