Il 10 febbraio 2009 si sono svolte in Israele le previste elezioni politiche anticipate i cui risultati hanno sostanzialmente confermato i sondaggi, registrando una netta affermazione del Likud di Netanyahu, che ha quasi raddoppiato il numero dei seggi alla Knesset (da 13 a 27) e del partito capeggiato da Avigdor Lieberman, con un incremento di 4 seggi (da 11 a 15). Il Partito laburista, confermando le previsioni negative, ha perso sei seggi (da 19 a 13), mentre Kadima, che ha perso un seggio, ha conseguito la maggioranza relativa in Parlamento (28 seggi). Lo stato dei rapporti tra le forze politiche ha indotto il presidente Peres ad affidare il mandato di formare un nuovo esecutivo a chi aveva le maggiori probabilità di riuscita, ossia al leader del Likud Netanyahu. L'indisponibilità di Kadima ad entrare in una compagine di unità nazionale, motivata con l'assenza di qualunque impegno di Netanyahu in merito al processo di pace con i palestinesi, ha determinato la formazione di uno schieramento nettamente orientato a destra, ma con la presenza al suo interno del leader laburista Barak, nonostante l'aperta opposizione di una parte della relativa rappresentanza parlamentare.
II 31 marzo il nuovo governo ha ottenuto la fiducia della Knesset, con una maggioranza di 69 seggi su 120. Il nuovo esecutivo riflette gli esiti delle complicate trattative che hanno dato vita alla sua formazione, se si pensa all'insolitamente elevato numero di ministri e viceministri che ne fanno parte (quasi 40). La maggior parte dei dicasteri (13) sono andati al Likud, mentre Yisrael Beitenu, il partito di Lieberman, che ha ottenuto cinque dicasteri, tra i quali per il proprio leader il posto di Vice Premier ed il Ministero degli Esteri. Un secondo posto di Vice Premier e la Difesa per Barak, oltre ad altri tre dicasteri, sono andati ai laburisti. Il Partito sefardita Shas ha avuto ugualmente quattro dicasteri, mentre un solo ministro è andato alla Casa ebraica.
In relazione alla difficile situazione economica ed umanitaria a Gaza, nel corso della Conferenza dei donatori di Sharm-el-Sheik (2 marzo)il Presidente del Consiglio Berlusconi ha impegnato il nostro Paese ad un'erogazione di 100 milioni di dollari in quattro anni, rilanciando una sua precedente idea di un Piano Marshall per la Palestina, da prospettare durante la Presidenza italiana del G8 nel corrente anno. È evidente tuttavia il legame tra la possibile efficacia degli aiuti promessi dalla Comunità internazionale ed un contesto di stabilità finalmente durevole a Gaza e in Cisgiordania. La crisi finanziaria ed economica internazionale, poi, non induce all'ottimismo sull'effettiva corresponsione di tutte le risorse promesse dai donatori internazionali.
Prima e dopo la formazione del nuovo governo israeliano si sono moltiplicate le iniziative diplomatiche internazionali per avviare a soluzione il insostenibile conflitto israelo-palestinese, anche se il nuovo governo di Tel Aviv ha subito proposto un nuovo approccio – “pace contro pace” e non più “pace contro territori”- alla questione, dichiarandosi sostanzialmente non più impegnato alla realizzazione della Road Map, e in particolare diffidando della formazione di uno Stato palestinese indipendente. In tal senso si è espresso più volte con chiarezza il nuovo capo della diplomazia Lieberman, ma anche, più velatamente, il premier Netanyahu, per il quale è necessario partire dal franco riconoscimento palestinese del carattere peculiare dello Stato ebraico, e l'intera questione deve procedere per gradi con un approccio funzionale alle principali necessità dei palestinesi, anzitutto quelle economiche ed infrastrutturali, per poi procedere successivamente a livello politico alla prospettazione di una soluzione definitiva. In particolare, Netanyahu ha espresso con chiarezza il timore che uno Stato palestinese indipendente possa infine cadere sotto il controllo di Hamas, amplificando e non risolvendo i problemi delle relazioni con lo Stato ebraico.
