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Il conflitto nel Darfur

Il conflitto nel Darfur, che dal febbraio 2003 ha assunto proporzioni drammatiche, è riconducibile prevalentemente a rivalità tra etnie che vedono opposti da un lato arabi, pastori tradizionalmente nomadi, e, dall’altro, tribù di neri africani, sedentari, agricoltori o allevatori.

Contrariamente a quanto accade nel resto del paese, dove al Nord prevale la religione musulmana e al Sud quella cristiano-animista, nel Darfur la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana.

I principali gruppi etnici non arabi nel Darfur sono i Fur – i più numerosi, che danno il nome alla regione -tra i quali prevale l’agricoltura stanziale e forme di artigianato; gli Zagawa, allevatori di greggi e di cammelli ma anche agricoltori; i Masalit, in prevalenza agricoltori.

Mentre il governo sudanese - appoggiato dalle etnie arabe - sostiene che il conflitto nella regione del Darfur è unicamente centrato sulla competizione tra pastori e allevatori per il controllo del territorio, i leaders delle tribù non arabe affermano che lo spopolamento dei villaggi e il conseguente passaggio di proprietà dei terreni sono parte di una precisa strategia governativa diretta ad “arabizzare” l’intera regione. Di origine e di lingua araba sono infatti anche i Janjaweed, i “diavoli a cavallo”, responsabili di attacchi contro la popolazione civile reclutati fra i membri delle locali tribù nomadi dei Baggara.

Oltre che di essere oggetto di brutali repressioni, le tribù dei neri lamentavano di essere discriminate dal governo sudanese e di essere lasciate ai margini dell’economia e del processo di pace, e di non avere alcun margine di trattativa nella possibile negoziazione di accordi per l’autodeterminazione; per tali ragioni hanno dato vita ad organizzazioni per l’autodifesa, prima fra tutte il Darfur Liberation Front, divenuto nel 2003 il Sudan Liberation Movement e Sudan Liberation Army (SLM/SLA), e il Justice for Equality Movement (Jem).

I due gruppi (SLM/A e Jem) hanno origini e presupposti ideologici alquanto differenti.

La nascita dell’SLM/A affonda le radici nei tumulti che attraversarono il Darfur nel 1989. Nel 1987, dopo una carestia devastante, fu creata un’alleanza araba - che ricevette incoraggiamenti ufficiali – che aveva l’obiettivo di contrastare la presenza delle comunità di agricoltori africani formate da Fur, Zagawa e Masalit. In quell’occasione il governo sudanese cominciò a fornire armi agli arabi, ordinando al contempo il disarmo degli africani. L’SLA fece le sue prime reclute tra i gruppi che i Fur avevano creato per la propria autodifesa, mentre gli Zagawa entrarono a far parte della milizia solo più tardi.

In una Dichiarazione Politica del 14 marzo 2003, firmata da Minni Arkou Minawi, segretario generale dell’SLM/A, il governo di Khartoum viene accusato di incoraggiare “la pulizia etnica e il genocidio” in Darfur e di strumentalizzare a tale scopo alcune tribù arabe, costringendo la popolazione ad organizzarsi politicamente e militarmente per garantirsi la sopravvivenza. Lungi dal proclamare propositi secessionisti (che erano invece alla base del Darfur Liberation Front), la Dichiarazione afferma la fondamentale importanza dell’unità del Sudan che dovrà però poggiarsi sul riconoscimento e l’accettazione delle diversità etniche, culturali, sociali e politiche. La lotta armata viene considerata uno dei mezzi a disposizione dell’SLM/A, che dichiara di voler raggiungere accordi con le forze di opposizione (politiche o armate) per rovesciare il regime dittatoriale. L’SLM/A è sostenuto dall’Eritrea.

La diversa composizione etnica ha portato in seguito ad una divisione dell’organizzazione dalla quale sono emerse due componenti: la fazione Zagawa, oggi minoritaria, guidata da Minni Minawi, l’unica che ha firmato l’accordo di Abuja del 2006 (v. infra); e la fazione Fur, guidata da Abdel Wahid, che ha un largo consenso tra i rifugiati nei campi profughi della regioni delle montagne Jebel Marra. Wahid insiste che i colloqui di pace non possono avere luogo prima che le milizie Janjaweed siano disarmate.

