Sulla pubblicità dei lavori:
Nirenstein Fiamma, Presidente ... 3
Audizione del sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Alfredo Mantica, sulla situazione nei Balcani occidentali (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):
Nirenstein Fiamma, Presidente ... 3 9 12 16
Corsini Paolo (PD) ... 11
Dozzo Gianpaolo (LNP) ... 11
Fassino Piero (PD) ... 9 12 15
Mantica Alfredo, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri ... 3 10 12 15
Pianetta Enrico (PdL) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud/Lega Sud Ausonia: Misto-NS/LS Ausonia.
Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 14,05.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, l'audizione del sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Alfredo Mantica, sulla situazione nei Balcani occidentali.
Segnalo che il sottosegretario Mantica è reduce da una visita ufficiale in alcuni Paesi della regione e che la nostra Commissione si recherà, dall'1o al 3 marzo, in Kosovo, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Serbia e Bosnia-Erzegovina.
Nel salutare e ringraziare per la sua disponibilità il sottosegretario Mantica, gli do subito la parola.
ALFREDO MANTICA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Ringrazio la Commissione per questa occasione, nata in quanto sono reduce dal viaggio che lei ha ricordato. Mi sembra opportuno che fra la diplomazia ufficiale e la diplomazia parlamentare vi sia almeno uno scambio di informazioni reciproche.
Per quanto riguarda i Balcani occidentali, non dico niente di nuovo se affermo che essi rappresentano forse la priorità maggiore della politica estera italiana. In quell'area, abbiamo un forte rapporto con quasi tutti i Paesi dell'ex Jugoslavia, basato su un'iniziativa che noi chiamiamo gli «otto punti Frattini», in cui abbiamo indicato alcune linee di azione che riguardano la posizione dell'Unione europea verso questi Paesi.
Sull'argomento principale, quello di cui perlomeno in Bosnia-Erzegovina certamente vi parleranno, ossia la questione dei visti, abbiamo sempre affermato e ribadito che, a nostro giudizio, la liberalizzazione dei visti doveva essere fatta contemporaneamente in tutti i Paesi dell'ex Jugoslavia.
Al di là dell'aspetto strettamente tecnico e burocratico relativo alle road map che l'Unione europea ha rilasciato ai singoli Paesi in merito alle azioni da intraprendere per avere la liberalizzazione dei visti, il valore di questa liberalizzazione consiste soprattutto in un riconoscimento di un'attenzione dell'Europa verso quei popoli e quei Paesi che, peraltro, rispetto ad una situazione precedente, quando erano Jugoslavia, si sono trovati limitati nei loro movimenti.
Per quanto riguarda questo problema, in Bosnia-Erzegovina ci è stato detto che hanno fatto tutto quanto era necessario. La Commissione europea farà la verifica a marzo e ci auguriamo che la liberalizzazione venga concessa a giugno. Vi ricordo che in Bosnia-Erzegovina si svolgeranno le elezioni politiche nel mese di ottobre.
Per quanto riguarda le relazioni bilaterali, noi abbiamo con Serbia, Montenegro
e Albania un partenariato strategico, il che significa che ci vediamo a livello di ministeriale: il Presidente del Consiglio, quando è necessario, con il Ministro degli affari esteri e i ministri interessati nelle singole materie.
Abbiamo, invece, un rapporto di diplomazia rafforzata con Croazia e Slovenia; in questo caso, si tratta solo di un incontro tra ministri, senza il Presidente del Consiglio. Comunque, con Serbia, Montenegro, Albania, Croazia e Slovenia - sono esclusi Macedonia e Kosovo - abbiamo un rapporto bilaterale particolare. Questo significa che mediamente ci incontriamo, a livello di Governi, almeno una volta l'anno.
Tenete anche conto - questo è un dato conosciuto obiettivo - che tutta quell'area è interessata da una strategia di politica energetica che nasce da un rapporto particolare che abbiamo creato con il Montenegro. La Terna realizzerà un elettrodotto sottomarino nell'Adriatico. Inoltre, stiamo parlando di idroelettrico in Bosnia-Erzegovina, di carbone e di termovalorizzatori in Albania, di nucleare in Croazia e di idroelettrico e impianti a gas in Serbia.
Insomma, in tutti i Paesi dall'area abbiamo in atto trattative e discussioni che riguardano l'aspetto energetico.
Per quanto riguarda i processi verso l'Europa di questi Paesi, come sapete la Croazia è «sul filo di lana» per raggiungere l'obiettivo. La speranza è che entro la fine del 2010 si possa pensare a una Croazia che aderisce all'Unione europea.
Come voi sapete, ci sono le domande di adesione da parte di Albania e Montenegro. Ovviamente, ci sono aspirazioni di altri Paesi: ad esempio, anche la Serbia ha presentato la sua domanda e la Bosnia-Erzegovina tende alla liberalizzazione dei visti proprio per questo aspetto.
Credo che la cosa migliore sia illustrare il dettaglio dei singoli Paesi, altrimenti la scena è abbastanza complessa. Della Croazia ho già detto.
Per quanto riguarda la Serbia, con la ratifica dell'Accordo di stabilizzazione e associazione all'Unione europea (ASA) tutto procede in maniera positiva, soprattutto da quando la Serbia ha deciso, per il problema Kosovo, di ricorrere alla Corte internazionale e di non usare altri strumenti, rimettendosi, sulla base della sentenza che verrà espressa dalla Corte stessa, probabilmente all'Assemblea delle Nazioni Unite. Al riguardo, non mi pare di dover dire altro.
Per quanto riguarda i Paesi che vi accingete ad incontrare, cominciamo con il Kosovo. Ho visto che il vostro viaggio è tale che vi potrebbe capitare quello che è capitato anche a me, ossia che, dopo essere andati in Kosovo, andrete a Belgrado, dove vi saluteranno dicendo: «So che lei è già stato in Serbia, la accogliamo adesso nella capitale». La Serbia naturalmente non riconosce l'indipendenza del Kosovo.
Quella del Kosovo è una situazione estremamente complicata. In questo momento, accanto alle autorità kosovare, operano tre organizzazioni: UNMIK, guidata da un diplomatico italiano, il ministro Zannier, KFOR e EULEX.
Da un equilibrio tra queste tre strutture nasce il processo dell'indipendenza del Kosovo e l'avvio dell'assistenza che l'Unione europea, attraverso EULEX, vuole dare per la costruzione di uno stato di diritto, per la realizzazione di un sistema fiscale di controllo delle dogane, per la costruzione di un sistema di polizia interno e, in parte, di forze armate kosovare.