La posizione del governo israeliano è stata ulteriormente ribadita dopo l'invito a colloqui separati per la seconda metà di maggio alla Casa Bianca, che il presidente USA Obama ha rivolto ai dirigenti palestinesi, israeliani ed egiziani: il ministro Lieberman ha in particolare definito la ripresa dell'iniziativa di pace della Lega araba del 2002 come un pericolo mortale per Israele, soprattutto per la previsione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, che secondo Lieberman minerebbe alle fondamenta l'equilibrio demografico dello Stato ebraico. Va tuttavia ricordato che la proposta della Lega araba - ritiro di Israele entro i confini precedenti al 1967 in cambio del riconoscimento collettivo da parte degli Stati arabi - era stata emendata nel 2007, rendendo più elastico il meccanismo di restituzione dei territori e soprattutto prevedendo il diritto al ritorno dei profughi nei confini dell'istituendo Stato palestinese. Non a caso, sulla posizione di Lieberman vi è stato un cauto distinguo dello staff di Ehud Barak.
Qualche timido segnale di “ammorbidimento” delle posizioni israeliane è venuto all’inizio di maggio 2009: durante la visita in Italia del ministro degli Esteri Lieberman (4-5 maggio), significativamente la prima tappa di un viaggio che proseguirà in Francia, Germania e Repubblica ceca (presidente di turno della UE). Durante i colloqui con il ministro degli Esteri Frattini, Lieberman ha sì evitato di alludere alla soluzione di uno Stato palestinese indipendente, ma, per quanto concerne il negoziato con la Siria, ha spostato l’accento dall’assoluta indisponibilità alla restituzione delle alture del Golan alla necessità di adeguate contropartite da parte di Damasco.
Durante la visita a Roma le parti hanno evidenziato il ruolo italiano nella regione medio-orientale connotato da forte legame con Israele ed altrettanto buoni rapporti con il fronte dei Paesi arabi moderati: ciò fa dell’Italia un paese-chiave per una prospettiva di pace in Medio Oriente. Tuttavia, il ministro Frattini non ha mancato di ribadire con franchezza la propensione italiana per la soluzione “due popoli, due Stati”. L’Italia ha inoltre offerto la propria mediazione per una pronta ripresa dei negoziati siro-israeliani, qualora la Turchia non volesse o potesse riassumere tale funzione.
Ugualmente a favore della soluzione di uno stato palestinese indipendente accanto a quello ebraico si è detto il presidente USA Barack Obama incontrando il 5 maggio a Washington il Capo dello Stato di Israele Shimon Peres, nel primo della prevista serie di colloqui con i protagonisti dell’area mediorientale. Dall’incontro è emerso che USA e Israele concordano sul carattere necessariamente globale e condiviso di un approdo di pace nella regione, per il quale la sicurezza di Israele costituisce però presupposto irrinunciabile: conseguentemente l’Iran dovrà mutare radicalmente il suo atteggiamento minaccioso e negativo verso Israele, e Hamas non potrà far parte di alcun tavolo negoziale senza un previo riconoscimento dello Stato ebraico. Da notare che il presidente israeliano Peres ha dichiarato alla stampa di essere un chiaro sostenitore di uno Stato palestinese indipendente.
Alla metà di maggio 2009 ha avuto vasta eco il viaggio di papa Benedetto XVI in Medio Oriente, nel corso del quale il Pontefice ha toccato la Giordania, Israele e la Cisgiordania. Il messaggio del Papa alle comunità cristiane mediorientali ha sottolineato la necessità di restare nei luoghi di origine: un modo, tra l’altro, per testimoniare contro i persecutori di persone umane innocenti, e per contribuire alla difficile ma non irraggiungibile pace con l’esempio di riconciliazione e perdono proveniente direttamente da Cristo.
In Giordania Benedetto XVI ha trovato una significativa convergenza con il re Abdallah sulla creazione di uno Stato palestinese indipendente come tappa imprescindibile per un futuro di pace. Già all’esordio della sua visita dunque il Pontefice ha lasciato intendere la propensione della Santa Sede ad un incontro tra le istanze moderate di tutte le parti in causa nell’annoso conflitto mediorientale.
