L'inizio del 2011 ha visto in tutta l'Africa settentrionale il verificarsi di una serie di eventi tali da far pensare a una di quelle fiammate di carattere insurrezionale finora, si credeva, riferibili solo alla storia d'Europa. Oltre tutto, il carattere inatteso degli eventi in questione si correla all’impressione largamente condivisa secondo la quale i popoli arabi difficilmente avrebbero dato corso a rivolte su larga scala, sia in ragione della grande forza comunitaria unificante dell'Islam nei singoli Stati e a livello del intera nazione araba, sia, soprattutto, per la forza degli apparati repressivi dei vari paesi e per l'arretratezza delle rispettive società civili. Il presente del Maghreb e di parte essenziale del Medio Oriente si sta incaricando di fare giustizia di queste analisi, evidentemente oramai superate dalla maturazione di fattori nuovi in tutta la realtà araba, con importanti distinzioni tra paese e paese, dalle quali dipende senza dubbio l'evoluzione nei prossimi mesi.
Tornando solo per analogia al paragone fra i sommovimenti in corso nell'Africa settentrionale e alcuni momenti della storia europea, va rilevato che anche nel Maghreb l'innesco è stato fornito dalla ribellione contro l’aumento dei prezzi di alcuni generi alimentari di base - questa fattispecie di rivolta vanta peraltro importanti precedenti nella regione -, a partire dall'Algeria, dove i moti di protesta sono iniziati già nella prima settimana del 2011, partendo dalla capitale ed estendendosi ad altre importanti città del paese, con scontri assai violenti tra dimostranti e forze dell'ordine. Quasi subito analoghe manifestazioni, caratterizzate anche da alcuni tentativi di suicidio come forma estrema di protesta, sono iniziate nella vicina Tunisia – dove in dicembre si era verificato in una città centrale del paese il suicidio per protesta di un giovane laureato disoccupato, Mohammed Bouazizi, cui la polizia aveva impedito anche il piccolo commercio di verdure che costituiva il suo precario lavoro.
Mentre in Algeria, dopo aver raggiunto una notevole intensità con la morte di tre manifestanti e un centinaio di feriti, la rivolta sembrava rientrare, anche perché il sistema economico dirigista del paese - oltretutto ricchissimo di petrolio - consentiva al governo di adottare alcune misure immediate per attenuare l'emergenza alimentare, è stato in Tunisia che i moti hanno assunto un carattere insurrezionale, coinvolgendo immediatamente anche la capitale. Se non è certo possibile ad alcuno sostenere di aver previsto gli eventi tunisini, è possibile post hoc abbozzare uno schema di comprensione dei medesimi. Nel caso dello Tunisia non si tratta certo del più arretrato dei paesi del Nord Africa, bensì di quello più integrato con l'economia europea, con importanti investimenti stranieri e una fiorente economia turistica, e con un livello di istruzione inusuale nel Nord Africa. A fronte di questa situazione economica - della quale però sono stati a lungo sottovalutati gli squilibri regionali, poiché i semi dello sviluppo sono stati gettati solo nelle zone costiere - la Tunisia è divenuta progressivamente, dopo la presa del potere da parte di Ben Alì nel 1987, uno Stato fortemente autoritario, con elevati livelli di corruzione e una progressiva concentrazione di ricchezza nelle mani del clan familiare della seconda moglie di Ben Alì, Leila Trabelsi. Per quella eterogenesi dei fini che spesso affligge anche governi più meritevoli di quello tunisino, la diffusione massiccia dell'istruzione ha fatto sì che un gran numero di giovani tunisini, ormai capaci di analisi approfondite e di servirsi dei più moderni mezzi di comunicazione, si sia trovato privo di prospettive di inserimento nel mercato del lavoro nazionale, largamente al di sotto quanto a effettiva necessità di lavoratori istruiti. Si incontra qui un fattore di carenza redistributiva abbastanza comune nei paesi arabi del Nord Africa, dove la concentrazione sostanziale del potere in ristrette élites provoca a loro favore elevatissimi livelli di consumo di generi di lusso, piuttosto che una ricaduta su più larghi strati della popolazione, che rimane praticamente priva anche dei mezzi finanziari più modesti per intraprendere e creare posti di lavoro. Probabilmente, anche il restringersi negli ultimi anni della valvola di sfogo dell’emigrazione verso l’Europa ha contribuito all’incubazione della rivolta in Tunisia e nell’intera area nordafricana, così come il fallimento delle politiche di cooperazione euromediterranea inaugurate a Barcellona nel 1995, che dopo tre lustri sono approdate addirittura a una regressione nei volumi di interscambio commerciale tra l’Europa e la sponda meridionale del Mediterraneo.
