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La crisi nella Repubblica democratica del Congo

Il conflitto nella Repubblica democratica del Congo (RDC) si inserisce nel più ampio scenario di crisi della Regione dei Grandi Laghi dove, alla vicenda dell’ex Zaire, si intrecciano quelle di Ruanda e Burundi.

La pericolosa instabilità della situazione congolese, già connessi al percorso di state building post-coloniale, è peggiorata con il genocidio del Ruanda del 1994 e con la guerra civile che nel 1996 ha portato al potere il generale Laurent-Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente Joseph Kabila. Il conflitto, con alterni momenti di recrudescenza, dura da quel momento e si configura, allo stesso tempo, sia come una guerra civile tra le diverse etnie congolesi che lottano per il potere sia come uno scontro per il controllo delle enormi risorse economiche, che va ben al di là dei confini nazionali.

A poco sono serviti gli accordi di pace del dicembre 2002 che hanno messo ufficialmente fine alla guerra nel Congo - conosciuta con il nome di “Prima guerra mondiale africana” poiché coinvolgeva anche l’Angola, la Namibia, il Ruanda, l’Uganda, e lo Zimbabwe - e la prima elezione democratica con cui è divenuto presidenteJoseph Kabila nel 2006: le violenze ed il conflitto sono proseguiti, particolarmente nelle province orientali, causando un numero impressionante di vittime, calcolato in più di due milioni a partire dal 2003. Secondo un’indagine del gennaio 2008 condotta dall’International Rescue Committee, ogni giorno muoiono nella RDC circa un migliaio di persone (5,4 milioni dal 1998) per cause correlate alla guerra, prevenibili o curabili, come malaria, diarrea, polmonite e malnutrizione.

Il conflitto e la crisi umanitaria

A metà del 2007, la situazione di “bassa conflittualità” nel Kivusettentrionale tra le truppe governative (FDRC) e quelle dall'ex generale Laurent Nkunda, Tutsi congolese di lingua ruandese, leader del Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP) ha subito una rilevante escalation esacerbando la già forte animosità fra Tutsi, Hutu ed altri gruppi etnici. Da quel momento, sono state migliaia le morti provocate dagli scontri e decine di migliaia (forse un milione) gli sfollati: l’UNICEF sostiene che nei mesi da agosto a novembre del 2008 sono state più di252mila le persone costrette a sfollare, a conferma del fatto che il conflitto in corso danneggia soprattutto i civili. Il Congo è adesso teatro della più grande crisi umanitaria a livello mondiale, superando in questo triste primato anche la catastrofe del Darfur.

Ma il conflitto non è limitato al solo Nord Kivu, dove si confrontano l’esercito regolare - sostenuto da circa 3.500 miliziani Mai-Mai e dai ribelli Hutu ruandesi dell’FDLR (Democratic Liberation Forces of Rwanda) - da un lato, e CNDP (da 4 a 6.000 uomini), sostenuto dal Ruanda, dall’altro. Le truppe governative, infatti, combattono i ribelli dell’FPJC (Front Populaire pour la Justice facente riferimento all'etnia Lendu) nel distretto dell’Ituri (la cui capitale, Bunia, è un importante centro minerario e base per i peacekeepers delle Nazioni Unite) e a Nord della provincia dell’Orientale, i guerriglieri ugandesi dell’LRA (Uganda's Lords Resistance Army).

Dopo i violenti scontri della fine del 2007, quando le truppe regolari della RDC, affiancate da quelle dell’FDLR e dei Mai-Mai, uscirono sconfitte dalle milizie di Nkunda, nonostante l’enorme inferiorità numerica di queste ultime, è stato firmato un accordo di pace (Goma, 23 gennaio). Tuttavia, a causa del rifiuto del governo di Kinshasa di trattare direttamente con i ribelli del CNDP – pretendendo di negoziare solo con i rappresentanti dell’ONU – l’accordo di pace e il previsto cessate il fuoco hanno avuto breve durata.