In Israele un momento particolarmente atteso è stato rappresentato dallo Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto, al culmine della quale il Pontefice ha sostenuto l’esigenza di non dimenticare le vittime della Shoah e di non negare o attenuare il ricordo e la condanna dell’ineffabile crimine contro gli ebrei. Se una condanna senza appello delle posizioni negazioniste dell’Olocausto era ampiamente attesa in Israele dopo le violente polemiche seguite alla circolazione delle tesi del vescovo lefebvriano Williamson; la mancata citazione del nazismo e della Germania come principali autori dello sterminio ha destato una certa insoddisfazione in alcuni settori della società israeliana, così come l’assenza di una ulteriore esplicita condanna preventiva di ogni forma di antisemitismo. A quest’ultimo proposito, tuttavia, il Papa si era già espresso recisamente al momento dell’arrivo in Israele, mentre nel 2006, in visita al campo di sterminio di Auschwitz, non aveva eluso il punto della responsabilità del popolo tedesco e della sua appartenenza alla Germania.
Nella visita a Betlemme, durante la quale ha incontrato il presidente dell’ANP Abu Mazen, il Papa ha ribadito il favore della Santa Sede per la soluzione dei due Stati, e ha utilizzato la materiale presenza della barriera di divisione costruita da Israele per un auspicio di abbattimento dei muri di tutti i generi e delle divisioni che essi sottendono.
Il punto di vista del governo israeliano, contrario a uno Stato palestinese sovrano, è stato indirettamente ribadito dal premier Netanyahu in un incontro dell’11 maggio con il presidente Mubarak, nel quale si è preferito da parte israeliana sorvolare sul tema – caldeggiato invece dal rais egiziano, ma anche da una presa di posizione dei ministri degli esteri dei paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU - per evidenziare piuttosto il comune interesse di Israele e degli stati arabi moderati come l’Egitto a lottare contro il comune nemico rappresentato dal terrorismo e dai suoi sponsor (velata allusione al ruolo regionale dell’Iran per mezzo di hezbollah in Libano e di Hamas a Gaza). Secondo alcuni analisti, non è possibile sfuggire all’impressione di un certo isolamento delle posizioni israeliane sul processo di pace, visto il favore che anche l’Amministrazione Obama ha riconfermato verso la soluzione dei due Stati.
Anche il Governo italiano ha ribadito tale orientamento nell’incontro tra il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il presidente Mubarak a Sharm-el-Sheik il 12 maggio scorso, nel corso del quale peraltro i due leader non hanno sottaciuto la negatività delle divisioni fra i palestinesi per un concreto futuro di pace nella regione. Queste divisioni sono state pienamente confermate dopo l’insediamento a Ramallah del nuovo esecutivo dell’ANP (19 maggio), ancora una volta guidato da Salam Fayyad e, per quanto ricco di personalità “tecniche” e indipendenti, egemonizzato da Al Fatah, la cui rappresentanza nel Consiglio legislativo palestinese contesta peraltro la riconferma di Fayyad. La reazione di Hamas al nuovo governo palestinese non si è fatta attendere, non riconoscendone la legalità e considerandolo alle dipendenze degli Stati Uniti ed Israele. Secondo Hamas, inoltre, la mossa di Abu Mazen costituisce un sabotaggio delle residue possibilità di accordo nel dialogo tra le fazioni palestinesi, che avrebbe dovuto riprendere in luglio al Cairo.
Il 18 maggio il premier israeliano Netanyahu ha incontrato a Washington il presidente Obama: Netanyahu non si è spinto oltre la possibilità di un autogoverno dei palestinesi, senza menzionare lo sbocco di uno Stato indipendente. Da parte di Obama vi è stato un chiaro richiamo di Obama alla Road map ed alla necessità in essa contemplata del congelamento degli insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania. Proprio sugli insediamenti qualche giorno dopo si è aperto uno scontro nell’esecutivo israeliano tra le posizioni di Ehud Barak, favorevole allo sgombero di alcuni piccoli agglomerati abusivi ed i partiti di destra, da sempre portavoce di ampie fasce dei coloni. Il premier Netanyahu, quasi obbligato a un tiepido appoggio a Barak, visto il carattere vistosamente illegale degli avamposti, non ha però mancato di ribadire il proprio sostegno all’espansione delle maggiori colonie, giustificata secondo lui dalla crescita demografica delle famiglie dei coloni.