In ogni modo, nell'arco di pochissimi giorni la Tunisia si è trovata in una situazione di rivolta generalizzata, con numerose vittime degli scontri con le forze dell'ordine e azioni disordinate di attacco contro diversi centri e simboli del potere costituito: dopo un primo tentativo di appello alla popolazione, credendo di poterne ancora recepire alcune istanze, già il 14 gennaio si verificava la caduta di Ben Alì, riparato con la moglie in Arabia Saudita. Il primo ministro di Ben Alì, Mohammed Ghannouci, assumeva la carica di presidente ad interim – poi assunta dal presidente del Parlamento Foued Mebazaa -, e gli venivano attribuiti pieni poteri per la formazione di un governo di unità nazionale per convocare entro due mesi le elezioni presidenziali. Tali clamorosi sviluppi non placavano immediatamente la piazza, e mentre proseguivano manifestazioni disordinate, si verificavano per contro alcune scorribande e saccheggi da parte di esponenti delle forze dell'ordine fedeli a Ben Alì. Iniziavano inoltre significativi scontri tra diversi reparti delle forze dell'ordine: in effetti, in un primo tempo si era temuto che la numerosissima polizia tunisina, architrave del passato regime repressivo e preponderante rispetto al piccolo esercito, potesse tentare di rovesciare la situazione. Nei giorni successivi, tuttavia, emergeva progressivamente il ruolo dell'esercito come stabilizzatore della situazione, ben visto dai manifestanti e sostanzialmente capace di scongiurare la reazione delle forze di polizia - con l'eccezione della Guardia presidenziale, peraltro asserragliata nel suo santuario cartaginese (il Palazzo presidenziale). Un'altra tipica manifestazione degli eventi insurrezionali si verificava puntualmente anche in Tunisia, con rivolte nelle carceri e massicce evasioni di detenuti, molti dei quali sicuramente prigionieri politici.
Affiorava intanto tra i manifestanti il malumore per l'assetto provvisorio dei poteri successivo alla caduta di Ben Alì, giudicato troppo favorevole ad esponenti seppur moderati del passato regime: questa diffidenza costituirà il tarlo capace di provocare in pochi giorni la caduta del nuovo governo tunisino, la cui composizione era stata annunciata già il 17 gennaio, e mostrava in effetti nei Ministeri-chiave la presenza di esponenti del passato regime - accanto, peraltro, a tre esponenti dell'opposizione e a una decina di ministri indipendenti esponenti di vari corpi della società. Già il 18 gennaio il potente sindacato tunisino UGTT, che aveva avuto un ruolo importante nelle manifestazioni dei giorni precedenti, revocava l'appoggio al nuovo governo, ritirando i tre ministri di sua attribuzione – appartenenti peraltro significativamente al blocco degli undici ministri del passato regime, con cui la UGTT aveva intrattenuto buone relazioni. I primi scricchiolii della nuova compagine governativa venivano accompagnati da ulteriori azioni del premier di allontanamento simbolico e sostanziale dal precedente assetto del regime, con lo scioglimento del Direttivo del Raggruppamento costituzionale democratico – il partito fulcro del regime di Ben Alì -, preannunciando l’intenzione di portare in tribunale i responsabili dei lunghi anni di repressione nel paese e procedendo alla liberazione di tutti i prigionieri politici e al riconoscimento dei partiti politici in precedenza messi al bando. Sono state inoltre avviate procedure per il blocco dei trasferimenti illegali di denaro all'estero da parte di esponenti del passato regime, oltre ad aprire un'inchiesta ufficiale per l'acquisizione illegale di beni all'estero e l’esportazione illegale di valuta, a carico degli stessi soggetti. Il 26 gennaio, su richiesta del Ministero tunisino della Giustizia, l’INTERPOL spiccava un mandato d’arresto internazionale per i medesimi reati a carico di Ben Alì, della moglie e di altri esponenti del deposto regime.
