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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
31.
Martedì 6 luglio 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Audizione di rappresentanti di Amnesty International sul Rapporto annuale 2010 sulla situazione dei diritti umani nel mondo:

Colombo Furio, Presidente ... 3 11 14 18
Barbi Mario (PD) ... 11
Carboni Daniela, Responsabile per le relazioni istituzionali della sezione italiana di Amnesty International ... 16
D'Alconzo Giusy, Coordinatrice della ricerca sull'Italia di Amnesty International ... 7
Narducci Franco (PD) ... 11
Pianetta Enrico (PdL) ... 12
Weise Christine, Presidente della sezione italiana di Amnesty International ... 3 15
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud Libertà e Autonomia-Partito Liberale Italiano: Misto-Noi Sud LA-PLI.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 6 luglio 2010


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 12,05.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Amnesty International sul Rapporto annuale 2010 sulla situazione dei diritti umani nel mondo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, l'audizione di rappresentanti di Amnesty International sul Rapporto annuale 2010 sulla situazione dei diritti umani nel mondo.
Do loro il benvenuto, ricordando che nel corso di quest'indagine conoscitiva rappresentanti di Amnesty International sono stati auditi l'8 aprile 2009 sulla situazione dei diritti umani nella Federazione Russa e lo scorso 9 febbraio sull'Esame periodico universale del nostro Paese da parte del gruppo di lavoro del Consiglio dell'ONU per i diritti umani.
Saluto e ringrazio per la loro disponibilità Christine Weise, presidente della sezione italiana di Amnesty International, Giusy D'Alconzo, coordinatrice delle attività di ricerca sull'Italia, e Daniela Carboni, responsabile per le relazioni istituzionali.
Se le nostre ospiti sono d'accordo, do la parola a Christine Weise.

CHRISTINE WEISE, Presidente della sezione italiana di Amnesty International. Buongiorno. Ringrazio dell'invito a presentarvi oggi il Rapporto annuale 2010 di Amnesty International.
In tale rapporto, Amnesty International registra un'eclatante mancanza di giustizia per milioni di persone nel mondo, ma descrive anche un cammino verso una giustizia globale segnato da diversi successi importanti.
Il 2009 è stato, infatti, un anno di svolta per la giustizia internazionale: per la prima volta è stato spiccato un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale nei confronti di un capo di Stato in carica, il presidente sudanese Omar Hassan Ahmad al-Bashir, mentre l'ex presidente del Perù, Alberto Fujimori, è stato condannato per crimini contro l'umanità.
Ha inoltre visto la luce il primo meccanismo internazionale che consente alle persone singole di fare ricorso alle Nazioni Unite per vedere riconosciuti i loro diritti economici, sociali e culturali. Mi riferisco al Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.
Si tratta di segnali importanti sul fatto che per le vittime di violazioni è possibile una giustizia vera, basata su tre elementi fondamentali: il riconoscimento della verità, la condanna dei colpevoli e la riparazione dei danni.
Purtroppo, alcuni Governi continuano a considerarsi al di sopra della legge e alcuni Stati, tra i quali molti membri del


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G20, come Cina, India, Indonesia, Russia, Arabia Saudita, Turchia e Stati Uniti d'America, continuano a sottrarsi alla giurisdizione della Corte penale internazionale, rifiutando di ratificarne lo Statuto. Più della metà dei 111 Stati che hanno ratificato tale Statuto, tra cui l'Italia, non hanno ancora adeguato la loro legislazione interna o l'hanno fatto in maniera lacunosa.
Ciò significa che nella maggior parte dei Paesi gli organi di giustizia non indagano su crimini contro l'umanità, crimini di guerra, torture, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. Non si conducono indagini e nessuno viene condannato per tali crimini perché mancano le leggi oppure la volontà politica di attuarle.
Vogliamo portare in questa sede alcuni esempi rilevanti, riferiti allo scorso anno.
Gli Stati Uniti non hanno accettato di far luce sulle violazioni che sono state commesse durante la guerra al terrore e riguardo alle detenzioni a Guantanamo.
Il Governo cinese, in seguito alle rivolte degli uiguri nella regione autonoma dello Xinjiang di un anno fa, ha limitato la circolazione di notizie, ha tratto in arresto manifestanti pacifici e ha ignorato la richiesta del relatore ONU sulla tortura di poter visitare la zona. Nove persone sono state condannate alla pena capitale e messe a morte.
Né in Russia né in Georgia sono stati processati i responsabili di violazioni nel conflitto del 2008. La Russia ha utilizzato il suo potere per bloccare qualunque presenza e controllo internazionale nelle regioni secessioniste dalla Georgia, dell'Ossezia del sud e dell'Abkhazia.
Molti Stati chiedono il rispetto dei diritti umani quando conviene loro politicamente, ma rifiutano di rendere conto delle proprie azioni. Fino a quando i Governi non smetteranno di subordinare la giustizia agli interessi politici, la libertà dalla paura e dal bisogno resterà fuori dalla portata della maggior parte dell'umanità.
Nell'ambito di organizzazioni internazionali che dovrebbero mettere in primo piano i diritti umani e la giustizia per le vittime in più occasioni gli Stati hanno invocato una solidarietà geografica e politica, invece di mettere in primo piano la giustizia per le vittime di violazioni dei diritti umani.
Ricordiamo che nessun Paese africano o asiatico ha votato contro la risoluzione che il Governo dello Sri Lanka aveva proposto al Consiglio per i diritti umani per autoelogiarsi per la vittoria contro le Tigri Tamil, nonostante fossero evidenti le violazioni commesse dalle due parti del conflitto.
Il rifiuto degli Stati dell'Unione africana di attuare il mandato di arresto internazionale a carico del Presidente sudanese al-Bashir rappresenta un altro esempio di politicizzazione della giustizia.
Nelle falle della giustizia globale continuano a prosperare la repressione e l'ingiustizia, condannando milioni di persone a una vita di soprusi, oppressione e violenza.
In tutta l'Africa l'intolleranza verso le voci critiche è diffusa. Nella Repubblica democratica del Congo, nello Zimbabwe e in Uganda attivisti per i diritti umani e giornalisti sono stati arrestati. In Etiopia sono state approvate leggi che impediscono alle organizzazioni della società civile di lavorare liberamente.
In Iran, dopo le elezioni contestate di giugno, la repressione ha continuato ad aumentare, raggiungendo livelli senza precedenti.
In Egitto la tensione politica e il decennale stato d'emergenza hanno provocato nuovi arresti nei confronti di blogger e sindacalisti.
Nell'area dell'ex Unione sovietica lo spazio per le voci indipendenti e per la società civile ha continuato a essere limitato. Attivisti e attiviste per i diritti umani, giornaliste e giornalisti sono stati perseguitati, minacciati, attaccati o uccisi.
In America latina giornalisti e giornaliste sono stati vittime di intimidazioni e attacchi, anche mortali, mentre gli organi di informazione che criticavano le politiche governative hanno subìto sanzioni o sono stati chiusi, come nel Venezuela, a Cuba e in Honduras.