Il Justice and Equality Movement (Jem) è stato fondato da musulmani del Darfur sostenitori del leader integralista Hassan al-Turabi. Al-Turabi, protagonista insieme al presidente al-Bashir del golpe del 1989 che rovesciò il governo di Sadeq al-Mahdi (regolarmente eletto), nel 1999 venne imprigionato con il sospetto di avere cospirato proprio contro al-Bashir.

Il leader di Jem, Khalil Ibrahim Muhammad, è uno dei seguaci di al-Turabi ed è anche noto per aver pubblicato nel 2000 un libro intitolato “The Black Book” nel quale accusa le tribù nilotiche arabe di avere una rappresentanza sproporzionata in tutte le posizioni-chiave del potere governativo e nell’amministrazione del paese.

Il 23 febbraio 2010, a Doha, è stato siglato un accordo di cessate il fuoco tra il governo di Khartum e il Jem, che potrebbe aprire la strada a negoziati per la conclusione di un vero e proprio accordo di pace.

Dall'acuirsi del conflitto agli accordi di Abuja

Per molti anni il Darfur è stato teatro di un conflitto sotto traccia, caratterizzato da scontri occasionali tra gruppi tribali e raid nei villaggi.

All’inizio del 2003 l’SLM/A ha iniziato una serie di attacchi contro obiettivi governativi per protestare contro la passività del governo nel proteggere gli agricoltori che con le loro famiglie che popolavano i villaggi del Darfur. Ben presto anche il Jem si è unito alla lotta armata.

Falliti gli iniziali tentativi di risolvere la situazione attraverso il dialogo, il governo sudanese decise, già a partire dal mese di marzo 2003 di rispondere alla ribellione con l’uso della forza, anche attraverso bombardamenti aerei su città e villaggi. Contestualmente cominciarono ad operare le milizie locali dei Janjaweed, che si resero responsabili di feroci attacchi contro la popolazione civile.

Secondo Amnesty International la maggiore responsabilità delle atrocità sui civili ricade proprio sui Janjaweed, anche se nessuno dei contendenti ha saputo garantire le misure minime di protezione nei confronti della popolazione.

 

Con la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU 1564 del 14 settembre 2004 è stata decisa la creazione di una Commissione di inchiesta, presieduta da Antonio Cassese, con il compito di indagare sulle denunce di violazione di diritti umani, di determinare se fosse o meno ravvisabile l’ipotesi di genocidio e di identificare i responsabili di tali crimini.

Nel suo primo rapporto (1° febbraio 2005) la Commissione stimava l’esistenza di 1,65 milioni di sfollati interni e di 200mila rifugiati in Ciad, e testimoniava della distruzione su vasta scala di villaggi in tutti e tre gli stati che compongono il Darfur.

La Commissione concludeva inoltre che il Governo del Sudan non stava perseguendo una politica di genocidio nonostante la violazione di diritti umani perpetrata dalle truppe del Governo e dalle milizie sotto il suo controllo e riconosciuta dal Rapporto stesso.

 

Nonostante la firma dell’accordo di cessate-il-fuoco di N’djamena (aprile 2004) e il dispiegamento della missione di peacekeeping dell’Unione Africana, AMIS, gli attacchi e le violenze sui civili (uccisioni, distruzione di case e villaggi, stupri di massa, torture, come riportato da numerose ONG quali, ad esempio, Human Rights Watch) sono continuate a lungo. Nel marzo 2005 il Consiglio di sicurezza dell’Onu decise di deferire la situazione del Darfur al Tribunale Penale Internazionale che, in seguito, ha emesso i mandati di arresto per il ministro Ahmed Harun e il comandante Janjaweed Ali Kushayb, dei quali il governo del Sudan ha sempre rifiutato la consegna. 