Il 17 gennaio il ministero tunisino dell'interno forniva un primo bilancio dei disordini, nel corso dei quali avevano perso la vita fino a quel momento 78 persone, con un centinaio di feriti. I danni diretti per l'economia venivano stimati in 1,6 miliardi di euro.
Emergevano intanto le prime prese di posizione a livello internazionale, con gli Stati Uniti pronti a sostenere il processo elettorale della Tunisia e l’Unione europea disponibile ad offrire a Tunisi un ampio pacchetto di misure di sostegno, in vista della concretizzazione della concessione alla Tunisia di un ulteriore rafforzamento delle relazioni con Bruxelles in virtù dell'ottenimento dello status avanzato.
Intanto a Tunisi la mobilitazione di piazza è proseguita in varie forme, addensandosi significativamente nei pressi della sede del governo, mentre proseguivano le trattative per un rimpasto dello stesso, in ragione delle numerose insoddisfazioni manifestate nel paese per la rilevante presenza di esponenti del passato regime. Il 27 gennaio si è concretizzata la soluzione, con l'appoggio del sindacato UGTT: tutti i ministri precedentemente compromessi con il regime di Ben Alì hanno lasciato i loro incarichi, ad eccezione del premier Ghannouci, rimasto a capo di una compagine di personalità indipendenti, impegnata soprattutto nella preparazione delle elezioni presidenziali.
Frattanto, dopo la fase più acuta della crisi tunisina, alcuni disordini si sono verificati anche in Algeria, dove però la forza del dispositivo di sicurezza - che si avvale dello stato d'emergenza ancora in vigore dal 1992 - ha impedito il 22 gennaio l'ulteriore diffusione della protesta.
E’ stato tuttavia l'Egitto lo scenario apparentemente più sensibile alla lezione tunisina: dopo l'autoimmolazione di un uomo, datosi fuoco il 17 gennaio davanti al palazzo del Parlamento della capitale, le opposizioni hanno organizzato per il 25 gennaio una giornata della collera, con obiettivi principali la lotta per il lavoro e per un allentamento della repressione, soprattutto mediante la fine dello stato d'emergenza, che in Egitto vige da quasi tre decenni. Da notare che, nonostante il tasso di istruzione dei giovani egiziani sia sensibilmente meno elevato di quello dei coetanei tunisini, anche in Egitto la mobilitazione contro il regime di Mubarak è apparsa sin dall'inizio guidata proprio dai giovani: anche movimenti come quello dei Fratelli musulmani, che si ritiene generalmente sia ben radicato nella società egiziana, mantiene per ora un profilo basso, sostenendo di partecipare alla mobilitazione in quanto movimento popolare, senza immaginare di poterla guidare.