In merito ad una ripresa dei negoziati israelo-palestinesi vi è stata convergenza tra il Premier israeliano ed il Presidente USA, ma Netanyahu li ha subordinati al riconoscimento della legittimità e del carattere ebraico dello Stato di Israele da parte dei palestinesi. Appena due giorni dopo l’incontro di Washington, inoltre, la diffusione di una presunta bozza del piano di pace USA per il Medio Oriente ha creato scompiglio in Israele: il piano infatti ipotizza una sostanziale ripresa della proposta della Lega araba del 2002 nella quale l’intera regione dovrebbe attuare una graduale normalizzazione dei rapporti con Israele, in cambio della nascita di uno Stato palestinese indipendente, omogeneo territorialmente e smilitarizzato. Le obiezioni israeliane si appuntano anzitutto sul rischio che lo Stato palestinese correrebbe di passare sotto il controllo di Hamas, divenendo una pedina – tutt’altro che smilitarizzata - del gioco iraniano. Inoltre la bozza contemplerebbe uno status internazionale, sotto l’egida dell’ONU, per la Città vecchia di Gerusalemme e per i luoghi santi delle tre religioni monoteistiche che essa custodisce: su questo secondo punto la risposta è venuta il 21 maggio dallo stesso Netanyahu, il quale, commemorando proprio il 41° anniversario della riunificazione di Gerusalemme sotto il controllo ebraico, avvenuta dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, ha ribadito che l’appartenenza dell’intera città allo Stato ebraico non sarà mai più posta in discussione. Contemporaneamente alla Knesset veniva presentata una proposta di legge per condizionare a una maggioranza qualificata dei due terzi qualunque modifica alla legge del 1980 che ha proclamato Gerusalemme quale eterna e indivisibile capitale di Israele”.
Anche in riferimento al tema sul quale si registra una maggiore convergenza, il contrasto della strategia regionale dell’Iran ed il suo progetto di assurgere al rango di potenza nucleare, non sono mancate tra i due leader sfumature dissonanti, poiché ad esempio Obama – impegnato tra l’altro a uno forzo di inclusione dell’Iran nell’approccio regionale di soluzione del conflitto afghano – ha insistito sulla validità di un approccio negoziale, per il quale ha
rifiutato “scadenze artificiali”, pur fissando la fine dell’anno come traguardo di riferimento per un bilancio di tale approccio. Il riferimento alle scadenze è pienamente comprensibile se si ricorda che il ministro degli Esteri di Tel Aviv Lieberman aveva indicato nelle settimane precedenti un termine di tre mesi.
Il pessimismo israeliano nei confronti di una strategia “morbida” verso l’Iran è stato confermato il 20 maggio dal test effettuato con successo da Teheran di un missile con una gittata di circa duemila km., capace pertanto di raggiungere il territorio israeliano. Nell’annunciare il successo del test, il presidente iraniano Ahmadinejad ha minacciato chiunque avesse intenzione di attaccare il paese per arrestarne lo sviluppo nucleare. Washington ha commentato l’operazione sottolineando che l’Iran si sta muovendo nella direzione sbagliata, e non può pensare di contare su una pazienza infinita degli USA. Significativamente, soltanto dopo il lancio del missile iraniano è stato reso noto che nell’incontro con Netanyahu si è deciso tra l’altro deciso di creare un gruppo misto di lavoro sui progressi (eventuali) delle trattative con l’Iran, capace di condividere anche informazioni riservate sullo sviluppo dei programmi nucleari di Teheran.
Il test missilistico iraniano ha prodotto l’annullamento di una visita del ministro degli esteri Frattini, che ha giudicato inopportuno dopo il lancio del missile sia il momento, sia il luogo – gli iraniani avevano infatti richiesto che l’on. Frattini incontrasse il presidente Ahmadinejad nella città di Semnan (Iran settentrionale), luogo di lancio del missile. La visita, analogamente a quella già sfumata in marzo, aveva lo scopo di prospettare a Teheran la possibilità di partecipare a fine giugno alla Conferenza di Trieste per la stabilizzazione del conflitto afghano-pakistano.