Vi dico qual è la situazione in questo momento, con grande franchezza. C'è stato un fatto importante: in occasione delle elezioni amministrative, i serbi della minoranza che vive nel centro-sud del Kosovo hanno partecipato alle elezioni; in alcuni comuni hanno vinto le minoranze serbe, nelle zone dove essi rappresentano la maggioranza.
Io stesso, per dare un segnale forte del Governo italiano, sono andato a Gracanica per salutare un sindaco serbo nella realtà kosovara, insieme al Ministro degli enti locali del Kosovo.
C'è, dunque, un processo che nelle aree del centro-sud - tengo staccati Mitrovica e il nord - sta faticosamente avviandosi, con
UNMIK che praticamente resta una bandiera, non avendo più le strutture che aveva prima, e con KFOR che sta già lavorando per un passaggio verso una fase in cui, grosso modo entro la fine dell'anno, potremo avere 5.500 anziché 11.000 uomini (da qui la riduzione del contingente italiano). Ci è stato spiegato che questa non è una forzatura, ma il riconoscimento che, entro la fine dell'anno, almeno le forze di polizia potrebbero mantenere l'ordine e quindi che KFOR non ha più bisogno di essere sistematicamente presente sul territorio, ma può fare riferimento ad alcuni punti di appoggio e prevedere di strutturarsi su forze di intervento rapido, qualora avvenissero disordini di un certo livello. Anche questo problema, dunque, si riduce.
EULEX è un sistema civile e mi dispiace, onestamente, che spesso venga incluso nelle proroghe delle spedizioni militari. Molti si dicono contenti che anche i poliziotti partecipino ad operazioni militari, ma non è vero, perché si tratta di un'operazione civile e la polizia partecipa in quanto tale. Vi è una forte presenza di italiani, soprattutto sul piano della formazione dei giudici. EULEX sta faticosamente dispiegando le sue energie.
Per quanto riguarda il nord, i segnali sono molto complicati. Tutti abbiamo detto, diciamo e ripetiamo che il processo di indipendenza del Kosovo sarà molto lento, che in questo momento stiamo tutti aspettando la sentenza della Corte internazionale ed è inutile fare forzature. Insomma, lasciamo che il nord a poco a poco assorba l'idea di far parte, in qualche modo, dal punto di vista amministrativo, del Kosovo indipendente.
Recentemente un gesto ci ha molto preoccupato: la Serbia ha modificato i suoi distretti di tribunale, inserendovi anche il Kosovo, e ha proceduto alle nomine dei giudici, soprattutto quelli con sede a Mitrovica, aprendo un fronte abbastanza delicato.
Personalmente ritengo che questo faccia parte di quella schermaglia che normalmente le parti in contrasto mettono in campo, alzando i toni, prima di un momento delicato, come potrebbe essere in questo caso la sentenza della Corte internazionale. Nessuno indica una data, ma si pensa che la sentenza possa arrivare tra giugno e luglio.
Ci auguriamo, dunque, che quello della Serbia sia un gesto tattico e che, in questo senso, verrà riassorbito, ma certamente non ha rappresentato un momento di facilitazione di questo processo.
Per quanto riguarda il Kosovo, sapete che esiste un enorme problema di carattere economico e di sviluppo. Dal nostro punto di vista, abbiamo già fatto due country presentation, c'è un certo interesse da parte di nostre piccole e medie aziende verso il Kosovo. Vi confesso che i dati economici e di bilancio commerciale del Kosovo sono ancora abbastanza negativi: uscire da un'economia «di guerra» o comunque vivere sotto le tensioni che si registrano in questo momento non è facile.
Tuttavia, poiché per la terza volta nell'arco di un anno sono stato in Kosovo, credo di potervi dire che ho registrato una serie di progressi. Ho letto che andrete a visitare il monastero di Decani: ecco, dovete sapere che lì incontrerete i monaci serbi che vi chiederanno della garanzia della NATO di mantenere la protezione dei monasteri e vi spiegheranno tutte le ragioni complicatissime. Vi riconfermo che la NATO, anche in vista dell'operazione di riduzione delle forze di KFOR, prevede il mantenimento della protezione, ma vi pregherei di guardare la questione con occhio attento. Anche in quel caso, c'è un grosso problema che va avanti dal 1500 che non riguarda la proprietà del monastero, ma quella delle terre sulle quali il monastero vive. Pertanto, la presenza dei soldati non è tanto finalizzata alla difesa dei monaci e delle mura del monastero, ma ha il significato di una presenza forte di riequilibrio nei confronti delle amministrazioni
locali che rivendicano la proprietà di alcuni terreni.
Devo dire che questi monasteri, grazie alla protezione delle forze NATO, sono stati tutti restaurati, dotati di riscaldamento,
di aria condizionata, di illuminazione. In altre parole, la protezione della NATO ha risollevato la situazione. In definitiva, certamente esiste un problema di difesa dei monasteri, ma durante la vostra visita è bene che cerchiate di considerare la questione nel complesso.
Per quanto riguarda il Kosovo, credo di non dover aggiungere molto altro.
Quando parlo di ottimismo ovviamente mi riferisco alla partenza del processo, comunque mi pare che il piano Ahtisaari si stia sviluppando. I tempi sono molto più lenti, ma si intravede il processo che è stato messo in moto.
L'area sulla quale vorrei spendere qualche minuto in più, rispetto alla quale anche il Governo italiano ha espresso la sua preoccupazione, è la Bosnia-Erzegovina. Apparentemente il Paese è molto più strutturato del Kosovo, ha un'antica tradizione, ha una splendida capitale, Sarajevo, ma c'è un immobilismo totale nel processo di formazione della federazione tra bosniaci, croati e serbi.
A ottobre ci saranno le elezioni e tutti stiamo dando per scontato che nel 2010 non avverrà nulla, perché tutti saranno impegnati in campagna elettorale, ognuno a tirare la coperta - come è giusto, dovendo cercare voti - dalla propria parte, quindi per il processo di integrazione un altro anno andrà perso.