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I diritti dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati hanno continuato a essere violati, in un contesto globale di discriminazione e assenza di tutela, che colpisce sempre di più le minoranze.
In Asia donne e uomini migranti sono stati sfruttati e sottoposti a violenze e molestie. Nel nostro rapporto troverete, tra gli altri, i casi della Corea del Sud, del Giappone e della Malesia.
In Messico i migranti provenienti dall'America centrale hanno subìto gravi violazioni.
In Europa stanno esplodendo razzismo, xenofobia e intolleranza. Per esempio, in Svizzera è stato approvato per referendum il divieto di costruire minareti, divieto che rappresenta una violazione della libertà di religione e una discriminazione per motivi religiosi.
Nel nostro continente è stata sistematica la discriminazione dei rom, che sono rimasti in gran parte esclusi dalla vita pubblica e ai quali sono stati negati alcuni diritti umani. I casi citati nel Rapporto annuale 2010 riguardano l'Italia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Serbia e la Slovacchia.
Le violenze nei confronti delle donne sono un altro classico segnale di mancanza di giustizia. Sulle donne, in particolare quelle povere, si abbatte il peso dell'incapacità dei Governi di realizzare gli Obiettivi di sviluppo del millennio, la più importante iniziativa globale contro la povertà.
Nonostante tra gli otto Obiettivi negoziati nel 2000 figuri anche quello finalizzato a migliorare la salute materna, si stima che anche nel 2009 le complicazioni in gravidanza siano costate la vita a circa 350 mila donne nel mondo. Tali morti sono spesso causate da discriminazione, violazione dei diritti sessuali e riproduttivi e mancato accesso alle cure sanitarie.
Casi di cosiddetti delitti d'onore sono stati riferiti in Giordania, nei territori amministrati dall'Autorità palestinese e in Siria.
In Messico, Guatemala, El Salvador, Honduras e Giamaica sono aumentate le denunce di violenza domestica, di stupri, di violenze sessuali, di uccisioni e stupri seguiti da mutilazioni.
Sempre in tema di discriminazione, il 2009 è stato un altro anno difficile per gli uomini e le donne che si impegnano per vincere la discriminazione basata sull'orientamento sessuale.
Nell'Africa subsahariana è esplosa l'omofobia con numerosi arresti per immoralità e in Uganda con la presentazione di un progetto di legge sulla cosiddetta omosessualità aggravata, che prevede anche la pena di morte.
Perché vi sia giustizia, i Governi devono assicurare che nessuno si ponga al di sopra della legge, a prescindere da quale ruolo ricopre e da quanto sia grande il potere di cui dispone. Gli Stati devono garantire che ogni persona abbia accesso alla giustizia per tutte le violazioni dei diritti umani subìte.
La responsabilità per la tutela e la realizzazione dei diritti umani spetta innanzitutto agli Stati e ai loro organi, ma ci sono altri attori potenti che devono rispondere di violazioni dei diritti umani, in particolare quando gli organi dello Stato nel quale operano non riescono a salvaguardare l'incolumità della popolazione.
Gravi violazioni dei diritti umani sono causate dalle attività delle aziende multinazionali. Sono tuttora rari i casi in cui esse debbano rispondere realmente dei danni causati alle popolazioni locali.
Nel 2009 abbiamo ricordato che erano trascorsi 25 anni da quando la fuoriuscita di agenti chimici tossici da un impianto di pesticidi della Union Carbide a Bhopal, in India, aveva ucciso tra 7 e 10 mila persone nel giro di pochi giorni e ulteriori 15 mila negli anni successivi, danneggiando la salute e il benessere di 100 mila sopravvissuti.
Recentemente, dopo 25 anni, sette cittadini indiani sono stati condannati per il disastro, troppo poco e troppo tardi rispetto all'immane tragedia consumata. Amnesty International chiede ai Governi di India e Stati Uniti che la compagnia statunitense sia portata di fronte alla giustizia.


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Registriamo come buona notizia il fatto che il 17 giugno 2010 l'Unione europea ha reso nota la disponibilità a offrire supporto finanziario e tecnico per una valutazione indipendente, complessiva e verificabile dell'ampiezza della contaminazione dell'ex impianto della Union Carbide a Bhopal.
Nel delta del Niger, una zona umida abitata da 31 milioni di persone, gli sversamenti di petrolio nel terreno e nelle acque negli ultimi 50 anni equivalgono a 50 volte l'inquinamento causato dall'incidente della Exxon Valdez.
Il gas flaring, che danneggia la salute e la base vitale di migliaia di persone, continua a essere praticato anche dall'ENI e permesso dalle autorità nigeriane, nonostante sia stato vietato dall'Alta corte nigeriana nel 1984. Il grave impatto dell'estrazione petrolifera sui diritti umani è ancora in attesa di una soluzione.
Oltre ai Governi e alle aziende, dobbiamo ricordare le responsabilità impunite di un terzo soggetto: i gruppi armati di opposizione.
In Afghanistan, Colombia, Repubblica democratica del Congo, Israele e territori palestinesi occupati, Pakistan, Somalia, Sri Lanka, Iraq e Yemen gruppi armati, presumibilmente affiliati ad Al Qaeda in questi ultimi due Paesi, si sono resi responsabili di attacchi indiscriminati e hanno preso di mira la popolazione civile.
Durante il 2009 sono proseguiti i conflitti in Afghanistan, Ciad, Colombia, Repubblica democratica del Congo, Gaza e sud di Israele, Iraq, Somalia, Sri Lanka e Sudan. Decine di migliaia di civili sono state intrappolate tra i fronti o addirittura prese di mira nei combattimenti tra forze governative e gruppi armati.
Ci conforta, tuttavia, constatare come sempre di più i crimini contro l'umanità siano visti come fatti di enorme gravità, cui rispondere con inchieste e procedimenti giudiziari, anziché con alchimie politiche e diplomatiche. Ciò appare sempre più chiaro quando si tratta di crimini di tortura, sparizione e attacchi contro la popolazione civile. È di pochi giorni fa la notizia della condanna all'ergastolo di due militari serbo-bosniaci giudicati colpevoli di genocidio per il massacro di Srebrenica.
È necessario, però, anche individuare le responsabilità giuridiche per la negazione dei diritti umani fondamentali come il cibo, l'istruzione, la salute e l'alloggio.
Oltre ai casi di grave inquinamento causato dalle attività industriali, ci riferiamo anche ad altre violazioni, come il blocco economico israeliano contro Gaza, in vigore ormai da tre anni, i continui attacchi dei talebani alle scuole femminili in Afghanistan, il divieto assoluto di aborto introdotto in Nicaragua, gli sgomberi forzati delle fasce più povere della popolazione in Angola, Egitto, Ghana, Kenya e Nigeria, quelli ai danni dei rom in Bulgaria, Grecia, Italia, Romania e Serbia, la segregazione scolastica dei bambini rom nella Repubblica Ceca e in Slovacchia.
La povertà è una prigione in cui sono reclusi miliardi di persone i cui Governi non assicurano loro il diritto al cibo, all'alloggio, alla salute e all'acqua. I Governi devono far diventare tali diritti una realtà, assumendo impegni vincolanti su questo tema e rendendo conto delle loro azioni. Le promesse e le dichiarazioni di intenti non sono più sufficienti.
La conferenza delle Nazioni Unite sugli Obiettivi del millennio che si svolgerà a settembre sarà un'opportunità importante per i leader del mondo per passare dalle parole a impegni vincolanti e affrontare la povertà mettendo al centro del loro operato la responsabilità di garantire i diritti umani.
Amnesty International sta chiedendo a tutti i Governi, compreso quello italiano, di rendere coerenti con gli standard internazionali dei diritti umani le leggi, le politiche e i programmi di riduzione della povertà. Gli Stati devono garantire l'accesso alla giustizia a chi ha subìto violazioni da parte delle aziende e dare piena adesione al Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la cui adozione, nel settembre 2009, ha sancito l'esigibilità dei diritti economici, sociali e culturali.