La giornata della collera ha visto manifestare migliaia di persone nella capitale e in altre città, con la morte di due manifestanti a Suez e di un poliziotto al Cairo. Il giorno seguente le manifestazioni – nonostante il divieto delle autorità – sono proseguite, mentre diversi gruppi dell’opposizione hanno iniziato a coinvolgersi nelle proteste. Tra questi spicca la figura di Mohammed el Baradei, prestigioso ex Direttore dell’AIEA, leader dell'Organizzazione patriottica per il cambiamento e possibile candidato alle elezioni presidenziali del 2011: dall'estero, el Baradei ha comunicato la propria partecipazione alla preghiera del venerdì del 28 gennaio, sostenendo di voler contribuire a un movimento le cui richieste il governo non può oramai più lasciar cadere. Anche i Fratelli musulmani hanno preannunciato la partecipazione di massa dei propri esponenti alle manifestazioni del venerdì.
Il 28 gennaio cortei e manifestazioni antigovernative hanno paralizzato le principali città egiziane: nella capitale, frammezzo agli scontri, vi sono stati tentativi di bloccare el Baradei, che tuttavia non risulterebbe essere stato arrestato. Nella capitale, ad Alessandria e a Suez è stato imposto il coprifuoco tra le 18 e le 7 del mattino. La sede del Partito nazionale democratico del presidente Mubarak è stata parzialmente data alle fiamme dai manifestanti. Un altro centro degli scontri è stato quello della moschea- università di Al Azhar, il maggior centro teologico dell'Islam sunnita. Gli osservatori hanno sottolineato il fatto senza precedenti del blocco contemporaneo di Internet e delle comunicazioni cellulari in tutto il paese, mentre diversi esponenti dei Fratelli musulmani sarebbero stati arrestati dalle forze di sicurezza. Nelle strade della capitale si sono visti i primi veicoli militari. Il bilancio degli scontri nella capitale ha visto più di 800 feriti.
La protesta è dilagata negli stessi giorni anche in altri paesi: nello Yemen si è passati da una mobilitazione composta e orientata a richieste squisitamente politiche, quali una riforma elettorale e il rifiuto delle modifiche costituzionali che consentirebbero al presidente Alì Abdullah Saleh di rimanere al potere a vita; a un forte aumento della tensione dopo l'arresto di una conosciuta attivista dei diritti umani che si era posta alla testa delle manifestazioni, e che le autorità hanno prudentemente poi rilasciato. Al di là dell'effetto imitativo dei fatti tunisini, che hanno evidentemente contagiato gran parte dei paesi arabi, nelle proteste yemenite si riflette una situazione complessiva del paese sempre più precaria, con un grande aumento della povertà, spinte secessioniste e afflusso incontrollato di profughi, terroristi e pirati somali.
Anche in Giordania vi sono state il 28 gennaio manifestazioni in diverse città per protestare contro il carovita e le politiche del governo, con espliciti riferimenti alle rivolte tunisina ed egiziana.
L’insieme degli eventi descritti in precedenza richiederà indubbiamente approfondite analisi e interpretazioni, essendo i medesimi peraltro tuttora in svolgimento. Più che formulare incaute previsioni appare al momento possibile solo focalizzare l'attenzione su analogie e differenze dei diversi scenari nazionali nordafricani e mediorientali sinora coinvolti, onde desumerne almeno una bussola.
Lo scenario algerino, che sembra aver dato il “la” ai successivi sviluppi, è caratterizzato da una forte compenetrazione dell'elemento militare con i vertici politici, che vige sin dai primi anni successivi all'indipendenza. Inoltre, in Algeria il ruolo dell'esercito è stato determinante nel bloccare l'espansione islamista, seppure a prezzo di centinaia di migliaia di morti negli Anni Novanta. L'Algeria, poi, come noto, è un grande esportatore di idrocarburi, ma, come molte altre economie basate sulle risorse naturali, manca di diversificazione economica, e quindi i proventi delle grandi esportazioni di idrocarburi non sono finora riusciti a mettere in moto uno sviluppo endogeno, anche per la rapacità dei ristretti ceti di potere.