Nonostante la disponibilità più volte manifestata dalle Nazioni Unite, il governo del Sudan ha inizialmente opposto un diniego all’accoglimento nel Darfur di una missione di pace condotta dall’ONU, così come ha a lungo vietato l’ingresso ad organizzazioni umanitarie nella regione.

Il 5 maggio 2006 ad Abuja (Nigeria) è stato raggiunto un accordo (Darfur Peace Agreement - DPA), con la mediazione dell’Unione africana, tra il Governo sudanese e la fazione dell’SLM/A di Minni Minawi. Il punto debole dell’accordo, che ne ha in seguito rivelato tutta la fragilità, stava però proprio nella mancanza di assenso degli altri due movimenti della guerriglia: Abdel Wahid chiedeva una maggiore partecipazione dell’SLM/A nell’attuazione degli accordi sulla sicurezza oltre a mostrare insoddisfazione con le previsioni del DPA circa la rappresentanza politica e il fondo per le ricompense alle vittime; il Jem sosteneva che i protocolli sulla ripartizione del potere e della ricchezza avrebbero mantenuto la situazione di sostanziale iniquità che aveva dato origine alle ribellioni del 2003.

L'intervento dell'ONU

Il 31 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato la risoluzione 1706 che prevedeva l’espansione della consistenza e del mandato della UNMIS, inizialmente (marzo 2005) insediata per il monitoraggio sul rispetto dell’Accordo di pace globale tra il governo sudanese e il movimento di liberazione del sud del Paese guidato da John Garang. L’espansione del mandato della UNMIS aveva lo scopo di assicurare anche nel Darfur una presenza internazionale quanto mai necessaria. La risoluzione precisava tuttavia che le truppe (fino a 22.500 uomini) non sarebbero state dislocate senza un esplicito assenso da parte del governo di Khartoum (il mandato di UNMIS è stato da ultimo esteso al 30 aprile 2010 risoluzione del CdS n. 1870 del 20 maggio 2009).

Un peggioramento della situazione si è verificato verso la fine del 2006 quando, nella corsa all’accaparramento delle terre, si sono moltiplicati gli attacchi ai civili e ai cooperanti. Il 2006 segna peraltro anche l’inizio di sanguinose incursioni dei Janjaweed nel confinante Ciad a danno non solo dei rifugiati, ma anche di cittadini ciadiani appartenenti alle medesime etnie dei rifugiati

Dopo mesi di violenze (tra truppe governative e ribelli, ma anche tra diversi gruppi di ribelli) il governo di Khartum ha accettato il dispiegamento in Darfur di una forza ibrida AU/UN, UNAMID, autorizzata dal CdS con la risoluzione 1769 del 31 luglio 2007. UNAMID ha dunque preso il posto della missione dell’Unione africana dal gennaio 2008. Le resistenze del governo sudanese non sembrano però ancora del tutto superate: l’ONU accusa infatti il Sudan di continuare a boicottare la missione di peacekeeping che, nel 2009, per ben 42 volte si è vista impedire operazioni sul campo.

A prescindere dal governo sudanese, occorre tuttavia considerare che il contingente di UNAMID – che prevedeva una forza di 26mila uomini – non è mai stato interamente schierato a causa dell’indisponibilità di alcuni dei paesi contributori.

Si ricorda che, con il decreto legge 1° gennaio 2010, n. 1, il contributo italiano alla missione UNAMID è aumentato da 3 a 103 unità.

Le posizioni della comunità internazionale

Diverse ed articolate le posizioni all’interno della comunità internazionale con riguardo alla possibilità di aggravare le sanzioni nei confronti del Sudan e al mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del presidente al-Bashir.

Nel mese di luglio 2008, il Procuratore generale della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, aveva fatto richiesta di arresto del Presidente sudanese Bashir con le accuse di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Darfur. Il 4 marzo dell’anno successivo la Corte penale internazionale ha accolto la richiesta di mandato d'arresto per crimini di guerra nel Darfur escludendo però l'accusa di genocidio. Il 3 febbraio 2010 la Camera d'appello della Corte ha però accolto l'appello del procuratore Luis Moreno Ocampo contro la sentenza del 4 marzo 2009 cosicché la Corte dovrà riesaminare le prove portate dalla procura per sostenere l'accusa di genocidio [1].