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Amnesty International si aspetta dal Governo italiano, che ha firmato immediatamente il protocollo, l'avvio dell'esame di un disegno di legge di ratifica.
Gli Stati devono, inoltre, rafforzare i meccanismi per portare davanti alla giustizia chi ha commesso violazioni dei diritti civili e politici e il vertice della politica mondiale deve dare l'esempio. Tutti gli Stati del G20, che rivendicano una leadership globale, devono dare piena adesione alla Corte penale internazionale, la quale, a sua volta, dovrebbe ampliare il proprio raggio d'azione, che finora si è limitato all'Africa.
Serve un impegno internazionale maggiore per assicurare giustizia alle popolazioni di Paesi come Colombia, Sri Lanka, Georgia, Afghanistan, Israele e Territori occupati palestinesi, Iraq, anche attraverso un ruolo maggiormente attivo del Consiglio di sicurezza, che può decidere di deferire alla Corte casi relativi ai Paesi che non sono vincolati dal suo statuto.
Quanto all'ONU, l'impegno in direzione della giustizia globale potrebbe essere reso più credibile, solo per citare due esempi, dall'apertura immediata di un'indagine internazionale indipendente sui crimini commessi dalle due parti del conflitto in Sri Lanka e dalla forte richiesta a Israele e Hamas affinché diano attuazione alle raccomandazioni del Rapporto Goldstone relative a crimini di guerra e a possibili crimini contro l'umanità commessi a Gaza e nel sud d'Israele durante l'operazione Piombo fuso.
La società civile svolge un ruolo fondamentale nell'accertamento della verità e verso una giustizia che condanni i responsabili e garantisca riparazione alle vittime. I Governi hanno, dunque, il dovere di proteggere le attiviste e gli attivisti dei diritti umani perché possano operare in sicurezza per la costruzione di un mondo in cui le persone possano vivere libere dalla paura e dal bisogno.
La lezione che abbiamo appreso dal 2009 è che vi è un grande bisogno di giustizia globale, che porta con sé l'equità e la verità per le vittime, ponendosi come deterrente nei confronti delle violazioni dei diritti umani e contribuendo a un mondo più stabile e sicuro, più libero e giusto.

GIUSY D'ALCONZO, Coordinatrice della ricerca sull'Italia di Amnesty International. Buongiorno, presidente e onorevoli deputati. La mia relazione verte sulla situazione dei diritti umani in Italia.
L'Italia è uno dei 139 Paesi del mondo di cui il nostro Rapporto annuale riferisce violazioni dei diritti umani ed è per questo motivo che apprezziamo molto tutte le occasioni di dialogo e di approfondimento che possiamo avere con le istituzioni italiane relativamente a questi temi.
Evidentemente il contributo delle istituzioni nazionali dei singoli Paesi alla giustizia internazionale, che, come è stato citato, rappresenta un nostro punto di vista e la nostra prospettiva sul mondo, soprattutto quest'anno, è molto importante, almeno da due punti di vista.
Innanzitutto, lo è in termini di riconoscimento delle responsabilità politiche delle istituzioni dei singoli Paesi e quindi della necessità di correggere il tiro relativamente ad alcune scelte, quando esse hanno un impatto visibile concreto e negativo sui diritti umani.
L'altro motivo è rappresentato dal ruolo che i tribunali nazionali svolgono nell'accertamento delle violazioni dei diritti umani, contribuendo all'accertamento della verità, il che ha già in sé un valore altissimo per le vittime, oltre che a una compensazione, a una restituzione anche di giustizia e di credibilità alle vittime e alle loro famiglie, quando i tribunali nazionali intervengono rispetto a violazioni specifiche.
L'Italia che emerge dal nostro Rapporto annuale 2010 è un Paese in cui sono visibili i segni concreti delle politiche adottate negli anni scorsi. Mi riferisco a un arco piuttosto ampio di tempo. Parliamo, dunque, sia di lacune legislative molto antiche, che non sono state colmate dai diversi Governi avvicendatisi in questi anni, sia di scelte più recenti, che stanno avendo effetti immediati sulle vite e sui diritti umani delle persone.


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Come è emerso nel corso dell'Esame periodico universale davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha riguardato l'Italia e si è concluso lo scorso giugno, sarebbe necessario che l'Italia introducesse nel Codice penale il reato di tortura. Lo sosteniamo da molti anni e ci sembra assolutamente urgente che il Paese non continui a privarsi di questo strumento importantissimo di tutela, lasciando di fatto la tortura senza nome nella legislazione penale. Ci siamo molto rammaricati del rifiuto, da parte delle nostre istituzioni, di accettare questa raccomandazione. Come illustrerò più avanti nella mia relazione, ciò ha effetti concreti, immediati, molto pratici sulla vita delle persone e sulla stessa giustizia.
Al contempo, abbiamo molto apprezzato, invece, l'impegno che l'Italia ha preso, sempre in sede di Consiglio per i diritti umani, di adottare misure contro il razzismo e la discriminazione dei rom, dei richiedenti asilo e dei migranti. Anche in questo caso, si tratta di misure di cui si sente un bisogno pratico sul campo; non è, dunque, una questione soltanto di lacune legislative, ma proprio di effetti concreti. Quanto le misure contro la discriminazione di queste persone siano necessarie emerge, infatti, dal nostro Rapporto annuale.
Relativamente ai rom, mi riferisco in particolare all'illegittimità, dal punto di vista del diritto internazionale, delle politiche di sgombero forzato praticate in molte città italiane, tra cui Roma e Milano, nei confronti delle comunità rom e sinte, sulla base di decreti che dal 2008 definiscono le persone cosiddette nomadi un'emergenza, al punto di fornire poteri speciali, in deroga alle norme ordinarie, alle autorità, nello specifico i prefetti, che di tali persone sono chiamate a occuparsi.
Queste politiche stanno lasciando centinaia di persone, comprese famiglie con bambini, prive di abitazione e senza alternative; ottengono, inoltre, il risultato di mettere intere comunità in fuga da un posto all'altro del Paese.
Abbiamo ricevuto molte segnalazioni di sgombero da Milano, per una situazione che però è in corso di approfondimento da parte nostra. Sono già note, invece, le nostre preoccupazioni sul Piano nomadi di Roma, che, se attuato come previsto, sposterebbe migliaia di persone di fatto fuori dalla città, interrompendo i percorsi scolastici avviati per i bambini e aggravando la situazione che viene definita di «segregazione abitativa» da molti comitati internazionali che hanno monitorato l'Italia.
Ci sembra che, comunque, vi siano ancora tempi e modi per un ripensamento del Piano nomadi. Stiamo valutando e monitorando la situazione, che è in evoluzione e torneremo a parlare di questo tema in seguito.
Sempre in relazione agli impegni assunti dall'Italia davanti al Consiglio per i diritti umani, è importante sottolineare che il Paese si è impegnato espressamente a rispettare il diritto internazionale in merito al non respingimento dei richiedenti asilo soccorsi in mare. Ha esplicitamente affermato di voler tener fede a quello che viene definito non-refulment nel diritto internazionale.
A questo punto, è evidente il collegamento con la gravità di ciò che accade nel Mediterraneo. Per noi l'allontanamento dei migranti e dei richiedenti asilo che hanno tentato di chiedere protezione in Europa e in Italia da parte delle istituzioni italiane è una grave violazione dei diritti umani, che mette a rischio il sistema di protezione e dell'asilo stesso, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Ci siamo, infatti, rivolti anche alle istituzioni europee su questo tema.
Queste politiche vengono attuate sulla base di più accordi, siglati dal Governo presente e dal precedente. Mi riferisco all'accordo quadro firmato dal Presidente del Consiglio Berlusconi e dal leader libico Gheddafi nel 2008, il cosiddetto accordo di amicizia e cooperazione con la Libia. Mi riferisco anche agli accordi sul pattugliamento in mare di livello ministeriale siglati dall'allora Ministro dell'interno Amato, a dicembre 2007. Sulla base di tali accordi l'Italia ha consegnato alla Libia alcuni mezzi per operare il pattugliamento in mare.