Dalla fine di agosto la guerra è ripresa con grande violenza, con incommensurabili danni alla popolazione civile, inflitti da entrambi i contendenti: le Nazioni Unite hanno lanciato il 31 ottobre un allarme umanitario dopo che i ribelli avevano saccheggiato e dato alle fiamme perfino i campi profughi, costringendo ad un nuovo esodo almeno 50 mila persone a Rutshuru, a nord di Goma, dove si erano attestati; sull’altro versante, il portavoce di MONUC, ha denunciato saccheggi ed estorsioni contro la popolazione civile nella regione di Kanyabayonga, nella regione del Nord Kivu, ad opera delle Fardc, le forze armate congolesi.

Inoltre, in un Rapporto sull’uso della violenza e dell’intimidazione per eliminare gli oppositori politici da parte del governo, pubblicato il 25 novembre scorso, l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha denunciato la repressione brutale seguita alle elezioni del 2006 nella quale sono stati uccisi almeno 500 dissidenti, ed oltre un migliaio imprigionati, la maggior parte dei quali sottoposti a torture.

Anche la situazione sanitaria sta peggiorando: secondo il portavoce dell'OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari) i casi accertati di colera nell'area intorno a Goma e in alcune zone del Sud Kivu erano calcolati intorno ai 200 fino al mese scorso, ma l’epidemia si sta diffondendo velocemente, come è riportato dall’organizzazione Medecins sans Frontières..

Secondo quanto denuncia l’ONG Save the Children, si diffonde anche un altro grave fenomeno, quello del reclutamento dei bambini-soldato, addetti al trasporto delle armi; è stato inoltre accertato che gli stessi bambini sono talvolta fatti oggetto di violenze sessuali.

Una missione appena conclusa da Amnesty International nel Nord Kivu, ha confermato che sono in corso in quella provincia crimini di guerra ed altre gravi violazioni dei diritti umani e ha denunciato l'impossibilità per MONUC di verificare che le forniture militari provenienti da Sudan, Cina e altri Paesi e destinate all'esercito regolare, giungano effettivamente nelle mani di quest'ultimo. Per questa ragione Amnesty International ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il rafforzamento dell'embargo sulle armi.

L'intervento della Comunità internazionale

La comunità internazionale si è mobilitata per cercare di porre rimedio alla situazione. Il 7 novembrescorso si è svolto a Nairobi un Vertice internazionale di emergenza, al quale hanno preso parte, tra gli altri, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il commissario dell’Unione europea, Louis Michel ed i presidenti del Congo, Kabila, e del Ruanda, Kagame, accusato di sostenere i ribelli di Nkunda. Il comunicato finale chiedeva un cessate il fuoco immediato da parte di tutti i gruppi armati e delle milizie che si trovano nel Kivu Settentrionale, nonché il rispetto di tutti gli accordi già esistenti per garantire la pace. Molto negativa la prima reazione delle milizie ribelli, che da tempo rivendicavano la trattativa diretta con il governo e che avevano già proclamato unilateralmente un cessate il fuoco, il 29 settembre, dopo quattro giorni di aspri combattimenti, per “non gettare nel panico la popolazione di Goma e coloro che si trovano nei campi profughi negli immediati dintorni della citta”. I ribelli del CNDP, in seguito hanno sempre sostenuto di non avere mai violato il cessate il fuoco da loro proclamato, se non per difendersi dagli attacchi delle truppe governative.

Anche i Paesi della SADC (Comunità per lo sviluppo dell'Africa australe) riuniti a Johannesburg il 9 novembre, hanno dichiarato la loro disponibilità ad inviare truppe nella Repubblica democratica del Congo per ripristinare la pace, senza schierarsi a favore di alcuno ed anzi affermando di voler intervenire contro gli atti violenti provenienti da qualsiasi gruppo. In realtà, è noto che lo Stato confinante più influente in questa situazione, l'Angola, è apertamente schierato con il regime di Kabila, in quanto ha come interesse primario quello di assicurarsi buoni rapporti con un paese che non fornisca rifugio ai dissidenti angolani. L'Angola teme infatti che esponenti dell'UNITA (Unione per la completa indipendenza dell'Angola), il partito di opposizione, o i ribelli della provincia di Cabinda, ricca di petrolio, possano usufruire di un'area di retroguardia in Congo, nella quale possano nascondere i propri apparati militari, fuori dal controllo del regime di Luanda.