Non vi do nessun consiglio, ma sappiate che il Governo italiano su questo ha molto insistito, dicendo che siamo molto preoccupati di questa perdita di tempo, soprattutto perché veniamo - e ve ne parleranno - dal famoso dialogo di Camp Butmir (il campo nel quale si trovano le truppe di KFOR vicino a Sarajevo). In quell'occasione, l'Unione europea e gli Stati Uniti avevano messo in atto un tentativo, attraverso due personaggi di alto livello: il sottosegretario James Steinberg degli Stati Uniti che si occupa di questa materia e Carl Bildt, in quel momento Ministro degli esteri della presidenza europea (peraltro, come sapete, è stato anche Alto rappresentante all'inizio di questa vicenda, quindi conosceva molto bene quella realtà). Comunque, a Camp Butmir non è successo niente e tutte e tre le parti che incontrerete a diverso titolo e per diverse ragioni spiegheranno che si trattava di una mera operazione di facciata.
La realtà è che anche questo tentativo, fatto congiuntamente da Unione europea e Stati Uniti, che noi avevamo fortemente sostenuto, è finito nel nulla. Per chi non lo sapesse, l'obiettivo è quello di fare una riforma della Costituzione, a quindici anni da Dayton, perché cominci questa vera integrazione tra le due parti, tenendo conto che anche nella parte «bosniaca» si registra fenomeno di questo tipo. Nella parte bosniaca, che è organizzata per cantoni, convivono la minoranza croata e la maggioranza musulmana. In realtà, nei cantoni sta avvenendo sostanzialmente una sorta di «pulizia etnica democratica», per cui i cantoni a maggioranza croata tendono sempre di più a diventare croati e a espellere per mille ragioni altre minoranze, e viceversa. Pertanto, loro stessi riconoscono che, invece di avere un fenomeno di integrazione anche nella parte bosniaca, sul terreno si registra un fenomeno
diverso.
Quando ho chiesto chiarimenti su questo problema, mi hanno risposto con un esempio: una concessione edilizia richiesta da un croato in un cantone croato arriva in 20 giorni; per la stessa concessione a un appartenente alla minoranza islamica occorrono due anni e sei mesi, in più si deve pagare una cifra consistente. Insomma, si usano anche strumenti amministrativi.
Noi siamo veramente preoccupati perché non è cambiato niente rispetto a quindici anni fa, nemmeno in termini di comportamento. I musulmani per la terza volta mi hanno ripetuto quello che mi avevano detto nelle due precedenti visite. Credo che anche chi si è recato in questi luoghi dieci anni fa potrebbe accorgersi che non è cambiato nulla.
L'unica operazione di fusione, finora, riguarda l'esercito che peraltro ci è stato descritto come poverissimo (sono 8 mila
uomini), senza alcuna possibilità di rappresentare uno strumento di costruzione o di identità nazionale.
Per di più, assistiamo a un altro fenomeno che riguarda la questione relativa alla comunità internazionale. Come sapete, in questo momento l'Alto Rappresentante Inzko ha due «cappelli». Da un lato, egli rappresenta la comunità internazionale, il PIC (Peace Implementation Council), cioè, in primo luogo, l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia, garantendo quindi una sovranità internazionale sulla Bosnia-Erzegovina; in tal senso, può esercitare i cosiddetti «poteri di Bonn» (per darvi un'idea, simili a quelli del governatore inglese dell'India), quindi può annullare i provvedimenti legislativi dei Parlamenti, può sospendere dei parlamentari, sebbene da un po' di tempo questi poteri non vengano più esercitati. Dall'altro, egli rappresenta anche, in parte, l'Unione europea. Peraltro, c'è anche un rappresentante speciale dell'Unione europea.
Tutti sono tesi a eliminare questa figura del rappresentante della comunità internazionale e puntare sul rappresentante speciale europeo. La realtà è che non ci sono progressi di riforma costituzionale in Bosnia-Erzegovina, inoltre l'Europa vorrebbe assumersi da sola non si capisce bene quale tipo di responsabilità, infine ci sono preoccupazioni della Russia, degli Stati Uniti e soprattutto della Turchia, che è diventata molto attiva, a difesa della minoranza islamica in particolare, e sta investendo molto nella zona. Ad esempio, se nell'operazione Altea qualcuno ritira 50 uomini (stiamo parlando di 2.000 uomini in tutto), i turchi il giorno dopo ne offrono 52, attrezzati con camionette, tende eccetera; se la Bosnia-Erzegovina sostiene di poter mandare 200 uomini in Afghanistan, a quel punto la Turchia si impegna ad attrezzarli, purché ovviamente combattano nella zona turca e sotto il comando turco. Potete immaginare quale dibattito
ha scatenato tutto questo, dal momento che i serbi hanno risposto che nemmeno morti avrebbero combattuto sotto il comando della Mezzaluna, riaprendo così un contenzioso. Insomma, tutto è estremamente difficile, qualunque argomento si voglia affrontare.
La verità, però, è che questo Alto Rappresentante, in una situazione di proroga a tempo indeterminato (non si sa quando potrà scadere), in una realtà che sta cambiando, continua a perdere di autorevolezza. È più una figura di rappresentanza che una figura attiva, contro la quale peraltro si è scatenata la parte della Repubblica Srpska.
Oltretutto, a capo della Repubblica Srpska c'è il Primo ministro Milorad Dodik, un personaggio autorevole, carismatico, di democrazia governata, insomma uno che comanda. Lo vediamo noi, nei nostri rapporti bilaterali - siamo il terzo partner commerciale della Bosnia-Erzegovina, dopo Croazia e Germania - perché l'80 per cento dei nostri interessi sono nella Repubblica Srpska.
Abbiamo creato, attraverso la Camera di commercio di Venezia, un distretto industriale nel distretto di Brcko; siamo intervenuti pesantemente in una raffineria petrolifera; abbiamo aperto una serie di attività (ad esempio un calzaturificio); abbiamo appena firmato con la Maccaferri un accordo per la gestione dei fiumi, quindi per le esondazioni, le dighe eccetera; stiamo trattando una grande diga sulla Drina. Tutto questo avviene nella Repubblica Srpska, non solo per una scelta italiana. È quello che sta avvenendo.
Questa divisione, che politicamente dobbiamo superare e che dal punto di vista giuridico dobbiamo trattare avviando un processo di riforma costituzionale, nella vita quotidiana e nella vita economica è sempre più evidente. Ci si accorge che sempre di più si dividono le due realtà. Banja Luka, la capitale della Repubblica Srpska, ha un aeroporto che vale quello di Sarajevo, che peraltro è collegato direttamente con la Croazia, con Belgrado eccetera.