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Lo stesso Governo italiano ha dichiarato che oltre 830 persone, tra cui decine di donne, almeno una delle quali in gravidanza, e diversi minori, sono state riconsegnate - per usare il linguaggio istituzionale - alla Libia. Sappiamo che poi molte altre sono state intercettate direttamente dalle autorità libiche. A oggi non conosciamo il destino di queste persone, né di quelle intercettate dalle autorità italiane, né delle altre.
Sono note a tutti le segnalazioni veramente allarmanti che provengono in questi giorni proprio dalla Libia relative al trasferimento di oltre 200 eritrei dal centro di detenzione di Misurata all'area di Sabah, che è molto più vicina al confine meridionale. Da lì le persone evidentemente rischiano un rimpatrio, rispetto al quale voglio segnalare che Amnesty International ha lanciato un appello internazionale al Governo libico affinché esse non vengano rimpatriate in Eritrea, dove rischiano torture e maltrattamenti perché considerate traditrici del Governo. Si tratta spesso di persone che fuggono dall'obbligo di leva, che in Eritrea è permanente. L'appello è affinché siano garantiti loro, a uomini, donne e bambini, l'acqua, il cibo e le cure mediche.
È, quindi, in corso in questo momento quella che noi chiamiamo un'azione urgente. Abbiamo chiesto ai nostri membri in tutto il mondo di scrivere al Governo libico per salvare queste persone.
Nell'ambito delle politiche di immigrazione abbiamo espresso nei mesi scorsi preoccupazione anche relativamente al pacchetto sicurezza e alle riforme dell'immigrazione preannunciate dai primi atti adottati in materia di sicurezza e immigrazione dal Governo Prodi nel 2007, diventati poi un piano molto più dettagliato successivamente.
Come è noto, esse contemplano l'aggravante di immigrazione irregolare, che per noi è una misura discriminatoria, perché discrimina tra imputati dello stesso reato, e il reato stesso di immigrazione regolare, che ha avuto soprattutto l'effetto immediato di stigmatizzare i migranti irregolari, la maggior parte dei quali è qui per lavorare.
Al di là del legittimo diritto, direi obbligo, dello Stato di controllare i confini e di avere una politica di immigrazione, crediamo che possa essere controproducente allontanare i migranti dalle istituzioni.
Avviandomi verso la conclusione, vorrei tornare al ruolo dei tribunali, perché, come ricordavo, i tribunali nazionali hanno un ruolo importante. Le violazioni dei diritti umani molto spesso sono anche reati e ciò mette in luce la responsabilità dei giudici internazionali nell'accertarli e punirli.
Ci sono state diverse sentenze importanti in Italia nel 2009 e 2010, che abbiamo già richiamato, lanciando il Rapporto annuale lo scorso maggio.
Il 4 novembre del 2009 ha avuto un esito in primo grado la procedura giudiziaria da considerarsi la più avanzata in Europa contro i responsabili di una rendition. Mi riferisco alla condanna da parte del tribunale di Milano di 22 agenti della CIA, di un ufficiale militare statunitense, di due agenti dei servizi di intelligence militare italiana per il rapimento di Abu Omar, trasferito illegalmente in Egitto nel 2003 e ivi detenuto segretamente per 14 mesi. Si tratta, quindi, di una condanna per rapimento.
In mesi più recenti, invece, la Corte di appello di Genova ha scritto una pagina molto importante nella ricostruzione degli abusi commessi dalle forze di polizia durante il G8 del 2001. Vi è stato, relativamente al caso della Diaz, il riconoscimento della colpevolezza di oltre 25 tra agenti e dirigenti di polizia per le lesioni, gli arresti illegali e i reati di falso e calunnia commessi ai danni dei manifestanti inermi aggrediti nella notte nella scuola.
Precedentemente, a marzo, erano state riconosciute le responsabilità penali di tutti i 44 imputati, anche in questo caso agenti della polizia di Stato, ma anche medici, per le brutalità compiute nel carcere provvisorio di Bolzaneto. Voglio ricordare che i detenuti furono costretti a


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tenere posizioni dolorose e minacciati di stupri e di violenze e che le perquisizioni furono volutamente degradanti.
È importante che a centinaia di vittime, anche se dopo molti anni, sia stata restituita la credibilità e in parte anche la giustizia, nonché il diritto a un risarcimento. Crediamo che su decine di agenti e funzionari dello Stato, che in quel momento si trovavano a Genova per proteggere i manifestanti e non per violarne i diritti, pesi invece il fallimento dell'ordine pubblico di quei giorni.
Ci sono state altre sentenze, successivamente. Nel luglio del 2009 vi è stata la condanna, sempre in tema di responsabilità delle forze di polizia, di quattro agenti per l'uccisione di Federico Aldrovandi a Ferrara e nello stesso mese, da parte del tribunale di Arezzo, il riconoscimento della responsabilità di un agente della polizia stradale per l'uccisione di Gabriele Sandri.
In molti di questi processi il percorso è stato lungo e tortuoso e non sempre facilitato dalle istituzioni di appartenenza degli imputati. Ha rischiato, quindi, di perdersi un po' nel vuoto ed è stata necessaria molta tenacia da parte delle persone colpite, quando erano ancora vive, o comunque da parte delle loro famiglie e dei giornalisti.
È stato necessario che tale percorso fosse accompagnato e non sempre dal nostro punto di vista è stata raggiunta una verità completa. Relativamente al processo Abu Omar sia il Governo Prodi, sia il Governo Berlusconi hanno posto il segreto di Stato. Riteniamo che ciò abbia impedito il riconoscimento della verità, che in un processo penale può significare innocenza o colpevolezza.
L'episodio dei fatti di Genova - vediamo gli effetti concreti, che citavo all'inizio - è stato pesantemente segnato dalla mancanza del reato di tortura. In particolare, nel processo di Bolzaneto i magistrati inquirenti, ma anche il tribunale e la Corte d'appello, hanno segnalato che la mancanza del reato di tortura ha impedito di punire adeguatamente i colpevoli. Risultava ampiamente provato un comportamento che coincide con la definizione internazionale di tortura, ma nel nostro Codice penale è stato necessario fare ricorso a reati come l'abuso d'ufficio o le lesioni, che si prescrivono, mentre il reato di tortura sarebbe imprescrittibile, se adottato.
Questa è una delle differenze, ma ce ne sono molte altre. Ci sono molti buoni motivi, oltre a un obbligo internazionale, per contemplare il reato di tortura nel Codice penale.
Un ultimo cenno, nel tentativo di ricostruire quanto meno una sintesi sulla situazione dei diritti umani in Italia, va sicuramente ai rischi crescenti per le minoranze.
Come nel mondo, così anche in Italia siamo preoccupati per quanto sta accadendo alla minoranza LGBT, ossia alle persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali, contro cui abbiamo visto un crescere, come segnalato dalle ONG che se ne occupano, di attacchi.
Abbiamo scritto, pochi giorni prima del pride nazionale di Napoli, alla Ministra Maria Rosaria Carfagna, innanzitutto apprezzando la campagna lanciata contro l'omofobia e segnalando che abbiamo molto apprezzato l'annuncio del capo della polizia Manganelli sull'istituzione di un ufficio centrale che debba occuparsi proprio di minoranze e di discriminazione.
Allo stesso tempo, chiediamo alle istituzioni di tenere alta l'attenzione su questi attacchi, affinché siano puniti adeguatamente, perché ci sembra che abbiano un impatto sulla sicurezza delle persone colpite, ma anche di tutti noi.
Per la sicurezza di tutti noi e delle persone che si trovano nel potere delle istituzioni italiane o che si sono trovate sottoposte alla responsabilità delle istituzioni italiane voglio concludere rinnovando il nostro appello al Governo italiano affinché utilizzi il rapporto privilegiato che ha, in questo momento, nel panorama internazionale, nelle relazioni con la Libia per favorire un cambiamento della situazione