L’intervento di truppe angolane al fianco di quelle congolesi è stato più volte segnalato (oltre che minacciato dal governo di Kinshasa), anche da osservatori dell’ONU sotto copertura, dato che la posizione ufficiale delle Nazioni Unite nega una tale presenza. Anche la presenza di truppe regolari dello Zimbabwe è stata segnalata al fianco dell’esercito governativo, al pari di quella ruandese dalla parte dei ribelli tutsi. Per questa ragione non sarebbe più corretto parlare di guerra civile, ma di crisi panafricana, e sono in molti a temere che la RDC si trovi ormai sull’orlo della Seconda guerra mondiale africana.

MONUC e le missioni dell'UE

In seguito al Vertice del 7 novembre, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha deciso (risoluzione 1843 del 20 novembre) il dispiegamento temporaneo - fino alla fine dell’anno - di una forza aggiuntiva di 2.785 militari e di 300 unità di polizia che è andata a rafforzare la missione dell’ONU, MONUC, nella quale erano già impiegati 17.000 militari.

MONUC è la più grande missione mai messa in campo dalle Nazioni Unite. La risoluzione, presentata dalla Francia e votata da tutti i membri del CdS, è volta ad arginare un ulteriore deterioramento del conflitto e a far fronte all’emergenza umanitaria. I ribelli del CNDP, tuttavia, hanno criticato duramente il dispiegamento di altre truppe delle Nazioni Unite, dichiarando che i caschi blu non riusciranno mai a portare la pace nella regione. Nel Vertice di Nairobi, i capi di Stato africani avevano chiesto all’ONU un potenziamento della missione MONUC anche attraverso una modifica del mandato, affinché potesse svolgere funzioni di peacemaking: MONUC era stata infatti accusata dal governo congolese di avere assistito inerte ai massacri commessi dai ribelli di Nkunda.

L'Unione europea, dal canto suo, nel Consiglio affari esteri dell’8 dicembre, ha deciso di inviare aiuti supplementari al Congo per di 45,6 milioni di euro ma, nonostante l’invito del segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon, ad inviare una missione dell’UE di collegamento con MONUC, per ora l’Europa ha escluso il dispiegamento di proprie truppe. Svezia, Belgio, Irlanda e Repubblica ceca sarebbero favorevoli all'invio di soldati europei in RDC, mentre Germania e Regno Unito si oppongono con forza, posizione condivisa anche dal presidente Sarkozy, che sostiene il rafforzamento di MONUC e il ricorso a forze regionali. Analoga posizione è sostenuta dall’Italia che, con il Ministro degli esteri Frattini, ha fatto sapere che l’Unione europea, prima di decidere un eventuale invio di uomini in Congo, deve avviare una riflessione sulle ragioni della sostanziale scarsa utilità di MONUC, che andrebbe potenziata, e sulla necessità di avere un mandato del Consiglio di sicurezza dell'ONU.

Da tempo, tuttavia, l’Unione europea ha dispiegato nella RDC due missioni di assistenza:

la missione EUSEC Congo, con sede a Kinshasa, che ha il compito di assistere il Governo del Paese nella promozione - nel settore della sicurezza - di politiche compatibili con i diritti umani e la legislazione umanitaria internazionale, con gli standard democratici, con i principi della buona gestione della cosa pubblica, con la trasparenza e con l’osservanza dello stato di diritto;

la missione EUPOL RD Congo, che collabora per la riforma del settore della sicurezza, nel campo della polizia e delle sue relazioni con la giustizia, con un’azione di controllo, di guida e di consulenza, senza poteri esecutivi.

La mediazione dell'ONU

Nel mese di novembre è cominciata anche la mediazione tra le parti ad opera dell’expresidentenigerianoOlusegun Obasanjo, inviato speciale dell’ONU per il Congo.

Il Piano delle Nazioni Unite presentato dal mediatore al presidente Kabila ed a Laurent Nkunda prevedeva un cessate il fuoco immediato, l’apertura di un corridoio umanitario e la creazione di un organismo tripartito – formato da rappresentati dell’ONU, del Governo congolese e dei ribelli - per vigilare sul rispetto della tregua.

Nkunda, che ha accettato il Piano, ha ribadito di voler incontrare direttamente Kabila e ha fatto richieste a livello politico ed economico – ragionevoli secondo Obasanjo - chiedendo tra l’altro il rispetto della minoranza Tutsi e l’integrazione dei suoi uomini nell'esercito regolare della RDC.

