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Temi dell'attività Parlamentare

Vicende politiche e relazioni internazionali di Israele nel 2009

Dopo la grave crisi rappresentata dall’operazione militare israeliana “Piombo fuso” nella Striscia di Gaza, in risposta a incessanti lanci di razzi contro le città israeliane più vicine, il 10 febbraio 2009 si sono svolte in Israele le previste elezioni politiche anticipate i cui risultati hanno sostanzialmente confermato i sondaggi, registrando una netta affermazione del Likud di Netanyahu, che ha quasi raddoppiato il numero dei seggi alla Knesset (da 13 a 27) e del partito capeggiato da Avigdor Lieberman[1], con un incremento di 4 seggi (da 11 a 15). Il Partito laburista, confermando le previsioni negative, ha perso sei seggi (da 19 a 13), mentre Kadima, che ha perso un seggio, ha conseguito la maggioranza relativa in Parlamento (28 seggi). Lo stato dei rapporti tra le forze politiche ha indotto il presidente Peres ad affidare il mandato di formare un nuovo esecutivo a chi aveva le maggiori probabilità di riuscita, ossia al leader del Likud Netanyahu. L'indisponibilità di Kadima ad entrare in una compagine di unità nazionale, motivata con l'assenza di qualunque impegno di Netanyahu in merito al processo di pace con i palestinesi, ha determinato la formazione di uno schieramento nettamente orientato a destra, ma con la presenza al suo interno del leader laburista Barak, nonostante l'aperta opposizione di una parte della relativa rappresentanza parlamentare.

II 31 marzo il nuovo governo ha ottenuto la fiducia della Knesset, con una maggioranza di 69 seggi su 120. Il nuovo esecutivo riflette gli esiti delle complicate trattative che hanno dato vita alla sua formazione, se si pensa all'insolitamente elevato numero di ministri e viceministri che ne fanno parte (quasi 40). La maggior parte dei dicasteri (13) sono andati al Likud, mentre Yisrael Beitenu, il partito di Lieberman, che ha ottenuto cinque dicasteri, tra i quali per il proprio leader il posto di Vice Premier ed il Ministero degli Esteri. Un secondo posto di Vice Premier e la Difesa per Barak, oltre ad altri tre dicasteri, sono andati ai laburisti. Il Partito sefardita Shas ha avuto ugualmente quattro dicasteri, mentre un solo ministro è andato alla Casa ebraica.

Prima e dopo la formazione del nuovo governo israeliano si sono moltiplicate le iniziative diplomatiche internazionali per avviare a soluzione il insostenibile conflitto israelo-palestinese, anche se il nuovo governo di Tel Aviv ha subito proposto un nuovo approccio – “pace contro pace” e non più “pace contro territori”- alla questione, dichiarandosi sostanzialmente non più impegnato alla realizzazione della Road Map, e in particolare diffidando della formazione di uno Stato palestinese indipendente. In tal senso si è espresso più volte con chiarezza il nuovo capo della diplomazia Lieberman, ma anche, più velatamente, il premier Netanyahu, per il quale è necessario partire dal franco riconoscimento palestinese del carattere peculiare dello Stato ebraico, e l'intera questione deve procedere per gradi con un approccio funzionale alle principali necessità dei palestinesi, anzitutto quelle economiche ed infrastrutturali, per poi procedere successivamente a livello politico alla prospettazione di una soluzione definitiva. In particolare, Netanyahu ha espresso con chiarezza il timore che uno Stato palestinese indipendente possa infine cadere sotto il controllo di Hamas, amplificando e non risolvendo i problemi delle relazioni con lo Stato ebraico.

La posizione del governo israeliano è stata ulteriormente ribadita dopo l'invito a colloqui separati per la seconda metà di maggio alla Casa Bianca, che il presidente USA Obama ha rivolto ai dirigenti palestinesi, israeliani ed egiziani: il ministro Lieberman ha in particolare definito la ripresa dell'iniziativa di pace della Lega araba del 2002 come un pericolo mortale per Israele, soprattutto per la previsione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, che secondo Lieberman minerebbe alle fondamenta l'equilibrio demografico dello Stato ebraico. Va tuttavia ricordato che la proposta della Lega araba - ritiro di Israele entro i confini precedenti al 1967 in cambio del riconoscimento collettivo da parte degli Stati arabi - era stata emendata nel 2007, rendendo più elastico il meccanismo di restituzione dei territori e soprattutto prevedendo il diritto al ritorno dei profughi nei confini dell'istituendo Stato palestinese. Non a caso, sulla posizione di Lieberman vi è stato un cauto distinguo dello staff di Ehud Barak.