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dei diritti umani in tale Paese, nei confronti non solo dei migranti, ma anche dei cittadini libici.
Dal nostro punto di vista, l'esistenza di un dialogo internazionale con un Governo che ci preoccupa è un'occasione molto positiva, che crediamo il Governo italiano debba utilizzare per mettere i diritti umani nell'agenda e non per lasciarli fuori, come ci sembra sia successo sino adesso. Crediamo che ciò possa essere fatto in ogni occasione utile. Sappiamo che sono molti gli scambi e le visite reciproche, che hanno un impatto immediato sulle oltre 200 persone che in questo momento si trovano sospese su un filo, in una zona del deserto verso il confine sud-orientale della Libia. A loro soprattutto oggi va il nostro pensiero.

PRESIDENTE. Vi ringraziamo molto. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni

FRANCO NARDUCCI. Voglio svolgere una considerazione che riguarda le minoranze, i rom in particolare. Vengo dall'incontro delle delegazioni parlamentari Romania-Italia, che è ancora in corso, dove questo argomento, sia ieri, sia oggi, per evidenti ragioni, è stato molto dibattuto.
Credo che il problema dei rom sia romeno, italiano e anche dell'Europa e che debba essere affrontato su questo piano, cioè con il coinvolgimento di tutte le parti in causa interessate.
Mi pare che in Italia siano stati compiuti comunque alcuni sforzi, già a partire dai fatti noti, che hanno fatto affiorare in modo drammatico il problema. Soprattutto devono essere garantite condizioni di abitabilità e di igiene.
Ho visto molti esempi, in altri Paesi, di campi destinati a tali persone. In una città come Roma sarà molto difficile poter accogliere una comunità intera all'interno della città, perché mancano gli spazi. Bisogna studiare la questione, ma è importante garantire queste condizioni e soprattutto la sicurezza all'interno dei campi, facendo sì che ci siano, come avviene altrove, condizioni igieniche adeguate. È assolutamente importante, inoltre, affrontare con determinazione il problema della scuola, che spesso in Italia è stato uno dei punti carenti.
Volevo segnalare la questione alle rappresentanti di Amnesty International. Credo che sia un processo dinamico, che non si è mai concluso. In Italia abbiamo visto sicuramente esempi molto negativi e non risolti, soprattutto nella grande area milanese. Non si può concedere, d'altra parte, che vengano invasi, quasi di propria iniziativa, campi dove installarsi, in cui non esistono le condizioni necessarie e manca ogni tipo di controllo sulla sicurezza.
Credo che ciò sia dovuto al rispetto sia per le comunità nomadi, sia, naturalmente, per quelle locali. L'attenzione di Amnesty International su questo problema, che è sempre esistito, può aiutare anche la politica e l'amministrazione nel compiere i passi e le scelte fondamentali che devono essere compiute.

MARIO BARBI. Vorrei cogliere l'occasione per svolgere un'osservazione di tipo generale - ho già avuto occasione di farlo in un'altra circostanza - per porre poi una domanda specifica.
Ringraziando in premessa, ovviamente, i nostri interlocutori per la loro presentazione del rapporto di Amnesty International sul piano internazionale, e per la parte italiana in particolare, la mia osservazione di ordine generale è la seguente: ho l'impressione che la nozione di diritti umani e di violazione dei diritti umani tenda a dilatarsi in modo tale da riportare sotto la stessa categoria fattispecie molto diverse tra loro, con l'effetto di far perdere un po' di incisività e di individuazione delle priorità.
L'elenco illustrato spazia dalle questioni tipicamente relative a violazione di diritti di libertà e di inviolabilità dell'integrità fisica delle persone in ogni parte del mondo, riferite a singoli individui o anche a gruppi, ad altre più generali, che riguardano l'ambiente, le multinazionali, lo sfruttamento delle materie prime, ad altre ancora di ordine economico e sociale.


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La questione della povertà è diffusa in larghissima parte del globo, anche nelle parti sviluppate, ma in quelle povere in modo davvero endemico ed estesissimo. Non c'è dubbio che la povertà e le condizioni di indigenza possano essere considerate anche condizioni di disumanizzazione o di mancanza elementare di umanità. Sono, però, altro dalla persecuzione di un individuo o di un gruppo da parte di uno Stato, quindi di un potere costituito, o di un antistato, cioè di un gruppo che agisce in modo armato contro un potere costituito, magari per costituirsi come tale a sua volta.
Svolgo questa osservazione perché mi chiedo se non vi siate posti tale domanda. Ho preso alcuni appunti generici, ma tra la questione del referendum svizzero sui minareti, che certamente pone un tema che riguarda l'esercizio della libertà di culto in Paesi come la Svizzera, che non gode di cattiva reputazione dal punto di vista dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, e altre come gli attacchi dei talebani alle scuole femminili o all'istruzione femminile c'è una notevole differenza.
Ci troviamo di fronte a grandi questioni e ad altre che forse dovrebbero essere trattate con un diverso rilievo, mettendo accenti differenti e ponendole nello spazio delle violazioni in ordine diverso.
Cito questi due casi perché sono quelli che rendono immediatamente l'idea. Peraltro, esiste un rapporto tra i due, ma è un'altra questione ancora.
Venendo alla domanda, su un tema che in questo momento ha un rilievo anche di attualità in senso stretto - mi riferisco agli eritrei detenuti in Libia - vorrei chiedervi se le iniziative verso il Governo libico da parte delle organizzazioni internazionali e di altri Stati abbiano prodotto riscontri.
Come Italia e come Parlamento italiano, siamo naturalmente interessati a questa vicenda, in modo speciale per il trattato che abbiamo stipulato con la Libia, per il quale ho votato a favore, a differenza - credo - del presidente, che lo ha osteggiato. In tale trattato è prevista una clausola in cui il Governo si impegna a interessarsi delle vicende libiche che investono aspetti quali i rifugiati e il loro trattamento.
Nonostante l'individuazione di questo come di un caso che ci interessa particolarmente, mi chiedo perché ce l'abbiate presentato sotto il capitolo Italia e non sotto quello della violazione dei diritti umani in ambito internazionale, perché comunque si tratta di una questione distinta.
Sul reato di tortura, effettivamente diverse volte ci siamo battuti in sedi parlamentari per sollecitare e interessare il Governo e la maggioranza - parlo dal lato dell'opposizione - a considerare la necessità non solo di un adeguamento del nostro ordinamento allo statuto della Corte penale internazionale, ma in modo specifico dell'inserimento del reato di tortura nel nostro Codice penale e nel nostro ordinamento stesso.
Ciò premesso, affermo marginalmente che non sono sicuro che i maltrattamenti fisici e morali, indubbi e deprecabilissimi e per i quali ho piacere che sia stata pronunciata una sentenza di condanna, ancorché a livello dell'attuale legislazione - parlo di Genova e della vicenda della scuola Diaz - siano qualificabili o debbano essere qualificati sotto il reato di tortura, se esistesse. Naturalmente, ciò dipenderebbe dalla definizione e dalle indagini.