A Banja Luka sono stato ricevuto in un palazzo enorme, bellissimo, moderno rispetto alla realtà un po' antica, austro-ungarica,
di Sarajevo. Si vede un dinamismo che non è neanche corretto limitare; in fondo, si tratta anche di interessi della popolazione di quell'area e di sviluppo economico.
C'è un'idea europea di riunire in un'unica figura - in questo caso l'ambasciatore Inzko - le due qualità di rappresentante OHR e di rappresentante dell'Unione europea. Su questo la posizione del Governo italiano non è contraria, anche se avverte delle criticità. Comunque, abbiamo detto che non ci poniamo come promotori di questa iniziativa, ma se in sede europea i ventisette decideranno che questa è la strada, noi favoriremo la decisione europea. Tuttavia, siccome sappiamo che i ventisette non sono d'accordo su questa posizione, occorre necessariamente attendere un diverso contesto politico.
Sempre a proposito della Bosnia-Erzegovina e dei rapporti tra le tre minoranze, sempre in vista della missione della Commissione, la preoccupazione riguarda il fatto che tutti i sondaggi relativi alla campagna elettorale rilevano che vinceranno i tre partiti a forte identità nazionale, quindi si svilupperanno gli estremismi.
La questione della liberalizzazione dei visti è per noi importante perché - lo abbiamo detto a tutte e tre le parti - chi vuole entrare in Europa deve rispondere in maniera matura, non favorendo gli estremismi, ma cercando di convergere su una posizione comune.
È ovvio che se non dovesse arrivare la liberalizzazione dei visti prima delle elezioni anche la campagna elettorale potrebbe assumere un atteggiamento diverso.
Per quanto riguarda la Serbia, abbiamo in questo momento un rapporto estremamente favorevole, non solo dal punto di vista politico, come vi ho accennato, ma anche dal punto di vista commerciale. Abbiamo le nostre due reti bancarie UniCredit e Intesa San Paolo, le Generali, la FIAT, l'Enel e una serie di nostre strutture che operano all'interno della Serbia in maniera assolutamente positiva.
Vi ricordo che la liberalizzazione dei visti risale al 19 dicembre e non è un caso che il 19 dicembre sia arrivato a Roma da Belgrado un aereo con una numerosa delegazione in rappresentanza della società serba che festeggiava la possibilità di venire in Italia senza dover chiedere il visto.
Siamo fortemente schierati con il Presidente Tadić e con la sua politica pro europea, pur con tutte le difficoltà che esistono. Ci siamo battuti in sede europea affinché alcune questioni venissero risolte. Vi ricordo, ad esempio, il veto olandese sulla questione della liberalizzazione dei visti, alla quale si opponeva la circostanza che fosse stato consegnato Karadžić e non anche Mladić. In quel caso, abbiamo tentato di far capire che, in fondo, sul trattato di adesione all'Europa anche una parte dell'opposizione, cioè quella più nazionalista, aveva votato a favore del Governo Tadić, quindi proprio l'Europa poteva diventare un elemento di consolidamento dell'area moderata che in questo momento guida la coalizione con il Presidente Tadić.
Del Kosovo vi ho parlato. Quanto alla Macedonia, c'è il problema della sua eterna candidatura (dal 1999, quindi da più di 11 anni) alla NATO, ma fin quando non verrà risolto il problema della denominazione credo che ci sarà sempre il veto da parte della Grecia. Comunque, anche la Macedonia il 19 dicembre ha avuto la liberalizzazione dei visti.
La settimana scorsa ho avuto un incontro con il collega greco e ho riproposto la domanda classica se, nel 2010, si può superare la questione della Macedonia. I Greci non concepiscono questa idea della «Macedonia». L'aeroporto di Skopje si chiama «Alessandro Magno» e questo ha portato a una contestazione da parte della Grecia, che sostiene che Alessandro Magno non era macedone, ma greco. Con una battuta, ho detto che noi abbiamo chiamato un aeroporto «Giovanni Paolo II», ma pare che il Santo Padre non si sia lamentato! La questione del nome «Macedonia», sul quale stiamo scherzando, sembra essere un grosso limite.
Peraltro, la Macedonia ha un insieme di problemi da affrontare, a cominciare da quelli legati alla presenza di minoranze albanesi al suo interno. Il fiume che taglia in due Skopje divide le zone abitate dalle due diverse etnie. Di giorno si passa tranquillamente sul ponte, ma alla sera consigliano che è meglio che ognuno stia dalla propria parte, perché quando scende il sole non si sa bene cosa avvenga dall'altra parte. Devo dire, tuttavia, che le ultime elezioni si sono svolte in maniera assolutamente accettabile.
Se volete porre delle domande sono a vostra disposizione.
PRESIDENTE. Grazie, sottosegretario Mantica.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.
PIERO FASSINO. Signor presidente, ringrazio il sottosegretario di questa illustrazione, che considero molto utile. Faccio un'annotazione che non riguarda la comunicazione del sottosegretario, ma il nostro viaggio. Noi visiteremo quattro Paesi in tre giorni e mi chiedo se non sia opportuno - capisco, comunque, che ci sono mille vincoli - pensare di estendere il viaggio almeno di un giorno, considerato che il calendario è molto intenso. Per avere degli incontri interessanti il tempo è la condizione necessaria. Chiedo, quindi, che venga rappresentato questo tema al presidente Stefani.
È evidente che questa è una priorità italiana - ne sono convinto anche per aver fatto per anni, nel passato, il lavoro che adesso svolge il sottosegretario Mantica, esattamente in quell'area - ma direi che questa è una priorità europea. Parliamoci chiaro, se guardiamo la carta geografica dell'Unione europea è evidente che abbiamo un buco nella pancia. Fanno parte dell'Europa la Slovenia, l'Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Grecia, quindi rimane un buco.
La prospettiva, pertanto, non può che essere quella del completamento territoriale del processo di integrazione. Peraltro, penso che l'integrazione europea - vorrei porre a questo proposito alcune domande al sottosegretario - sia l'unico modo per dare soluzione ai tanti problemi che il sottosegretario ci ha illustrato. Non vedo altra strada. «Balcanizzazione» è una parola entrata nella politologia che significa la consuetudine di ciascun popolo di quell'area a pensare al proprio futuro in termini di antagonismo rispetto ai vicini. Nei secoli, ciascuno di quei popoli ha affermato se stesso contro il vicino, considerandolo nemico.
Il processo di integrazione europea è l'unico che rovescia questo approccio: costruire il futuro non «contro», ma «con» il vicino. Lo ripeto, non c'è un'altra strada.
