Con la sentenza del 13 novembre 2008 , emessa a seguito della procedura di infrazione avviata nel luglio 2005 dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne.
Nell’avviare la procedura di infrazione, la Commissione europea ha sostenuto che il regime gestito dall’INPDAP è un regime c.d. professionale al quale si applicano la direttiva 86/378/CEE , e successive modifiche, nonché l’articolo 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), i quali vietano qualsiasi discriminazione retributiva in base al sesso. Conseguentemente, il sistema pensionistico definito in Italia per il pubblico impiego è stato ritenuto un regime discriminatorioin quanto stabilisce che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne.
La Commissione europea ha dapprima invitato l’Italia ad adottare i provvedimenti necessari a conformarsi al principio di non discriminazione e successivamente adito la Corte di giustizia.
La Corte ha ricordato preliminarmente che, al fine di valutare se una pensione di vecchiaia rientri nell’ambito applicativo dell’articolo 141 del Trattato, assume carattere determinante il c.d. “criterio dell’impiego”, ovvero il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce all’ex datore di lavoro.
Inoltre, sulla base di una giurisprudenza comunitaria consolidata, è stato rilevato che un regime pensionistico di vecchiaia deve essere considerato retribuzione qualora ricorrano i seguenti requisiti:
Dopo aver esaminato il regime della pensione di vecchiaia gestita dall’INPDAP, la Corte di giustizia ha constatato che:
a) i dipendenti pubblici che beneficiano del regime previdenziale INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori;
b) la pensione erogata dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero degli anni di servizio prestati dal dipendente ed allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento;
c) la base di calcolo della pensione INPDAP risponde ai criteri stabiliti dalla Corte in precedenti sentenze ai fini della qualificazione della pensione come retribuzione.
La Corte ha pertanto concluso che la pensione versata in forza del regime INPDAP costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’articolo 141 del Trattato e che la fissazione di un requisito di età variabilesecondo il sesso per la concessione della pensione di vecchiaia (che costituisce una retribuzione ai sensi del citato articolo 141) è in contrasto con il principio della parità retributiva tra uomini e donne.
La sentenza non ha accolto, tra l’altro, l’argomento fornito dalla Repubblica italiana secondo il quale la fissazione, ai fini del pensionamento, di una età diversa in relazione al sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. In proposito, è stato evidenziato dalla Corte che la fissazione di una età diversa per la pensione di vecchiaia non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile.
La Corte ha pertanto concluso che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’articolo 141 del Trattato.