ENRICO PIANETTA. Anch'io voglio ringraziare i nostri ospiti per le relazioni che ci hanno voluto illustrare, sia per quanto riguarda la situazione in Italia, sia per quanto attiene alla visione più ampia della promozione dei diritti umani nel mondo.
Per quanto riguarda l'Italia, abbiamo ascoltato in termini molto precisi diverse considerazioni che indubbiamente devono preoccuparci tutti. Questo Comitato aveva già ascoltato, in una precedente occasione, il Governo e anche altri soggetti per quanto attiene all'Esame periodico universale al quale l'Italia era stata sottoposta.


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Considero che bisognerà compiere anche alcuni progressi dal punto di vista istituzionale per quanto attiene all'attenzione nei confronti di un tema tanto importante. Da una parte, il Parlamento deve procedere all'istituzione - vado per sintesi - di un'authority per i diritti umani. Mi pare che al Senato si stia discutendo un disegno di legge in materia. Dall'altra, ritengo che il Parlamento debba darsi un istituto permanente, non foss'altro perché questo meritorio Comitato deve essere rinnovato in occasione di tutte le nuove legislature, come pure al Senato la Commissione speciale per i diritti umani deve essere «inventata» in ogni legislatura attraverso l'approvazione di una mozione.
Credo, dunque, che dovremmo darci in termini permanenti un soggetto, che può essere una Commissione bicamerale o di altro tipo, proprio perché si possa avere con tutti i soggetti istituzionali, sia nazionali, sia internazionali, un interlocutore permanente in ordine al progresso e allo sviluppo dei diritti umani.
Non bisogna mai avere paura di parlare di diritti umani, proprio perché, parlandone, discutendone, facendo in modo che non soltanto le istituzioni, ma anche l'opinione pubblica sia sempre maggiormente consapevole dell'esigenza di un progredire lungo una strada lenta e difficile, si compiono passi avanti, ma anche indietro. Credo che questo sia un fatto importante.
La tortura è indubbiamente un caso per il quale abbiamo compiuto passi indietro. Ricordo - come ho fatto anche in altre occasioni - che nella legislatura precedente a quella passata io stesso avevo presentato alcuni disegni di legge, insieme ad altri colleghi. Era arrivata addirittura in Aula, al Senato, la discussione per quanto riguarda l'istituzione del reato di tortura. Adesso, invece, stiamo compiendo passi indietro.
Convengo con l'impostazione generale problematica del collega Barbi in merito alla capacità di capire e sviluppare un discernimento nel mondo complesso dei diritti umani. Da questo punto di vista, ritengo che in tema dobbiamo sempre lavorare in casa nostra, se vogliamo anche portare un piccolo contributo a livello internazionale.
Non c'è dubbio, per esempio, che - anch'io condivido le osservazioni del collega Barbi - quell'accordo può essere utile. Del resto, mi pare di aver capito che, in fin dei conti, il promuovere rapporti costruttivi con i diversi Stati, dei quali magari non condividiamo fino in fondo la realtà interna, sia comunque un passo per una costruzione. Sono profondamente convinto che non si possa raggiungere in tempi brevi quello che può essere considerato un appagamento quanto mai fondamentale dei diritti di ogni essere umano di poter vivere in libertà nell'ambito di Stati di diritto. Vi è, dunque, la necessità di contribuire.
Anch'io ho evidenziato una particolare preoccupazione per quanto riguarda i 245 eritrei che versano in una condizione di estrema precarietà e rischiano il rimpatrio e ho invitato il Governo italiano, il Ministro degli affari esteri e il Ministro dell'interno a mettere in atto quanto è possibile, sulla base anche dell'appello, ricordato dalla nostra ospite, in ordine ai rapporti che si sono instaurati in condizioni meno difficili tra Italia e Libia, proprio perché attraverso tali rapporti si possa arrivare a una considerazione.
Non c'è dubbio che l'evocazione di tutto lo stato dei diritti umani nel mondo debba preoccupare le coscienze e tutti noi. Oltre a tutto ciò che è stato citato - razzismo, antisemitismo, i minareti - penso, per esempio, anche alla situazione in cui si trovano molte comunità di cristiani, che sono oggetto di persecuzioni. Esiste una realtà quanto mai complessa, che non lascia nulla di positivo in determinate circostanze, in alcuni Paesi.
Volevo rivolgere solo una piccola domanda. Oggi pomeriggio dovremo affrontare un tema, ossia ratificare un accordo con il Sudan. Si tratta di un accordo di natura commerciale: si fa riferimento alla promozione e alla protezione degli investimenti.
È chiaro che, parlando del Sudan, non si può non evocare quella che è stata e


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continua a essere forse una delle tragedie più disumane, sia per quanto riguarda sia il rapporto tra il nord e il sud del Paese, sia la realtà del Darfur. Sono due aree indubbiamente oggetto di contrasto da parte del Governo del nord, nel senso che ci sono state azioni molto determinate anche a livello governativo. Mi riferisco soprattutto alla zona di Nyala, nel Darfur.
Mi auguro che il rapporto con il sud possa essere migliorato in ragione del referendum, che magari costituirà un'opportunità, anche se osteggiata dal Governo del nord, per una forma di autonomia.
Volevo, però, rivolgere la seguente domanda: com'è la situazione attuale? So benissimo che è un tema complicato, ma ne dovremo discutere ancora di più rispetto a quello che abbiamo fatto ieri, in ragione soprattutto del rapporto tra nord e sud del Sudan e delle azioni ancora sviluppate verso la popolazione del Darfur.
Ho visitato anche alcuni campi profughi: anche al loro interno ci sono condizioni disumane ed estremamente negative, persino di violenza.
Volevo un'ulteriore vostra informazione in ordine a questa situazione, che rappresenta indubbiamente una delle più grandi catastrofi umanitarie della nostra epoca.

PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi e naturalmente le testimonianze che Amnesty International ci ha portato. Prima di ridare la parola per le conclusioni alle nostre ospiti e, in particolare, alla presidente Christine Weise, vorrei aggiungere alcune osservazioni a quelle dei miei colleghi.
Una riguarda ciò che il collega Narducci ha affermato sulla questione dei rom. Parlo da semplice membro del Comitato e non come suo presidente, ma il problema dei rom, così come è stato sollevato, mi pare assolutamente proprio.
Non si pone il problema urbanistico se una data comunità sia in grado di essere accolta all'interno di una città, ma quello umano, ma anche di estrema gravità per la civiltà di un Paese, di respingere persone spinte nel vuoto e messe in fuga, senza alcun luogo in cui andare.
Un Paese civile del livello dell'Italia, che è, pur se in piena crisi come quella che stiamo attraversando, la quinta o la sesta economia del mondo, deve essere in condizioni di traslocare un gruppo non più grande di un circo, tutto sommato, come sono spesso i campi nomadi, anziché scacciarne gli occupanti e mandarli via nella notte, bambini inclusi.
Si possono svolgere molte osservazioni sui diritti delle famiglie, sul loro smembramento, sui bambini a scuola, ma sono persino secondarie rispetto al delitto di privare qualcuno di una baracca, sia pure inumana, per spingerlo nel vuoto, da parte di autorità che non hanno provveduto a nulla, tranne a incassare il consenso per aver liberato un quartiere da un campo nomadi.
È veramente piuttosto grave. Un giorno sarà materia di libri e di film di denuncia, i cui spettatori e lettori si scandalizzeranno, chiedendosi se sia possibile aver vissuto in tempi simili. Sono, però, i tempi in cui stiamo vivendo.
Ho ascoltato un momento fa il collega Pianetta sostenere che in fondo la Libia avrà tutti i suoi difetti, ma che legarsi con un trattato a tale Paese significa avvicinarlo e attrarlo nella zona della civiltà e che, quindi, questa dovrebbe essere un'occasione per renderlo migliore.
Purtroppo ciò non accade, di fatto, perché abbiamo visto che finora il Governo italiano ha taciuto su un problema che è rigorosamente italiano e lo è per la natura stessa di quel trattato: abbiamo contrattato con la Libia a un dato costo che essa si facesse carico con le nostre navi e con i nostri sistemi satellitari di intercettare in terra o in mare per conto nostro persone migranti, indipendentemente dal loro diritto e dalla loro possibilità di chiedere diritto d'asilo, in modo che fossero trattenute e poi disposte secondo la sua volontà dalla polizia libica.
Il nostro trattato, purtroppo, è a rovescio: è la Libia che ha attratto noi nell'area del non rispetto dei diritti umani, a cui siamo vincolati da tutti i trattati che abbiamo firmato. La Libia non ha mai firmato alcun trattato, non ha assunto


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alcun impegno, non sta violando nulla, se non la decenza, in quello che sta avvenendo in questo momento. È la ragione per cui alcuni di noi hanno votato contro, persino violando la disciplina del loro partito.
È stato anche rilevato dall'onorevole Barbi che tenete una lista troppo grande e che vi è un limite a tutto: è meglio essere realisti, altrimenti diventa impossibile seguire un arco tanto vasto di violazioni, che va da quelle materiali e sanguinose ai minareti. Resta, però, il fatto che le migliori culture, che hanno sempre avuto a cuore i diritti umani, purtroppo sono le stesse che hanno dato vita a Guantanamo. Ho sempre apprezzato nella protezione americana dei diritti umani e civili l'ossessione per i simboli. Mentre veniva perseguita accuratamente e implacabilmente la violazione materiale e fisica, c'è sempre stata una reazione altrettanto forte delle autorità nei confronti dei simboli.
Vi riporto un ricordo, privato e personale, del primo anno in cui mia figlia è stata ammessa in una grande università americana. La sua compagna di stanza, che veniva dal sud, ha pensato che fosse una bravata esporre alla finestra della sua stanza la bandiera dei Confederati del sud per testimoniare la sua identità. La ragazza, di 17 anni, è stata espulsa. Sto parlando di una delle più grandi e più celebri università americane. È stata espulsa perché il presidente, il Consiglio d'amministrazione, il Consiglio dei docenti e il Senato, come si chiama l'organo misto studenti-professori, hanno ritenuto che tale simbolo di offesa ai loro colleghi neri non potesse essere accettato perché, di per sé, apriva la porta a un percorso che non si poteva neppure accennare di cominciare.
Ho apprezzato, leggendo i rapporti di Amnesty International il fatto che si presti un'attenzione uguale ai simboli e ai fatti, perché, purtroppo, i simboli aprono la porta ai fatti. Sono tante chiavi che fanno accadere gli eventi che abbiamo citato.
Concordo anche - desidero rimarcarlo - con la necessità più urgente possibile di dare vita nel Codice penale italiano, gravato da tante penalizzazioni, come quelle volute sull'uso della droga, al reato di tortura. È certamente the missing item, il pezzo mancante della legge penale italiana. Ci sono numerosi episodi, che sono stati narrati con cura dai giornalisti, ripresi dalle indagini e riportati nelle motivazioni dei giudici, che sono certamente rappresentabili come tortura in relazione a ciò che è avvenuto a Genova.
Del resto, lo stesso si potrebbe affermare per i casi Aldrovandi e Cucchi, vicende di cui separatamente ci occupiamo ogni volta con la dovuta indignazione di buoni cittadini, mentre ci sfugge l'insieme, ossia il quadro giuridico, che continua a mancare.
Questo è quanto desideravo aggiungere alle considerazioni che abbiamo svolto oggi.
Do la parola a Christine Weise e, se lo vorranno, alle sue colleghe per la replica.

CHRISTINE WEISE, Presidente nazionale di Amnesty International. Signor presidente, vorrei seguire l'ordine delle domande che sono state poste, partendo da quella dell'onorevole Narducci.
In merito ai rom in Italia, Amnesty International ha lanciato un'azione internazionale che riguarda l'aspetto dello sgombero forzato al quale sono sottoposte alcune comunità rom anche qui, a Roma. La nostra azione, infatti, si concentra soprattutto sul Piano nomadi attuato nella capitale.
Lo sgombero forzato è una violazione del diritto internazionale, dei diritti umani. In particolare, manca l'elemento della consultazione. Il presidente ha spiegato molto bene come alcune famiglie vengono mandate via senza che venga offerta loro un'alternativa, ma soprattutto senza neanche una preparazione.
È importante, quando si vuole utilizzare un'area e preparare cambiamenti, che le persone che ci vivono siano adeguatamente coinvolte, nel rispetto della dignità umana. La dignità umana è sempre il cuore dei diritti umani e riguarda ogni singola persona. Non possiamo ragionare solo in termini urbanistici di dove spostiamo