Qualche timido segnale di “ammorbidimento” delle posizioni israeliane è venuto all’inizio di maggio 2009: durante la visita in Italia del ministro degli Esteri Lieberman (4-5 maggio), significativamente la prima tappa di un viaggio che proseguirà in Francia, Germania e Repubblica ceca (presidente di turno della UE). Durante i colloqui con il ministro degli Esteri Frattini, Lieberman ha sì evitato di alludere alla soluzione di uno Stato palestinese indipendente, ma, per quanto concerne il negoziato con la Siria, ha spostato l’accento dall’assoluta indisponibilità alla restituzione delle alture del Golan alla necessità di adeguate contropartite da parte di Damasco.

Durante la visita a Roma le parti hanno evidenziato il ruolo italiano nella regione medio-orientale connotato da forte legame con Israele ed altrettanto buoni rapporti con il fronte dei Paesi arabi moderati: ciò fa dell’Italia un paese-chiave per una prospettiva di pace in Medio Oriente. Tuttavia, il ministro Frattini non ha mancato di ribadire con franchezza la propensione italiana per la soluzione “due popoli, due Stati”. L’Italia ha inoltre offerto la propria mediazione per una pronta ripresa dei negoziati siro-israeliani, qualora la Turchia non volesse o potesse riassumere tale funzione.

Ugualmente a favore della soluzione di uno Stato palestinese indipendente accanto a quello ebraico si è detto il presidente USA Barack Obama incontrando il 5 maggio a Washington il Capo dello Stato di Israele Shimon Peres, nel primo della prevista serie di colloqui con i protagonisti dell’area mediorientale. Dall’incontro è emerso che USA e Israele concordano sul carattere necessariamente globale e condiviso di un approdo di pace nella regione, per il quale la sicurezza di Israele costituisce però presupposto irrinunciabile: conseguentemente l’Iran dovrà mutare radicalmente il suo atteggiamento minaccioso e negativo verso Israele, e Hamas non potrà far parte di alcun tavolo negoziale senza un previo riconoscimento dello Stato ebraico. Da notare che il presidente israeliano Peres ha dichiarato alla stampa di essere un chiaro sostenitore di uno Stato palestinese indipendente.

Alla metà di maggio 2009 ha avuto vasta eco il viaggio di papa Benedetto XVI in Medio Oriente, nel corso del quale il Pontefice ha toccato la Giordania, Israele e la Cisgiordania.

In Giordania Benedetto XVI ha trovato una significativa convergenza con il re Abdallah sulla creazione di uno Stato palestinese indipendente come tappa imprescindibile per un futuro di pace. Già all’esordio della sua visita dunque il Pontefice ha lasciato intendere la propensione della Santa Sede ad un incontro tra le istanze moderate di tutte le parti in causa nell’annoso conflitto mediorientale.

In Israele un momento particolarmente atteso è stato rappresentato dallo Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto, al culmine della quale il Pontefice ha sostenuto l’esigenza di non dimenticare le vittime della Shoah e di non negare o attenuare il ricordo e la condanna dell’ineffabile crimine contro gli ebrei. Se una condanna senza appello delle posizioni negazioniste dell’Olocausto era ampiamente attesa in Israele dopo le violente polemiche seguite alla circolazione delle tesi del vescovo lefebvriano Williamson; la mancata citazione del nazismo e della Germania come principali autori dello sterminio ha destato una certa insoddisfazione in alcuni settori della società israeliana[2], così come l’assenza di una ulteriore esplicita condanna preventiva di ogni forma di antisemitismo. A quest’ultimo proposito, tuttavia, il Papa si era già espresso recisamente al momento dell’arrivo in Israele, mentre nel 2006, in visita al campo di sterminio di Auschwitz, non aveva eluso il punto della responsabilità del popolo tedesco e della sua appartenenza alla Germania.

Nella visita a Betlemme, durante la quale ha incontrato il presidente dell’ANP Abu Mazen, il Papa ha ribadito il favore della Santa Sede per la soluzione dei due Stati, e ha utilizzato la materiale presenza della barriera di divisione costruita da Israele per un auspicio di abbattimento dei muri di tutti i generi e delle divisioni che essi sottendono.