A mio avviso, i problemi di stabilità, di riconoscimento dei diritti, di tutela delle minoranze, di integrazione eccetera hanno come chiave unitaria di soluzione quella di portare questi Paesi all'intero dell'Europa. Più li si porta dentro l'Europa e più li si obbliga ad adottare standard; più il mercato unico si estenderà a quell'area e più tutti i fattori di divisione e distinzione si ridurranno, a un certo punto ci sarà anche la libera circolazione e non ci saranno più le frontiere e via di questo passo. Tutto questo va nella direzione di rompere quella forte connotazione identitaria di ciascuno, conflittiva con l'identità altrui, che rappresenta la storia di questa area.
Mi chiedo se non dobbiamo essere più espliciti nel dire che noi offriamo a questi Paesi un percorso di integrazione - peraltro, in linea di principio deciso dal Consiglio europeo di Salonicco, sotto presidenza greca, e poi riconfermato puntualmente in tutti i Consigli europei da allora in avanti - e ne facciamo in qualche modo una «condizionalità» (so bene che è una parola da usare con molta attenzione perché esposta a molti rischi). I termini sono i seguenti: «vi portiamo in Europa a condizione che...».
Insomma, mi chiedo se non dobbiamo essere più espliciti nel proporre un trade off, uno scambio, un do ut des: ai serbi garantiamo una prospettiva di ingresso,
purché da parte loro ci sia una disponibilità ad arrivare a una soluzione consensuale sul Kosovo, e ai bosniaci poniamo una prospettiva di integrazione purché ci sia da parte loro una determinazione chiara - supportata da fatti e non solo da dichiarazioni di principio - sul fatto che si costruisce una Bosnia vera e non la somma di identità distinte come è oggi.
In Bosnia circolano ancora due monete e vi sono due diversi prefissi telefonici. Ad esempio, il prefisso di Banja Luka è lo stesso di Belgrado, ma Sarajevo ne ha uno diverso. La compagnia aerea di Belgrado ha inaugurato un volo verso la Bosnia che scende a Banja Luka e non a Sarajevo. E altri esempi si potrebbero citare. Siamo di fronte a due entità distinte e questa situazione è resa ancora più complicata dal fatto che anche nella federazione croato-musulmana si va verso un'ulteriore caratterizzazione etnica dei territori.
Sono convinto che il vero errore, quando si è dissolta la Jugoslavia, non è stato quello di non prendere atto che c'era un processo che rendeva forse impossibile alla Jugoslavia di continuare a vivere finita l'epoca degli equilibri bipolari, ma quello di accettare il fondamento etnico dello Stato.
Ricordo che nella Costituzione della Serbia è scritto che la Serbia è la nazione dei serbi, non lo Stato in cui vivono i cittadini serbi. Lo stesso nella Costituzione della Croazia.
Il fondamento etnico della formazione di questi Stati, che noi abbiamo accettato all'inizio degli anni Novanta, continuiamo a portarcelo dietro. L'integrazione europea è forse l'unica prospettiva per superare questo limite storico-politico che abbiamo vissuto e che ha prodotto tutti i drammi che conosciamo.
Chiedo al sottosegretario se l'Italia, in sede europea e in altre sedi, non ritiene di farsi portatrice di una linea che sia molto determinata nel presentare la prospettiva dell'integrazione, perché non c'è altra strada e altra soluzione, ma con altrettanta determinazione ponga ai nostri interlocutori una forma di condizionalità che renda loro chiaro che noi li portiamo in Europa «a condizione che...».
Si tratta di «forzare» il fattore europeo come fattore di integrazione effettiva.
ENRICO PIANETTA. Esprimerò soltanto una breve considerazione, dopo aver ringraziato il sottosegretario Mantica. L'onorevole Fassino ha appena sottolineato l'importanza dell'integrazione europea di questa area. Del resto, questa stessa Commissione, anche in momenti precedenti, ha approvato alcune risoluzioni con questo obiettivo, cioè con la sottolineatura di questo percorso che, indubbiamente, è fondamentale per stabilizzare e creare migliori condizioni di sviluppo di quell'area.
A seguito di una missione in Serbia, svoltasi alcuni mesi fa, la Commissione ha approvato un atto finalizzato a promuovere il percorso verso l'integrazione. Del resto, le elezioni politiche che si sono svolte in quel Paese erano tutte incentrate verso l'integrazione europea. Chi ha vinto lo ha fatto sulla base di questo percorso e di questo obiettivo.
In questo contesto, anch'io valuto positivamente la condizionalità. Ma quale condizionalità? Ad esempio, un tema importante è la questione del Kosovo. Sappiamo che, al momento attuale, circa un terzo dei Paesi ONU...
ALFREDO MANTICA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Sessantacinque Paesi al mondo hanno riconosciuto il Kosovo.
ENRICO PIANETTA. Appunto, grosso modo un terzo ne ha riconosciuto l'indipendenza. Il sottosegretario ci ha ricordato che, quando andremo a Belgrado, le autorità ci daranno il benvenuto nella capitale. Qual è la condizionalità, qual è la formula attorno alla quale si può costruire un percorso? Indubbiamente, sarà necessaria una gradualità per arrivare a una soluzione che possa essere condivisa e compartecipata.
Forse le formule di Hong Kong? Qual è, secondo il Governo, il percorso che può far sì che la Serbia da una parte e gli altri Paesi dall'altra possano compartecipare a una soluzione definitiva della questione dello status del Kosovo?
GIANPAOLO DOZZO. Ringrazio il sottosegretario Mantica per questa ampia carrellata sulla situazione di quella zona. La mia preoccupazione è quella di capire se, come Italia e come Unione europea, si vuole imporre un'unione forzata, ad esempio in Bosnia-Erzegovina. Se si opera una forzatura, mettendo sul piatto della bilancia alcune questioni, ho la netta sensazione - come lei giustamente faceva notare - che l'immobilismo totale di questi tempi possa in futuro diventare una mobilità non certamente democratica, ma che riproponga situazioni che quei posti hanno già conosciuto.
Anche con riguardo alla trattativa sui visti, non è che forse ci poniamo in un contesto un po' troppo audace, dato che, comunque, abbiamo ancora una forza multinazionale che presidia un territorio che, in sua assenza, sarebbe in una condizione molto precaria?
Da parte nostra, ci aspettiamo che il Governo italiano non sia fautore di una forzatura nei confronti di etnie che, secondo il mio parere - forse la mia è una visione negativa, ma molto attuale - molto difficilmente andranno d'accordo, per diversi motivi storici, culturali e religiosi.