Come si è visto in precedenza, piuttosto diverse sono state le dinamiche che hanno condotto alla crisi tunisina, nella quale chiaramente appare l'inadeguatezza del quadro economico nazionale a offrire uno sbocco ad ampi strati di giovani notevolmente istruiti, ma nella quale al tempo stesso l'esercito è stato sempre mantenuto ben distinto dalla struttura civile del potere sin dai tempi del fondatore della Tunisia moderna, Habib Bourghiba e del suo partito Neo-Destour. Negli eventi tunisini, peraltro, è apparso in modo più "classico" lo schema dello scontro fra una struttura politica autoritaria e le istanze emergenti, che negli altri paesi ha conosciuto dinamiche più articolate, con il recepimento almeno parziale delle istanze di base - ad esempio la grande disponibilità economica consente a un paese come l'Algeria di venire incontro all'occasione in modo massiccio ad eventuali richieste popolari, mentre in Giordania l'esistenza di una netta distinzione tra l'elemento nazionale transgiordano e i numerosissimi palestinesi consente alla monarchia Hashemita di non trovarsi di fronte ad un’opposizione compatta, una parte della quale per di più è stata coinvolta a vario titolo nella partecipazione ai benefici politici ed economici.
Ancora diversa è ovviamente la situazione dell'Egitto, paese-chiave sia per la dimensione demografica che per il ruolo di cerniera tra Nordafrica e Medio Oriente, senza dimenticare il ruolo centrale che Il Cairo riveste ormai da decenni nella stabilizzazione dell'annosa questione mediorientale. In Egitto, analogamente all’Algeria, il ruolo delle forze armate in politica è fondamentale: sin dai tempi di Nasser tutti i leader del paese sono venuti dai ranghi militari, e quindi è difficilmente ipotizzabile che le forze armate mantengano una neutralità o addirittura fraternizzino in massa con i dimostranti. Qui però più che altrove vi è un elemento esterno, ovvero il livello di coinvolgimento che nella crisi egiziana vorranno esercitare gli Stati Uniti, la cui politica mediorientale appare a prima vista addirittura sconvolta nel caso di un venir meno del tradizionale ruolo moderatore e stabilizzatore del Cairo.
Particolarmente preoccupante appare lo scenario yemenita, anche perché il paese, secondo le analisi degli ultimi tempi, sembra esser divenuto in qualche modo un nuovo santuario di Al Qaida, trattandosi ormai di un vero “Stato fallito”, nel quale sembrano addensarsi tutti i più esplosivi fattori di dissoluzione, di anarchia tribale e di povertà, che il terrorismo potrebbe facilmente sfruttare a suo vantaggio ripetendo schemi già collaudati in passato con l'insediamento tra Pakistan e Afghanistan. Purtroppo nello Yemen risulta molto difficile sostenere efficacemente il governo in carica, anch’esso contestato per i tentativi di legittimazione a vita ed ereditaria, che è uno degli istituti dei quali le piazze arabee sembrano d'ora in poi volersi sbarazzare, almeno nelle Repubbliche.
Per quanto concerne il fattore islamista, anche le possibilità di una sua affermazione nei diversi paesi coinvolti sinora dalle agitazioni appaiono assai diverse: se in Tunisia, anche in ragione della durissima repressione che Ben Alì attuò poco dopo essere giunto al potere nel 1987, le forze islamiche appaiono oggettivamente deboli, e comunque di segno moderato; e se in Algeria, stanti i ricordati precedenti non si dovrebbe in nessun caso assistere a un revival islamico, in Egitto appaiono difficili da analizzare il ruolo attuale e le potenzialità dei Fratelli musulmani, che vantano forti radici popolari, ma che ad esempio nelle ultime elezioni legislative non hanno ottenuto neanche un seggio. È possibile che in uno scenario di crisi del regime di Mubarak - scenario ancora tutto da verificare - il ruolo dei Fratelli musulmani potrebbe crescere, rivolgendosi a una società assai meno istruita di quella ad esempio della Tunisia, e dove da tempo serpeggiano segnali di contrasto con la consistente minoranza cristiano-copta.