Il punto di vista del governo israeliano, contrario a uno Stato palestinese sovrano, è stato indirettamente ribadito dal premier Netanyahu in un incontro dell’11 maggio con il presidente Mubarak, nel quale si è preferito da parte israeliana sorvolare sul tema – caldeggiato invece dal rais egiziano, ma anche da una presa di posizione dei ministri degli esteri dei paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU - per evidenziare piuttosto il comune interesse di Israele e degli stati arabi moderati come l’Egitto a lottare contro il comune nemico rappresentato dal terrorismo e dai suoi sponsor (velata allusione al ruolo regionale dell’Iran per mezzo di hezbollah in Libano e di Hamas a Gaza).

Anche il Governo italiano ha ribadito tale orientamento nell’incontro tra il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il presidente Mubarak a Sharm-el-Sheik il 12 maggio scorso, nel corso del quale peraltro i due leader non hanno sottaciuto la negatività delle divisioni fra i palestinesi per un concreto futuro di pace nella regione. Queste divisioni sono state pienamente confermate dopo l’insediamento a Ramallah del nuovo esecutivo dell’ANP (19 maggio), ancora una volta guidato da Salam Fayyad e, per quanto ricco di personalità “tecniche” e indipendenti, egemonizzato da Al Fatah, la cui rappresentanza nel Consiglio legislativo palestinese contesta peraltro la riconferma di Fayyad. La reazione di Hamas al nuovo governo palestinese non si è fatta attendere, non riconoscendone la legalità e considerandolo alle dipendenze degli Stati Uniti ed Israele. Secondo Hamas, inoltre, la mossa di Abu Mazen costituisce un sabotaggio delle residue possibilità di accordo nel dialogo tra le fazioni palestinesi, che avrebbe dovuto riprendere in luglio al Cairo.

Il 18 maggio il premier israeliano Netanyahu ha incontrato a Washington il presidente Obama: Netanyahu non si è spinto oltre la possibilità di un autogoverno dei palestinesi, senza menzionare lo sbocco di uno Stato indipendente. Da parte di Obama vi è stato un chiaro richiamo alla Road map ed alla necessità in essa contemplata del congelamento degli insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania. Proprio sugli insediamenti qualche giorno dopo si è aperto uno scontro nell’esecutivo israeliano tra le posizioni di Ehud Barak, favorevole allo sgombero di alcuni piccoli agglomerati abusivi ed i partiti di destra, da sempre portavoce di ampie fasce dei coloni. Il premier Netanyahu, quasi obbligato a un tiepido appoggio a Barak, visto il carattere palesemente illegale degli avamposti, non ha però mancato di ribadire il proprio sostegno all’espansione delle maggiori colonie, giustificata secondo lui dalla crescita demografica delle famiglie dei coloni. In merito ad una ripresa dei negoziati israelo-palestinesi vi è stata convergenza tra il Premier israeliano ed il Presidente USA, ma Netanyahu li ha subordinati al riconoscimento della legittimità e del carattere ebraico dello Stato di Israele da parte dei palestinesi.

Anche in riferimento al tema sul quale si registra una maggiore convergenza, il contrasto della strategia regionale dell’Iran ed il suo progetto di assurgere al rango di potenza nucleare, non sono mancate tra i due leader sfumature dissonanti, poiché ad esempio Obama – impegnato tra l’altro a uno forzo di inclusione dell’Iran nell’approccio regionale di soluzione del conflitto afghano – ha insistito sulla validità di un approccio negoziale, per il quale ha rifiutato “scadenze artificiali”, pur fissando la fine dell’anno come traguardo di riferimento per un bilancio di tale approccio. Il riferimento alle scadenze è pienamente comprensibile se si ricorda che il ministro degli Esteri di Tel Aviv Lieberman aveva indicato nelle settimane precedenti un termine di tre mesi. Il pessimismo israeliano nei confronti di una strategia “morbida” verso l’Iran è stato confermato il 20 maggio dal test effettuato con successo da Teheran di un missile con una gittata di circa duemila km., capace pertanto di raggiungere il territorio israeliano[3]. Significativamente, soltanto dopo il lancio del missile iraniano è stato reso noto che nell’incontro con Netanyahu si è deciso tra l’altro deciso di creare un gruppo misto di lavoro sui progressi (eventuali) delle trattative con l’Iran, capace di condividere anche informazioni riservate sullo sviluppo dei programmi nucleari di Teheran.