Dopo il reiterato rifiuto da parte di Kabila a condurre negoziati direttamente con Nkunda, una delegazione del governo di Kinshasa e una del Congresso nazionale per la difesa del popolo si sono incontrate, per la prima volta, l’8 dicembre.

Ma il dialogo tra i ribelli del CNDP e il governo del presidente Kabila, che doveva innanzitutto formalizzare l'ancora fragile tregua nella provincia orientale del Nord Kivu e porre fine alla grave emergenza umanitaria ha presto subito una battuta di arresto, con la dichiarazione dei seguaci di Nkunda di voler interrompere i colloqui. La ragione di tale grave decisione risiede nelle dichiarazioni di Obasanjo – ritenuta di parte - secondo la quale i ribelli vogliono estendere le trattative a tutta la RDC, mentre dovrebbero essere limitate al Nord Kivu, oltre al fatto che i portavoce non avrebbero i poteri per chiudere la trattativa.

I colloqui sono tuttavia ripresi ed è previsto un nuovo incontro il 17 dicembre.

Le cause del conflitto

Le cause del conflitto sono molteplici e strettamente interconnesse. Come già accennato, tuttavia, esso è da addebitarsi prevalentemente alle ingenti ricchezze minerarie di cui dispone il Paese, e in particolare la regione del Nord Kivu.

Si tratta non solo di uranio, oro e diamanti ma, soprattutto di coltan (columbite e tantalite), indispensabile per il funzionamento di telefonini gsm, computer e per la componentistica aeronautica. Tali ricchezze vengono saccheggiate dai seguaci di Nkunda – ma anche dai Mai-Mai – e trasportate in Ruanda, da dove vengono poi esportate verso il mondo occidentale, con un giro di affari di milioni di dollari.

Accanto alle motivazioni di carattere economico, ed intrecciate con esse, quelle riguardanti il quadro estremamente frastagliato di etnie e nazionalità che, a loro volta si sovrappongono al problema dell’integrità territoriale costantemente minacciata dai paesi confinanti che ambiscono allo sfruttamento delle ricchezze del Congo.

I Tutsi di Nkunda chiedono la revisione dei contratti minerari (firmati per lo più con multinazionali occidentali e cinesi) e mirano alla creazione di uno stato federale che lasci il 60 per cento delle ricchezze alla provincia del Nord Kivu.

I Congolesi ruandofoni rappresentano meno del 5 per cento della popolazione del Paese (60 milioni di abitanti) e vivono per la maggior parte nelle due Province orientali del Nord e del Sud Kivu. I Tutsi, a loro volta, costituiscono una piccola parte di questo gruppo. Nonostante l’esiguità del loro numero, i Tutsi congolesi hanno avuto un ruolo molto significativo nella vita politica della RDC negli ultimi 15 anni, soprattutto grazie al sostegno del Ruanda che, dal canto suo, afferma il diritto di difendere il proprio territorio da una possibile aggressione da parte degli Hutu. La presenza delle milizie Hutu dell’FDLR (le truppe ribelli di etnia Hutu rifugiatesi in Congo dopo il genocidio del 1994) al confine tra i due Paesi, tuttavia, è ormai residuale e non sufficiente a costituire una vera minaccia per l’esercito ruandese, anche se, di recente, la sua attività nella zona del Kivu Nord è stata nuovamente segnalata da pesanti aggressioni compiute ai danni di comunità di profughi. Molti analisti internazionali sottolineano quindi una sorta di “eccesso di legittima difesa” da parte del Ruanda che pretende di risolvere il problema della sua sovrappopolazione, che insiste su un territorio abbastanza limitato, occupando una parte del territorio congolese.

Accanto al conflitto in atto nel Nord-Kivu, il Governo di Kabila è messo in crisi anche dalla grave congiuntura economica che sta attraversando la RDC, dove il 75% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

La Banca centrale congolese (BCC) ha comunicato il 12 dicembre che tra luglio e ottobre si è registrata una crescita negativa pari a -2,7%, e ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita per il 2008. Dalla scorsa estate, il rame ha perso il 75% del suo valore, i diamanti il 40% e il cobalto l'80%. Il crollo dei prezzi è intervenuto proprio nel momento in cui il governo si accingeva a rinegoziare i contratti assegnati nel 2000 nel settore minerario.