A mio avviso, imporre una forzatura in quei luoghi potrebbe portare a soluzioni opposte a quelle che, come Governo e come comunità internazionale, si attendono.
PAOLO CORSINI. Intervengo per esprimere alcune semplici osservazioni, poiché concordo ampiamente con la prospettazione del quadro dei problemi che ci è stato sottoposto e che l'onorevole Fassino ha ripreso.
Il primo tema riguarda i Balcani che sono più vicini, sia culturalmente che geograficamente, al nostro Paese, ma può essere esteso anche all'area più orientale. Credo che debba essere un orientamento condiviso e tale da ispirare le scelte della nostra politica estera la critica dei processi di etnicizzazione nazional-statuale. Questo indirizzo è a mio avviso assolutamente fondamentale e può essere utile per evitare lo sviluppo di problemi che produrrebbero divisioni particolarmente rischiose.
Sotto questo profilo - e questo vale in modo particolare per la questione della Bosnia-Erzegovina - occorre un impegno proteso alla valorizzazione della centralità degli ordinamenti statuali, onde evitare il rischio di frammentazioni o l'affermazione di aspirazioni secessioniste o neosecessioniste.
In questo quadro, credo che la valorizzazione della prospettiva statuale sia del tutto compatibile con la valorizzazione delle aspirazioni autonomiste determinate dalla stessa composizione demografica, non solo della Bosnia-Erzegovina, ma anche degli altri Paesi che sono stati presi in considerazione.
Da questo punto di vista, mi pare che siano due i temi che, per quanto attiene alla politica interna di questi Paesi, debbono essere guardati con particolare attenzione da parte nostra. Il primo è lo sviluppo della questione demografica. Penso, ad esempio, alla presenza albanese in Macedonia o alla progressiva diminuzione della presenza serba in Kosovo. Credo che guardare con attenzione questi problemi significhi predisporsi ad affrontare il rischio di un'ulteriore accentuazione delle tensioni.
Il secondo aspetto che mi pare significativo nel rapporto, che credo vada valorizzato, tra rafforzamento delle istituzioni statuali centrali e risposta alle legittime aspirazioni autonomistiche, è la questione della lingua, che da sempre ha costituito una grande questione politica. Questo vale anche per la storia del nostro Paese, non solo per la storia dei Paesi dei Balcani a noi più vicini.
Infine, i colleghi che sono intervenuti hanno sottolineato il tema della condizionalità
per quanto riguarda la prospettiva dello sviluppo dell'integrazione europea, che rappresenta una grande sfida e un grande obiettivo. A mio avviso, c'è anche un altro problema che riguarda l'ingresso nella NATO. Anche questa può essere una prospettiva che potenzia la coesione, valorizza la prospettiva di occidentalizzazione e, in futuro, può costituire un fattore di rafforzamento del sentimento europeo.
PIERO FASSINO. Chiedo al sottosegretario se può darci un'informazione sulla situazione in Albania e sulle iniziative che l'Italia ha assunto o intende assumere per superare la frattura che fa sì che l'opposizione non accetti i risultati elettorali e non sieda in Parlamento.
PRESIDENTE. Do la parola al sottosegretario Mantica per la replica.
ALFREDO MANTICA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Vorrei riprendere un argomento sollevato dall'onorevole Fassino per spiegare una difficoltà che esiste in quest'area. Tra gli standard europei, in questa road map verso la liberalizzazione dei visti, viene posto il problema dei profughi. Naturalmente si parla di ricomposizione della situazione economica e sociale nella misura in cui i profughi rientrano nella loro terra. Questo è un problema drammatico. Non è che i serbi caccino i bosniaci o i croati caccino i musulmani, ma ciascuno caccia l'altro.
L'onorevole Fassino ha sottolineato un aspetto del quale spesso ci dimentichiamo. La frantumazione avviene sulla base di un concetto etnico - e questo è ancora peggio - ridefinito sui confini amministrativi della Jugoslavia e non su quelli storici.
Sostenere che nella Craina debbano tornare 230 mila serbi, come è teoricamente è vero, perché da lì furono cacciati (se lo dimenticano tutti, ma è così), oggi è assurdo. Pertanto, quando l'Europa chiede, tra gli standard, quello della ricomposizione sociale che c'era prima della frattura, in realtà chiede qualcosa che non può nemmeno verificarsi.
Per quanto riguarda l'Europa, dobbiamo essere estremamente sinceri. L'Italia ha un gradimento in questi Paesi perché noi - da tempo, non parlo solo del Governo Berlusconi, ma della tradizionale politica estera italiana - non consideriamo nemmeno per ipotesi l'idea che ci si possa allargare non comprendendo i Balcani occidentali. Tutti sanno che per noi, quando ragioniamo dell'argomento Europa, quei Paesi sono compresi, ma non è così per tutti i ventisette Paesi d'Europa. Qualcuno, per ragioni diverse, ha problemi sulla Serbia o su altri Paesi.
Credo - di questo parlerò il 25 febbraio a Berlino - che il problema per questa area si chiami «Germania». Se la Germania è determinata quanto noi a chiudere questo buco, credo che ci sia una forza all'interno dell'Europa che si muove in un certo senso. Oggi però la Germania è molto tiepida, al di là della Croazia. Questo consente ai turchi di muoversi nella maniera in cui abbiamo detto, ossia in maniera pesante, per difendere la popolazione musulmana.
Il problema è che tutti vogliono l'Europa perché, come diceva Fassino, hanno capito che è un modo diverso per stare insieme, mentre le precedenti esperienze sono sempre state disastrose. Sull'Europa fanno molto affidamento tutti, come spesso accade in questi Paesi, perché insieme all'Europa arrivano i soldi, i contributi, lo sviluppo, i posti di lavoro, anche se non è così vero, come è risultato anche recentemente.
In primo luogo, occorre ritrovare una forte unità europea come espressione di volontà, in modo che l'allargamento e l'adesione all'Europa di questi Paesi non siano più nemmeno messi in discussione. Certo, può essere una questione di tempi, ma ognuno si avvicinerà all'Europa secondo le proprie capacità di riforma, purché si sappia che quel percorso finisce lì, appunto in Europa.
Oggi sono molti i dubbi. La Serbia avverte una certa ostilità nei suoi confronti, per mille ragioni, più o meno legittime. Noi possiamo, con la Germania,
tentare di costruire una politica comune che confermi l'allargamento e far passare una liberalizzazione generale dei visti, in modo che la liberalizzazione sia un fatto raggiunto.