Il 21 maggio Netanyahu, commemorando il 41° anniversario della riunificazione di Gerusalemme sotto il controllo ebraico, avvenuta dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, ha ribadito che l’appartenenza dell’intera città allo Stato ebraico non sarà mai più posta in discussione. Contemporaneamente alla Knesset veniva presentata una proposta di legge per condizionare a una maggioranza qualificata dei due terzi qualunque modifica alla legge del 1980 che ha proclamato Gerusalemme quale eterna e indivisibile capitale di Israele”.

Alla metà di giugno il premier israeliano Netanyahu ha tenuto in una sede universitaria di Tel Aviv un discorso nel quale ha accennato per la prima volta alla possibilità di uno Stato palestinese, ma ponendo condizioni tali da far immaginare un ampio dissenso nel mondo arabo, come poi puntualmente registrato, ad esempio, da parte del presidente egiziano Mubarak. Infatti in base al discorso di Netanyahu il nuovo Stato non dovrà includere Gerusalemme[4] né gli insediamenti ebraici ad essa prospicienti, che anzi continueranno ad allargarsi secondo la loro dinamica "naturale"; inoltre, i palestinesi dovranno riconoscere il carattere ebraico dello Stato israeliano e dovranno accettare la completa demilitarizzazione della propria entità statale. Non è troppo difficile leggere nelle posizioni di Netanyahu la ricerca di un problematico equilibrio tra le esigenze di apertura che nel suo stesso governo sono rappresentate dai laburisti di Ehud Barak, e le resistenze dell'ala più conservatrice del Likud e dei partiti di destra ad esso alleati. Su questa falsariga la posizione di Israele sulla questione palestinese è proseguita senza soluzione di continuità per tutto il 2009.

Netanyahu ha ribadito la propria posizione sullo Stato palestinese nell'incontro avuto a Roma qualche giorno più tardi con il Presidente del Consiglio Berlusconi e il Ministro degli esteri Frattini, nel corso del quale peraltro si è sentito reiterare la richiesta di un blocco degli insediamenti ebraici, che l'Italia, consonante con l'Amministrazione Obama, vede quali ostacoli per la ricerca della pace. Nell'incontro il nostro Paese ha ricevuto un riconoscimento del ruolo positivo che secondo Israele esercita nella ricerca di una soluzione di pace, con l'invito al presidente Berlusconi a recarsi nel 2010 in Israele per tenere un discorso alla Knesset, nel primo della serie di vertici bilaterali annuali che si è concordato di inaugurare.

Il Quartetto rappresentato da Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e Russia è tornato brevemente protagonista in occasione del vertice G8 di Trieste dei ministri degli esteri (26 giugno), a margine del quale è stato chiesto a Israele di bloccare la crescita degli insediamenti[5] senza distinzioni di specie, nonché di riaprire i valichi per agevolare il passaggio di aiuti, merci e lavoratori.

Nella seconda parte del 2009 la questione degli insediamenti ha visto prolungarsi l'alternanza di aperture e rigidità da parte israeliana: se infatti in agosto, in concomitanza con le voci su un nuovo piano di pace americano, sembrava di poter scorgere un imminente congelamento dell'espansione degli insediamenti, all'inizio di settembre Netanyahu ordinava la costruzione di 455 nuove unità abitative nelle colonie ebraiche della Cisgiordania, oltre alle 2500 già avviate, nonostante la reazione molto negativa della Casa Bianca. In tale contesto era facile prevedere un insuccesso della missione dell'inviato americano George Mitchell in Israele, a seguito del quale veniva rinviato sine die il previsto vertice tra Obama, Netanyahu e Abu Mazen.