 

La Cina si è invece ripetutamente dichiarata contraria alla richiesta di sanzioni contro il Sudan, pur asserendo di aver esercitato ripetute pressioni su Khartoum per un approccio più flessibile alla crisi in Darfur. Nonostante le insistenze delle diplomazie USA e britannica, anche la Russia, il Sudafrica e l’Egitto si sono dichiarate contrarie a un regime sanzionatorio contro il Sudan.

Va registrato un cambiamento, intervenuto nello scorso mese di ottobre, nella strategia dell’amministrazione americana verso il Sudan: se da un lato la Casa Bianca ha rinnovato per un anno le sanzioni contro il governo di Khartum, dall’altro il presidente Obama ha offerto una serie di incentivi se il Sudan darà prove concrete di collaborazione per la soluzione del problema del Darfur.

 

La richiesta di arresto del presidente sudanese ha suscitato la generale contrarietà del mondo arabo, che non accetterebbe di buon grado una svolta in direzione della politicizzazione della giustizia internazionale. Contrarie dunque l’OCI (Organizzazione per la Conferenza Islamica) e la Lega Araba. Le diplomazie arabe non hanno mancato di ricordare il contributo dato da Bashir per la sconfitta dei movimenti integralisti islamici in Sudan e l’allontanamento di Bin Laden dal Paese, che ne era divenuto negli Anni Novanta la principale base.

Il Presidente egiziano Mubarak ha espresso la preoccupazione che la richiesta di arresto del presidente sudanese possa aggravare la situazione in Darfur e nel Sudan in generale e rendere più difficoltoso anche lo schieramento della forza ibrida Unamid.

Anche la Cina e l’Unione Africana – che ha promesso un’inchiesta indipendente sulla questione - hanno criticato con durezza l’iniziativa della CPI.

Da rilevare la posizione della Turchia che, alle suddette motivazioni contro l’arresto di al-Bashir, aggiunge anche la denuncia del mancato supporto di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, (del quale, peraltro, la Turchia è membro non permanente per tutto il 2010. La Turchia, inoltre, nonostante le pressioni dell’Unione europea, non ha mai sottoscritto lo Statuto di Roma, che disciplina le funzioni e definisce le competenze della Corte penale internazionale [2].

La crisi umanitaria

E’ difficile calcolare esattamente le conseguenze della crisi: secondo alcune fonti (Nazioni Unite) avrebbe prodotto fino ad oggi circa 2,7 milioni di sfollati e rifugiati (in particolare nel Ciad, dove si contano circa mezzo milione di rifugiati), nonché tra le 180 e le 300 mila vittime; la maggior parte delle ONG stima invece un numero totale di morti vicino ai 400.000, su una popolazione di circa 6 milioni di persone. Secondo il governo sudanese, invece, il conflitto del Darfur sarebbe terminato e avrebbe prodotto “solo” 10mila morti.

Il coordinamento degli aiuti umanitari è affidato all’OCHA (United Nations Office for the coordination of humanitarian affairs).

L’espulsione di 13 organizzazioni umanitarie (tra cui Oxfam, Save the Children e due sezioni di Medici senza frontiere) seguita al mandato d’arresto emesso dalla Corte Internazionale Penale nei confronti di al-Bashir sta gravemente mettendo a rischio la possibilità di far giungere alla popolazione gli aiuti essenziali. 

L’ultimo rapporto di Human Rights Wach, relativo all’anno 2009, afferma che donne e ragazze sfollate continuano a subire violenze sessuali nelle città, nei villaggi e nei campi profughi di tutto il Darfur e che tali atti sono perpetrati da soldati dell’esercito regolare, dalle milizie alleate e dai ribelli, oltre che da criminali comuni. Tra i mesi di aprile e giugno 2009, gli osservatori delle Nazioni Unite hanno registrato 21 casi di violenza sessuale che hanno coinvolto 54 vittime, 13 delle quali al di sotto dei 18 anni; la maggior parte delle vittime ha affermato che i violentatori indossavano una divisa militare. HRW sostiene che tali numeri rappresentino solo una piccola parte dei casi di violenza effettivamente verificatisi.