Quanto al Kosovo e alla Serbia, il risultato più importante che abbiamo ottenuto - non solo noi, ma in senso lato - è che il Governo serbo, in una vertenza come quella del Kosovo, questa volta non ha usato alcuna forma di violenza, non ha favorito l'intervento militare della Serbia né di formazioni paramilitari. Questo non è successo e credo vada riconosciuto come fatto positivo al Governo Tadić, che ha fatto ricorso a uno strumento di politica internazionale: si è confrontato con l'ONU e ha posto il tema alla Corte internazionale.
È ovvio che in questo momento il futuro è una nebbia, sia per la parte serba sia per la parte kosovara, nel senso che tutti aspettano questa sentenza, e noi per primi.
Avendo parlato con altri partner europei, posso dire che in realtà tutti noi speriamo nella capacità dei giudici della Corte internazionale di scrivere una sentenza che accontenti sia i kosovari che i serbi. Il terrore è che la sentenza dia ragione a una delle due parti, riaprendo la questione in maniera forte e sul piano giuridico-istituzionale.
Ci auguriamo che la soluzione della Corte sia «ecumenica», come qualche enciclica papale nella quale si trova sempre una spiegazione a tutto, altrimenti la Serbia intende portare il problema in sede di Assemblea dell'ONU. Prima ho detto che solo 65 Paesi su 192 hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo: questo significa che all'Assemblea dell'ONU la Serbia potrebbe anche vincere.
Come ho detto ieri nell'aula del Senato - mi dispiace che non sia stato compreso - il tema dell'autodeterminazione dei popoli, che fa parte della nostra cultura e della nostra storia, oggi è un problema che dobbiamo affrontare. Non si può invocare l'autodeterminazione per il Kosovo e poi far finta che l'Abkazia sia un'altra cosa. Né si può pensare che gli africani, sopravvissuti alla decolonizzazione perché nel 1954 decisero che comunque quelli erano i confini, giusti o non giusti, oggi si sentano messi in discussione. In Africa c'è un numero infinito di Kosovo. Il signor Ahtisaari, quando se ne è parlato - è venuto anche in audizione - ha risposto che questo è un fatto a sé stante, che non apre una vertenza, ma non è vero perché la questione del Kosovo apre un dibattito. La cosa migliore è parlarne al momento il meno possibile, evitando comunque che si ricorra a forme di
violenza. Devo dire che i serbi del nord contestano, ma non abbiamo manifestazioni di piazza. Ad esempio, sul problema delle dogane, hanno messo una barriera, ma si passa lo stesso; si dice che un giorno lì sorgerà la dogana, ma per il momento non c'è e facciamo finta che vada tutto bene.
Credo che occorra molto tempo e molta pazienza. Certamente attorno alla sentenza della Corte ruoterà molto di quello che è il futuro di quest'area.
Per venire alla domanda dell'onorevole Dozzo, al riguardo ho una mia convinzione e qualche volta, in politica, questo è utile. Credo che noi italiani potremmo insegnare molto, in giro per il mondo, in fatto di gestione delle minoranze. Ritengo che il risultato in Alto Adige sia una soluzione assolutamente apprezzabile da tutti i punti di vista.
Tuttavia, bisogna mettersi in testa che le minoranze costano cifre folli. Se parliamo dei trasferimenti pro capite verso i cittadini italiani di lingua tedesca dell'Alto Adige, sono di gran lunga i più alti; in confronto, i trasferimenti al sud spariscono.
Ora, il signor Dodik può essere accusato di tutto, ma rimane un uomo esperto. Quando l'ho recentemente incontrato, in merito a un problema che riguarda una proposta di referendum che lui ha fatto passare in Parlamento, a un certo punto ho capito che mi stava prendendo in giro, perché ai primi di febbraio mi ha detto che serviva ancora tempo, mentre il 10 febbraio aveva già approvato tutto. Sono
convinto che il maestro di Dodik si chiami Silvius Maniago e che questo sia un gioco estremamente pericoloso, perché Tadić ha dichiarato che di adesione alla Serbia non se ne parla nemmeno, perché creerebbe problemi di credibilità internazionale eccetera.
Speriamo che queste forzature che la Repubblica Srpska sta tentando in questo periodo servano per mantenere una posizione di grande autonomia, anche economica, rispetto agli aiuti internazionali, perché se li vogliono gestire da soli, senza dividerli. Visto che sono i più bravi ad attirare gli investimenti, se li ripartiscono fra loro, senza includere i bosniaci.
Tuttavia, stando anche ai discorsi che ho ascoltato, credo che il referendum non riguardi la secessione. Il referendum riapre il problema Dayton. Tuttavia è fuori discussione l'aumento dei poteri dello Stato centrale, che deve conservare la bandiera, la squadra di calcio Bosnia-Erzegovina, l'esercito, la difesa e la politica estera (di moneta non se ne parla). Lo Stato centrale deve altresì conservare questa volontà di adesione all'Unione europea, sforzandosi di dare gli standard alle due entità che vivono nella più assoluta autonomia e sviluppano gli interessi dei loro popoli.
Lo scontro vero è tra una Repubblica Srpska che giochi il massimo dall'autonomia possibile all'interno di uno Stato molto leggero e il mondo musulmano, che invece è terrorizzato di essere un'isola all'interno di una realtà che avverte non proprio amica (a Mostar, del resto, c'erano i croati insieme ai musulmani, non i serbi).
Ho fatto presente a Dodik che non si può continuare ad avere tre Presidenti della Repubblica, diventa anche ridicolo. Peraltro, quando devo incontrare il Presidente della Repubblica impiego almeno tre ore, perché devo parlare con tre persone, senza contare che il Presidente che in quel momento è in carica nel semestre solitamente chiede un quarto d'ora in più per far vedere che è più importante. Questo gioco dura da quindici anni. Dodik mi ha risposto che non c'è problema, purché un Presidente sia di etnia serba; per il resto va bene tutto.
Tra l'altro, in questo momento il Presidente di etnia croata è di religione islamica, eppure ragiona per i croati, senza alcun problema.
Il problema con Dodik è cercare di capire se è vero quello che sostengo io, cioè che è un Silvius Maniago che vuole il massimo dell'autonomia o se è vero che punta alla secessione. Certamente, in questo momento è vissuto dalla comunità internazionale come quello che più agita la situazione. Dall'altra parte, però, c'è l'immobilismo totale.