Tuttavia, l'incontro si svolgeva poi il 22 settembre a margine dei lavori inaugurali della sessione annuale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: il presidente Obama incassava si l'impegno al rilancio del negoziato con la mediazione di George Mitchell, ma senza che nessuna delle due parti cedesse nelle proprie posizioni sui punti più importanti. All'inizio di novembre il presidente palestinese Abu Mazen giungeva addirittura ad annunciare la sua non ricandidatura alle previste elezioni del gennaio 2010, in considerazione della mancanza di progressi nei negoziati, aprendo in tal modo un ulteriore grave fonte di preoccupazione per la Comunità internazionale impegnata a risolvere il conflitto israelo-palestinese, della quale è uno degli interlocutori più importanti. La Casa Bianca si vedeva inoltre costretta una dura presa di posizione contro Israele dopo l'annuncio a metà novembre della decisione di procedere alla costruzione di altre 900 abitazioni a Gerusalemme est, nel quartiere di Gilo, considerata del tutto contraria al rilancio del negoziato.

Il 25 novembre , però, giungeva la decisione israeliana di un congelamento di dieci mesi dei nuovi insediamenti in Cisgiordania (ma non a Gerusalemme), quale atto di buona volontà per far progredire i negoziati con i palestinesi. La decisione è stata adottata nel Gabinetto di sicurezza, organo ristretto al di fuori del quale probabilmente la determinazione avrebbe comportato la caduta del governo, sempre in bilico tra le richieste del partito laburista di concedere prospettive ai negoziati con i palestinesi, e quelle dei partiti di destra, contrari a mettere un freno all'espansione degli insediamenti. Tuttavia, l'opposizione guidata da Kadima ha giudicato la proposta inadeguata, mentre le ali più conservatrici, e parte del Likud stesso, hanno criticato la decisione come un cedimento alla volontà della nuova Amministrazione americana. A ben vedere, poi, la decisione - comunque temporanea - si inquadra nella politica israeliana già in corso, volta a limitare l'espansione degli insediamenti in Cisgiordania, ma ad ampliare quelli di Gerusalemme.

Il contesto regionale mediorientale pone a Israele un altro problema affatto nuovo, ossia il peggioramento sempre più chiaro delle relazioni con la Turchia, da sempre invece in buoni rapporti con Tel Aviv, e uno dei pochi Stati musulmani a intrattenere relazioni diplomatiche dirette con Israele, tanto da giungere nel 1996 alla sigla di un'intesa strategica bilaterale. Le ragioni di tale evoluzione sono molteplici: la Turchia, da lungo tempo in attesa di poter aderire all'Unione europea, ha visto tale obiettivo allontanarsi progressivamente, fino alla chiara manifestazione da parte di alcuni importanti Stati europei della inopportunità dell'adesione di Ankara e della necessità di una mera partnership privilegiata. In tal modo la diplomazia turca, soprattutto per opera dell'attuale ministro degli esteri Ahmed Davutoglu, ha iniziato a considerare la possibilità di un ruolo più indipendente nella regione, basato sul perseguimento degli interessi nazionali mediante relazioni privilegiate con tutti gli Stati vicini, dalla Siria all’Iraq, dall'Armenia all'Iran, senza trascurare le importanti prospettive turche nei confronti dell'Asia centrale, ove esistono consistenti gruppi etnici e linguistici di comune derivazione. In questo contesto l'operazione israeliana a Gaza all'inizio del 2009 non ha certo facilitato il miglioramento dei rapporti tra Ankara e Tel Aviv, creando un forte imbarazzo turco nei confronti dei palestinesi e del mondo arabo, proprio per la consolidata amicizia con Israele. Si spiega così in buona parte il rifiuto turco in ottobre ad ammettere l'aviazione di Israele a partecipare alle manovre già programmate nello spazio aereo anatolico. Un ulteriore episodio di tensione si è avuto per le vive proteste di Gerusalemme a seguito di una serie televisiva turca, nella quale si presentano i soldati israeliani come assassini deliberati di bambini palestinesi in rivolta.