HRW e UNAMID riferiscono di arresti indiscriminati di persone ritenute favorevoli al mandato di arresto contro al-Bashir o sospettate di aver fornito informazioni ad interlocutori internazionali. Inoltre, sospetti ribelli sarebbero stati condannati a morte a seguito di processi condotti da tribunali speciali non ritenuti in grado di offrire il minimo delle garanzie previste dagli standard internazionali.

E’ tuttora sconosciuta la sorte di circa 200 persone scomparse nei giorni seguenti al violentissimo attacco condotto dal Jem contro la città di Omdurman il 10 maggio 2008.

La situazione continua ad essere pericolosa sotto molteplici aspetti: scarsità di acqua e di cibo, strutture igienico sanitarie quasi inesistenti e controlli per la sicurezza inefficaci. Come riferisce il rapporto 2009/10 di Italians for Darfur il ruolo della missione UNAMID si sta rivelando inadeguato “esponendo lo stesso personale Onu ad elevati rischi”; dall'inizio della missione, come è indicato nel sito di UNAMID, sono morti 55 peacekeepers.

Prospettive

Come si è detto più sopra, il governo sudanese ha siglato il 23 febbraio un accordo di cessate-il-fuoco con il più importante gruppo di ribelli, il Jem. L’accordo, che dovrà essere finalizzato entro il 15 marzo a Doha (evento non del tutto scontato), prevede fra l’altro che il Jem deponga le armi e si trasformi in un partito politico, al quale saranno offerte posizioni all’interno del governo.

La firma di tale accordo sarebbe stata possibile grazie ad una ripresa di colloqui tra Sudan e Ciad, il quale è sospettato di avere massicciamente aiutato il Jem nel corso degli ultimi anni. Non è facile prevedere, allo stato, la reale portata di tale intesa: essa non solo esclude l’altro maggiore gruppo di ribelli - l’SLM/A di Abdel Wahid – ma potrebbe suscitare (per alcune concessioni che l’accordo definitivo dovrebbe includere) il risentimento dell’SLM/A di Minni Minawi, firmatario dell’Accordo di Abuja del 2006 non altrettanto favorevole al gruppo di ribelli.

Secondo alcuni analisti, la mossa di al-Bashir nei confronti del Jem farebbe parte di una strategia di riduzione delle ostilità sia interne sia internazionali, anche in vista delle elezioni legislative e presidenziali del prossimo aprile, le prime in 24 anni, nelle quali al-Bashir intende candidarsi. 

Secondo molti osservatori, le elezioni di aprile - che si sarebbero dovute svolgere nel 2009 - data la situazione politica interna rischiano di non condurre alla formazione di un governo legittimo e pienamente democratico. Intanto, sullo sfondo sembrerebbero in corso negoziati fra le maggiori forze politiche in campo per giungere alla riconferma al potere del partito di al-Bashir, il Partito del Congresso Nazionale (NCP), in cambio dello svolgimento (nel 2011) del referendum per l’indipendenza del Sud Sudan, cui l’unica altra forza in competizione, l’SPLM (Movimento per la liberazione del popolo sudanese), attribuisce importanza primaria.

 


  • [1] Secondo il Procuratore sarebbe stato messo in atto dalle autorità sudanesi, con l’alibi del contrasto alla guerriglia scatenatasi in territori da sempre emarginati dalla leadership araba del Paese, un piano per un vero e proprio genocidio delle popolazioni locali, attuato in gran parte non con l’assassinio diretto, ma mediante la fame, le malattie e gli stenti conseguenti alla loro riduzione allo status di profughi. In tutta la vicenda al-Bashir porterebbe - secondo il Procuratore - una totale responsabilità, in ragione del regime autoritario da lui costruito.
  • [2] Nemmeno USA Russia e Cina hanno mai aderito alla CPI, della quale fanno parte ad oggi 110 paesi.