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i gruppi; ogni singola persona e famiglia deve essere coinvolta, ascoltata e rispettata nella sua dignità.
La discriminazione dei rom riguarda anche altri Paesi europei, come abbiamo ricordato, dove esistono problematiche diverse, come la scolarizzazione in scuole particolari per i bambini rom, senza valutare le loro capacità: sono semplicemente discriminazioni scolastiche a svantaggio di tali bambini. Questa è un'azione che riguarda, per esempio, la Repubblica Ceca e la Slovacchia.
Amnesty International, in relazione a rom e sinti, analizza la violazione di determinati diritti molto precisi. Elabora e pubblica rapporti di ricerca su questo tema, sempre mettendo al centro la dignità umana.
Arrivo alla risposta all'onorevole Barbi sulla questione più generale che ha posto. Riteniamo che nella definizione dei diritti umani la dignità umana abbia un valore fondamentale, così come stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, in base alla quale tutti gli esseri umani nascono uguali in dignità e diritti.
Tale dichiarazione contiene trenta diritti, non sono solo quelli che nel periodo successivo alla guerra sono stati in primo piano in Occidente, ossia i diritti civili e politici, ma anche quelli economici, sociali e culturali. È a questa dichiarazione che ci riferiamo quando parliamo di diritti umani.
I diritti umani sono interdipendenti e universali. L'interdipendenza tra diritti sociali, economici, civili e politici è ormai riconosciuta a livello globale, anche se durante la Guerra fredda il blocco occidentale attribuiva maggior valore ai cosiddetti diritti di libertà, mentre quello orientale, o comunista, l'attribuiva ai diritti economici.
Al giorno d'oggi, i diritti umani sono tutti i diritti umani e devono essere garantiti a tutte le persone. A proposito dell'attività delle aziende, quando nel 1984 sono morte migliaia di persone dopo il disastro di Bhopal, a causa di una fabbrica dove non venivano utilizzate le stesse procedure di sicurezza che la stessa multinazionale applicava negli Stati Uniti, va dunque accertata una responsabilità per tali morti.
Lo stesso vale per le persone che nel delta del Niger hanno perso la loro base vitale, perché il loro ambiente non permette più loro di coltivare il cibo. Il diritto all'alimentazione è un diritto umano ed è equivalente sicuramente al diritto all'integrità fisica, perché anche la salute riguarda l'integrità fisica.
Per quanto riguarda la libertà religiosa, è anch'essa stabilita nella Dichiarazione universale dei diritti umani e fa senz'altro parte dei diritti universali.
L'onorevole Pianetta ha citato il bisogno di un'authority sui diritti umani in Italia. Anche questa è una richiesta che Amnesty sostiene assolutamente: dovrebbe essere un'authority, un garante assolutamente indipendente e, quindi, un'istituzione davvero autonoma e indipendente dalle forze politiche.
Passo alla domanda sul Sudan. Nel nostro Rapporto annuale lei trova ancora descritta una situazione veramente molto difficile, con 350 mila sfollati l'anno scorso e 2.500 morti nel Sudan del sud durante gli scontri armati. Vi sono numerose violazioni, che vengono elencate nel Rapporto. Sicuramente è importante che i Governi che entrano in relazione con altri Paesi non facciano finta che tali violazioni non esistano ed è sicuramente un invito che possiamo rivolgere.
Per quanto riguarda la Libia e forse anche per maggiori precisazioni sul Sudan potrà rispondere la collega Daniela Carboni.

DANIELA CARBONI, Responsabile per le relazioni istituzionali della sezione italiana di Amnesty International. Signor presidente, aggiungo alcune considerazioni e rispondo a una o due domande che rimangono aperte.
Sul Sudan mi permetto di ricordare il problema del rapporto tra al-Bashir e la Corte penale internazionale, che va assolutamente sottolineato in ogni occasione, anche a conferma dell'impegno del Governo italiano, che è stato rinnovato da


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poco nella Conferenza di revisione dello Statuto di Roma a Kampala, alla quale il Governo è stato rappresentato dal Ministro della giustizia, quindi al massimo livello. Se tale impegno a sostegno della Corte fosse confermato anche nei rapporti bilaterali con il Governo sudanese, ciò sarebbe sicuramente un aspetto importante.
Rispetto al reato di tortura, ha in parte già risposto, anche a nome nostro o, meglio, utilizzando argomenti che condividiamo, il presidente Colombo. Un riferimento che abbiamo ricordato e che lei ha sottolineato è stato citato dalla magistratura relativamente a Bolzaneto. Mi riferisco al fatto che determinate situazioni coincidessero, di fatto, con la definizione internazionale del reato di tortura, quella che noi vorremmo fosse integrata nel Codice penale italiano.
Non è positivo avere una sentenza - non parlo solo della magistratura inquirente - che affermi ciò, però continuiamo a parlare di un fantasma e a fare la storia con i «se» e con i «ma». L'introduzione del reato lascerebbe tutti più tranquilli, tanto le vittime, quanto i membri delle forze di polizia innocenti rispetto a un reato che è obiettivamente infamante per chi non l'abbia compiuto. Non averlo nel Codice penale non aiuta né a prevenirlo, né a punirlo, nel caso in cui, invece, si verifichi.
Per quanto riguarda la Libia e l'importanza delle relazioni diplomatiche - se non ho capito male - dei Paesi europei con le autorità libiche per risolvere anche situazioni difficili e individuali, ci sono stati casi, alcuni seguiti anche da Amnesty International, in cui le trattative diplomatiche hanno aiutato a liberare persone detenute in Libia in condizioni difficili.
Il motivo per cui abbiamo parlato del trattato Italia-Libia e continuiamo a farlo quando ci occupiamo di tutela dei diritti umani in Italia, è già stato accennato e mi permetto di riportarlo sul tavolo dei rappresentanti istituzionali, sia del Parlamento, sia del Governo: l'Italia ha ratificato quest'accordo e il Governo, o meglio i Governi che l'hanno voluto se ne devono assumere la piena responsabilità, come i parlamentari che massicciamente, per fortuna non all'unanimità, hanno votato a favore del trattato. Tocca ora ai rappresentanti istituzionali chiedere spiegazioni alla Libia della sua attuazione, eventualmente prendere in considerazione revisioni e clausole mancanti e soprattutto chiedere informazioni su casi individuali, visto che al centro di ogni preoccupazione ci sono le persone.
È anche vero che la situazione dei diritti umani in Libia fa parte di una verifica, di un monitoraggio sulla situazione dei diritti umani nel mondo. Mi permetto di proporvi, quando sarà possibile con la vostra agenda, di poter tenere un'audizione specifica per presentare il nostro rapporto, uscito poche settimane fa, sui diritti umani in Libia. Esso è ben più ampio del tema del trattamento di migranti richiedenti asilo e probabilmente può rappresentare anche un momento importante di dialogo e di approfondimento della situazione dei diritti umani in un Paese con cui l'Italia intrattiene un rapporto forte e privilegiato. È una proposta che avanziamo e di cui possiamo riparlare.
Allo stesso modo, magari, ci piacerebbe che Amnesty International, ma anche altre organizzazioni che si occupano di diritti umani di migranti richiedenti asilo, venisse invitata a convegni pubblici in cui si parla di Libia e del rapporto tra Italia e Libia.
Di recente, se ne è svolto uno in cui alcuni politici assolutamente di alto livello, che hanno ricoperto ruoli molto importanti e hanno portato avanti le trattative e le firme dei diversi trattati con la Libia, hanno discusso pubblicamente di un libro relativo proprio, se non ricordo male, ai discorsi pronunciati in Italia dal leader libico Gheddafi. Sarebbe stato bello e magari lo sarà in futuro se in occasioni del genere venissero invitate anche le organizzazioni non governative, che possono portare alcuni input e consentire un dialogo aperto e trasparente sulla situazione dei diritti umani in Libia, così come voi e il Governo italiano in diverse occasioni consentite


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a noi di discutere apertamente di argomenti non facili, su cui possiamo anche avere opinioni diverse.

PRESIDENTE. Ringrazio vivamente le rappresentanti di Amnesty International, Christine Weise, Giusy D'Alconzo e Daniela Carboni, anche per la fiducia nell'umanità espressa nell'ultima dichiarazione. Immaginate che a quella presentazione del libro di discorsi di Gheddafi non siamo stati invitati né io, né nessuno di noi. Era una festa intima di persone che, per qualche ragione, intrattengono rapporti personali privilegiati con il leader libico.
Vi è, dunque, molto da riflettere e da scrivere su una situazione di quel genere e sulla lista delle persone che partecipano a questa amicizia particolare, ma poco dal punto di vista dei diritti umani e civili che voi rappresentate.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,25.

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