Quasi a fare da pendant al peggioramento delle relazioni con Ankara, gli ultimi anni hanno visto un chiaro miglioramento dei rapporti di Israele con la Russia - nonostante, come abbiamo visto, il ruolo di Mosca nelle forniture militari a nemici storici di Israele. Non va al proposito dimenticato il forte apporto di immigrati dall'ex Unione sovietica in Israele, che costituiscono attualmente circa la metà degli afflussi annuali, e che hanno in maggioranza la propria rappresentanza politica nel partito della destra laica di Lieberman, egli stesso esule dalla Moldavia ex sovietica. Tuttavia, certamente le motivazioni principali del riavvicinamento russo-israeliano stanno negli interessi regionali di entrambi i paesi: mentre però non è pensabile che Mosca faccia una scelta chiara a favore di Israele, trascurando gli storici legami con paesi come la Siria o l'Arabia Saudita o con movimenti come al Fatah e Hamas; da parte di Israele è chiaro l'interesse ad assicurarsi un interlocutore strategico che possa costituire una parziale alternativa ai difficili rapporti con alcuni paesi europei e finanche con gli Stati Uniti, e ciò sia per il ruolo politico che per il peso militare della Russia. Si pensi al riguardo al ruolo moderatore che Mosca in parte ha esercitato, e in buona parte potrebbe ancora dover esercitare, nei confronti delle mire aggressive dell'Iran e dei progetti che tale paese coltiva in campo nucleare.

 


[1] All'inizio di agosto 2009 si sono diffuse voci di accuse a Lieberman da parte della polizia antifrode, che in precedenza aveva indagato su Olmert, provocandone infine le dimissioni: in particolare, l'accusa riguarda l'incasso di circa due milioni di euro di finanziamenti illeciti poi dislocati su conti off-shore a Cipro. In tal modo Lieberman si sarebbe reso responsabile di riciclaggio, frode, Lieberman ha preannunciato le proprie dimissioni in caso di inriminazione da parte della Procura generale dello Stato.

[2] I rapporti tra Vaticano e Israele hanno conosciuto in dicembre un altro momento critico, in concomitanza dell'inizio del processo per la beatificazione di Pio XII (che una parte del mondo ebraico accusa di aver taciuto di fronte all'Olocausto, trascurando addirittura alcuni documenti preparati dal precedente pontefice): ambienti del Gran rabbinato di Israele hanno definito la mossa vaticana tale non mostrare soverchia sensibilità nei confronti del mondo ebraico, e anche esponenti delle comunità ebraiche italiane - specialmente di quella romana - hanno espresso valutazioni critiche.

[3] L'atteggiamento giustamente allarmato di Israele nei confronti dell'Iran ha conosciuto poi nel corso del 2009 ulteriori momenti, a partire dalla rivelazione, alla fine di settembre, dell'esistenza di un nuovo impianto nucleare segreto in Iran, interpretata dal Ministro degli esteri di Tel Aviv Lieberman quale ulteriore prova della volontà di Teheran di giungere alla costruzione di armi nucleari. Il 28 settembre, poi, in concomitanza dello Yom Kippur ebraico, i pasdaran iraniani hanno lanciato a scopo di prova due missili a lungo raggio, entrambi capaci di raggiungere le frontiere dello Stato ebraico. All'inizio di novembre reparti speciali della marina israeliana hanno intercettato una nave proveniente dall'Iran con un carico di armi di oltre 500 tonnellate, presumibilmente dirette alle milizie libanesi Hezbollah, per il tramite della Siria - va ricordato al proposito il breve viaggio del 9 settembre a Mosca del premier israeliano Netanyahu, che avrebbe chiesto ai russi di bloccare le forniture di armi a Iran e Siria, delle quali avrebbe esibito ampia documentazione raccolta dall'intelligence di Israele. Il 16 dicembre gli iraniani hanno effettuato un lancio di prova di un altro missile, a combustibile solido, con una gittata di ben 2000 km, e dunque capace di raggiungere non solo Israele, ma la gran parte dei paesi arabi e della Turchia e perfino le regioni europee più vicine. La maggior gittata del missile e la sua immediata operatività in ragione dell'alimentazione a combustibile solido hanno creato ulteriori allarmi nella Comunità internazionale: gli Stati Uniti hanno giudicato severamente il test, come conferma di intenzioni aggressive dell'Iran, mentre il Regno Unito ha sostenuto la necessità di nuove sanzioni a fronte dell'escalation missilistica di Teheran.

[4] Su questo punto il congresso di al-Fatah, conclusosi dopo lunghe schermaglie alla metà di agosto 2009, ha registrato un dissenso totale, e lo stesso presidente Abu Mazen, riconfermato presidente del partito, ha escluso completamente la possibilità di una rinuncia palestinese a Gerusalemme, registrando perfino – a distanza - il consenso della fazione di Hamas.

[5] Sul punto è tornata a insistere con nettezza la Germania due mesi dopo, nel corso dell'incontro di Netanyahu a Berlino con il cancelliere Angela Merkel.