Posso anche dire che nei colloqui di Camp Butmir, che sono falliti, Dodik, forse per essere il più abile tattico, ha detto subito che era una buona base di discussione. Teoricamente, Camp Butmir è saltato non perché Dodik ha detto che non se ne parlava nemmeno, ma perché l'altra parte l'ha ritenuta un'operazione cosmetica, senza nulla di concreto.
Per quanto riguarda la NATO, in quelle aree si vive la NATO con una logica un po' diversa da come la viviamo noi. Cito un esempio per spiegarmi meglio: quando nell'est europeo si parla della NATO, tutti citano l'articolo 5 - che normalmente in occidente è stato perfino dimenticato - che prevede che nel caso qualunque Paese della NATO venga attaccato dall'esterno, la NATO risponde. Noi non abbiamo più questo problema, dunque la questione non ci viene neanche in mente. Per loro, invece, la NATO rappresenta la sicurezza che qualcuno non li lascerà soli qualunque cosa dovesse avvenire.
Anche per noi la NATO è importante, perché sono sempre standard che devono essere raggiunti. Il MAP è una concessione di un percorso di avvicinamento alla NATO, anche questo importante. Nella logica dei Paesi dei Balcani occidentali la NATO è qualcosa di diverso dall'Unione europea, ma si salda. L'Unione europea garantisce l'economia, lo sviluppo e un futuro, la NATO garantisce la sicurezza dal punto di vista militare.
In un ampio dibattito che si sta aprendo in Europa sulle regioni europee - la regione del Baltico, la regione del Danubio e la regione del Mare del Nord - il 13 aprile porteremo a Bruxelles la tesi della strategia adriatica. Noi immaginiamo una regione adriatica, legata alla IAI (Iniziativa Adriatico-Ionica), che ha dieci anni, coinvolgendo anche le regioni singole, come Friuli, Emilia, Marche eccetera. In realtà, tutti i Paesi dei Balcani - dalla IAI viene esclusa solo la Macedonia - sono riuniti in questa regione per una politica di vicinato ancora più forte, perché se la Croazia entra, su otto Paesi quattro sono dell'Unione europea e quattro hanno fatto domanda o sono in avvicinamento. Sarebbe un gesto in più, condotto dall'Italia nei confronti di questi Paesi, per rafforzare la politica di avvicinamento all'Unione europea.
Colgo l'occasione, visto che ho anche la delega agli esuli giuliano-dalmati, per ringraziare profondamente il Presidente Napolitano per il discorso che ha fatto il 10 febbraio, che comunque evidenzia le nostre difficoltà. Mentre da noi - lo riconosco, pur essendo di una parte politica ben diversa da quella di Fassino - c'è stato uno sforzo di comprensione e accettazione, e con fatica si è arrivati non dico a una storia condivisa, ma a riconoscere che c'era un dramma, un problema, una storia, dall'altra parte non c'è alcun processo di mutamento. Il Presidente Napolitano - di questo lo ringrazio ancora - ha sottolineato con molto garbo e molto stile, come sa fare lui, che questo è un problema. Non è possibile costruire l'Europa e, quando si va nelle terre slovene, sentirsi accusati di aver rubato ottanta quadri e ogni volta dover spiegare che i quadri erano in conventi di proprietà di ordini italiani; loro ne pretendono la
restituzione o, quanto meno, ne discutono ancora. Non ci sono opere di Canaletto, Leonardo o Caravaggio, ma ogni volta si tira fuori la questione. E se qualcuno porta un fiore sulla tomba di un italiano il 10 febbraio è probabile che si verifichino incidenti - sono già successi - sempre addebitati agli estremisti locali.
PIERO FASSINO. C'è di più: per le famiglie italiane che non hanno più eredi si rischia che vengano smantellate le tombe nei cimiteri italiani.
ALFREDO MANTICA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Su questa vicenda, se volete, un giorno possiamo aprire una discussione.
Per quanto riguarda l'Albania, abbiamo incontrato la Presidente del Parlamento albanese Jozefina Çoba Topalli e abbiamo parlato a lungo. Essendo Presidente del Parlamento, fa parte del partito di Berisha, quindi la sua versione è quella del partito di maggioranza. Devo dire che l'incontro si è ripetuto alla presenza del Presidente Napolitano, circa venti giorni fa, quindi credo che abbia un suo valore, essendosi svolto alla presenza del Presidente della Repubblica.
Il problema viene dal loro Governo imputato al fatto che il candidato alternativo a Berisha è l'attuale sindaco di Tirana che, a loro giudizio, è un personaggio di area socialista «estroverso». Se qualcuno non conosce Tirana, posso dire che è quello che ha inventato la pittura dei palazzi della città. Devo peraltro riconoscere che c'è stato un certo gradimento.
Secondo il Governo albanese, tutto questo è un gioco elettorale perché ad aprile ci saranno le elezioni per il sindaco di Tirana e si dà per scontato che rifarà il sindaco perché, al momento, è certamente il candidato più gradito.
Devo dire che io ho posto una domanda cattiva. Siccome l'attuale Governo Berisha detiene la maggioranza con quattro parlamentari ex socialisti, cioè di frazione socialista (tra l'altro, credo che molti di loro siano ministri o sottosegretari), ho domandato perché da quattro non diventano sei oppure otto. Insomma, non si tratta solo del personaggio che guida il partito socialista. Se tutti i membri del partito socialista mantengono questo atteggiamento,
c'è una solidarietà, ma anche una condivisione di un atteggiamento. Mi hanno risposto di aver attivato canali e posso confermare che, ad esempio in Montenegro, figura ufficialmente al governo un partito socialista.
In un incontro ufficioso con il viceministro degli esteri, abbiamo fatto una lunga chiacchierata e so che molti partiti fratelli dell'area stanno cercando di convincere i loro colleghi. Anche noi abbiamo avviato qualche processo ufficioso ma, onestamente, c'è una posizione che non sembra sbloccarsi. Questo è grave perché l'Albania, un Paese che - vuoi dal punto di vista della NATO, vuoi dal punto di vista dell'Europa, vuoi dal punto di vista dello sviluppo economico - stava percorrendo una strada di stabilità e di evoluzione democratica, è incocciata in questo incidente; ci auguriamo abbiano ragione loro e che finisca con l'elezione del sindaco di Tirana, ma francamente fare previsioni mi pare molto difficile.
PRESIDENTE. Ringrazio il sottosegretario Mantica e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15,15.